lunedì 5 aprile 2010

Sisto, Davide, Lo specchio e il talismano. Schelling e la malinconia della natura.

Milano, Edizioni AlboVersorio, 2009, pp. 216, € 20,00, ISBN 9788889130735.

Recensione di Tiziana Gabrielli - 05/04/2010

Storia della filosofia (idealismo tedesco), Filosofia teoretica (ontologia, metafisica), Filosofia morale (filosofia della religione, antropologia filosofica)

Giampiero Moretti, nella prefazione al volume di Davide Sisto, rileva che la cifra elettiva del contributo del giovane studioso vada individuata nel “gioco serissimo” tra lucidità, coraggio e ossessione che attraversa e orienta l’intero percorso di ricerca. Sisto, infatti, propone, per la prima volta in lingua italiana, un’accurata e stimolante riflessione intorno ad uno dei temi centrali, se non addirittura il tema, del pensiero di Schelling: la malinconia, intesa come “chiave per accedere alle profondità dell’anima come legame tra natura e spirito” (p. 15). Moretti, inoltre, osserva che “la malinconia si presenta non come una Stimmung soggettiva (...), ma come lo spazio-tempo ontologico in cui il soggetto umano si rovescia nella natura, e, in tal modo, in Dio” (p. 16).
La ricerca di Sisto ha il merito di ripensare le declinazioni del rapporto tra malinconia e natura nelle opere schellinghiane del cosiddetto “periodo intermedio”: dalle Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit (1809), alle due versioni delle Stuttgarter Privatvorlesungen (1810), al dialogo Clara oder über den Zusammenhang der Natur mit der Geisterwelt (1810-11), all’Über das Wesen deutscher Wissenschaft (1811) e alle tre incompiute edizioni dei Weltalter (1811-1815), compresa l’appendice sulle Gottheiten von Samothrake (1815).
Consapevole dell’attualità del tema in questione, Sisto non elude né trascura la pregnanza del concetto di malinconia in campo mitologico, artistico e psicopatologico, in modo da far emergere “l’importanza inoppugnabile che la notte, l’inconscio e il ctonico assumono nel pensiero di Schelling, senza per questo condurre il filosofo tedesco verso gli sconvenienti lidi di un cieco e visionario irrazionalismo” (p. 24).
Nel saggio viene riservata una particolare attenzione al dialogo incompiuto Clara, la cui rilevanza speculativa è stata, a torto e in modo ingiustificato, spesso sottovalutata o addirittura ignorata dalla Schelling-Forschung.
Il passaggio dal “manifesto e dal tangibile all’iconico e all’allegorico”, topos distintivo della transizione dall’Identitätssystem alla filosofia intermedia di Schelling, consente di cogliere, secondo Sisto, il senso del “legame ontologico tra natura e malinconia” (p. 39). Con il trasferimento di Schelling a Monaco di Baviera, infatti, le placide atmosfere dell’epoca jenese, nella quale il panteismo naturalistico goethiano culmina nella Ineinsbildung creativa del nisus formativus, e nella Einbildung “dell’idealità infinita del reale” (p. 37), lasciano il posto ad una Weltsicht tragica che reinterpreta la natura nel quadro di un’ermeneutica cristiana del mito, tipica della Weltanschauung romantica.
Uno dei limiti della Forschung schellinghiana, secondo Sisto, è quello di non essere riuscita, finora, a riconoscere “il significato cosmoteandrico che permea la dottrina del peccato originale negli scritti intermedi”, e quindi che la teoria del Sündefall non va interpretata soltanto come “porta d’ingresso” alla Geschichtsphilosophie, ma anche e soprattutto, per dirla con Fuhrmans, come “chiave e accesso alle potenze demoniache della terra” (p. 50). Se non si accoglie questa linea ermeneutica, avverte Sisto, “si rischia di fraintendere le riflessioni schellinghiane sulla natura e di spezzare il vincolo simbolico che lega il reale all’ideale”, cadendo quindi nel pregiudizio storiografico che tende a “incastonare schematicamente il sistema speculativo di Schelling tra il soggettivismo fichtiano e il razionalismo metafisico hegeliano” (ibidem).
