venerdì 22 maggio 2009

Ferrara, Alessandro, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio,

Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 262, € 22.00, ISBN 978-88-07-10436-7.

Recensione di: Enrico Biale – 22/05/2009

Esempio, sfera pubblica, giudizio

Il testo di Ferrara, pubblicato in contemporanea da Columbia University Press, ha il merito di essere complesso e propositivo; merito che rende il compito di analizzare le tesi principali in esso esposte abbastanza arduo e sicuramente parziale. Quella che segue non può quindi essere altro che una panoramica che tenta di dare conto degli aspetti più rilevanti del volume senza per questo pretendere di esaurirli.
Ferrara nel definire la forza e il ruolo dell’esempio procede su tre piani:
Definizione dell’esempio come “universalità senza principi”;
Suo ruolo pubblico;
Possibili applicazioni.
1. L’analisi di Ferrara prende le mosse dalla crisi della tradizionale dicotomia fatti/principi. Sebbene, infatti, come giustamente messo in luce dall’autore, tutti noi possiamo sperimentare costantemente il ruolo e la forza dei fatti (abitudini, tradizioni) e delle idee (valori, precetti morali), simili elementi sono stati criticati all’interno del panorama filosofico. Da un lato, dopo le obiezioni di Wittgenstein o dell’epistemologia contemporanea, è molto difficile sostenere che i fatti non siano carichi di teoria, in qualche modo viziati dalle idee. Dall’altro, molteplici sono state le critiche rivolte all’universalità e neutralità dei principi. Nonostante simili problemi Ferrara riconosce che non ci si può limitare alla sola pars destruens e che caratteristiche tipiche dei principi, quali la loro oggettività e trasmissibilità, sono aspetti che dovrebbero essere recuperati senza per questo dimenticare l’importanza dei fatti. Per questo viene introdotto il ruolo dell’esempio, ciò che è come dovrebbe essere; elemento profondamente legato al contesto all’interno del quale viene sviluppato, ma in grado di prefigurarne un altro, di mostrare una realtà diversa che si dovrebbe tentare di perseguire (ecco la sua validità normativa). Per definire al meglio simile concetto Ferrara si rifà ovviamente all’analisi di Kant sul giudizio riflettente, ma afferma come non sia giusto né possibile limitarla al solo campo estetico vista la sua natura principalmente pubblica.
In primo luogo, è necessario chiarire quale sia il sensus communis che tutti gli individui dovrebbero condividere per fare in modo che tale “universalità senza principi” abbia valore, senza dover ricadere nella dicotomia fatti/principi. Questa è la grande tensione che Ferrara identifica nell’opera di Kant a proposito del giudizio estetico: non si vuole che chi giudica un’opera d’arte sia vincolato a regole formali come quelle della logica ma nemmeno che sia sottoposto all’influenza della tradizione. Per questo Ferrara non accetta l’interpretazione ermeneutico-fenomenologica del sensus communis, che tende a ridurlo all’insieme di tradizioni tramandate impedendogli quindi di trascendere il contesto all’interno del quale si è sviluppato. Per risolvere una simile tensione Ferrara propone invece, facendo riferimento al concetto kantiano di piacere legato al bello, che il sensus communis sia interpretato come «quel senso intuitivo di che cosa significhi arricchire e promuovere la [propria] vita, o mortificarla e condannarla a stagnare » (p. 85).
2. Una simile definizione mette in luce la natura profondamente pubblica che Ferrara vuole attribuire al ruolo dell’esempio e ai giudizi ad esso legati, tanto da sostenere che tali elementi sono in grado di dare ragione di due tra le categorie politico-morali più importanti del secondo dopoguerra: il concetto rawlsiano di ragionevole e l’idea del male radicale.
Secondo Ferrara, infatti, è proprio il concetto di ragionevolezza che segna la vera cifra del pensiero di Rawls; un elemento che evidenzia come l’obbligo morale non possa derivare esclusivamente da principi logico-formali, né da valori tradizionali, ma dall’idea che gli individui hanno di cosa sia fondamentale per realizzare la propria vita. Interpretato in questo modo il ragionevole dimostra la sua originalità rispetto al razionale pur mantenendo un alto potenziale critico. Su questo aspetto Ferrara torna spesso e, in qualche modo, la sua analisi sul male radicale tende a confermare questa tesi. La razionalità e i suoi vincoli non sembrano in grado di mettere in luce l’insensatezza del male radicale. Ferrara evidenzia come i principi che hanno guidato i nazisti fossero parte di una concezione del bene perfettamente universalizzabile. La ragione per cui il male radicale è inaccettabile è invece la sua incapacità di essere compatibile con quell’idea, comune a tutti gli individui, di vita umana che si realizza pienamente. Per questo le azioni messe in atto dai nazisti non possono lasciare indifferenti nessuno, e nessuno può credere che sarebbero dovute accadere a meno di non mettere in dubbio la propria ragionevolezza (ecco ripreso il potenziale critico di un simile concetto).
3. Una volta mostrato il ruolo pubblico dell’esempio e dei giudizi a esso legati, Ferrara tenta di evidenziare come simili categorie siano fondamentali per giustificare non solo concetti filosofici, ma elementi centrali del dibattito pubblico come il valore dei diritti umani, l’idea di Europa e il rapporto fede/ragione.
