mercoledì 7 gennaio 2009

Panattoni Riccardo, Solla Gianluca, Il corpo delle immagini. Per una filosofia del visibile e del sensibile,

Milano, Marietti, [Con-tratto. Collana tra estetica e politica], 2008, [pp. 143], [€ 20], [ISBN 9788821185489].

Recensione di Francesca Saffioti 7-01-2009

Corpo, Estetica, Fotografia, Immagine, Pittura

L’esigenza da cui muove la costruzione del testo, fin dal titolo, è quella di un’inversione rispetto ai connotati attribuiti tradizionalmente all’immagine per cui essa sembra doversi semplicemente esibire, spogliandosi di ogni riferimento materiale. Il presupposto è che l’immagine acquisisca significato solo rispetto allo sguardo, essendo dotata di una leggerezza che scorre parallelamente alla mobilità della vista: «Solo quel movimento la vivifica, liberandola dal destino di essere cosa» (pp. 9-10). La “cosa” di cui liberarsi è il corpo, la materia stessa da cui è costituita l’immagine, il supporto su cui grava il peso e l’opacità della sua messa in opera. Eppure quest’ultimo aspetto non viene definitivamente cancellato, piuttosto rimane sotto forma di un “resto” rispetto a cui la percezione non appare un continuum, piuttosto sperimenta un’interruzione. fra lo sguardo e l’immagine, fra l’immagine e il corpo dell’immagine, fra l’immagine e la cosa. Questo scarto non è una condizione contingente, ma riguarda specificamente il meccanismo stesso della visione. L’occhio si esercita, a partire dal suo stesso battito, come da un punto di oscuramento. Come il battito del cuore, anche nel caso dell’occhio si tratta di una sincope, che rende possibile la vista. L’interruzione non esclude il contatto, ma si presenta come la sua unica forma. Si guarda e si è contemporaneamente guardati, così come si è toccati dal corpo dell’altro (il testo percorre le tesi esposte in Jacques Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy)
La questione dell’immagine viene esaminata dagli autori attraverso l’analisi di diversi lavori che ne mettono in questione lo statuto. Nel libro di Boltaski, Kaddish, ci si trova, ad esempio, di fronte ad una successione di volti la cui temporalità non attinge ad un passato, rinviando piuttosto ad un comune senso di sospensione. Le immagini dei volti non hanno essenzialmente una funzione comunicativa, ma restituiscono ciò che sono, un corpo, un resto, irriducibile al significato. Se il corpo “resta”, si depone, al fondo dell’immagine, in modo diverso, secondo gli autori, il depositarsi implica una forma di conservazione, rimanda alla custodia, alla riserva, al trattenere, al mettere in salvo, fino alla “capitalizzazione”. A questo punto per gli autori si apre una “riserva” (dubbio) su questo lavoro di archivio, proprio nel passaggio fra il deporsi dei corpi, che non può essere ascendente e lineare, e il loro depositarsi, secondo una sequenza ordinata e significativa. La pura perdita va distinta dalla perdita messa in riserva. La molteplicità dei volti sembra volersi capitalizzare in un’unica immagine che rappresenti la “comune” assenza in cui riflettersi. La caducità che i volti esprimono viene quasi smentita dalla loro sovrapponibilità. La perdita viene sostituita dalla ripetizione che “dice” la scomparsa, quindi la salva, non la fa più scomparire. L’assenza viene messa in riserva e comunicata attraverso il simbolo. Si tratta, secondo gli autori, di un’operazione potentemente dialettica: il corpo viene “superato” dall’immagine, l’indistinto di ogni volto viene “rilevato” dal significato che ne garantisce il riconoscimento. Il corpo dell’immagine, per il suo carattere singolare, rimane invece sempre al limite fra riconoscibilità e irriconoscibilità, fra ciò che permane e ciò che è esposto alla sua scomparsa, ad una caducità che non può essere idealizzata attraverso la ripetizione e l’esemplarità. L’impersonale di ogni volto non è l’indistinto o l’anonimato, ma ciò che fa di ogni singolarità un corpo nudo, esposto, ed insieme resistente e ritraente. Solo l’accumulo delle immagini, piuttosto che la serialità, lascerebbe il resto come tale, “inutilizzabile”, non facendolo coincidere con l’immagine, piuttosto esponendo quest’ultima alla nudità di un corpo che non può rilevare.
