giovedì 8 aprile 2010

Botturi, Francesco, La generazione del bene. Gratuità ed esperienza morale.

Vita & Pensiero, Milano, 2009, pp. 396, € 25,00, ISBN 9788834319048

Recensione di Antonio Allegra – 08/04/2010

Filosofia morale, Filosofia teoretica (fenomenologia, ermeneutica)

Il libro di Francesco Botturi è un contributo importante alla discussione etica contemporanea, ma è anche un ambizioso tentativo di una complessiva visione antropologica. Questo strategico legame tra antropologia e morale discende forse soprattutto da un’opzione antiformalista: l’impronunciabilità contemporanea dei termini dell’antropologia tende a comportare, in effetti, il rifugio nell’astrattezza, particolarmente esiziale per il discorso morale. Si tratta, al contrario, di recuperare un coraggioso ponte tra la dimensione antropologica e quella morale, rispetto ad una scissione che rimonta alle fonti della modernità. Proprio una visione integrale e non riduttiva dell’umano e del morale in esso mi sembra l’intenzione fondamentale dell’autore, di contro ai restringimenti del momento etico a dimensioni vuoi consequenzialiste vuoi deontologiche, solo per menzionare due tra le grandi alternative sul campo. Il discorso di Botturi tende, di conseguenza, ad articolarsi in maniera estremamente ricca. Non a caso, in modo non scontato, si parte dalla rivendicazione della ricchezza non formalistica dello stesso giudizio, prima ancora dell’apertura tematica più direttamente antropologica offerta dalle analisi condotte su ambiti quali desiderio, libertà, riconoscimento. Per così dire l’intreccio di pathos, logos, ethos (cfr. p. 210) è una delle chiavi propriamente teoretiche del libro.
La dimensione antropologica è strategicamente premessa alla elaborazione morale. Vediamone le articolazioni seguendo la scansione tematica del volume.
1. Come si accennava, il giudizio va colto nella sua ricchezza non riducibile alla dimensione procedurale. Esso, per Botturi, dipende dalla possibilità di fare esperienza in senso proprio, non come mero accumulo di eventi: l’esperienza e la ratio della stessa sono fattori intrinsecamente collegati. Il vissuto significativo ed unificato è pensato all’interno della soggettività, senza che ciò implichi una disponibilità totale dei contenuti del vissuto stesso. Il postulato di tale pur imperfetta adeguazione è il rapporto originario di ragione e realtà (p. 67: si tratta di una consonanza ontologica o trascendentale). Pensiero ed esperienza condividono le fondamentali premesse dell’unità del senso e dell’identità del soggetto; ciò implica la possibilità di una riconciliazione antropologica. Ma tali premesse di senso non valgono in senso ontico e “totale” bensì ontologico e “totalizzante”. L’esperienza umana è compenetrata dal logos, ma senza che venga negata la cifra antropologica della limitatezza entitativa (p. 41). Tali primi risultati vengono corroborati da un confronto con l’ermeneutica, all’insegna della coappartenenza di mente e vero ovvero della connessione di spirito e mondo (che appare necessaria anche da un punto di vista schiettamente epistemologico).
La trascendentalità del desiderio è una seconda e significativa tappa. Botturi conduce qui un confronto con la tecnica, la quale rende plastica la natura in vista del progetto: in questo senso c’è empatia nei confronti della tecnica come espressione determinata del desiderio assoluto. Questa è un’indicazione decisiva per lo statuto appunto del desiderio: esso funziona nella sproporzione, simile a quella del giudizio, tra i desiderati e il Desiderare. D’altra parte, l’assoluto o trascendenza pura resterebbero vuoti (p. 99): ad avviso dell’autore non si aspira al Bene come tale, se non altro perché non lo si saprebbe rappresentare, ma alla progressiva conciliazione o totalizzazione tra specificazioni e condizioni dell’esistenza e l’illimitato (p. 100). Come già intravisto in relazione al giudizio, vi è dunque un continuo rimando tra “categoria” e “trascendenza”; confermato d’altra parte dal carattere “eccentrico” del desiderio: che, anche spinozianamente, non è rimedio ad una mancanza empirica ma affermazione dell’intero dell’esistenza. Esso è dunque di principio insoddisfacibile entro l’oggettività dell’esistenza, esattamente come il giudizio resta provvisorio.
