lunedì 4 gennaio 2010

Zanuso, Francesca (a cura di), Il filo delle parche. Opinioni comuni e valori condivisi nel dibattito biogiuridico.

Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 240, € 23,00, ISBN 9788856810233.

Gianguido Piazza - 04/01/2010

Filosofia del diritto

La scienza e la tecnica hanno enormemente ampliato le possibilità dell’azione umana: “Oggi più che mai pare spetti all’uomo il compito di decidere sulla vita, sulle sue origini e sulla sua fine… ambito che gli antichi riservavano all’antro oscuro delle Parche” (p. 15).
Ora, secondo la Zanuso una “decisione argomentata” deve presupporre il “significato del limite”: “Vi è alcunché di indisponibile, di sottratto alla volontà e all’arbitrio individuale o, fosse anche, collettivo” (ivi).
Il limite non deve essere inteso come un ostacolo da rimuovere: esso “dà senso al nostro exsistere, al nostro stagliarci, creature finite ma assetate di infinito” (p. 18).
Ora, costitutivo della bioetica è il richiamo al limite, a valori “indisponibili”, quali “i diritti umani, la dignità della persona, l’autonomia individuale, la dialogicità, la tolleranza e la laicità” (p. 19).
Si tratta di éndoxa, attorno ai quali si dovrebbe formare il consenso in ambito biogiuridico, ma che “sono per lo più ambigui e atti, quindi, a costituire la premessa per un argomento eristico”.
Per quanto riguarda i diritti umani, ambigua sarebbero sia la titolarità, sia il contenuto: il rischio è quello di “far apparire accettabile la semplice supremazia della volontà del più forte, dissolvendo così la ragion d’essere dell’esperienza giuridica” (p. 26), che è la difesa del “più debole”.
A proposito della dignità della persona l’ambiguità dipende dalla controversa estensione del concetto di “persona”: per alcuni “l’essere individuale appartenente alla specie umana merita di per sé l’appellativo di persona”, per altri individuo umano e persona non si identificano, anche se vi è dissenso sull’elemento “che dà origine alla persona nell’individuo o che, scomparendo, trasforma il soggetto in un ammasso più o meno disponibile di organi” ( p. 28). La stessa pluralità delle risposte proverebbe che la loro apparente oggettività scientifica cela il fatto che “i dati empirici e le nuove scoperte scientifiche sono sempre elaborati [...] in base ad un preciso concetto di vita umana e di persona” (p. 29).
Secondo un altro éndoxon “criterio di giustificazione e di limite di ogni attività biotecnologica sarebbe il rispetto per l’autonomia del soggetto adeguatamente informato”, capace di “scelta responsabile” (p. 30). L’ambiguità dipende da ciò, che la scelta può essere intesa in termini utilitaristici o kantiani, con esiti opposti: dal primo punto di vista sarebbe lecito utilizzare una vita umana a scopi di ricerca se ne consegue la felicità del maggior numero, mentre l’imperativo kantiano impone di non trattare mai la persona esclusivamente come un mezzo.
La Zanuso sonda, infine, “la consistenza logica di due ulteriori éndoxa in base ai quali si ritiene doveroso rispondere alle sfide tragiche ricorrendo allo strumento del dialogo o di una benevola tolleranza” (p. 36). Ora, il dialogo può essere inteso come la negoziazione tra “stranieri morali” (Engelhardt), che, riconosciuta l’insussistenza di valori oggettivi, si confrontano per giungere ad un consenso “a maggioranza”, o come ricerca comune della verità tra individui che si sentono indigenti, ma aspirano ad essa. La prima interpretazione del dialogo si tradurrebbe nel diritto dei più forti, che impongono la loro volontà, mentre la seconda, grazie al riconoscimento del limite, tutela il debole, che non può farsi valere nella negoziazione.
Anche la laicità può essere variamente interpretata: da un lato, può essere definito laico chi nelle sue argomentazioni si avvale della sola recta ratio; dall’altro, chi esclude come assunto delle sue argomentazioni qualsiasi riferimento al trascendente, fosse anche di ordine razionale, come non pertinente nell’ambito biogiuridico (aspirando a conclusioni valide etsi Deus non daretur). Mentre il primo atteggiamento, di ordine metodologico, è condivisibile dalla bioetica laica e da quella religiosa, il secondo assumerebbe una tesi sostantiva immanentistica e si tradurrebbe in un’opzione anti-religiosa (per la Zanuso riscontrabile nei Manifesti di bioetica laica).
In che modo pensare il limite affinché non si configuri come un ostacolo? Se il limite è ciò che determina il nostro essere persone in relazione ad altre persone, allora esso è ciò che consente al soggetto di fiorire: “Fonte di giustificazione del limite (…) è ogni espressione della soggettività in dialogo (…) Soggetto degno di ogni rispetto, che testimonia con la sua semplice presenza l’ineludibilità del mistero del vivere e del morire, è ogni individuo la cui vita si interseca con la nostra, con la nostra soggettività. Intangibile è, dunque, ogni possibile tu che con la sua sola presenza, anche silente e dolente, consente all’io di percepire la sua differenza e la sua comunanza” (p. 52).