È proprio l’anacronismo rispetto a ciò che essa vorrebbe rappresentare, nel senso letterale di rendere presente, a rivelare che l’immagine ha un corpo che non si piega al significato. Questo carattere viene esaminato, in particolare, attraverso i lavori di Sebald. La fotografia mostra ciò che mostra e contemporaneamente esclude ciò che non mostra. Nella fotografia risulta sempre evidente questa mancanza, questo strappo, quasi che essa raffigurasse oltre che l’immagine anche l’assenza. La fotografia rappresenta ciò che è ma anche rappresenta (non potendolo rappresentare) ciò che non è e che pure ne fa parte. La sequenza degli scatti, quella che gli autori chiamano la “coazione a ripetere”, sembra volere afferrare quel possibile che rimane escluso dall’istantanea fotografica. Ancora una volta risulta evidente la discrasia fra la percezione e l’immagine. Ciò che si vede non è più ciò che si è percepito, che si è visto. La meccanica della fotografia impone che l’occhio della macchina, come del resto quello umano, veda solo attraverso l’interruzione della vista. L’otturazione dell’obiettivo segue il battito dell’occhio. La fotografia sembra dire tutto, rivelare ogni cosa, nel momento stesso in cui essa registra ciò che non è più. La cosa fotografata, in effetti, non è mai stata perché, nel momento stesso dello scatto fotografico, l’occhio non l’ha vista, non ha visto. Gli autori si riferiscono per questo ad una “paralisi” dell’occhio (p. 30) che impedisce ogni presentazione: «Da qui la fragilità della fotografia rispetto al valore di testimonianza che comunemente le si vorrebbe attribuire» (p. 31). Per questo non vi è un “proprio” della fotografia, qualcosa che essa possa afferrare in maniera esclusiva, magari la stessa realtà. Nel momento dell’incontro fra la superficie del corpo dell’occhio e quella del corpo del fuori, nel momento in cui si guardano, esse rimangono cieche una per l’altra. La fotografia è un’operazione attivo-passiva, si fa “impressionare” dalla realtà e al tempo stesso non la restituisce: «Forse la posizione della fotografia è proprio questa, di occupare il posto di qualcosa che in realtà non è mai stato» (pp. 34-35). Essa non ha fatto che registrare un accecamento, una sottrazione, in cui l’assenza viene sostituita da ciò che è rimasto impresso. La fotografia è subito un supplemento, “ciò che sta per”. Non al posto della cosa, ma al posto della sua assenza.
La fotografia, che vorrebbe rappresentare la cosa, diventa immagine, ciò che sta al posto della cosa. Anche se non vi è mai una perfetta corrispondenza fra la fotografia, come supporto, come corpo, e l’immagine disincarnata, senza resistenza e lacerazione. La fotografia non può che dire addio ad una realtà che non si è mai data e che non ha mai posseduto: «In ogni fotografia è all’opera la rovina» (p. 38). Se vi è un rimando, al tempo stesso necessario ed impossibile, al corpo dell’immagine, questo “resto” non può che apparire da sempre come già “cenere”. Il corpo stesso non è una realtà a sé presente, ma è già deposto, preso in un’inaggirabile anacronia.
L’elemento della cenere, presente nelle opere di Parmiggiani, riesce ad indicare, ad un tempo, la consistenza e l’inconsistenza del corpo dell’immagine: «La cenere manca infatti alla propria rappresentazione, così come alla scomparsa definitiva» (p. 44). Ancora una volta l’immagine rimanda a qualcosa fuori di sé. Nella distanza fra il corpo dell’opera, il corpo messo in opera, e l’immagine, si apre una spaziatura, un imene − secondo la figura presentata dagli autori − che non nasconde nulla e non svela nulla. Toccare il corpo dell’immagine, considerando che anche la vista è una forma di contatto, non può che riferirsi insieme alla prossimità e alla separazione. Non si guarda l’altro se non accecando la propria vista. Non si tocca la consistenza di un corpo, ma la sua cenere.
L’esperienza del corpo non è immediata, piuttosto si rapporta a «qualcosa che accade e che nella sua immanenza non si lascia né trattenere né davvero afferrare» (p. 50). Per questo l’immagine nasce sempre da una separazione. La fotografia non certifica l’esistenza di una realtà presente né di una memoria della presenza. Le immagini, non rimandando ad altro che a se stesse, sono in qualche modo assolutamente trasparenti, al tempo stesso proprio per questo richiedono di essere attraversate, come in un’installazione delle fotografie di Ghirri. La fotografia, come un quadro, è presa dentro una cornice, una specifica inquadratura che esclude il resto. Per questo, pur essendo realmente trasparente, pur non mostrando altro che se stessa, non avendo da riprodurre una realtà fuori di sé, essa non mostra altro che la cesura, la mancanza.
