venerdì 27 febbraio 2009

Paternoster, Alfredo, Il Filosofo e i Sensi. Introduzione alla Filosofia della Percezione.

Roma, Carocci, 2007, pp. 144, ISBN 978-88-430-4397-2.

Recensione di Alessandra Melas – 27/02/2009

Filosofia della percezione, psicologia, neuro-scienze.

Il testo di Alfredo Paternoster si presenta come la prima introduzione in lingua italiana alla Filosofia della Percezione e costituisce certamente un brillante esempio di fusione tra riflessione teorica e ricerca empirica.

Sono quattro i generi di domande che soggiacciono all’analisi di un campo allo stesso tempo affascinante e spinoso come quello della percezione:

Questioni esplicative: come funziona la percezione?

Questioni metafisiche: quali oggetti sono coinvolti nella percezione? Come è fatto il mondo?

Questioni semantiche: qual è il significato degli enunciati percettivi?

Questioni epistemologiche: quanto è affidabile la percezione?

Se sembra che la scienza abbia il compito di rispondere alla prima domanda e di spiegare, pertanto, il funzionamento dei meccanismi alla base dei processi percettivi, alla filosofia sembra spetti il compito di rispondere alle altre domande. Tuttavia, come sostiene l’autore, tale divisione appare alquanto semplicistica e emerge l’idea secondo cui non sia possibile rispondere ai problemi filosofici senza avvalersi del supporto delle varie discipline scientifiche coinvolte nello studio della percezione, come la psicologia cognitiva e le varie neuroscienze.

A mio avviso, è certamente in questo senso che l’autore inserisce il suo lavoro all’interno di quella corrente di pensiero oggi conosciuta come naturalismo cognitivo, capace di fungere da sfondo ai tentativi di naturalizzazione del mentale oggi condotti dalle scienze cognitive.

Il testo di Paternoster si apre con un capitolo dedicato ai più spinosi problemi della percezione. Cruciale e ricco di spunti appare il paragrafo dedicato alla distinzione tra percezione e sensazione, distinzione che viene tracciata, secondo il suggerimento dell’autore, attraverso tre differenti percorsi.

In primo luogo, ogni percezione si distingue per aspetto fenomenologico e aspetto intenzionale. Nel primo caso ci soffermiamo sulla sensazione soggettiva che ognuno di noi ha del percepito, nel secondo caso ci soffermiamo sugli stati percettivi come atti che hanno un preciso contenuto esterno (l’oggetto visto, udito, sentito, gustato, ecc.): «vedo (atto) un albero (oggetto), così come, ad esempio, desidero (atto) un dolce (oggetto). Da questo punto di vista gli stati percettivi sono stati intenzionali, cioè stati che vertono su qualcos’altro» (p. 20). L’intenzionalità, infatti, altro non è che la capacità degli stati mentali di vertere su qualcosa e gli stessi stati percettivi sono intenzionali, in quanto non si può percepire senza percepire qualcosa di preciso. Sembrerebbe, insomma, che l’impostazione fenomenologica parli di sensazione e graviti attorno ai vissuti di prima persona e l’impostazione intenzionale verta sulla percezione e sul mondo esterno.

Non esiste, tuttavia, una netta distinzione tra questi due ambiti e non è ammessa la percezione di un presunto oggetto esterno senza un dato vissuto fenomenologico: «ogni atto percettivo è accompagnato da un vissuto in prima persona: non c’è percezione senza sensazione» (p. 17). Esiste, pertanto, uno stretto nesso tra componente intenzionale e componente fenomenologica. Ma di che natura è questo legame? L’interpretazione intenzionale è in grado di spiegare appieno il problema della percezione, inglobando al suo interno anche l’aspetto fenomenologico?

A seconda della risposta data a quest’ultimo quesito si hanno teorie filosofiche della percezione differenti. Schematicamente l’autore distingue tre teorie fondamentali: teorie intenzional-rappresentative forti, teorie intenzional-rappresentative deboli, teorie intenzionali non rappresentative. I sostenitori della teoria rappresentativa, sia nella versione forte sia in quella debole, condividono la tesi secondo cui gli stati di esperienza percettiva sono rappresentazioni del mondo, cioè l’idea secondo cui i soggetti non si trovano in relazione diretta con l’ambiente circostante ma con rappresentazioni mentali. Inoltre entrambe le teorie rappresentative sostengono l’idea secondo cui sia l’aspetto fenomenologico che quello intenzionale vadano inclusi in una buona teoria della percezione. Tuttavia, la teoria intenzional-rappresentativa forte sostiene la riducibilità dell’aspetto fenomenologico all’aspetto intenzionale, mentre la teoria nella sua versione debole sostiene la non riducibilità dell’aspetto fenomenologico a quello intenzionale.

Contrariamente, le teorie intenzionali non rappresentative sostengono l’idea secondo cui nell’esercizio delle facoltà percettive i soggetti si troverebbero in diretta relazione con il mondo e rifiutano l’idea che l’aspetto fenomenologico sia rilevante per lo studio della percezione.

Altre importanti questioni legate al problema della percezione sono le seguenti: come è possibile che le percezioni siano allo stesso tempo determinate dai nostri sensi e siano anche “pezzi di mondo”? Com’è possibile che le nostre sensazioni, che appaiono così personali e soggettive, vertano su qualcosa di esterno? Questa questione è strettamente legata a ciò che è noto come “problema di interfaccia” e ad un’altra questione centrale quale quella del “realismo diretto/indiretto”, che funge da sottofondo a gran parte del testo di Paternoster.