Il limite così inteso non è un mero dato biologico, ma una costruzione culturale: “Dobbiamo prendere le dovute distanze dall’idea di un limite invalicabile posto dalla natura, secondo quanto ingenuamente pretendono alcuni pro-life e come opportunamente denunciano molti pro-choice. Nulla è più culturale dell’idea di natura” (p. 53). Di conseguenza, il limite non è posto una volta per tutte, ma è dialettico. Il diritto, pertanto, non può essere pensato in termini di obblighi e divieti assoluti: “Le sfide biotecnologiche impongono sicuramente delle risposte ‘miti’, ‘elastiche’ e ‘leggere’, dettate dalla consapevolezza della non reperibilità di una sorta di diritto naturale, scolpito in maniera evidente nelle menti degli uomini” (ivi).
Si apre qui l’esigenza dell’argomentazione e della critica, carattere costitutivo del “diritto occidentale secolarizzato”, “laico”, che non per questo rinuncia alla ricerca della verità: tema centrale della riflessione non solo della Zanuso, ma anche di Cavalla, che esamina un altro éndoxon ambiguo, quello che afferma che la vita è un bene indisponibile alla volontà dell’uomo.
L’equivoco sarebbe già presente in Locke, che “sembra prospettare l’esistenza di un autentico diritto assoluto alla vita”, ma “finisce piuttosto per riconoscere al singolo la titolarità di un diritto naturale sulla propria vita” (p. 62). La radice di questo slittamento semantico si troverebbe nell’antropologia di Locke, che identifica la libertà con l’autodeterminazione individuale, affrancata da ogni coazione esterna: in questo contesto la vita non è un bene in se stessa, ma lo è “perché (e dunque finché) il soggetto lo vuole” (p. 67). Merito di Locke sarebbe stato di “aver voluto garantire la vita di ogni cittadino dall’intervento arbitrario del potere pubblico” (p. 69).
Il pensiero politico moderno ha sviluppato questi assunti in due direzioni, liberale e democratica. Per la prima lo Stato si fonda sul consenso degli individui e ne deve garantire i diritti (tra cui quello alla/sulla vita); per la seconda, “per l’uomo libero e razionale il massimo male, da evitarsi a qualunque costo, è il conflitto tra i consociati” (p. 70): a questo scopo gli individui alienano tutti i diritti a vantaggio della “volontà generale”, che viene così a disporre della vita stessa dei cittadini. La modernità ha cominciato a dichiarare certi beni, come la vita, indisponibili perché proprietà esclusiva di ogni singolo e ha finito “poi per identificare il proprietario-feudatario dei diritti soggettivi nella ‘società’, nella ‘collettività’, cioè effettualmente nel gruppo di potere che riesce a condizionare, non importa con che mezzi, i comportamenti dei più” (p. 73).
All’antropologia della modernità Cavalla, facendo appello ad Agostino, contrappone una visione dialogica dell’uomo come essere “costituito in un vincolo originario di socialità con tutti i suoi simili”: “In questa socialità originaria, in questa civitas primaria, trova fermissimamente fondamento il carattere sacro della vita, di ogni vita comunque e dovunque si svolga: nella prospettiva evocata, la vita appare come un tempo e un luogo dell’apparizione della verità” (p. 65).
Questi presupposti filosofici illuminano la parte successiva del saggio, dedicata all’esame del problema dell’eutanasia, nelle sue diverse forme, sia dal punto di vista etico, sia da quello giuridico. Anche Fuselli, nel suo saggio sulla produzione di ibridi citoplasmatici per mezzo di cellule somatiche umane e oociti animali, cerca di fondare razionalmente il limite delle ricerche sull’uomo, individuandolo nel carattere autoriflessivo della domanda su di esso: soggetto e oggetto dell’interrogazione coincidono. Ne consegue che “le attività ‘disumanizzanti’… sono tali non tanto perché rendono non-umano ciò su cui si esercitano, ma perché hanno una struttura tale che colui che le esercita è indotto a spogliarsi della propria umanità, considerandola come qualcosa di affatto esterno a sé, un ‘oggetto’, un ‘dato’ o un ‘prodotto’ del proprio operare” (103). Rifiutare il limite in nome della libertà della ricerca significa distruggere quell’umanità che della ricerca stessa è la condizione.
Mingardo, riflettendo sulla diagnosi genetica preimpianto nella procreazione medicalmente assistita, denuncia il pericolo che essa trasformi la procreazione in produzione, secondo la mentalità dell’homo faber e al servizio dei desideri del “cliente”: “A fronte di questo scenario, il pensiero ci rammenta che la soddisfazione illimitata e autoreferenziale dei desideri [...] rende altro da sé il soggetto desiderante, che consegna la sua totale realizzazione al verificarsi di un evento completamente esterno; in questo caso, a tale alienazione, si aggiunge quella cui viene sottoposto l’embrione, considerato come un ‘prodotto’ volto alla soddisfazione dei desideri, in violazione del divieto kantiano di strumentalizzazione dell’altro” (pp.128-9).
