lunedì 15 dicembre 2008

AA.VV., Utilitarianism: Historical Theories and Contemporary Debates, a cura di Gianfranco Pellegrino,

in «Notizie di Politeia», anno XXIV, N. 90, 2008, pp. 123, €. 12,50, ISSN 1128-2401.

Recensione di Francesco Ferraro, 15/12/2008

filosofia morale, utilitarismo

Questo numero di «Notizie di Politeia» raccoglie dieci articoli originati da interventi alla conferenza Utilitarianism: An Ethic of Experience?, tenutasi all’Università “La Sapienza” di Roma dal 12 al 14 giugno 2007. Come il titolo della conferenza suggerisce, il filo conduttore comune è il rapporto con l’esperienza che hanno le teorie etiche di tipo utilitarista, o più in generale consequenzialista. Il curatore Gianfranco Pellegrino afferma, nella sua Introduzione, che l’esito della conferenza è stato di chiarire che l’utilitarismo è, di fatto, un’etica dell’esperienza: non soltanto perché nata nel contesto della filosofia empirista, ma anche perché tuttora vocata alla risoluzione di dilemmi pratici. Persino la critica più nota all’utilitarismo, quella di condurre a risultati controintuitivi, riguarda comunque il suo rapporto con l’esperienza. Il volume è, in realtà, divisibile in due sezioni: la prima comprende interventi di argomento storico-filosofico sul cosiddetto utilitarismo classico; la seconda sezione contiene, invece, articoli di riflessione teorica su alcuni problemi di etica applicata. La parte storica comincia con un articolo di Frederick Rosen su John Stuart Mill’s Science of Politics, incentrato sull’importanza che Mill attribuisce alla scienza del carattere o “etologia” (Ethology). Tale scienza è per lui una “scienza deduttiva”, in quanto sistema di corollari dipendenti dalla “psicologia” (Psychology), la quale è invece una scienza sperimentale e fondata sull’osservazione. L’etologia come scienza corrisponde all’educazione come arte, secondo la distinzione milliana fra scienze e arti, che corregge quella già tracciata da Bentham. È l’ “etologia politica” a essere fondamentale come branca di quell’altra scienza deduttiva che è la scienza sociale o “sociologia”. Riguardo al tema centrale dell’articolo, la scienza della politica o del governo, per Mill essa non ha senso se non all’interno del quadro generale della sociologia. È grazie a quest’ultima, e a quella sua branca che è l’etologia politica, che egli può dichiarare il governo rappresentativo come la miglior forma di governo. La scienza del carattere, infatti, fornisce per Mill la distinzione fra “carattere attivo” e “carattere passivo” e permette di stabilire quale dei due tipi prevalga nelle differenti culture, religioni e popolazioni. Una volta stabilita la superiorità del carattere attivo, egli sostiene che un governo rappresentativo si confà ad esso molto più che il dispotismo, per quanto possa essere illuminato. Rosen non manca di sottolineare l’arbitrarietà delle distinzioni milliane e i salti logici della sua argomentazione.
Nel saggio Hume, Experience and Value, Peter Kail non intende chiedersi, come si è fatto a lungo, se Hume sia o non sia un utilitarista, piuttosto si propone di esaminare il suo “edonismo metafisico”. È questa una tesi cognitivista e internalista, per la quale il valore morale può essere oggetto di conoscenza e, inoltre, una volta conosciuto esso determina una spinta a perseguirlo. Detto altrimenti, il piacere è il bene e la sua conoscenza motiva a perseguirlo. Secondo Kail, Hume abbraccia questa tesi: per lui, la presenza e l’esperienza del piacere e del dolore rendono possibile qualsiasi giudizio di valore, qualsiasi pensiero su cosa sia buono e cattivo. Ciò è differente dal sostenere che “buono” significhi “che causa una sensazione piacevole”: l’analisi di Hume non è semantica, ma metafisica. Kail spiega che, se è vero che la ragione per Hume è solo la facoltà di comparare oggetti e stabilire relazioni fra loro – ed è priva di capacità motivazionale, dunque non può essere il fulcro della vita morale – è anche vero che le credenze possono essere gli oggetti di tale comparazione, e le credenze di per sé possono fornire motivazioni. Dunque, credere che qualcosa sia buono, secondo questa lettura, può benissimo spingere a perseguirlo. La credenza del bene e del male deriverebbe dall’impressione del piacere e del dolore, che ci spinge a perseguire certi oggetti piuttosto che altri.
L’articolo di Sergio Cremaschi, Utilitarianism and its Nineteenth-Century Critics, descrive il dibattito britannico ottocentesco sull’utilitarismo, partendo da un’indagine sul rapporto fra il pensiero di utilitaristi “teologici” come Paley e Cumberland e l’utilitarismo laico di Jeremy Bentham. C’è un’influenza indiretta, secondo Cremaschi, di quelli su questo, attraverso l’Essai de philosophie morale di Maupertuis. Di fatto, i critici dell’utilitarismo accomunarono Bentham a Paley sotto molti aspetti. Con estrema sintesi, Cremaschi passa in rassegna le critiche dell’utilitarismo provenienti da pensatori unitariani, anglicani, romantico-idealisti. Nel difendere l’utilitarismo, John Stuart Mill e Henry Sidgwick dovranno in qualche modo tener conto di queste critiche, col risultato di trasformarlo sostanzialmente rispetto alla versione benthamiana. Cremaschi mostra come la storia delle idee sia, in questo caso, utilmente preliminare allo “stile analitico”.
La parte storica di questo numero si conclude con il contributo di Annamaria Loche, Utilitarianism and Contract Theory. Democracy in Bentham and Rousseau. Loche confronta la filosofia politica di Bentham e di Rousseau su temi trattati da entrambi: la sovranità, il potere legislativo, la relazione fra autorità e individuo, la teoria del contratto sociale. Al di là delle evidenti differenze, come il fatto che Bentham accetti come una necessità che il popolo deleghi dei rappresentanti (purché questi siano controllabili e controllati), Loche mette in luce anche la vicinanza tra i due pensatori per quanto riguarda il tema della sovranità popolare e, soprattutto, per la presenza di una “matrice autoritaria” accanto al riconoscimento di una necessaria tutela delle esigenze individuali. Ciò che allontana Bentham da Rousseau è, secondo Loche, soprattutto il rifiuto benthamiano della teoria del contratto sociale, sostituita dalla teoria utilitarista. La democrazia, che per Rousseau è fondata sul patto di individui liberi e uguali, e possiede una forte natura normativa, è invece per Bentham uno strumento della massimizzazione dell’utilità.