Ma vediamo un altro senso in cui si può distinguere percezione da sensazione: la sensazione può essere considerata, infatti, un primitivo stadio del processo percettivo e la percezione uno stadio successivo di elaborazione delle informazioni. L’immagine della sensazione come intermediario della percezione trova la sua origine nell’empirismo inglese. Basti pensare allo stesso David Hume che parlava, al riguardo, di impressioni di sensazione e impressioni di riflessione, considerando le prime uno stadio primitivo delle seconde.

Un altro modo di caratterizzare la distinzione tra percezione e sensazione è quello basato sulla dicotomia kantiana tra spontaneità e ricettività. All’interno di questa distinzione la sensazione è mera ricettività, ossia una facoltà puramente passiva. Al contrario la percezione sarebbe una facoltà attiva che prevede lo sfruttamento di precise categorie concettuali.

Le ultime due vie di distinzione sollevano l’annoso problema filosofico del concettualismo o anti-concettualismo della percezione, e il problema della presunta modularità dei processi percettivi primari. Entrambi questi problemi sono brillantemente affrontati dall’autore, in maniera dettagliata, rispettivamente nel III e IV capitolo del libro.

La parte centrale del lavoro di Paternoster approfondisce le principali teorie filosofiche e psicologiche sulla percezione. La sezione riguardante le teorie filosofiche, precisamente il secondo capitolo, è costituita da un insieme di paragrafi che introducono i principali approcci filosofici al problema della percezione. Ciascun paragrafo presenta i nodi cruciali della teoria, le principali critiche e le repliche dei suoi sostenitori.

La prima teoria filosofica presentata è la cosiddetta sense-data theory. Per utilizzare le stesse parole dell’autore «la teoria dei sense-data si inscrive nel quadro teorico generale, caratteristico dell’empirismo inglese del Sei-Settecento, secondo cui il mondo viene percepito indirettamente per il tramite delle sensazioni» (p. 26).

La seconda teoria presentata, ossia la teoria avverbiale delle percezione, è innanzitutto una teoria semantica degli enunciati percettivi. Precisamente la teoria sostiene che un enunciato della forma “X percepisce un gatto”, debba essere parafrasata come “X percepisce gattamente”. Come dice lo stesso Paternoster «l’oggetto apparente del verbo percettivo è in realtà un attributo del mio stato psicologico» (p. 33). Questo colloca chiaramente la teoria avverbiale della percezione tra le teorie non intenzionali.

La terza teoria presentata, ossia la teoria causale delle percezione si basa sull’intuizione secondo cui se ho esperienza percettiva dell’oggetto allora c’è un oggetto nel mondo che ha causato la mia esperienza. Si tratta di una teoria rappresentativa, in quanto sostiene che le informazioni che abbiamo del mondo siano mediate dalla percezione. Si tratta, inoltre, di una teoria intenzionale in quanto l’atto percettivo è distinto dall’oggetto, contrariamente a quanto accade nel caso della teoria avverbiale.

L’ultima teoria filosofica presentata è quella disgiuntiva, nata in forte polemica con la teoria causale che a sua volta non sembra distinguere abbastanza tra il caso allucinatorio e il caso genuinamente percettivo. La teoria disgiuntiva, infatti, si fonda su una marcata distinzione tra l’aspetto fenomenologico e l’aspetto intenzionale. Così, per usare ancora una volta le parole dell’autore «l’enunciato ‘A X sembra di percepire O’ non implica che X percepisce un O» (p. 43).

Dopo la presentazione delle principali teorie filosofiche della percezione troviamo due paragrafi in cui vengono approfondite rispettivamente la controversia tra realismo diretto e realismo indiretto, e la teoria intenzionalista. La controversia tra realismo diretto/indiretto nasce all’interno delle teorie intenzionali, che distinguono, appunto, l’atto della percezione dal contenuto percepito. Sia il realismo diretto che quello indiretto assumono l’esistenza di un mondo indipendente da noi. «La questione su cui si dividono è se il mondo possa essere percepito direttamente oppure no» (p. 46). Il realismo diretto, di cui la teoria disgiuntiva rappresenta un buon esempio, sostiene un rapporto diretto con il mondo, contrariamente il realismo indiretto, di cui la teoria dei sense-data è il paradigma, sostiene un rapporto mediato con il mondo. La teoria intenzionalista si presenta, invece, come una via di mezzo tra il realismo diretto e il realismo indiretto, via di mezzo etichettabile come realismo rappresentativo. Non si tratta di realismo diretto poiché l’oggetto della percezione non è il mondo, ma piuttosto rappresentazioni di questo; non si tratta di realismo indiretto poiché i contenuti degli stati percettivi non sono assimilabili a oggetti che separano la mente dal mondo.

La sezione di carattere filosofico si conclude con il III capitolo, interamente dedicato alla questione delle relazioni tra vedere e pensare, ossia al problema del confine superiore delle percezione.

Usando le parole dello stesso Paternoster, possiamo affermare che «chiedersi dove finisce la percezione equivale a trovare un modo plausibile di tracciare una distinzione tra ciò che è propriamente intrinseco alla percezione e quelle che sono invece le sue conseguenze. Genericamente parlando, le conseguenze della percezione sono, da un lato, credenze o giudizi, dall’altro azioni» (p. 57).

All’interno di questo capitolo l’autore propone una carrellata delle teorie che si sono dedicate al problema della delimitazione della percezione. Il primo paragrafo è dedicato alla distinzione tra visione semplice e visione epistemica. Secondo questa distinzione avanzata da Dretske nel 1969, il vedere gli oggetti sarebbe un “vedere semplice”, ossia vedere qualcosa in modo preconcettuale, mentre vedere fatti corrisponderebbe ad un “vedere epistemico”, ossia vedere tramite una mediazione concettuale, con la conseguenza che la percezione semplice sarebbe la causa della percezione epistemica, ossia delle credenze percettive.