Moro, discutendo del consenso all’atto medico, contrappone all’antropologia volontaristica contemporanea, che fa della volontà del singolo la fonte indisponibile dei valori, un’antropologia dialogica, ispirata all’Aristotele dell’Etica Nicomachea: il paziente nel dialogo con il medico sarà aiutato non solo a deliberare e scegliere i mezzi e le terapie, ma anche a orientare la volontà verso ciò che nella situazione concreta è oggettivamente il fine, in dialettica relazione con ciò che soggettivamente gli appare tale.
Raggio discute su un presunto diritto a non nascere, nel caso in cui la vita prevedibile non sia qualitativamente “degna di essere vissuta”, e approfondisce la riflessione affrontando il concetto di “qualità della vita”, solitamente invocato dalla bioetica pro-choice in contrapposizione a quello di “sacralità” : non si può ignorare il valore del concetto di “qualità della vita”, inteso come “esortazione a non obliare, nel nome della ‘sacralità’, l’importanza di quegli elementi (intellettuali, spirituali, morali, emotivi) che stagliano la vita umana dal mero dato ‘organico’, salvaguardandone la specificità” (p. 166); esso però “si tinge di sfumature ben diverse” quando è assunto “a vero e proprio discrimen della dignità della vita stessa” (ivi), “linea di confine al di sotto della quale la tutela della vita non è più indiscutibile né assicurata” (167). Sono molte le difficoltà che da questo slittamento semantico derivano: chi accerta se una vita “meriti di essere vissuta”o no? Una vita “degna” si identifica con una “vita normale”? Come è compatibile quest’accezione di “vita degna” con l’attuale sensibilità verso il disabile?
Sommaggio passa in rassegna tre modi in cui la genetica vede l’umano: come oggetto da scomporre, come progetto da costruire – secondo le esigenze dello Stato o del mercato – e come principio, vale a dire come un tutto non esauribile dai nostri atti conoscitivi e non disponibile alle nostre manipolazioni.
La Zanuso propone una riflessione sull’incontro con l’altro attraverso il dialogo, che, se autentico, presuppone la differenza di due soggettività consapevoli di sé e al contempo “un certo qual che di comune che consente di comprendersi nel rispetto delle differenze” (p. 194). Il caso concreto a cui applica queste categorie è quello dell’infibulazione. La questione è se questa pratica possa meglio essere combattuta, anche sotto il profilo giuridico, appellandosi ai diritti umani e astraendo dalle identità culturali, o riconoscendo queste e ricercando forme simboliche di espressione della propria differenza e appartenenza – soluzione, quest’ultima, verso cui l’autrice propende.
Infine, Zini affronta il problema della fine della vita, cruciale per la normativa riguardante la donazione degli organi. Facendo leva sul concetto di “dono”, conclude che mentre la “donazione inter vivos [...] costituisce un’azione morale doverosa e da promuovere perché rinsalda il legame sociale”, quella “da cadavere” trascura il fatto che “il soggetto rimane persona fino alla sua fine naturale, al di là delle condizioni di morente”, di cui “poco si conosce dal punto di vista scientifico”: il “principio di precauzione” dovrebbe agire in senso restrittivo in questo campo. Infatti, “il diritto alla salute di alcuni [...] non supera il dovere di tutelare la salute di coloro che quanto meno non dichiarano esplicitamente di assumere il rischio di un sacrificio personale nel momento più decisivo della loro vita” (p. 231).
Qualche dubbio suscitato da questo libro dipende dalla sua epistemologia che cerca il senso della scienza più nel potere che nella verità.
Ora, se le proposizioni della scienza sono ipotesi, non tutte sono convenzioni – né vere, né false, ma utili.
E se esse sono scoperte grazie all’influenza di una filosofia, non per questo sono prive di validità oggettiva.
Dubbia è anche l’immagine di una scienza che, prometeicamente incurante di ogni limite, non avrebbe altra legge che la crescita della propria potenza. Sembra più fruttuoso riallacciarsi alla visione classica della techne come virtù dianoetica – fioritura dell’essere umano.
La scienza non cresce senza virtù, senza un ethos: se gli intrecci tra scienza, guerra e industria pervertono spesso queste virtù, ciò non avviene senza lotte all’interno della comunità scientifica e senza costi per quella ricerca di verità che le dà senso.
La libertà della scienza è anche liberazione di essa dai condizionamenti che la deviano dai propri scopi costituitivi.
Lo scienziato, come ogni uomo, può trovarsi di fronte a scelte tragiche, quando la ricerca della verità – che è bene – confligge con valori, come la tutela della vita umana.
È necessario essere consapevoli della natura della scelta tragica: per qualunque bene si opti, è inevitabile fare anche il male. La Zanuso afferma che in questi casi il diritto deve difendere “il più debole e silente”. Ma che cosa deve fare lo scienziato che – ad esempio nella ricerca sulle cellule staminali – si trova di fronte a due esseri deboli e silenti: la vita umana nascente, da un lato, e le generazioni future, che godranno dei frutti della ricerca, dall’altro?