Un primo risultato: occorre resistere alla tendenza a risolvere il desiderio o il giudizio (o il soggetto) entro le loro forme o maschere parziali (pp. 108, 110). Ciò può aprirsi, in ultima analisi, ad una fondazione trascendentale forte: bisogna però prendere posizione sulla natura del desiderio, sulla sua non equabilità al semplice bisogno. L’infinitezza del desiderio esprime la sua verità oppure va ridotta nei termini dell’allucinazione ideologica? Occorre, per così dire, prendere posizione sul ruolo dell’alienazione, sulla sua insuperabilità o meno (pp. 115-116). È chiaro che qui vi è un’opzione teoretica di fondo, riassumibile, forse in maniera troppo schematica ma chiara, nell’alternativa tra naturalismo e trascendentalismo.
A questo punto del percorso, giudizio e desiderio sono, per così dire, speculari. Botturi muove dalla crucialità di entrambi, nel senso della possibilità ontologica del giudizio come originaria dell’epistemologia; e della radice anch’essa ontologica, non empirica, del desiderio, dunque la sua ulteriorità rispetto al soddisfacimento.
Un secondo blocco significativo si apre nell’analisi della libertà, grazie ad un confronto con la riflessione moderna (posthobbesiana) sul tema, sia nel senso dell’analisi, altamente problematica in quest’ambito, della possibilità del libero arbitrio, sia in quello della problematizzazione del presupposto individualistico (p. 156). Ancora una volta viene compiuta una mossa ontologica in favore della radicalità della libertà quale causa sui, della sua singolarità (interessante qui una certa tensione individuata nella classica posizione di Leibniz, p. 128). Dunque, per l’essenza della libertà l’automotivazione è più fondamentale della vera e propria decisione rispetto alla pluralità di opzioni offerte (p. 141). Antropologicamente il fatto della libertà è reso possibile proprio dalla disequazione, dal trascendimento che il soggetto compie rispetto al suo contesto (p. 139), il che rende possibile considerare il limite inevitabilmente presente al libero arbitrio come occasione ontologica piuttosto che come mero ostacolo (il che non significa che non lo sia, ma ne esprime una valenza più profonda, p. 146).
Assai importanti mi sembrano anche le considerazioni rivolte alla soggettività, che si collocano in implicita ma piuttosto chiara contraddizione con molti temi diffusi nella contemporaneità. Per Botturi il riconoscimento non è costitutivo della soggettività ma del suo, per così dire, esercizio storico; ossia non dell’essere del soggetto bensì del suo esistere quale persona. Ciò non sminuisce certo la sua rilevanza: basti osservare che la vera e propria generazione umana stessa va ricondotta al riconoscimento del figlio e non alla sua, pur premessa, nascita biologica (pp. 173 e 208). E tuttavia la soggettività, ancora una volta, non è pienamente risolvibile nella dimensione relazionale coinvolta in essa (p. 170). L’identità è sia il dato originario, necessariamente premesso, che il processo che lo porta alla luce (pp. 208 e 233). L’esperienza del pudore (inteso ovviamente con maggiore profondità rispetto al senso riduttivo standard) manifesta questo iato tra lo svelamento possibile e la vera e propria alterità, il residuo intimo del sé (p. 234). Si tratta in ultima analisi di distinguere tra il soggetto e la sua attuazione: grazie a ciò si evita la paradossale alternativa, che come un pendolo caratterizza la modernità, tra la divinizzazione del soggetto (dovuta all’assolutizzazione dell’Io) e la sua dissoluzione empirica (legata alla sua riduzione ai fenomeni).
Infine anche corpo (ed affetti) sono dimensioni a loro volta mai pienamente trasparenti e narrativizzabili (p. 204). Occorre però rivendicare il tentativo di fare esperienza della corporeità, di darne conto, in contrasto con l’andamento moderno e postmoderno dal passionale al sentimentale all’emozionale, che fa infine dell’affettività un residuo incomprensibile (p. 212). Al contrario, un vero rapporto tra ragione e passione implica una certa comunanza “logica” tra esse (p. 216). Allo stesso modo anche la spontaneità ha valore nella dimensione del lavoro compiuto su di essa, come il logos agisce sull’irrazionale (p. 224); anche l’amore è ancora una volta in certo modo un’operazione, interminabile ed incompiuta, del giudizio (p. 233): esso sopporta la non reciprocità, e in questo senso non appartiene essenzialmente alla sfera del sentimento (p. 236). Qui mi pare che Botturi mostri un aspetto importante della sua riflessione. Non si tratta solo dell’operazione attesa: mostrare le radici antropologiche della moralità o del giudizio; ma di compiere anche l’operazione inversa, che sola può spiegare teoreticamente la dimensione ontologica: ovvero mostrare la parziale permeabilità del lato corporeo-affettivo, del lato “pesantemente” antropologico, da parte del logos. Si tratta a ben vedere di un obiettivo straordinariamente arduo all’interno della linea fondamentale del pensiero moderno e contemporaneo.