Alcuni hanno anche sostenuto l’idea secondo cui i livelli percettivi richiedono tre livelli di analisi: prima del livello epistemico, ma dopo il livello semplice, sarebbe opportuno, pertanto, introdurre «un livello intermedio protoproposizionale nel quale il mondo ci è dato come già strutturato in oggetti, proprietà e relazioni, senza che ciò richieda lo sfruttamento di concetti, conoscenze, processi di pensiero esplicito» (p. 66). Questo riporta la discussione alla già citata questione filosofica sulla possibilità di una percezione non concettuale, almeno nel suo stadio primitivo.

L’intero IV capitolo è dedicato alle teorie psicologiche della visione. All’interno di questa sezione viene analiticamente descritto il dibattito sulla visione passando per le due teorie fondamentali in competizione negli anni Ottanta del secolo scorso: la teoria computazionale e la teoria ecologica.

Secondo la teoria computazionale della visione il processo percettivo è un processo in cui l’organismo partecipa attivamente all’elaborazione dell’input che proviene dall’ambiente. Questo processo costruttivo avviene per mezzo di computazioni, che, per la maggior parte dei sostenitori di questa teoria, hanno luogo all’interno di moduli incapsulati, che hanno la caratteristica di essere estranei alle conoscenze e credenze del sistema nel suo complesso.

Paternoster evidenzia brillantemente il legame tra questa teoria psicologica della visione e la questione filosofica del contenuto non concettuale della percezione: «l’interesse filosofico di questa tesi risiede nel suo evidente legame con la teoria del contenuto non concettuale della percezione: nella misura in cui i concetti sono tipicamente considerati i costituenti atomici delle credenze, dire che la visione primaria è impermeabile alle credenze è come dire che elabora informazioni in modo non concettuale» (p. 85).

È indubbio che quest’approccio possa essere annoverato sotto la struttura teorica del costruttivismo, secondo cui il processo percettivo, come appena osservato, sarebbe un processo in cui l’organismo partecipa attivamente all’elaborazione dell’informazione proveniente dall’ambiente. Al contrario, la teoria ecologica si basa sull’assunto secondo cui l’unico contributo dell’organismo durante il processo percettivo sarebbe una sorta di registrazione passiva, o quasi, delle informazioni contenute nello stimolo ambientale. Questa teoria sottolinea il ruolo fondamentale dell’ambiente, relegando il contributo dell’organismo ad un ruolo marginale. Chiaramente, anche in questo caso, siamo in presenza di una teoria che presenta l’attività percettiva come non-concettuale.

Nell’ultimo paragrafo del capitolo Alfredo Paternoster presenta alcune recenti scoperte neurofisiologiche di rilievo e illustra due approcci che incarnano, in dosi differenti, la sintesi tra teoria computazionale e teoria ecologica: la teoria delle rappresentazioni visuomotorie (teoria computazionale duale) e il paradigma sensomotorio.

Una delle basi di convergenza tra il paradigma computazionale e quello ecologico è rappresentato dalla recente scoperta neurofisiologica sull’esistenza di due cammini della corteccia visiva, il cammino “ventrale” e il cammino “dorsale”. Secondo Milner e Goodale, il cammino dorsale sarebbe associato al controllo visivo dell’azione, mentre il cammino ventrale sarebbe associato all’identificazione dell’oggetto. Naturalmente esistono dati empirici su cui sono basate queste interpretazioni, dati attinti dalla ricerca neuropsicologica e neurofisiologica.

In che senso questa scoperta giova alla sintesi tra computazionalismo ed ecologismo? Per usare le parole dell’autore, possiamo dire che «l’idea è che ciascuna delle due cornici teoriche sia corretta relativamente a uno specifico dominio visivo. Il computazionalismo è una buona teoria del riconoscimento dell’oggetto, di quella che potremmo chiamare “visione finalizzata alla cognizione”, che corrisponde alla via ventrale; l’ecologismo descrive bene la visione orientata al controllo motorio, realizzata nella via dorsale». Tuttavia, come ancora lo stesso Paternoster sostiene, «articolare la sintesi tra ecologismo e computazionalismo su questa base, […], sarebbe un’operazione un po’ semplicistica, superficiale» (p. 97).

Sarebbe certamente più verosimile se anche il controllo dell’azione richiedesse processi di elaborazione di informazione. Ed è proprio questo che viene proposto dai sostenitori del paradigma computazionale duale, che introduce, appunto, il concetto di rappresentazione visuomotoria come schema anticipatorio all’azione. Diversamente, secondo il paradigma sensomotorio, la percezione sarebbe un tipo di attività possibile solo in virtù del possesso di un certo «sapere del corpo» (p. 101). Chiaramente, questa concezione nega che la percezione possa essere totalmente descritta come un sistema computazionale.

Se è vero che l’intero testo di Paternoster privilegia principalmente lo studio e l’analisi della visione, l’autore non dimentica di estendere la trattazione di alcune questioni importanti anche agli altri sistemi sensoriali, dedicando l’intero V capitolo alla riflessione filosofica sui sistemi sensoriali non visivi (in particolare udito e tatto). All’interno di questo capitolo l’autore si chiede se abbia senso formulare un teoria generale della percezione, cioè una teoria le cui risposte ad importanti questioni non dipendano dalla peculiarità di ciascun sistema sensoriale. Strettamente connesso a questa questione è il problema dell’individuazione dei sensi, individuazione che avviene secondo tre vie principali: la teoria eziologica, in base alla quale un senso è individuato dal tipo di recettore; la teoria del contenuto, secondo cui i sistemi sensoriali si distinguono per il tipo di oggetto e per il tipo di contenuto su cui vertono; la teoria qualitativa, secondo cui le differenze tra i sistemi sensoriali sono determinate dal tipo di esperienze in prima persona ad essi associate.