Fin dagli scritti giovanili e nella prima Naturphilosophie l’unità di natura e spirito non si configura né come una “connessione estrinseca” (Zusammenhang), né come una pura “identità” (Identität), bensì come un “legame” (Band), un’unità organica, vivente e reale, tra (zwischen) natura e spirito (cfr. p. 62). Se nei primi scritti di Schelling il Band mette in luce la “funzione mediatrice dell’Anima del mondo, così come veniva tratteggiata dal Timeo platonico” (pp. 62-63), nelle opere intermedie esso, rappresentando un’unità che “non teme la contraddizione, ma addirittura la produce”, costituisce piuttosto - sottolinea Frank - una sorta di “‘identità reduplicata’ (...) che nella sua simbolica invisibilità visibile lega (in)dissolubilmente natura e spirito” (p. 64). L’unico medium tra i due principi opposti è l’amore, come emerge dalla Freiheitsschrift e dalle Stuttgarter Privatvorlesungen (ibidem).
Nello studio di Sisto la dottrina simbolica del Band è propedeutica all’indagine sul ruolo della morte e del peccato (Sünde) nell’escatologia schellinghiana, fondata sulla nozione ossimorica di “corpo spirituale” (geistlicher Leib), fulcro teoretico anche nelle tarde lezioni della Philosophie der Offenbarung, e “sulla teoria - apparentemente inusuale - della Geisterwelt”. La riflessione sul significato della morte contribuisce poi a chiarire anche la “dialettica di Grund ed Existenz così come si sviluppa nella fase premondana di Dio” (p. 65).
In questo contesto Sisto rivendica, contro ogni “obnubilamento” del fenomeno tanatologico, di matrice razionalistica, l’”esemplarità” e il “valore pedagogico” (ibidem) della morte negli scritti intermedi di Schelling: “Ora, (...) ci ritroviamo ad analizzare l’altra parte della teoria tanatologico-escatologica, quella in cui la morte, da elemento disgregante, diviene il punto di massima libertà e vita per le creature di questo mondo” (p. 84). Ben si adatta, quindi, all’escatologia dello Schelling intermedio il principio romantico dell’”antropocosmomorfismo” (termine coniato da Gusdorf), perché, secondo Griffero, “conforme alla missione insieme ermeneutica e redentrice dell’uomo nei confronti della natura” (p. 86). “Forza spietata” (unbarmherzige Gewalt) è la morte, ma anche “trionfale”, perché “ci apre più profondamente gli occhi” - scrive Schelling a Georgii nel 1811 - “su quell’unità di naturale e divino”, che, dopo l’Incarnazione, risulta essere “il punto più alto dell’intero Cristianesimo” (ibidem).
Sulla scia di Novalis che, nei Fragmente und Studien 1799-1800, afferma: “La morte è – la vita +. Attraverso la morte si rafforza la vita” (p. 202, n. 203), anche Schelling, in Clara, intende la morte come “il passaggio positivo a uno stato spirituale”; “la liberazione della forma interiore della vita dalla forma esteriore che l’opprime”, per cui la volontà di Dio si compirà quando l’uomo disporrà di “un’unica vita indistruttibile”, nella quale “l’interiore avrà interamente penetrato l’esteriore e l’esteriore sarà completamente trasfigurato in interiore” (p. 89); e il fine della natura, a sua volta, si realizzerà pienamente, “nel momento in cui essa verrà completamente trasfigurata, di modo che, sopraggiunta l’armonia tra l’esterno e l’interno e attuatasi la subordinazione del fisico allo spirituale, il corpo finalmente assumerà la natura di un corpo spirituale e lo specchio tornerà a essere fulgido” (pp. 89-90).
Nella nozione schellinghiana di Geistleiblichkeit è palese l’influenza sia dell’escatologia paolina della Prima Lettera ai Corinzi, sia della tradizione mistico-teosofica di Böhme e Oetinger.