Lasciando momentaneamente da parte questo aspetto, che subito però ritroveremo nella sua crucialità, resta confermato che libertà, riconoscimento, soggettività, corporeità, sono in rapporto (ossia: non sono estranee, né sono congruenti) con le forme variabili della loro esperienza. La dialettica tra oggettivazione ed inoggettivabile si conferma il filo conduttore teoretico dell’antropologia di Botturi.
2. Compiuto questo percorso la seconda parte del libro percorre il sentiero di un naturalismo etico non oggettivistico, in cui tutto si gioca sul senso da dare a natura.
Dal punto di vista della teoria morale, se l’azione è essenzialmente rivelazione del sé, come viene osservato sulla scorta di Hannah Arendt, l’etica è lo spazio della realizzazione del sé, della propria vita buona: l’azione è ciò che qualifica l’ethos (p. 255). Detto diversamente, vi è un nesso tra azione e totalità soggettiva: l’azione è un “fattore” di totalizzazione del senso (p. 258). Ogni azione in questo senso ha uno spessore morale (p. 259). L’alternativa (dominante) a questa prospettiva classica, è costituita dai vari modi delle etiche metasoggettive, incentrate sull’adesione al cosmo o natura, allo stato, al calcolo delle conseguenze, alla forma categorica, etc. (p. 274). Ora, la riproposta di un’etica della vita buona si incentra sulla visione antropologica sopra delineata. Solo se si afferma la visione disgiunta di affettività e logicità (l’estraneazione del cognitivo dallo spazio di base del legame antropologico, che come abbiamo visto è l’obiettivo critico di Botturi) l’impegno etico-politico può consistere meramente nella costruzione di uno spazio agibile per soggetti ontologicamente asociali e alogici (p. 278): in questo modo diviene impossibile una vera formazione umanizzante. A ciò viene contrapposta la visione teleologica di un Tommaso (cfr. ad es. p. 297), ove il bene è l’affermazione (autentica) di sé.
In qualche modo di tratta di proporre, come si diceva, un’etica naturalistica: ma il concetto di natura non va inteso in senso statico; esso può essere solo metastorico, non astorico. La physis è sviluppo, ovvero natura come principio genetico-dinamico (pp. 310, 328). Al tempo stesso vale anche il richiamo ad una permanenza nella propria natura per rendere ragione del mutamento che avviene a uno stesso; come il soggetto che, come abbiamo visto, non si identifica con le sue operazioni, che pure lo rivelano (pp. 311-312). La “natura” così intesa non si presta ad una oggettivazione, non è esauribile a sua volta. La prospettiva qui in gioco mi pare quella di una entelechia inesauribile, che si accompagna ad una forte naturalizzazione del bene nel senso della sua teleologicità, come bene dell’essere che si afferma in quanto organismo (p. 314): permanenza ed attività sono la vita, dunque essere e bene. Dopo di che, accanto alla natura, in una delle più classiche dicotomie dell’Occidente sta la cultura: anche in essa è in gioco l’universale umano espresso nelle oggettivazioni della verità o dell’essere; trascurare questo lato produce necessariamente una versione relativistica dell’ermeneutica (p. 345).
Le osservazioni sulla legge morale in senso più stretto sono, infine, molto congruenti con le prospettive complessive finora evidenziate. L’interazione tra cognitivo ed appetitivo viene, così, ritrovata in classici come Aristotele o Tommaso (p. 358), che si rivelano ispiratori fondamentali di Botturi, in maniera tanto più significativa in quanto non si tratta propriamente di un libro di esegesi nei confronti di questi autori. Al tempo stesso emerge un contrasto, non del tutto sorprendente ma neanche scontato, con l’oggettivismo naturalistico di Philippa Foot (p. 368): la natura deve prima venire osservata alla luce della virtù propriamente umana, dunque dalla ragione, che è poi la natura umana stessa (p. 380: qui vengono richiamati Rhonheimer o Finance). Come già si diceva, occorre una concezione dinamica e non statica di natura. Per dirlo in una formula, la ragione trasforma il naturale in assiologico (p. 386); solo così si dà legge naturale. In questo senso la ragione individua i beni che attivano la soggettività.