Sebbene il problema dell’individuazione dei sensi sia dominante, oggi si fa sempre più strada l’idea di una percezione intermodale, almeno a livello epistemico. Inoltre, come fa ben notare l’autore, la ricerca attuale non può prescindere dai numerosi casi attestati di sinestesia, che sembrano mettere in discussione la modularità dei sistemi sensoriali. Tuttavia, come Paternoster sottolinea riferendosi ai lavori di Pylyshyn, «l’idea è che le sensazioni intermodali caratteristiche della sinestesia non siano parte del contenuto percettivo della modalità di riferimento» (p. 116). Insomma, le persone sinestetiche non sentirebbero melodie a colori, ma sentirebbero melodie accompagnate anche da sensazioni di colore.

Da ciò l’autore può concludere «che non è semplice confutare su basi empiriche l’ipotesi di modularità» e anche che «una teoria della percezione in generale potrà essere costruita a condizione di riuscire a dar conto tanto degli elementi di autonomia quanto di quelli di sinergia che caratterizzano i sistemi sensoriali» (p. 117).

Alla fine di questa intensa carrellata Alfredo Paternoster tira le somme proponendo una soluzione personale, che prevede sostanzialmente la combinazione di tre idee: la natura non concettuale dell’esperienza percettiva, la natura diretta dell’interazione tra soggetto e ambiente a livello fenomenologico, la natura costruttivo-rappresentativa dei processi subpersonali.

L’autore sostiene esplicitamente la non-concettualità della percezione, percezione immune, quindi, a conoscenze e credenze generali del sistema/persona. Pur avendo un’impostazione fortemente kantiana, Paternoster sostiene che non è vero che “le intuizioni senza concetti sono cieche” e afferma, pertanto, la possibilità di percepire forme e superfici anche «pre-interpretativamente» (p. 119), anche se sarebbe comunque necessaria una successiva elaborazione delle primitive configurazioni di superfici.

La natura non concettuale della percezione consentirebbe pertanto ad Alfredo Paternoster di dare una risposta, qualora gli venisse posta, alla seguente domanda: come risolviamo il problema dell’aspetto culturale della percezione? A livello primario vediamo tutti le stesse cose, ossia configurazioni non concettuali di superfici, configurazioni non ancora influenzate da aspetti culturali, ossia da credenze e conoscenze.

Un altro aspetto cruciale del pensiero dell’autore consiste nel suo realismo rappresentativo empirico, una forma di teoria causale della percezione capace di riassumere in sé sia l’idea della natura diretta dell’interazione tra soggetto e ambiente, sia la natura costruttivo-rappresentativa dei processi subpersonali.

Secondo l’autore, i contenuti dell’esperienza visiva sono “cose” e non “enti mentali”. Tuttavia, la posizione di Paternoster prende le distanze da una forma di realismo ingenuo secondo cui il mondo ci apparirebbe come esso è. Utilizzando le parole dello stesso autore, possiamo dire che «poiché gli stati di esperienza percettiva sono ontologicamente dipendenti da stati e processi subpersonali computazionali e in ultima analisi neurofisiologici, è probabilmente più appropriato descrivere la mia posizione come un realismo rappresentativo, in una versione empirica più che intenzionalista. Parlo di versione “empirica” in opposizione a “intenzionalista” per sottolineare che l’aspetto rappresentativo non consiste nel fatto che gli stati percettivi hanno per contenuto un oggetto intenzionale, bensì nel fatto che il contenuto è veicolato da una struttura informativa subpersonale» (p. 120). Così per l’autore i contenuti della nostra esperienza non sono in senso stretto rappresentazioni, ma oggetti che conservano un loro specifico statuto ontologico: perché mai, infatti, una bottiglia dovrebbe diventare oggettiva quando la afferriamo e prima non dovrebbe esserlo? Se l’oggetto esiste quando agiamo non si vede per quale ragione non debba esistere quando percepiamo.

Quando osserviamo un oggetto, la cui superficie dista da noi qualche metro, e avanziamo di qualche passo per avvicinarci a quest’ultimo, focalizzando sempre lo stesso punto della superficie, notiamo che la nostra esperienza è cambiata: l’oggetto ora ci appare più grande. Se avanziamo ancora fino a toccarlo, variamo ancora la nostra percezione visiva. Ora, per quale ragione dovremmo ammettere che le nostre percezioni visive si riferiscono ad enti mentali e quella tattile, invece, ad enti reali?

Per l’autore i processi cerebrali non sono, pertanto, “muri” che ci separano dal mondo, ma ci mettono in contatto con questo e sono, come voleva Kant, le impalcature che rendono possibile la conoscenza. Così i colori non sarebbero interamente soggettivi, ma sarebbero piuttosto proprietà relazionali, dipendenti in parte dal soggetto e in parte dall’oggetto.

L’importanza del libro di Alfredo Paternoster è indubbia. Esso si rivela una prima e preziosa sintesi delle teorie più accreditate sugli aspetti più importanti della percezione, ed un’introduttiva ma precisa esposizione di interessanti teorie innovative, a cui solo il tempo e la ricerca potranno dare ragione. Come conclude lo stesso autore, quelle da lui proposte sono solo poche fra le tante possibili risposte a questioni molto controverse.

In conclusione, bisogna anche aggiungere che il testo di Paternoster convince in maniera decisiva sulla fecondità di un metodo secondo il quale l’analisi filosofica si intreccia brillantemente con i risultati della scienza empirica, in una proficua collaborazione tra Filosofia e Scienza.