Indice

Francesca Zanuso, L'indisponibile filo delle Parche. Argomentazione e decisione nel dibattito biogiuridico
Francesco Cavalla, Diritto alla vita, diritto sulla vita. Alle origini delle discussioni sull'eutanasia
Stefano Fuselli, La lanterna di Diogene: alla ricerca dell'uomo negli esperimenti di ibridazione
Letizia Mingardo, Normativa sulla procreazione medicalmente assistita e logica del desiderio: il caso della diagnosi genetica preimpianto
Paolo Moro, Dignità umana e consenso all'atto medico. I diritti fondamentali del paziente e il problema della volontà
Federico Reggio, La vita come danno. Alcune note in margine ad una recente sentenza in tema di "diritti a non nascere"
Paolo Sommaggio, Una filosofia per la genetica. Due forme di intervento: somatica e germinale. Tre approcci all'umano: materiale, eugenico, metafisico
Francesca Zanuso, Incontrare l'altro nel dialogo, oltre la tolleranza: infibulazione rituale e tutela dei diritti umani
Francesco Zini, La donazione degli organi come problema biogiuridico: il dono della vita come dono alla vita.


L'autrice

Francesca Zanuso è professore ordinario di Filosofia del Diritto nell'Università degli Studi di Verona. Ha pubblicato Utopia e utilità. Saggio sul pensiero filosofico-giuridico di Jeremy Bentham (CEDAM, Padova 1989), A ciascuno il suo. Da Immanuel Kant a Norval Morris: oltre la visione moderna della retribuzione (CEDAM, Padova 2000) e curato con S. Fuselli il volume collettaneo Ripensare la pena. Teorie e problemi della riflessione moderna (CEDAM, Padova 2004). Da alcuni anni si occupa di tematiche biogiuridiche, alle quali ha dedicato, tra l’altro, Neminem laedere. Verità e persuasione nel dibattito biogiuridico (CEDAM, Padova 2005), Laicità e laicismo nell'argomentazione biogiuridica, in F. CAVALLA, a cura di, Retorica Processo Verità (FrancoAngeli, Milano 2007) e Socrate vs. Prometeo: per un concetto laico della dignità del vivere e del morire, in G. L. CETTO, a cura di, La dignità oltre la cura. Dalla palliazione dei sintomi alla dignità della persona (FrancoAngeli, Milano 2009).

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