3. In sede di bilancio desidero partire proprio da quest’ultimo punto, particolarmente importante perché la questione di un’etica naturalistica è tanto rilevante quanto controversa. Anche senza intraprendere, come non pochi aristotelici o neotomisti hanno fatto, un percorso critico nei confronti della cosiddetta legge di Hume e delle sue conseguenze, probabilmente alcune delle critiche abituali alla prospettiva di un’etica naturalistica possono venire abolite se si ammette l’accezione di natura che propone Botturi. Un senso non ingenuo di natura è opportuno: qui non si tratta affatto di un mero prendere atto del “naturale”, se non altro perché dal punto di vista dell’accertamento empirico è “naturale” anche il patologico (detto meglio: l’accertamento puramente empirico non è in grado, in quanto tale, di discriminare tra patologia e normalità), bensì di determinare il naturale nel senso finalistico e della fioritura che esso consente; operazione che non può non partire da una serie di premesse teoretiche assolutamente cruciali. In questa luce, tuttavia, si può anche affermare che il problema è solo spostato: solo se si ammette in generale una nozione di natura e la sua normatività sarà possibile riconoscerne la valenza ai fini del discorso morale. In una parola, tanto la prospettiva di un’etica naturalistica che la sua negazione partono da premesse teoretiche radicali ed incommensurabili; ciò non vuol dire che non sia possibile mostrare la plausibilità del naturalismo raffinato di fronte alle critiche più semplicistiche.
Una maniera diversa di esprimere la stessa intuizione è: riconoscere un ordine latamente teleologico è operazione schiettamente teoretica che rende possibile la vita morale. L’intreccio di logos ed ethos si rivela da questo punto di vista una manovra straordinariamente fruttuosa in termini di possibilità di indicazioni.
In questa stessa prospettiva, ma, mi pare, ad un livello ancora ulteriore di profondità, si colloca l’intravista possibilità di una fondazione metafisica dell’etica a partire dal bisogno d’essere (l’amore, principio d’azione, è coessenziale all’essere). L’essere, nella prospettiva latamente aristotelica di Botturi, come abbiamo già visto implica sempre fine, compimento proprio, dunque bene. La logica del desiderio va valorizzata in ciò che contiene in quanto tensione al bene-beatitudine, ovvero l’autentico amore di sé.
E infine, e ancora più in generale, emerge la costante e puntuale, pur se non sempre esplicita, insistenza sulla semplice irriducibilità dell’uomo alle sue operazioni attuali; così come irriducibilità del Bene ai beni. E tuttavia, Botturi crede che si possa parlare, sotto determinate condizioni, di un desiderio colmato pur se non esaurito, analogamente a come l’amore per qualcuno persiste pur nel suo compimento. Il punto è doppiamente rilevante: da un lato, il desiderio può proporsi la propria compiutezza di contro a Schwärmerein neoromantiche; dall’altro, se il desiderio definisce l’uomo nella sua inoggettivabilità, sembrerebbe aporetico porne un vero e proprio esaurimento.
In conclusione, il volume esprime, con meditato approfondimento e copiosa articolazione, un momento importante della riflessione etica del suo autore e più in generale all’interno del panorama del pensiero italiano contemporaneo,. Le posizioni di Botturi assumono un ruolo di punto di riferimento per coloro che approvano, in linea preliminare, l’esigenza di una fondazione antropologica dell’etica. Tale fondazione sembra indispensabile al sottoscritto, per numerosi e convergenti motivi che non è possibile riassumere in questa occasione; in ogni caso la lettura del libro del filosofo milanese consente di apprezzare a pieno la fruttuosità e le buone ragioni di questo approccio.

Indice

Prefazione
PARTE PRIMA
Pensiero e unità dell’esperienza. Introduzione
Giudizio ed esperienza
Verità ermeneutica
Desiderio trascendentale
L’organismo dialettico della libertà
Identità e riconoscimento
Il corpo degli affetti
PARTE SECONDA
La prospettiva della morale
Bene e appetizione in Tommaso d’Aquino
Natura e cultura
Legge morale fondamentale
Indice dei nomi


L'autrice

Francesco Botturi è ordinario di Filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano; si è occupato di antropologia e di filosofia della storia. Ha scritto tra l’altro: Struttura e soggettività. Saggio su Bachelard e Althusser, Milano 1976; Desiderio e verità. Per un’antropologia cristiana nell’epoca della secolarizzazione, Milano 1986; Per una filosofia dell’esperienza storica, Milano 1987; La sapienza della storia. G.B. Vico e la filosofia pratica, Milano 1991.

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