Indice

Introduzione

1. I Problemi della percezione

La percezione tra scienza e filosofia
I problemi filosofici della percezione
Percezione e sensazione
Intenzionalità e fenomenologia

2. Teorie filosofiche della percezione

La teoria del dato sensoriale
La teoria avverbiale
La teoria causale
La teoria disgiuntiva

Che cosa percepiamo? La controversia tra realismo diretto e realismo indiretto

La teoria intenzionalista

Riepilogo

3. Vedere e pensare: il confine superiore della percezione

Visione semplice e visione epistemica
Vedere come
Contenuto concettuale, contenuto non concettuale

4. Teorie psicologiche della percezione visiva

La tradizione costruttivista
La teoria computazionale e la modularità della mente
La visione ecologica
Verso una sintesi: le rappresentazioni visuomotorie e il paradigma sensomotorio

5. Oltre la vista

L’individuazione dei sensi
La percezione uditiva
La percezione tattile
Modalità, intermodalità, modularità: qualche osservazione sui sensi in generale

6. Verso un quadro unitario

Note

Bibliografia

Indice dei nomi

Indice analitico


L'autore

Alfredo Paternoster insegna Filosofia e Teoria dei Linguaggi nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sassari. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Introduzione alla Filosofia della Mente (2002) e Linguaggio e Visione (2001).

Links

Pagine web personali:

http://deisweb.uniss.it/ricerca/sez_antropo_sociologica/Paternoster_Alfredo.htm

http://scipol.uniss.it/docenti/alfredo-paternoster

10 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Il quadro unitario, cui in anno 2009 e seguenti già tendevano gli studi filosofici sul percepire, nella fattispecie sul percepire il mondo entro ed oltre attività scientifiche nonché tecniche, non potendo coincidere con provvisoria sintesi di riferimento ma in questa consistendo affermativamente, era e resta dunque una definizione, non a tutti gli effetti descrizione, cioè una interpretazione astratta, perché concretamente impedita dalla natura concettuale di ogni interpretazione; astrattamente adeguata però a dare nozione di quali siano i rapporti tra il mondo della percezione e la prassi scientifica nonché la azione tecnica. Ciò significa che la filosofia analitica, ricostruita quale impostazione di ricerca, ha trovato quale proprio presente e futuro non la enunciazione di principi d'ordine pratico — neppure vincolandosi a ritorni peraltro impossibili e non filosofici ad assolute critiche — ma formulazioni di limiti e possibilità finalmente riassumibili in formulari di impossibilità e di funzioni, talché tali funzioni formulate non sono intervento interpretativo e prominente soggettività cui scienza sarebbe sottoposta e cui tecniche sarebbero omologate, ma indicazione delle non interpretabilità, a soggetto della filosofia da una parte ed a soggetto di scienza ed oggetti di tecnica dall'altra, le due parti essendo l'una la conoscenza certissima in quanto evidente, ovvia, irrefutabile, detta epistemologica e che è àmbito di studi filosofici non scientifici, l'altra la conoscenza provata, determinata, sicura, definibile scientifica e fatta di ricerche con scopo oggettivo di stabilire, non di mostrare, quest'ultimo essendo lo scopo della ricerca filosofica.
Il convergere di interpretazioni filosofiche positive entro filosofiche delimitazioni di significati verte sulla intrinseca non finitezza delle alternative reali, che si mostrano ai prospetti filosofici completi, tra singolo fenomeno percettivo dicibile di `sinestesia', ovvero il sentire con tutto il corpo non soltanto tramite intero corpo, e molteplici fenomeni percettivi, concomitanti o fondanti, definibili 'parestesie', ovvero i cinque sensi fondamentali: tatto, gusto, olfatto, vista, udito; e tal mostrarsi a tali prospetti in parte a sua volta si mostra necessario in stessa pluralità di prospetti, in restante necessario a stesso filosofico prospettarsi, filosofico cioè non particolare ma generale prospettarsi di generici prospetti. A riguardo va notato che l'assunto del lavoro filosofico di Alfredo Paternoster "Il filosofo e i sensi Introduzione alla filosofia della percezione" è analiticamente parziale, pur non manchevole entro stessa parzialità, perché trattasi di introduzione non universale che si attua basandosi su valutazioni concrete di scienze priva di compiuta valutazione astratta di scienza. Senza dubbio questo limite è intrinseco di stessa prassi filosofica e di stessi scopi filosofici di Autore: comporre una descrizione di risultati scientifici eminenti e accludendone relativa cultura scientifica senza darne specifica ulteriore descrizione. Ciò nel ridursi positivistico della filosofia analitica potrebbe essere involuzione ed abbandono di pratiche filosofiche compiute però di fatto lo era e lo sarebbe ulteriormente soltanto nelle analisi filosofiche esclusive, cioè non pre-messe costruttive ma post-fazioni decostruttive, atti filosofici eminentemente linguistici; dunque gli scopi dell'Autore pur essendo essi soli esposti al rischio di tentativi involutivi che servirebbero lo scientismo ed ostilmente ad utilizzo non solo uso di scienze, nondimeno sono a disposizione della riflessione ampia, critica e non assoluta, di opportuna filosofia ermeneutica; ma per evitare codesto rischio bisogna ricondurli entro cotale prospettiva filosofica-culturale massimamente generale, che ho indicato e che non ho descritto; perciò invierò ulteriori messaggi a tal ulteriore fine.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In messaggio precedente in espressione scritta:

`sinestesia',

il primo apice inclinato (`) sta per questo: ' :

'sinestesia'.

