lunedì 16 febbraio 2009

De Carolis, Massimo, Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica

Macerata, Quodlibet, 2008, pp. 192, € 16.00, ISBN 9788874622023

Recensione di Antonio Tursi – 16 febbraio 2009

Nel 1971, Noam Chomsky e Michel Foucault si confrontavano sul concetto di natura umana. Ne emergevano non solo due differenti definizioni, quanto due posizioni opposte: Chomsky ricercava il fondamento “naturale” della natura umana, qualcosa che ci contrassegna da sempre e per sempre; Foucault indicava invece i processi storico-sociali che facevano emergere una certa umanità. Sempre o ora? Siamo contrassegnati ontologicamente o emergiamo nell’attualità? Massimo De Carolis, con Il paradosso antropologico, cerca di occupare entrambe queste posizioni, cerca di mostrare come ciò che ci contrassegna da sempre si mostri volta per volta diversamente. Questo tentativo raccoglie diverse sfide teoriche: quella lanciata dall’antropologia filosofica tedesca novecentesca riguardo alla natura umana; quella assai attuale sul concetto di biopolitica; quella che ha coinvolto psichiatri e psicoanalisti nella definizione dei fenomeni dissociativi.
L’uomo è un essere paradossale, nel contempo aperto alla contingenza illimitata e protetto in nicchie culturali a cui egli stesso dà forma. La condizione umana è scandita cioè da due istanze basilari: “l’istanza di apertura, che spinge a esplorare e sperimentare ogni possibile dimensione mondana e, più ancora, a regolare la propria forma di vita sulla virtuale infinità di queste dimensioni; e l’istanza di protezione, che spinge a ritagliare un mondo nel mondo, a perimetrare una nicchia, tracciando un netto spartiacque tra le figure familiari al suo interno e lo sfondo indistinto che essa esclude” (28). Queste due istanze, questi due corni del paradosso antropologico non sono riducibili l’uno all’altro, nel senso che si implicano reciprocamente: la contingenza illimitata è necessaria a vitalizzare quelle nicchie che sono nate proprio per negare quella contingenza.
Questa tesi principale sostiene un quadro teorico tracciato dall’intreccio tra piano sociale e piano psichico, dal passaggio dal moderno al postmoderno e dalla trasposizione del paradosso sul terreno politico. L’indagine sulla dissociazione psichica permette di cogliere come il piano delle dinamiche sociali e quello della vita psichica siano da sempre intrecciati e come il tipo di intreccio si presenti diversamente nelle varie epoche. La dissociazione non sempre è stata riconosciuta in quanto meccanismo psichico. Solo dopo Freud è stata riconosciuta e riconosciuta in quanto patologia. Oggi infine è vista come un meccanismo psichico primario che svolge una funzione costruttiva per la nostra personalità (o almeno lo fa nei casi di dissociazione felice). La dissociazione è vista infatti come quell’operazione che permette alla psiche di difendersi dagli innumerevoli stimoli esterni, segmentando l’esperienza in differenti compartimenti stagni. Questa scissione dell’io è un primordiale meccanismo di difesa di fronte all’angoscia di annichilimento generata da una realtà avvertita come minaccia. Con l’uscita dall’infanzia, a questo meccanismo si affiancano i processi di simbolizzazione che ci permettono di dare ordine alla realtà, senza mai negarne del tutto la contingenza illimitata. Ma questi processi di simbolizzazione – in primis il linguaggio – costruiscono proprio quelle nicchie culturali di cui abbiamo detto in precedenza. Il progressivo riconoscimento della dissociazione psichica rivela dunque come l’intreccio tra piano psichico e piano sociale sia passato da un rapporto di analogia a una “interpenetrazione a grana fine” fatta di molteplici risonanze.
Un passaggio che dà conto di un altro passaggio, un passaggio epocale: quello dall’epoca moderna a quella postmoderna. Il moderno “ruotava intorno a una scissione orizzontale che separava nettamente un alto e un basso: l’Uno di contro ai molti, l’Io contro le spinte delle pulsioni parziali, lo Stato contro le pressioni conflittuali interne al corpo sociale” (52). Il moderno perciò ha preferito puntate su un solo corno del paradosso antropologico sia a livello sociale sia a livello psichico. Naturalmente il paradosso in quanto costitutivo della nostra natura non è stato del tutto eliminato, ma solo rimosso dalle istituzioni e dalla psiche moderne. Esso è riemerso in tutta la sua complessità nel nostro tempo caratterizzato da “una rete di scissioni verticali, che isolano e separano una pluralità di spazi circoscritti – pseudoambienti, micromondi e, appunto, nicchie” (53).
Cosa comporta in termini politici questo passaggio dal moderno al postmoderno? Se la politica moderna si è configurata intorno agli Stati nazionali e dunque all’unità del popolo sovrano, come può configurarsi politicamente la rete di scissioni verticali dell’epoca postmoderna? Gli esiti politici di questo passaggio sono ancora del tutto aperti. Alla duplice richiesta dell’essere umano di apertura e di protezione si è sempre cercato di dare una risposta, spesso non riconoscendo questo paradosso o cercando comunque di rimuoverlo riportando un polo all’altro. Il concetto di sovranità ha offerto protezione in cambio di una certa chiusura rispetto alla contingenza illimitata. Si è instaurato un ordine gerarchico tra queste richieste e dunque tra la legge del sovrano (dello Stato) e i desideri dei sudditi (dei cittadini). Oggi il paradosso antropologico può tradursi sia nella chiusura autoreferenziale di tanti e incomunicanti micromondi sia nel pluralismo di una democrazia creativa. Il pluralismo può segnare la “reintroduzione dell’illimitato all’interno della comunità politica” (161), attraverso una “rete fluida e creativa di distinzioni e differenze” (178). La creatività – intesa come tratto basilare della natura umana – permette di tracciare delle distinzioni e dunque delle regole a partire dalla loro assenza cioè dall’indistinzione e dalla contingenza illimitata: in questo senso Dewey adoperava il termine per connotare il concetto di democrazia. La difficoltà della trasposizione sul piano politico del paradosso antropologico è proprio quella di trasporre entrambi i lati: far convivere tanto la comune cittadinanza quanto le differenze.
L’argomentazione di De Carolis è stimolante e per larghi tratti condivisibile, eppure qualcosa non torna sia a monte che a valle di tale argomentazione. È un paradosso a definire la natura umana, un meccanismo dinamico dunque mai bloccato su uno dei termini, su una de-finizione univoca. Sennonché, come in larga parte dell’antropologia filosofica tedesca, questa paradossalità non incrina quella macchina antropologica che ha diviso l’essere umano tanto dall’animale quanto dalla tecnica (si veda L’aperto di Agamben o Post-human di Marchesini). Una macchina antropologica che vede, per esempio, l’animalità come altro dall’umanità, al limite come uno stadio anteriore, mai invece come ciò che sta davanti. In altri termini, sebbene De Carolis si impegni a evitare una deriva trascendentale, egli resta sempre dentro un orizzonte umanistico che si regge sulla centralità dell’essere umano. Il suo tentativo di esplorare un’ontologia dell’attualità finisce così con l’approdare ai lidi rassicuranti di una metafisica rivista ma non abbandonata A riprova di ciò, il richiamo al linguaggio che serve per mostrare l’opera del paradosso: un richiamo effettuato da buona parte della nostra tradizione culturale per giustificare la posizione eccezionale dell’essere umano. E per garantire tale eccezionalità bisogna confidare in un fondamento – innato e non storicamente determinato.
Immaginare un rapporto di orizzontalità e ibridazione tra antroposfera, teriosfera e tecnosfera è l’impegno più gravoso del presente. Solo questo sforzo immaginativo permette di spingere oltre la descrizione che De Carolis offre del paradosso antropologico: riconoscendo nell’essere umano da un lato l’apertura all’alterità animale e tecnologica (con la formazione di una rete ibridativa) e dall’altro la tensione continua a tracciare dei confini culturali della cui permeabilità è sempre più consapevole.
Qualcosa non torna però anche nella connotazione della democrazia come creativa. Infatti, sebbene De Carolis colga i meccanismi che hanno reso esangui i regimi democratici, possiamo pensare di rianimarli con un fattore pre-politico (o biopolitico, per essere à la page) quale la creatività? Inoltre, il rapporto tra cittadinanza e differenze così come articolato dall’autore, pur non essendo pratica corrente nello scenario politico occidentale, è davvero altro dal concetto e dall’esperienza maturata di democrazia? Ovvero, la democrazia come processo aperto e mai compiuto, come progetto da costruire sempre di nuovo non comprende già una creatività politica e istituzionale capace di mediare il limite e l’illimitato, la cittadinanza e le differenze?