I saggi di carattere teorico, contenuti nella seconda parte del volume, iniziano con la riflessione di John Skorupski su Utilitarian Arrogance. Skorupski esamina l’accusa all’utilitarismo di essere un’etica in qualche modo “arrogante”, che permette o raccomanda azioni individuali contrarie alle convinzioni morali più diffuse: per esempio, viaggiare sistematicamente senza pagare sui mezzi pubblici, a patto che i soldi risparmiati siano usati per fare del bene in misura maggiore del danno che si provoca. È molto interessante che Skorupski recuperi la critica di Hegel all’imperativo categorico kantiano per cercare di dare un senso all’accusa di arroganza. Per Hegel l’etica kantiana pecca di astrattezza, di vuoto formalismo, perché è scissa dai costumi e dalla morale condivisa nella società. Allo stesso modo, spiega Skorupski, l’arroganza utilitarista è una forma di astrattezza, che finisce per far diventare l’etica una faccenda privata, o meglio esoterica. Il problema non è l’elitarietà di questa etica, né la versione dell’utilitarismo “nel palazzo di governo”: il vero problema sono i rischi connessi al restringere la discussione pubblica, o addirittura al rinunciarvi. Il confronto con la morale condivisa, conclude Skorupski, è necessario anche all’utilitarista.
In Rule-consequentialism versus Act-consequentialism. Brad Hooker affronta il tema a lungo dibattuto delle differenze fra utilitarismo (o consequenzialismo) dell’atto e della regola, e della preferibilità dell’una o dell’altra versione. Ciò che caratterizza l’utilitarismo di Hooker, così come presentato anche nel suo libro del 2000 Ideal Code, Real World, è l’attenzione all’esigenza di internalizzare quelle regole considerate utilitaristicamente corrette. Non tutte le regole possono essere facilmente fatte proprie dalla grande maggioranza degli agenti morali. Il consequenzialismo della regola è superiore a quello dell’atto, perché tiene conto della difficoltà per la maggior parte di noi di accettare che ogni singolo atto debba avere conseguenze utilitaristicamente auspicabili (coi continui sacrifici che ciò comporterebbe). Hooker, inoltre, cerca di giustificare il suo consequenzialismo della regola sulla base di un “equilibrio riflessivo” – espressione notoriamente coniata da John Rawls – tra la speculazione teorica e le convinzioni e intuizioni morali comuni. Ciò permetterebbe, a suo parere, non soltanto di trovare un argomento non-consequenzialista a favore del suo rule-consequentialism, ma anche di renderlo compatibile con tutte le nostre intuizioni morali (laddove l’act-consequentialism sarebbe incompatibile con molte di esse).
In Utilitarianism as both Unattainable Ideal and Human Morality, Tim Mulgan segue Hooker nel delineare un consequenzialismo della regola che tenga conto dei “costi di internalizzazione” e che non si riduca all’equivalenza col consequenzialismo dell’atto. Il rapporto con l’esperienza, tema unificante di tutti gli articoli, emerge con l’affermare che il rule-consequentialism così delineato è il più adatto a diventare il codice morale della maggioranza degli umani: esso è un’etica “moderata”, poco incline alla coercizione morale (intesa come richiesta agli agenti di sacrifici notevoli). Tuttavia, esso può ammettere tale coercizione morale nei casi di emergenza: per esempio, per combattere le cause del cambiamento climatico globale può richiedere i sacrifici necessari.
La versione del rule-consequentialism propugnata da Hooker e Mulgan è messa in discussione da Gianfranco Pellegrino nell’articolo Some Old Objections to Rule Consequentialism Reconsidered: The Case of Reproductive Freedom. Pellegrino applica quella versione al problema della libertà riproduttiva: per Hooker e Mulgan, l’utilitarismo della regola è molto più adeguato di quello dell’atto per concepire politiche riguardanti la riproduzione. Esso, infatti, permetterebbe di lasciare liberi gli agenti di riprodursi o di non riprodursi, in situazioni nelle quali – come nel mondo in cui viviamo – non sarebbe bene che tutti si riproducessero, ma neppure che nessuno lo facesse. Al contrario, sostengono, l’utilitarismo dell’atto permetterebbe solo di obbligare a una scelta o a quella opposta, in situazioni di emergenza (come il rischio di sovrappopolazione o quello, opposto, di estinzione della specie). Pellegrino mostra come, in realtà, anche questo rule-consequentialism debba finire per ridursi all’utilitarismo dell’atto, almeno per quanto riguarda il caso della libertà riproduttiva nel mondo in cui viviamo. Conclude, quindi, che il progetto di mitigare, da un punto di vista consequenzialista, i rigori del consequenzialismo stesso, dev’essere abbandonato.
Infine, Utilitarianism and Coercion, di Nir Eyal, mette a confronto la tradizionale ostilità della morale comune a ogni forma di coercizione con l’utilitarismo dell’atto, che si oppone alla coercizione solo per ragioni contingenti e non in linea di principio. Eyal cerca di trovare una giustificazione utilitaristica per opporsi alla coercizione in tutti i casi in cui vi si oppone la morale comune (le “intuizioni morali”). Il problema, per Eyal, è che le barriere alla coercizione, opposte dalla morale comune, non sono giustificabili in termini utilitaristici: le intuizioni morali comuni, dunque, per un utilitarista sono sbagliate. Tuttavia, proprio su basi utilitaristiche si può incoraggiare la credenza che tali intuizioni siano corrette, perché essa comporta conseguenze preferibili. Per esempio, un medico nel suo rapporto col paziente deve ritenere che questi abbia una dignità inviolabile, che non gli permette di decidere sulla sua pelle, neppure in base a calcoli d’utilità; ed è proprio l’utilitarismo a richiedere al medico, in questo caso, di non ragionare in termini consequenzialistici.