Comunque la differenza di segno non impediva tutta comprensione minimamente sufficiente.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Dato che una prospettiva filosofica-culturale massimamente generale implica nozioni culturali assai ampie e dato che la filosofia in Occidente specialmente nei rapporti passati tra pensiero filosofico analitico e pensiero filosofico continentale non è stata unita e ne resta ancora in parte — sia pur non decisiva — ancora disunita, io aggiungo necessario riepilogo storico che aiuti a considerare entro divisioni culturali grandi anche quelle piccole, interne alle altre ma non per questo ad esse soggette:

La filosofia moderna, da materialismo post rinascimentale ad empirismo preilluminista, sino a sensismo illuminista e post-illuminista e neoilluminista, è approdata infine, in età storica contemporanea ed attraverso la fenomenologia ex-hegeliana e post-husserliana, a interesse specifico, definendosi ed attuandosi quale applicazione, detta "filosofia della percezione", diversamente che in Età dei Lumi quando essa si applicava a realtà dei sensi aprioristicamente e di fatto filologicamente, datoché, dai tempi delle meditazioni filosofiche-poetiche di Torquato Tasso eppoi oltre, esisteva già in filosofia ed anche italiana indirizzo di pensiero filologico, in stesso inizio attivo di italiana filosofia attraverso i “Dialoghi Filosofici Italiani“ di Giordano Bruno.
Durante l'Illuminismo l'indirizzo filologico serviva a risoluzione di problemi di convivenza solo in seconda istanza sociali: mancate azioni espressive di pochi o molti ma con conseguenze sulla semplice convivenza europea ed extraeuropea ed anche sociale; quest'ultima condizione radicalizzatasi in Epoca di Restaurazione e cui il materialismo dipendente da istanze non occidentali non dava risoluzioni effettive o peggiorava le situazioni se con intenti antioccidentali, inconsapevoli o provvisori. Il socialismo europeo post-hegeliano necessitò filosofia non sui sensi ma su sensazione, realizzata da Feuerbach; quindi il socialismo ex-hegeliano necessitò filosofia del sentire, realizzata da Max Stirner (nome e cognome pseudonimi): nel primo caso smentendosi coerenza del Socialismo Idealista, nel secondo del Socialismo Reale. Ma a tali smentite, postulati forti ed insindacabili contro idee di distruzione culturale della ufficialità occidentale e contro realtà politica tradizionale occidentale, doveva seguire pure altro: il Neoilluminismo, non Età ma Periodo, di esito non solo conservativo-occidentale anche globalmente propositivo, per esigenze di comunicazione vitale dovendosi esporre - esportare funzione certa della filosofia da Occidente ove culturalmente tipica (in Oriente solo odiernamente ricorrente saggezza filosofica, altrove assai meno ora essendoci di stabilito). È stata neoilluminista la ideologia postmoderna, da critica poetica sudamericana-occidentale ed in filosofia consapevolezza 'esclusiva', per percezioni ultime dei tempi e sensazioni epocali determinate oppure tramite previe creazioni di evento: si faceva epoca anche dove altra ne era, medesimi intenti filosofici in stesse suadenze poetiche originarie e dopo con stessa filosofia, muovendo a percepire il divenire del mondo potenzialmente distruttivo così scaturendone percezioni di insufficienza, parziali mutamenti di modi percettivi anche senz'altri mondi nati, stessa Modernità cambiando in sua parte e non senza armonia tra mondi; quindi con sconfitta in Occidente delle istanze estranee o contrarie... Soltanto globalmente gli studi sulla percezione del marxismo già prima d'esser noti neutralizzati, non nei luoghi più coinvolti da Guerra tra Capitalismo e Comunismo, tra cui l'Europa dove il Neoilluminismo ha ancora molto da fare per ovviare agli effetti di violenze culturali marxiste cui opposte 'le distrazioni extraculturali' capitaliste.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

A necessario riepilogo aggiungo, in questo mio ed altro mio successivo messaggio, considerazione storica particolare, a scopo di integrare quanto in prospettiva di Autore A. Paternoster è incluso da egli senza tutta la consapevolezza bastante affinché i rischi incombenti dello scientismo — cui connessi pericoli di restante oscurantismo — siano realmente evitati od annullati:


Senza dubbio la vicenda del materialismo, da Spinoza attraverso Feuerbach e Stirner, non restò ferma con la negazione marxista, questa in filosofia non rifiutata quale momentanea controparte non distruttiva ma oppositiva poi quale evoluzione postmarxista accettata per controparte in se stessa provvisoria infine quale sostituzione ex-marxista - non-marxista accolta al solo fine di evitare che medesima vicenda non si compisse; difatti stessa negazione era stata affiancata da affermazione alternativa, in Germania politicamente-culturalmente data con pubblicazioni di contenuti filosofici di F. W. Nietzsche, attraverso studio e critica della morale, critica e rifiuto di religione, introduzioni imparziali a scienze, riferimenti a linguaggi diretti ed a logiche efficaci; ma da prima culturalmente-politicamente essa era già nelle prime e successive Opere di A. Schopenhauer, che adducendo l'Idealismo filosofico tedesco ad origini di spiritualità e saggezze orientali ne univa a Materialismo di matrice illuminista-europea ed immanenza etica-conoscitiva post-spinoziana, anteponendo monadologia leibniziana a dubbio iperbolico cartesiano quindi dando versione differente non alternativa della Critica kantiana, per esigenza di più efficace realismo. Schopenhauer difatti notava che le Categorie della critica kantiana erano ineccepibili entro esigenze filosofiche ridotte, altrimenti restavano aperte ad interpretazioni culturali troppo ingenue quindi inadeguate ad affrontare filosoficamente gli inganni presenti e futuri di ineludibile realtà culturale politica e naturale.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(A necessario riepilogo è aggiunta, con questo mio e mio precedente messaggio, considerazione storica particolare, a scopo di integrare quanto in prospettiva di Autore A. Paternoster è incluso da egli senza tutta la consapevolezza bastante affinché i rischi incombenti dello scientismo — cui connessi pericoli di restante oscurantismo — siano realmente evitati od annullati:)