In Clara, infatti, il carattere palingenetico della morte, da un lato, viene “paragonato alla solubilità dei metalli negli acidi” e, dall’altro lato, “equiparato al perdurare del profumo dei fiori”, tanto che Clara si chiede quale sia ‘la spiritualità degli effluvii dei corpi profumati che durano per anni senza svanire’” (p. 95).
L’ascendenza teosofico-cabbalistica di Oetinger, in particolare, si manifesta con chiarezza nella versione inedita delle Stuttgarter Privatvorlesungen, in cui il fenomeno tanatologico viene definito con il concetto di “essentificazione” (Essentification), attraverso il famoso “Melissenexperiment”, ripreso nei Weltalter e nella tarda Philosophie der Offenbarung: “Il processo che ha luogo nella morte è simile a quello per cui nella natura si estrae da una pianta la sua essenza, per esempio dalla melissa lo spirito della melissa. La morte perciò non è separazione, ma essentificazione dei principi” (ibidem). Scindendo quindi l’essere dall’essenza, la morte rivela che lo scopo ultimo della creazione è, secondo Schelling, che “ogni cosa abbia una figura e riceva una forma corporea visibile” (p. 96), poiché il corpo, quando è penetrato dall’anima (Seele), “è la pienezza della perfezione” (ibidem).
La compenetrazione tra “l’elemento spirituale del fisico e quello fisico dello spirituale” è “il demonico” (das Dämonische), che indica la “condizione postmortale delle creature” (p. 97). Il demonico è la chiave per entrare nella Geisterwelt (Mondo degli Spiriti), armonicamente speculare alla Naturwelt (Mondo della Natura). La Geisterwelt è “la poesia di Dio”, mentre la natura ne è “l’arte plastica” e la storia umana, nel suo ruolo intermedio, “un dramma visibile” (p. 103). La connessione tra i “due” mondi è, nota Moretti nella prefazione alla traduzione italiana degli Aforismen (1806), “uno degli aspetti meno ‘frequentati’ del pensiero di Schelling” (p. 98). Tuttavia, dal momento che, nel sistema schellinghiano, spirito e anima non coincidono, la Geisterwelt o, meglio, la “vita dopo la morte” - si legge in una lezione del 1830 - “non è in alcun modo da considerarsi come la beata” (p. 108); ed anzi “si traduce in una bramosa Sehnsucht per la natura perduta” (ibidem).
Dopo aver preso in esame il rapporto tra natura e malinconia post peccatum (con opportuni richiami all’Antico Testamento, alla lettera paolina ai Romani, oltre che alla teosofia di Böhme, Oetinger e Saint-Martin), Sisto ripercorre “a ritroso” il cammino che dalla malinconia come “effetto storico” porta alla malinconia come “causa ontologica del peccato originale” (p. 123). Con Vetö si può affermare che la natura schellinghiana, in quanto “un invisibile-visibile”, è “il regno stesso dell’ambiguità” (p. 120), ambiguità che, nel rapporto tra malinconia della natura e peccato, si esplica in modo analogo alla dialettica circolare di causa-effetto che Benjamin, in Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916), applica “nel rapporto post-Abfall tra la tristezza e il silenzio degli esseri naturali” (p. 119). Per un verso, quindi, “la natura è malinconica perché è corrotta”, giacché, a causa di Adamo, “nella cui coscienza “talismanica” aveva rimesso tutte le sue speranze (...), ha smarrito la via della sua definitiva trasfigurazione in spirito (...), regredendo - storicamente - a uno stato anteriore di indigenza”. Per altro verso, però, “è la malinconia della natura che la rende corrotta”, poiché è lo stesso stato anteriore di indigenza e di chiusura in sé - stato che risale tanto all’unità indifferenziata premondana (Ungrund), quanto all’abisso (Grund) da cui originano le creature - , che “la espone - ontologicamente - al costante pericolo della corruzione e al tormento di un ininterrotto e involontario moto regressivo, verso un passato notturno e amorfo mai in toto superato” (p. 120).