Indice

Introduction, by Gianfranco Pellegrino
John Stuart Mill’s Science of Politics, by Frederick Rosen
Hume, Experience and Value, by Peter Kail
Utilitarianism and Its 19th-Century Critics, by Sergio Cremaschi
Utilitarianism and Contract Theory: Democracy in Bentham and Rousseau, by Annamaria Loche
Utilitarian Arrogance, by John Skorupski
Rule-consequentialism versus Act-consequentialism, by Brad Hooker
Utilitarianism as Both Unattainable ideal and Human Morality, by Tim Mulgan
Some Old Objections to Rule-consequentialism Reconsidered: The Case of Reproductive Freedom, by Gianfranco Pellegrino
Utilitarianism and Coercion, by Nir Eyal


Il curatore

Il curatore Gianfranco Pellegrino è dottore di ricerca in filosofia del diritto e insegna filosofia dell’impresa presso la Luiss Guido Carli. Si occupa principalmente di storia dell’etica e di metaetica e ha scritto, tra gli altri, articoli su H. Sidgwick, su J. Bentham, sul particolarismo morale e sulle ragioni per l’azione. Tra le sue curatele: AA.VV., Robert Nozick. Identità personale, libertà e realismo morale (con Ingrid Salvatore; Luiss University Press, 2006); J. Bentham, Libertà di gusto e d’opinione. Un altro liberalismo per la vita quotidiana (Edizioni Dedalo, 2007). È responsabile di redazione della rivista “Filosofia e questioni pubbliche”.

Link

Sito del Centro studi “Politeia”
www.politeia-centrostudi.org
Utilitarianism Resources
www.utilitarianism.com
Sito dell’organizzazione “Utilitarian.org”
www.utilitarian.org

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