... Dedicandosi a verificare i rapporti tra kantismo e scientismo, Schopenhauer valutò espressioni di opera scientifica interdisciplinare di I. Newton, che poneva relazioni indubitabili tra dati e risultati di scienza fisica e dati di scienza ottica ma redagendo con relazione anche rapporto culturale-scientifico in verità fuori da reale risultanza interdisciplinare, essendo ivi le descrizioni di dati ottici anche replicate secondo menzioni di dati fisici in base a risultati di scienza fisica non ottica senza ulteriore riflessione che ne distinguesse e con svantaggio per stessa interdisciplinarità: la qual cosa riconosciuta per tale fu anche descritta da Schopenhauer, interessato a mostrare che Newton s'era inoltrato in espressioni non conformi a scopi di scienza fisica oltre che inadeguati, di ciò ultimo anche Newton convinto e mostrando bisogno di altra scientificità ma non senza porre indistinzioni tra allora future prospettive fisiologiche ed allora presenti prospettive morfologiche. Senza nulla togliere ad istanza promossa anche da Newton, Schopenhauer esibiva risultati della scienza morfologica in merito a differenze formali di colori e forme delle relative sensazioni, citando corrispondenti studi scientifici di Goethe. Esisteva già pratica di scienza empirica, non fatta di esperimenti ma per solo esperire e Schopenhauer notava nascenti esterne confusioni a riguardo; ed al fine di evitarne i guai e soprattutto per confutare relativi errori non si limitava a lavoro ermeneutico su teoria morfologica dei colori offerta da Goethe e su tesi interdisciplinare su fisicità dei colori data da Newton, non solo utilizzando metodo filologico che facesse corrispondere a elementi di conoscenza oggettiva elementi di decisioni soggettive, ma pure attuando valida critica filosofica, già post-kantiana, dei concetti arbitrari utilizzati anche da Newton per sua tesi, d'altronde costui scettico sui valori di tali sue operazioni culturali altre volte autorinnegate. Con sua critica e per altre interpretazioni filosofiche Schopenhauer individuò concetti analoghi necessari connessi ad idee universali, poi dedicandosi a scoprire le idee sbagliate che cagionavano tante illazioni anche culturali e scientifiche e pure in speculazioni filosofiche; definì dunque le idee naturali tramiti indiretti ed insufficienti atti a fornire concettualità ma non intuizione della realtà pensata non solo percepita.
Questi atti filosofici già in Secolo Decimo Nono compiuti offrono risultati definitivi per analisi compiutamente generali di filosofia della percezione, proprio secondo le esigenze cui pubblicazione di Paternoster e recensione di Alessandra Melas sono rivolte.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Essendo necessaria generalità maggiore di analisi filosofica per individuate entro occasioni particolari unicità di significato al fine di evitare sopravvalutazioni o sottovalutazioni della scienza, si risalga, filologicamente, a reale ed autentica matrice del sensismo illuminista: questo fondato su riconoscimento di ovvietà ed evidenze era e resta sistema filosofico pratico rigoroso storicamente rivelabile e neoilluminismo ne risulta storicamente consapevolemente fondato non terminando quest'ultimo in disparità e variabilità di postulati; dunque a partire da basi espressive filosoficamente concrete si valuti il concettualismo, analizzato da Alfredo Paternoster e di cui recensione di A. Melas dà nozione, entro prospettiva filosofica situazionista; allora si potrà provvedere ad evitare che medesimo concettualismo possa estrinsecarsi in antiidealismo antiespressivo e dunque si potrà procedere a comporsi schema più generale di stessi prospettarsi degli eventi di interpretazione; e così soltanto si eviterà che reciprocità soggetto-oggetto in studio ermeneutico, cioè tra azione filosofica e risultato scientifico, si attui in progressioni indefinite che sarebbero infine inconcludenti. Infatti sinestesia e parestesie non sono realtà in tutto coincidenti ed essendo del tutto necessario definirne filosoficamente i rapporti per applicare stessa ricerca filosofica a realtà percettiva dunque è del tutto necessario che in stessa azione filosofica si valuti il situarsi di tutti gli accadimenti anche filosofici, in tal guisa evitando che supersoggettività volga, schiudendo orizzonti di senso indefiniti, stesse azioni in indeterminatezza che impedirebbe lo scopo filosofico ermeneutico.
L'assunzione di indirizzo filologico consentirà di operare opportune salvifiche distinzioni tra elementi di subculturalità ed elementi propriamente culturali coinvolti in stessi accadimenti ed eventi.
Si noterà che molti problemi posti al filosofo, ermeneuta, analista, etico, sono proposizioni in sé valevoli a causa di intromissioni subculturali e che queste limitano usi linguistici ed utilizzi di cultura linguistica. Dunque capiterà che semplici integrazioni culturali basteranno a render nulli tanti problemi.
Ad esempio identificando, oltre omissioni, semplice psicologia del senso comune intorno a cosiddetto "sesto senso", se ne ritroverà rapporto con filosofia psicologica stessa, in particolare nel riferimento a stessa percezione istintiva che Hume faceva per mostrare limiti di conoscenza razionale; e si ritroverà stesso oggetto di pensiero comune o filosofico anche in teorie scientifiche di psicologia, quale nozione di: 'percezione del sé' in verità da distinguere non separare ovviamente da nozione di 'percezione di sé'; e non sarà necessario riferirsi a soggettività filosofiche irrelazionabili ad oggettività scientifiche; per esempio lasciando da parte (ed in pace) il pensiero platonico antico (quello neoplatonico antico invece è relazionabile) e senza volgere i rapporti tra filosofia e scienze ad incompatibilità che impedendo interpretazioni filosofiche esporrebbe datità scientifica a veti di superstizioni. In particolare integrare prospettiva culturale omessa di glottologia quale scienza risulterà non principale però costante inserimento risolutivo.
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(...) Le risoluzioni definitive dell'attuarsi non parziale di filosofia di percezione valgono per esistenza della scienza, che è dipendente da espressioni culturali compiute e pubbliche perché singolarmente, per individui o gruppi, la scienza esiste quale mentalità, per altro sapere o diversa sapienza rispettivamente, ma solo collettivamente essa esiste quale sapere scientifico; ed allora ciascuna inconcludenza di analisi ermeneutica è esposta a travisamento subculturale e questo può diventar strumento di intromissione ed oppressione contro utilità di scienze e contro vantaggio di filosofia, o può diventar avvilimento ed invadenza ai danni di filosofie e scienza, non a caso la analisi ermeneutica completa può anche servire per sola difesa culturale...
E allora invito a diffidare delle incompiutezze e a porre necessaria attenzione a questi miei messaggi.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In inizio di penultimo testo da me inviato, 'per individuate' sta per:

