martedì 1 giugno 2010

Li Vigni, Fiorinda, Protagora e l’arte della politica.

Napoli, La scuola di Pitagora, 2010, pp. 230, € 14, ISBN 978-88-89579-89-3

Recensione di Emanuele Antonelli — 01/06/2010

Storia della filosofia (antica), Filosofia Politica

Il saggio in esame, pubblicato in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presenta una dotta e dettagliata ricostruzione del contesto storico, politico e filosofico nel quale prese piede la riflessione del sofista Protagora.

Oltre ad una messe non indifferente di informazioni sulla vita e sulla figura storica di uno dei principali personaggi dell’Atene periclea, Li Vigni ci fornisce la possibilità di rivalutare criticamente il contributo di questo autore, ricreando il dibattito nel quale venne espresso e facendolo rivivere contro e a prescindere da tutta quella serie di semplificazioni sloganistiche a cui la tradizione manualistica e la vulgata filosofica ancora di recente lo condannano.

Il testo si struttura a partire dai due principali topoi protagorei, il mito genealogico, presentato da Platone nel dialogo eponimo e il celebre esordio dei Kataballontes [logoi].
Le note introduttive presentano secondo le linee essenziali le caratteristiche principali delle figure insieme alle quali Protagora partecipò a quel movimento che è stato chiamato “Illuminismo greco”, inaugurato dall’applicazione ai problemi sociali e culturali di un modello di spiegazione immanente, sviluppato in analogia con la scuola ippocratica (p. 17). Protagora ha proposto riflessioni di natura complessa e variegata, interessandosi della natura del linguaggio, dell’origine e dello statuto delle tecniche e ancora della religione e della divinità ma ha senz’altro concentrato la sua attenzione sul concetto di uguaglianza, fornendo vitalità alla discussione critica intorno al regime democratico.
Com’è ben noto, uno degli obiettivi principali di Platone era quello di distinguere per quanto fosse possibile, la figura di Socrate da quelle dei sofisti, senza dimenticare, come ci ricorda Li Vigni, che nel contesto storico in questione, lo stesso Platone non era immune da accuse e confusioni di questa sorta. La figura di Protagora viene quindi inserita in un confronto approfondito, con gli altri sofisti e con Socrate, attraverso un delicato lavoro ermeneutico, attento a valutare le intenzioni implicite delle fonti di riferimento, nel tentativo sempre affascinante e difficile di far emergere nel modo più neutro e rigoroso possibile il Protagora storico.
Senza scendere nei dettagli di questo lavoro, nel quale l’autrice richiama le voci di Platone e Aristotele, di Esiodo, Eschilo, Democrito e Lucrezio, di Gorgia, Callicle e Trasimaco e infine di Ippocrate, mi pare che il saggio proponga alcune tesi chiave su cui vale la pena soffermarci.
Platone, coinvolto in un lavoro analitico e polemico di grande respiro, sembra trovare in Protagora il più degno degli avversari: la figura del sofista è tracciata in due dialoghi, il Protagora e il Teeteto, nei quali Platone coinvolge l’antagonista in un confronto sull’insegnabilità della virtù e sulla natura della conoscenza. Il problema posto da Socrate, nello svolgimento del primo dei due dialoghi in questione, punta a mettere in questione la legittimità del regime democratico colpendolo nel cuore simbolico, ovvero attaccando il diritto di ognuno di prendere la parola nell’assemblea popolare. È a questa considerazione che Protagora risponde con la celebre narrazione, proposta al fine di giustificare il fondamento della democrazia, ovvero l’eguale diritto a partecipare alla vita politica della città, ed il proprio mestiere, vale a dire l’insegnamento — e l’insegnabilità — delle virtù politiche fondamentali; ed è a questo punto dell’agone che Platone attribuisce al sofista il celebre mito sulla genesi delle società umane, “presentato come difesa della pratica democratica ateniese” (p. 59). Un mito che narra della distratta distribuzione delle qualità da parte di Epimeteo e del furto esiziale del fratello Prometeo, del dono di quest’ultimo agli uomini e dell’intervento di Zeus.
“La città non potrebbe esistere — asserisce Zeus — se solo pochi possedessero pudore e giustizia, come avviene con le altre arti. Istituisci, dunque, a nome mio una legge per al quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore e giustizia (Protagora, 322d)” (p. 67). La convivenza tra gli uomini si basa dunque sul fatto che tutti posseggono pudore e giustizia. Ecco allora che Protagora, sulla scorta di questo mito, può giustificare, attraverso l’esemplificazione dei requisiti morali necessari alla convivenza democratica, l’isegoria (la radice essendo ὰγορεύω: parlare in assemblea, quindi l’eguale diritto ad esprimersi pubblicamente nelle sedi deputate).
Li Vigni dedica pagine interessanti al confronto con gli altri grandi miti genealogici della tradizione, da Esiodo a Eschilo, da Democrito a Lucrezio, ravvisando le differenze fondamentali e i tratti di continuità al fine di far risaltare la tesi principale del capitolo, ovvero una ricontestualizzazione propedeutica ad una ermeneutica rinnovata del lascito protagoreo.
In primo luogo, la sequenza dei doni dei titani, Epimeteo e Prometeo, prima e di Zeus dopo può essere interpretata secondo “l’idea di un mutamento che interviene a trasformare non solo i comportamenti degli uomini, ma anche, se così si può dire, la loro costitutione interiore” (p. 97). Dunque, in Protagora si dà l’idea di un processo di incivilimento che porta allo sviluppo di “una serie di caratteristiche morali che divengono per l’uomo una sorta di seconda natura”. (p. 97). Questo aspetto, ha ragione Li Vigni a sottolinearlo con insistenza, è fondamentale, ne consegue infatti l’ipotesi che la natura umana si trasformi e che le regole — dell’educazione così come del vivere comune — non siano semplicemnte un’imposizione tesa alla repressione di istinti asociali. La relazione che Protagora istituisce fra nomos e physis è dunque completamente diversa da quella di altri sofisti come Trasimaco. In questo mito emergono così implicazioni fortemente legittimanti dei fondamenti della democrazia, oltre che a sostengo della pratica dell’insegnamento della virtù.
