domenica 25 gennaio 2009

Faralli Carla, Zullo Silvia (a cura di), Questioni di fine vita-Riflessioni bioetiche al femminile,

Bononia University Press, Collana Biblioteca, Bologna 2008, pp. 238, € 25,00, ISBN 978-88-7395-357-9.

Recensione di Silvia Salardi, 25 gennaio 2009

Cure di fine vita, prospettiva femminista, eutanasia, suicidio medicalmente assistito

‘Questioni di fine vita-Riflessioni bioetiche al femminile’ è il volume pubblicato a cura di Carla Faralli e Silvia Zullo. Come si evince dal titolo, il libro si occupa delle questioni etiche che toccano il tema delle scelte di fine vita, ponendo l’accento in particolare sulle decisioni relative alle cure in caso di incapacità, sulle cure di fine vita e sull’eutanasia.
Si tratta di questioni al centro di un acceso dibattito cui il testo in questione vuole contribuire, considerando queste tematiche con un ‘occhio femminile’.
Il volume raccoglie, infatti, otto contributi di autrici americane e australiane di ispirazione femminista. Il volume è diviso in due sezioni: la prima, dedicata al rapporto tra società, diritto ed eutanasia; la seconda, incentrata sull’applicazione della prospettiva di genere alla bioetica di fine vita.
Questa interessante raccolta offre, per un verso, l’opportunità di affrontare tematiche rilevanti in uno scenario qual è quello odierno nel quale vita e morte sembrano scontrarsi in un duello dalla durata spesso indefinita, proprio grazie agli, o a causa degli, enormi progressi compiuti dalla scienza medica che hanno favorito il prolungamento della fase finale della vita, creando stati di ‘non morte’ finora sconosciuti (Bender). Per altro verso, il testo rappresenta l’occasione per riflettere sulle tematiche di fine vita portando l’attenzione sull’analisi contestuale. Più chiaramente, l’indagine si rivolge, con uno specifico riferimento, al contesto in cui avvengono le scelte sulle cure di fine vita. Tale analisi, inoltre, mette in evidenza il ruolo giocato dal genere nella pluralità degli ambiti e ai diversi livelli di discorso che caratterizzano tale delicato tema: sul piano dell’ analisi teorica, infatti, la contestualizzazione delle scelte serve a superare l’astrazione e la generalizzazione dei discorsi intorno ai temi oggetto di analisi, in quanto il paziente ‘astratto’ assume, così, sembianze concrete, sia per ciò che attiene al rilievo dato alle sue esigenze personali, sia per quello che riguarda i familiari coinvolti nelle decisioni; sul piano delle scelte, il riferimento al contesto, e in particolare al ruolo giocato dal genere, evidenzia sia le differenze tra uomini e donne, là dove ce ne sono, nelle richieste di morte, sia il diverso approccio degli operatori sanitari e dei familiari di fronte alle decisioni prese da uomini o da donne nonché le motivazioni di tale differenziazione; sul piano decisionale, con riguardo agli interventi giurisprudenziali in materia, l’analisi contestuale mette in luce, secondo alcune autrici, il ruolo che il genere gioca nel ragionamento delle Corti americane.
Proprio il ricorso all’argomento della differenza di genere rappresenta un motivo di riflessione e approfondimento per il lettore, in merito al quale qui si vuole offrire qualche spunto.
Dopo il saggio di Kuhse che introduce alle tematiche di fine vita, mettendo in evidenza le differenze che sussistono a livello di definizione semantica tra le diverse accezioni di eutanasia (attiva-passiva), e per ciò che concerne le diverse modalità di attuazione della stessa (mezzi ordinari-mezzi straordinari) e che permette di demarcare sia le diverse posizioni etiche coinvolte nel dibattito, ma anche le linee di orientamento per un’efficace politica pubblica, il volume entra nel vivo della prospettiva femminista rispetto alle questioni di fine vita.
Di fronte al fenomeno del suicidio medicalmente assistito, definito come fenomeno di sviluppo discrepante (Battin), poiché si colloca tra due alternative entrambe frutto dei progressi della scienza medica, vale a dire la capacità di prolungare la vita e la capacità di controllare il dolore, ci si chiede quale ruolo giochi il genere quando si deve scegliere come affrontare la morte. Sussistono differenze nella capacità di autodeterminarsi degli uomini e delle donne? In particolare, le donne sono in grado di prendere decisioni in una prospettiva sub specie aeternitatis o sono così ‘plasmate’ da intuizioni, pressione sociale e emozioni da poter decidere solo in medias res?
Sussiste il rischio che, nei casi estremi di mancanza di una volontà preventivamente espressa, ad esempio mediante direttive anticipate, le opinioni e le decisioni delle donne vengano sminuite rispetto a quelle degli uomini, in quanto valutate secondo pregiudizi ancora diffusi, quali l’idea che le decisioni delle donne sarebbero mosse da irrazionalità, da emotività e da immaturità?
Lo studio di 22 decisioni delle corti di 14 Stati americani (Miles/August) dimostrerebbe una tendenza all’impiego di argomentazioni fondate proprio su tali motivazioni.
A ben vedere, gli argomenti messi in campo per giustificare l’espropriazione della decisionalità non valgono solo per le donne, poiché essi si fondano su quella concezione paternalistica del rapporto medico-paziente, che si sperava ormai essere solo un vago spettro del passato. Sulla base di tale concezione solo il medico è il centro decisionale in materia di cure e, di conseguenza, la volontà del paziente, sia esso uomo o donna, non ha molta, se non addirittura nessuna rilevanza, soprattutto perché tale volontà sarebbe inficiata dall’inautenticità. Secondo questa prospettiva, il paziente, soprattutto se malato terminale, è incapace di decisioni razionali e la sua capacità decisionale è sempre disturbata da una forte emotività e immaturità, pertanto la sua volontà è inautentica. Si tratta, come si può ben notare, esattamente delle stesse obiezioni, denunciate da alcune delle autrici del volume, che vengono mosse per estromettere le donne dalle decisioni sulle cure di fine vita.