A sostegno di tale tesi, Ferrara mette in luce come una corrente di pensiero tornata in auge negli ultimi anni ma di grande tradizione, il repubblicanesimo, abbia sempre dato grande importanza, all’interno del discorso pubblico, al ruolo della retorica, dell’esempio e di ciò che non poteva ricadere sotto la categoria del razionale. Ferrara anzi sostiene che proprio questo diverso approccio metodologico, ben più della concezione della libertà sposata dai repubblicani, ne segni la vera specificità rispetto al pensiero liberale.
Nell’analizzare il ruolo dei diritti umani oggi Ferrara adotta una prospettiva abbastanza impegnativa sostenendo che questi non dovrebbero semplicemente rappresentare una sorta di guida morale, ma far parte di una concezione politica della giustizia non minimale. Per raggiungere un simile obiettivo è necessario fare riferimento a una teoria della giustizia che abbia una portata globale e che miri alla realizzazione di una comunità politica. Tale comunità non dovrebbe però accordarsi su un modus vivendi al fine di minimizzare i conflitti (concezione elementare), ma voler sviluppare al massimo le sue potenzialità. Così facendo, secondo Ferrara, sarebbe possibile giungere a giustificare una serie di diritti davvero fondamentali, riconoscibili da ciascuno perché compatibili con quel sensus communis che ognuno condivide, ma aperti di fronte alla specificità che ogni individuo o comunità può offrire. Proprio una simile prospettiva ha ispirato, almeno secondo l’autore, uno dei più importanti cambiamenti del diritto internazionale avvenuto negli ultimi anni: il passaggio dal diritto di intervento per aiutare i Paesi in difficoltà al dovere di proteggere i cittadini di tali Paesi. È chiaro quanto una simile prospettiva riduca i confini tra gli stati chiarendo ancor di più che la garanzia di una vita decente per ciascuno è un obiettivo che la comunità internazionale, con a capo i Paesi più ricchi, non può sottrarsi dal perseguire.
Ferrara tenta poi di definire quella che, almeno a suo parere, rappresenta una delle novità esemplari più rilevanti degli ultimi anni: l’istituzione dell’Unione Europea. Egli ne mette in luce la specificità, mostrando come ciò che spesso viene descritto come uno dei suoi più grandi limiti (la mancanza di un demos) sia in realtà una delle sue più rilevanti caratteristiche. L’Europa non ha e non potrà mai avere demoi, perché è davvero, a parere dell’autore, la prima vera istituzione postnazionale composta da una pluralità di gentes che condividono una comune civitas. Questo aspetto è chiaramente espresso nella carta costituzionale dell’Unione che mette in luce la ragione per cui l’Europa rappresenta uno spazio privilegiato della speranza umana. Essa difende la dignità dei suoi cittadini e di tutti gli individui garantendo loro non solo i diritti umani fondamentali, ma una vita economicamente decente e rispondendo alle sfide lanciate da una società in continua evoluzione (si pensi alla difesa del corredo genetico o alla tutela della privacy).
Nell’ultima parte del testo Ferrara afferma come sia necessario, proprio grazie ad una prospettiva più sensibile al contesto e alla ricchezza che le diverse individualità possono portare al dibattito pubblico, ridefinire il rapporto tra fede e ragione. Se, infatti, secondo l’autore, resta ferma la necessità di mantenere uno Stato laico che non si faccia portatore dei valori di una parte, bisogna fare in modo di mettere davvero tutti i cittadini sullo stesso piano senza obbligare i fedeli a tradurre le proprie istanze per poter partecipare al dibattito pubblico. Non sempre, infatti, una simile operazione risulta possibile ed inoltre rischia di discriminare i fedeli appartenenti a confessioni, come quella cattolica, che hanno da sempre vissuto la fede come una questione pubblica, rispetto a chi, come i protestanti, vede nel culto un momento strettamente privato. Rispettare simili diversità non significa, secondo Ferrara, rischiare di vivere in uno Stato confessionale ma accettare la centralità del fenomeno religioso senza pensare che questa possa essere eliminata dalla sfera pubblica. Adottare una prospettiva maggiormente inclusiva non è solo un atto di realismo politico, ma una necessità di giustizia poiché una società si può dire equa solo se mette tutti gli individui nella possibilità di realizzare ciò che è bene per loro.
La complessità del testo di Ferrara non permette di dare in poche righe un giudizio in nessun modo esaustivo, ma proprio per la ricchezza dei temi trattati e l’originale prospettiva con cui questi vengono analizzati credo risulti interessante e profondamente stimolante per chiunque si occupi del rapporto tra questioni pubbliche e giustizia. Si può, infatti, non essere d’accordo con alcune delle tesi o sposarle tutte, ma in ogni modo sembra difficile rimanere a esse neutrali.

Indice

Il paradigma del giudizio
Capire un esempio
L’esemplarità nello spazio pubblico: sulla normatività della ragione pubblica
Esemplificare il peggio: la sfida del male radicale
Il repubblicanesimo politico e la forza dell’esempio
Esemplarità e diritti umani
Far valere i diritti umani: tra Vestfalia e Cosmopolis
L’Europa come spazio privilegiato della speranza umana
La religione entro i limiti della ragionevolezza


L'autore

Alessandro Ferrara è professore ordinario di Filosofia Politica presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e presidente della Società Italiana di Filosofia Politica. Tra i suoi volumi: Giustizia e giudizio (Laterza, 2000) e Autenticità riflessiva (Feltrinelli, 1999).

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