L’aspetto forse più interessante del mito è però un altro, le cui conseguenze sono se possibili ancora più significative. Non va trascurata, infatti, “l’idea che le società umane siano capaci di trovare in se stesse le risorse ordinatrici e donatrici di senso finalizzate alla loro sopravvivenza; una tesi che si contrappone alle ipotesi secondo le quali o si ricavano tali risorse da una istanza esterna, oppure si finisce preda delle aspettative eudemonistiche dei cittadini” (p. 112).
Come nota bene Li Vigni, una tesi di questo genere significa non solo affermare che gli uomini possono giungere a darsi le regole necessarie alla convivenza, senza farle derivare da norme trascendenti di carattere religioso o da un sistema di valori assoluto, ma anche e soprattutto, significa che il valore che si attribuisce a tali regole sta nelle regole stesse. É proprio questo tentativo di laico immanentismo a rappresentare la più grande attualità del pensiero di Protagora, notazione a cui Li Vigni, dedica un breve riferimento, richiamando la celebre polemica che ha opposto di recente il giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde e Jürgen Habermas.
Proprio in questo contesto argomentativo emerge la tesi forse più importante, ovvero la possibilità di ragionare sui limiti del relativismo protagoreo. Il dono di Zeus, vale a dire l’insieme delle disposizioni morali necessarie alla vita in comune, assume una valenza simbolica fondamentale, fornendo una terza via alternativa al positivismo giuridico, di cui autori come Neschke-Hentschke avevano fatto la bandiera identitaria di Protagora, e al giusnaturalismo. In questo modo, pur rifiutando l’ipotesi di una legge preesistente alla legge degli uomini, e ovviamente quella tipicamente arcaica dell’origine divina attribuita alle leggi non scritte, Protagora non cade neccessariamente nel più bieco relativismo etico. Aidos e dike assumono un significato potenzialmente universalistico. Le leggi positive e i costumi delle singole comunità “possono sì variare indefinitamente, ma si stagliano comunque su uno sfondo comune, che è la garanzia di un ordine sociale che sappia badare alla sopravvivenza dei suoi membri e tenere sotto controllo in conflitto” (p. 120).
La seconda implicazione di questa forma di universalismo consiste nel fornire un contraltare teorico e mitico al corporativismo della polis, delegittimando le subordinazioni a cui era sottoposta l’isonomia. Gli uomini non nascono uguali e a ben vedere crescendo, e imparando a disporre delle tecniche, non riducono le differenze, ma creano una sfera — quella delle relazioni politiche — in cui divengono tali.
“L’elemento egualitario del mito di Protagora non va dunque inteso come affermazione di un pari diritto originariamente appartenente a tutti gli uomini, ma come riconoscimento della necessità di una uguaglianza di principio, realizzata grazie al pudore e alla giustizia, perché possano aver luogo fra gli uomini dei rapporti di carattere civile” (p. 125).
Ancora e sempre a partire dal mito, Li Vigni fa notare l’importanza di una dottrina che riesce a tenere insieme l’ipotesi di un individuo tendenzialmente egoistico e potenzialmente aggressivo con quella di una trasformazione di questa sua natura: è qui che si gioca la possibilità della civiltà. Protagora, al contrario di Platone, sostiene quindi la tesi sempre e ancora attuale anche se negletta, per cui l’educazione è il perno del sistema democratico. Non solo la paideia ma anche i nomoi e le istituzioni e soprattutto — e qui la modernità di Protagora tocca vette francamente emozionanti — la pena, sono vettori di educazione alla convivenza democratica.
Il secondo topos protagoreo è la riflessione epistemologica e gnoseologica formulata nel principio dell’homo mensura, a cui Li Vigni dedica l’ultimo capitolo. Ripercorrendo le note critiche rivolte a Protagora da Socrate, Li Vigni arriva a ricontestualizzare la riflessione protagorea con dettagliati riferimenti alla tradizione ippocratica, ampiamente diffusa nell’Atene periclea. Li Vigni, rifacendosi a Vegetti, ricorda le diverse analogie tra sofistica e medicina, due diverse reazioni alla sfida lanciata dall’eleatismo. La seconda tesi fondamentale di questo saggio viene quindi enunciata in questo contesto.
“La dottrina di Protagora e la riflessione in ambito medico sembrano in effetti accomunate da una analoga reazione antimetafisica e dal richiamo al ruolo della percezione sensibile; inoltre esse appaiono condividere la ricerca di un criterio di di correttezza formale implicante l’idea di una materia discorsivamente sottoposta a criteri razionali di verifica; infine mostrano di convergere su una forma di relativismo, indicata dal concetto di kairos, che punta a una conoscenza di carattere congetturale, capace di cogliere la specificità del caso singolo, pur senza rifiutare la possibilità di generalizzazione e senza con ciò sfociare in una resa scettica” (p. 181). In questo senso, il termine kairos, presentato come sinonimo, almeno occasionale, del termine metro getta luce anche sul principio dell’homo mensura che viene a delinearsi “come l’espressione di un relativismo fondato sull’accettazione dei limiti dell’esperienza” (p. 194). La grande rivoluzione di Protagora è ritenere che la norma, il principio, il criterio, la misura, non siano imposte all’uomo — ovvero che non vi sia un principio d’ordine al quale l’uomo e la società devono adeguarsi — facendo invece dell’individuo il metron di tutte le cose, di tutti i fenomeni.
Come fa notare Li Vigni, Protagora è il teorico di una città che armonicamente educa i suoi cittadini, rappresenta la faccia buona della democrazia, la sua configurazione ideologicamente più riuscita, ma ne presenta solo l’aspetto più perbenista. È colui che, negando ogni fondamento ultraterreno per la convivenza tra gli uomini, si affida unicamente alla finitezza delle loro forze intellettuali e morali.
Gli aspetti interessanti del saggio di Li Vigni sono molteplici e, come detto in apertura, colpisce la qualità, oltre che la capacità sintetica, con cui l’autrice riesce a far convivere le diverse voci di un dibattito acceso. Tutto sommato delude leggermente lo scarso lavoro di attualizzazione di un pensiero che ha visto autori del calibro di Bernard Stiegler in Francia trarre dal lascito protagoreo riflessioni innovative e di una bruciante attualità.