Indice

Sommario: Introduzione
1. Nicchie. 1.1 Ontologia del presente. 1.2 Ambiente e mondo. 1.3 Formatori di mondo? 1.4 La scissione verticale
2. Psicopatologia della vita contemporanea. 2.1. Identità psichica e dinamica sociale. 2.2 Personalità multipla. 2.3 Diniego e perversione. 2.4 Dissociazione primaria. 2.5 Dissociazione psichica e paradosso antropologico
3. La zona grigia tra i fatti e le finzioni. 3.1 L’illusione, la realtà, il gioco. 3.2 Dissociazioni felici e infelici. 3.3 Performatività e reticoli sociali. 3.4. Micromondi. 3.5. Il gioco e le sue regole
4. Diversi modi di formare un mondo. 4.1 Convenzioni e ritualità. 4.2 Il rito come eccezione e paradigma. 4.3 La sovranità dei moderni. 4.4 Confini simbolici e confini reali
5. Antropologia del pluralismo. 5.1 Assenza di mondo. 5.2 Il limite e l’illimitato. 5.3 Il valore del pluralismo. 5.4 La democrazia creativa. 5.5 Politica e governamentalità
Bibliografia


L'autore

Massimo De Carolis insegna Filosofia teoretica all’Università di Salerno. Collabora a «il manifesto» ed è tra i fondatori delle riviste «Luogo comune» e «Forme di vita». È autore di numerosi saggi tra cui Tempo di esodo (manifestolibri, 1994), Una lettura del Tractatus di Wittgenstein (Cronopio, 1999) e La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, 2004). Per i tipi di Quodlibet ha curato, insieme con Arturo Martone, Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein (2002).

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