Come smontare le posizioni che si fondano sulla concezione paternalistica e sull’inautenticità della volontà eutanasica al di là delle considerazioni fondate sul genere?
Questi argomenti, che in realtà sono stati e a volte sono ancora, il cavallo di battaglia di chi tenta di giustificare l’esautorazione del potere decisionale del paziente, possono essere ridimensionati, se non addirittura messi a tacere definitivamente, non tanto attraverso la negazione che ci siano differenze fattuali tra i pazienti, tra le quali può rientrare la differenza di genere, quanto attraverso la considerazione che i pazienti, prima ancora di essere uomini o donne, e prima ancora di essere pazienti, sono persone. Naturalmente bisogna intendersi sul significato da attribuire a tale concetto, molto dibattuto e che, senza le opportune ridefinizioni, può dar vita a diatribe apparentemente irrisolvibili. Il concetto di persona, non sta qui ad indicare un connotato essenziale, ontologico che caratterizzerebbe l’essere umano in quanto tale, come nell’orientamento del personalismo ontologico. Persona indica, invece, un trattamento normativo di comportamenti umani. Quindi, quando si parla di un individuo, uomo o donna, come di una persona, si esprime una valutazione. Tale valutazione è fondata sulla qualificazione morale o giuridica dei comportamenti posti in essere, dal fatto cioè che certe norme, morali o giuridiche, attribuiscono a certe condotte umane un determinato significato morale o giuridico.
L’impiego del concetto di persona, così inteso, permette sia di scardinare le posizioni oltranziste, ancora fondate su concezioni che non tengono conto del ruolo che, ormai, il principio di autonomia/autodeterminazione gioca nelle scelte degli individui, sia di superare le obiezioni fondate sul genere. Proprio l’insistenza sul principio di autonomia, anche e soprattutto da parte di norme giuridiche, si pensi nel contesto italiano all’articolo 32 della Costituzione, apre le porte ad una valutazione di maggiore respiro della posizione del paziente, uomo o donna, nei confronti delle scelte che riguardano la propria vita, anche nella sua fase finale e quindi al diritto di restare il centro di imputazione di tali scelte.
In altre parole, il concetto di persona si può considerare, oggigiorno, qualificato, in ambito morale nonché giuridico, dal principio di autonomia. Pertanto, in base a tale qualificazione, le persone, non discriminabili in base al genere, hanno il diritto di non vedersi sottratto il potere decisionale.
L’approccio femminista alle tematiche di fine vita, quindi, a questioni che non toccano esclusivamente la sfera femminile, può, in effetti, da una parte, rappresentare un momento di riflessione in merito alle peculiarità dei soggetti coinvolti nelle scelte, vale a dire le donne. Tuttavia, l’accostamento femminista a questi temi può nascondere un potenziale rischio. L’enfatizzazione e la generalizzazione delle caratteristiche femminili, che determinerebbero la maggiore vulnerabilità delle donne nel decidere a favore del suicidio medicalmente assistito o addirittura dell’atto eutanasico, ad esempio la maggiore sensibilità e il senso di responsabilità che le donne manifesterebbero nei confronti della propria famiglia, rischiano di far apparire la donna come un soggetto non del tutto libero e dunque capace di scegliere per il proprio bene, in quanto condizionata nella scelta dal desiderio di non volere pesare a lungo sui propri cari. In altre parole, sarebbero proprio queste sue peculiari caratteristiche femminili a limitarne la libera scelta.
Senza nulla togliere alla rilevanza che un’analisi contestuale può avere nella diminuzione dei rischi di discriminazione di certi soggetti, vi è, tuttavia, da chiedersi se la differenza di genere sia un dettaglio non solo sufficiente, ma addirittura necessario per evitare tali discriminazioni o se la sua presa in considerazione non rischi di produrre risultati opposti a quelli sperati.
Un altro aspetto critico o, per lo meno degno di considerazione, è rappresentato dai dati empirici di base dai quali diverse autrici del libro prendono spunto per asserire il ruolo giocato dalla differenza di genere nelle decisioni di fine vita.
È possibile osservare come questi stessi dati empirici di partenza, spesso difficili da reperire e connotati da una forte ambiguità, come ammette Raymond, possono condurre, come di fatto accade per le posizioni di Wolf e Raymond, a conclusioni divergenti circa la necessità di rifiutare o meno il suicidio medicalmente assistito da parte delle femministe.
Si pone, pertanto, la domanda circa il ruolo che il genere può effettivamente giocare in uno scenario dove gli stessi dati empirici, che dovrebbero rappresentare un punto indiscusso per le ulteriori valutazioni, sono, invece, suscettibili di un’interpretazione tanto ampia da condurre a soluzioni diametralmente opposte.
Il volume fornisce interessanti spunti per approfondire tematiche di grande rilievo alla luce di un angolo visuale ‘di parte’. La prospettiva femminista, qui presa in considerazione, apporta un arricchimento al dibattito bioetico generale, soprattutto, quando abbandona i toni enfatici e populisti di frange estreme, come accade in alcuni passaggi del saggio di Wolf, per riprendere una strada più moderata (Raymond, Parks) che porta ad una valutazione critica di tutti, o per lo meno di molti degli aspetti legati alla contestualizzazione delle decisioni delle donne sulle questioni di fine vita.