L’immagine non ha dunque un riferimento nella cosa rappresentata, piuttosto una referenza, un debito. Essa si impegna a conservare una traccia che non è mai stata presente. L’immagine si affida dunque sempre ad altro, si presenta come un richiamo (p. 73). Questo riferimento all’altro non implica la possibilità di restituirne un’immagine. Il ritratto dell’altro risulta impossibile. Non appena lo si guarda, lo si tocca, non lo si guarda più: «È per questo che Francis Bacon ha dipinto non volti, ma teste e buchi, fori, voragini, vertigini, al posto della bocca, degli occhi, delle narici» (p. 107). Ecco perché Morbin costruisce ritratti con il tessuto del sangue. Questi volti rimangono al di là di ogni possibile riconoscimento. Il riferimento al sangue indica al tempo stesso la singolarità di ogni ritratto e la rinuncia alla restituzione di un’identità. Come sottolineano gli autori, non si tratta di una logica sacrificale, in cui la rinuncia a sé lasci il posto ad un riscatto simbolico, piuttosto di una logica della ritrazione, della privazione, della dissomiglianza. La comunità del sangue, che sembra così emergere dai ritratti di Morbin, si presenta in un senso completamente invertito rispetto alla logica dell’appartenenza, e sembra costituirsi proprio a partire dalla separazione di ogni identità: «Esso è divenuto sangue comune, parte di una comunità che è tale solo nel senso di una comune separazione» (p. 102). Ecco perché attraverso questi ritratti si rende evidente come sia impossibile la conservazione di sé, essi «non sono che degli autoritratti dell’artista, dipinti non con il proprio sangue, ma esclusivamente con quello degli altri» (p. 102). Sulla scia di una comunità della separazione si colloca l’esperienza dei saharawi, popolo nomade di quel Sahara occidentale occupato dall’esercito marocchino. Nel silenzio mediatico che avvolge questa contesa, i saharawi, non trovando una rappresentazione della propria condizione, hanno realizzato un Museo della guerra conservando le fotografie che i soldati marocchini uccisi o imprigionati portavano con sé. Le immagini sono accumulate in modo tale che le si possa vedere solo toccandole, estraendole dal mucchio. Toccare il corpo dell’immagine sembra corrispondere all’atto del piegarsi su quel corpo umano a cui sono state sottratte. Attraverso questa particolare struttura si può sperimentare l’anacronia di ogni fotografia rispetto a ciò che in essa viene rappresentato: la vita prima della guerra, e l’impossibilità di conservare una memoria. L’immagine viene separata dal corpo dell’uomo che la portava, così come l’immagine è separata dalla realtà che rappresenta, così come il significato dell’immagine, che rimane inaccessibile, viene separato dal suo corpo, accumulato disordinatamente fra gli altri. La foto non restituisce la realtà della guerra, che non viene rappresentata, non restituisce l’identità dei protagonisti, di cui non si sa nulla, non restituisce l’identità del popolo marocchino, a cui è stata sottratta, non restituisce l’identità del popolo sahrawi, di cui non si occupa. Si tratta della paradossale esperienza di una comune separazione che non risarcisce nessuno della propria identità.
Il testo attraversa in profondità la relazione fra immagine e corpo senza negarne il carattere aporetico. Non si tratta infatti di restituire una presunta unità o integrità fra medium e significato, piuttosto di sperimentare quell’inaggirabile rapporto con l’altro che investe ogni immagine di sé, anche quando l’altro da sé è il proprio stesso corpo.

Indice

Come l’acqua nell’acqua. Una premessa
L’evanescenza dei corpi
Cenere delle immagini
Le parole infrante dall’arte
L’istante irreparabile dello sguardo
Referenza e nudità
Toccare − ciò che si vede
Sangue ritratto
Glosse sul volto
Il peso delle fotografie
Le immagini
Bibliografia


Gli autori

Riccardo Panattoni e Gianluca Solla insegnano Filosofia presso l’Università di Verona. I loro interessi si muovono principalmente tra estetica e politica. Fra gli scritti principali di Riccardo Panattoni: Il dono della filosofia. Martin Heidegger e l’abitare dell’uomo, Il Poligrafo, Padova 1996; Appartenenza ed eschaton. La Lettere ai romani di s. Paolo e la questione “teologico-politica”, Liguori, Napoli 2001; L’origine del conflitto. Martin Heidegger-Ernst Jünger-Carl Schmitt, Il Poligrafo, Padova 2002; Scritture. Violenza, potere, libertà, Marietti, Milano 2006. Fra gli scritti principali di Gianluca Solla: L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio, Liguori, Napoli 2003; Nomi di nomi, Marietti, Milano 2004; Marrani. Il debito segreto, Marietti, Milano 2008.

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