Indice

Premessa
Note introduttive
Chi erano i sofisti
Notizie su Protagora
Platone e i sofisti
Miti genealogici
Il mito nel Protagora platonico
Esiodo
Eschilo
Democrito
Lucrezio
La genesi della città nel II libro della Repubblica di Platone
Protagora e la democrazia ateniese
Il principio di autonomia
Antropologia cooperativistica
L’insegnabilità della virtù
L’uomo è misura di tutte le cose
La dottrina dell’uomo misura
Il parallelo fra farmaci e discorsi
Platone e Protagora
Bibliografia

L'autrice

Fiorinda Li Vigni svolge attività didattica e di ricerca presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: La dialettica dell’etico. Lessico ragionato dela filosofia etico-politica hegeliana nel periodo di Jena (Guerini e Associati, 1992); La comunanza della ragione. Hegel e il linguaggio (Guerini e Associati, 1997); Attualità di Hegel (La Città del Sole, 1998); Jacques D’Hondt e il percorso della ragione hegeliana (La Città del Sole, 2001; trad. francese L’Harmattan, 2005); Il concetto di astratto nel giudizio sulla Rivoluzione francese (Burke, Maistre, Cuoco, Hegel, Marx) (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2006).

Link

http://www.giornaledifilosofia.net/public/filosofiaitaliana/scheda_rec_fi.php?id=64

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