La malinconia, come “la forza di gravità interiore dell’animo” (die innere Schwerkraft des Gemüts) (p. 137), è “la nostalgia (Sehnsucht) nella sua manifestazione più profonda” (p. 138). “La Schwermut, in quanto nostalgia (il Grund del Gemüt) che vince l’appetito (il Geist del Gemüt), facendo smarrire all’uomo la via del sentimento (la Seele del Gemüt), è, dunque, la ‘malattia dell’animo’ (...) kat’exochen, l’espressione abissale del Grund dello spirito umano, che sottomette il Geist e la Seele alle esigenze morbose del Gemüt” (pp. 138-139). Se il Geist è “la potenza personale e luminosa” attraverso cui l’uomo può innalzarsi alla Seele “quale massima trasfigurazione in Dio”, il Gemüt, invece, è “il principio oscuro dello spirito”, “l’elemento che impedisce allo spirito di dissociarsi dalla natura” (p. 136).
Lo Schelling intermedio scopre dunque nella malinconia il proprio “pharmakon” esistenziale, inteso nel senso ancipite di “rimedio che guarisce” e “veleno che intorpidisce”, come scrive Derrida a proposito del Fedro di Platone (cfr. pp. 181-182).
Nelle considerazioni finali Sisto ritorna su questa ambivalenza che costituisce, dalla Naturphilosophie alla tarda Philosophie der Mythologie, “il perno teoretico attorno a cui ruota ogni singolo settore della vita umana e naturale, come dimostra l’intreccio ontologico-concettuale tra l’animo, la malinconia e la notte, che si articola sullo sfondo di una concezione - per così dire - eonica della temporalità” (p. 182). Questo intreccio ci permette di comprendere il passaggio dalla “Notte primordiale”, in cui i due principi (bene e male, luce e oscurità) sono “compossibili e cooriginari” (ibidem), alla “Notte d’Oriente”, che “partorisce il giorno e completa il suo processo fecondante con la formazione della coscienza umana” (pp. 182-183), e infine alla “Notte d’Occidente”, in cui, come si legge nei Weltalter, la morte converge con la vita giunta al suo tramonto, e al contempo è, come in Clara, “il primo passo verso la nascita del giorno notturno venturo ed eterno (...), in cui giorno e notte raggiungeranno la loro realtà assoluta e il loro armonioso sodalizio in Dio” (p. 183).
Soltanto in taluni brevi momenti della sua vita - “il primo sonno, l’innamoramento, la notte di luna piena” - l’uomo “è in grado di cogliere quasi in maniera intuitiva il senso ultimo del Band divino (...); lo coglie ‘come un lampo d’eternità che squarcia le tenebre del mondo; nel momento stesso della sua realizzazione, però l’oscurità di nuovo la inghiotte’. E questo, in fondo, è il Leitmotiv (e il destino) della filosofia intermedia di Schelling” (p. 184).
La densità magmatica dell’argomentazione di Sisto, - del resto così evocativa e rivelatrice dei grovigli semantici e teoretici propri, a dire il vero, non soltanto dello Schelling intermedio e della tradizione speculativa a cui egli si richiama in una costante Auseinandersetzung -, meriterebbe tuttavia un respiro ermeneutico più ampio, incisivo e strutturato, tale da prospettare una feconda rivisitazione in chiave ontologica, antropologica e religiosa dei concetti di natura, arte e malinconia e delle loro interrelazioni nel quadro di un efficace ed inedito raccordo delle fasi cruciali del pensiero schellinghiano.

Indice

Elenco delle sigle usate
Ringraziamenti
Prefazione
Introduzione. Natura e peccato
I. La malinconia della natura come effetto storico del peccato originale
II. Verso la trasfigurazione. Morte e Geisterwelt
III. La malinconia della natura come causa ontologica del peccato originale
Conclusioni. Il farmaco e il giorno notturno


L'autore

Davide Sisto (Torino, 1978) è dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Verona e cultore della materia in Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato diversi articoli su Pareyson, Goethe e Schelling. Nel 2007 e nel 2008 è stato ospite della Schelling-Kommission a Monaco di Baviera.

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