Indice

Presentazione 
Carla Faralli 

Introduzione 
Silvia Zullo 

Parte Prima 
EUTANASIA, DIRITTO E SOCIETA’ 

Eutanasia 
Helga Kuhse 

Sicuro, legale, raro? Suicidio medicalmente assistito e cambiamento culturale nel futuro. 
Una prospettiva femminista 
Margaret P. Battin 

Limitare le risorse sanitarie in base all’età e il “dovere di morire”: una valutazione 
Christine Overall 

Le Corti, il genere e il “diritto di morire” 
Steven H. Miles, Alison August 

Parte seconda 
BIOETICA DI FINE VITA E DIFFERENZA DI GENERE 

Un’analisi femminista della morte medicalmente assistita e dell’eutanasia volontaria 
Leslie Bender 


Genere, femminismo e morte: il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia 
Susan M. Wolf 

“Pratiche fatali”: un’analisi femminista del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia 
Diane Raymond 

Perché il genere è importante nel dibattito sull’eutanasia. Sulla capacità decisionale delle donne e il rifiuto delle loro richieste di morte 
Jennifer Parks


Gli autori

Carla Faralli, è Professore ordinario di Filosofia del Diritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Dal 2001 è Coordinatore del Dottorato in Diritto e Nuove Tecnologie-Indirizzo Bioetica. Si è occupata di storia del pensiero filosofico giuridico (ha curato, fra l’altro, l’edizione aggiornata dei tre volumi di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto e ha pubblicato La filosofia del diritto contemporanea. I temi e le sfide).
Silvia Zullo, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Bioetica presso l’Università di Bologna e collabora con la cattedra di Filosofia del Diritto. Ha pubblicato diversi articoli in materia di bioetica di fine vita e il volume, L’aiuto a morire. Eutanasia e diritto nell’orizzonte della filosofia di Emmanuel Lévinas (Clueb, 2006).

Link

Rivista di Filosofia del diritto internazionale e della politica globale

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