'per individuare' .

Allego testo corretto e completo:

*
Essendo necessaria generalità maggiore di analisi filosofica per individuare entro occasioni particolari unicità di significato al fine di evitare sopravvalutazioni o sottovalutazioni della scienza, si risalga, filologicamente, a reale ed autentica matrice del sensismo illuminista: questo fondato su riconoscimento di ovvietà ed evidenze era e resta sistema filosofico pratico rigoroso storicamente rivelabile e neoilluminismo ne risulta storicamente consapevolemente fondato non terminando quest'ultimo in disparità e variabilità di postulati; dunque a partire da basi espressive filosoficamente concrete si valuti il concettualismo, analizzato da Alfredo Paternoster e di cui recensione di A. Melas dà nozione, entro prospettiva filosofica situazionista; allora si potrà provvedere ad evitare che medesimo concettualismo possa estrinsecarsi in antiidealismo antiespressivo e dunque si potrà procedere a comporsi schema più generale di stessi prospettarsi degli eventi di interpretazione; e così soltanto si eviterà che reciprocità soggetto-oggetto in studio ermeneutico, cioè tra azione filosofica e risultato scientifico, si attui in progressioni indefinite che sarebbero infine inconcludenti. Infatti sinestesia e parestesie non sono realtà in tutto coincidenti ed essendo del tutto necessario definirne filosoficamente i rapporti per applicare stessa ricerca filosofica a realtà percettiva dunque è del tutto necessario che in stessa azione filosofica si valuti il situarsi di tutti gli accadimenti anche filosofici, in tal guisa evitando che supersoggettività volga, schiudendo orizzonti di senso indefiniti, stesse azioni in indeterminatezza che impedirebbe lo scopo filosofico ermeneutico.
L'assunzione di indirizzo filologico consentirà di operare opportune salvifiche distinzioni tra elementi di subculturalità ed elementi propriamente culturali coinvolti in stessi accadimenti ed eventi.
Si noterà che molti problemi posti al filosofo, ermeneuta, analista, etico, sono proposizioni in sé valevoli a causa di intromissioni subculturali e che queste limitano usi linguistici ed utilizzi di cultura linguistica. Dunque capiterà che semplici integrazioni culturali basteranno a render nulli tanti problemi.
Ad esempio identificando, oltre omissioni, semplice psicologia del senso comune intorno a cosiddetto "sesto senso", se ne ritroverà rapporto con filosofia psicologica stessa, in particolare nel riferimento a stessa percezione istintiva che Hume faceva per mostrare limiti di conoscenza razionale; e si ritroverà stesso oggetto di pensiero comune o filosofico anche in teorie scientifiche di psicologia, quale nozione di: 'percezione del sé' in verità da distinguere non separare ovviamente da nozione di 'percezione di sé'; e non sarà necessario riferirsi a soggettività filosofiche irrelazionabili ad oggettività scientifiche; per esempio lasciando da parte (ed in pace) il pensiero platonico antico (quello neoplatonico antico invece è relazionabile) e senza volgere i rapporti tra filosofia e scienze ad incompatibilità che impedendo interpretazioni filosofiche esporrebbe datità scientifica a veti di superstizioni. In particolare integrare prospettiva culturale omessa di glottologia quale scienza risulterà non principale però costante inserimento risolutivo.
(...)

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

(...) Le risoluzioni definitive dell'attuarsi non parziale di filosofia di percezione valgono per esistenza della scienza, che è dipendente da espressioni culturali compiute e pubbliche perché singolarmente, per individui o gruppi, la scienza esiste quale mentalità, per altro sapere o diversa sapienza rispettivamente, ma solo collettivamente essa esiste quale sapere scientifico; ed allora ciascuna inconcludenza di analisi ermeneutica è esposta a travisamento subculturale e questo può diventar strumento di intromissione ed oppressione contro utilità di scienze e contro vantaggio di filosofia, o può diventar avvilimento ed invadenza ai danni di filosofie e scienza, non a caso la analisi ermeneutica completa può anche servire per sola difesa culturale...
E allora invito a diffidare delle incompiutezze e a porre necessaria attenzione a questi miei messaggi.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Sono dispiaciuto degli inconvenienti di scrittura, che son dipesi da noie non solo a me arrecate delittuosamente da altri e durate tanto tempo e necessitantimi altre urgenti attenzioni alternative e cui non ho voluto opporre maggior impegno per mio filosofico senso del limite ed istintiva mia saggezza, anche perché Internet non è una libreria... allora basta aver ultimato con altri invii.

MAURO PASTORE