giovedì 30 settembre 2010

Rigotti, Francesca – Pulina, Giuseppe, Asini e filosofi.

Novara, Interlinea, 2010, pp. 120, euro 14, ISBN 978-88-8212-716-9.

Recensione di Antonella Fani

asini, filosofi

Il volume in oggetto propone una trattazione ampia e variegata sull’asino, svelandone i collegamenti con la filosofia, la cultura, il mito, la favola. Si tratta di un’originale rassegna su ontologia, razionalità, sessualità e voce dell’asino, campione dell’ibridismo e grande protagonista di metamorfosi.
Il pampleth, tutto centrato sulla figura dell’asino di cui spesso si ride o attraverso la cui metafora si deride, mette in evidenza quanto l’asinità possa considerarsi uno stereotipo culturale che ha ispirato molti autori, in campo letterario, filosofico, artistico.
Il “viaggio con l’asino” intrapreso in questo volume mostra, sin dai primi capitoli, il fondo di ambiguità e ambivalenza che appartiene alla rappresentazione di tale animale, dotato di una “intelligente cocciutaggine” (p. 17).
Gli autori sottolineano, in primo luogo, la fondamentale disistima verso tale animale: l’asino viene spesso denigrato, è legato a credenze magiche e a luoghi comuni negativi, tanto che, secondo Giovan Battista della Porta, “l’uomo che somiglia all’asino ha più che un motivo per lagnarsi e preoccuparsi” (p. 23). La correlazione uomo-asino, presente anche negli scritti del vescovo Ambrogio e in quelli di Tommaso Campanella, non fa mai onore all’uomo. Se il cavallo, in generale, viene associato alla trascendenza celeste, l’asino è invece accostato alla diabolicità, per le sue caratteristiche fisiche e, nello specifico, sessuali.
Nel secondo capitolo, si mette in evidenza come l’asino sia metafora di un certo tipo di uomo, poiché “tramite il processo di umanizzazione gli animali sono stati investiti di valori simbolici e metaforici spesso incongrui, e sono stati rappresentati irrealisticamente come tipi morali: […] esseri pazienti anche se bastonati, stupidi quanto mansueti, gli asini” (pp. 33-34). Tuttavia, sebbene l’asino venga anche associato al popolo dei sudditi abituato ad obbedire, l’ambiguità si rivela nello stesso asino-suddito, talvolta, può ribellarsi all’oppressione e trasformarsi.
Nei capitoli successivi, il volume cerca di presentare una ricostruzione del modo di pensare dell’asino, associando a tale animale non solo il fatto di essere oggetto di riflessione dei filosofi, ma anche la suggestiva ipotesi di avere egli stesso un certo pensiero-parola, sulla scia dell’animot di Derrida, in riferimento ad un tempo antico, antecedente al peccato originale, dove tra l’asino e l’uomo non sussisteva questa incomunicabilità. Ecco, allora, che agli aspetti più negativi si affiancano quelli positivi, come quello dell’asino che, con il suo arrivare sempre al termine del viaggio, secondo Le Corbusier, sarebbe il fondatore di molte città o quello dell’asino-confidente, che viene reso partecipe del silenzio di Abramo lungo il viaggio verso il monte in cui avrebbe dovuto sacrificare il figlio. E se per molti lo stesso raglio dell’asino rappresenta un verso sgradevole, per altri è un “prodigio sonoro” che può produrre in chi lo ascolta “un’eco suggestionante” (pp. 56-57),  come accade per il principe Myškin protagonista dell’Idiota di Dostoevskij.
L’asino è, inoltre, il protagonista di problemi logici ben conosciuti, come il paradosso dell’asino di Buridano che tra due mucchi di fieno simmetrici e identici muore di fame non riuscendo a scegliere. È, tuttavia, il paradosso dell’asino logico, incapace di affidarsi al caso per porre l’atto di scelta in cui tertium non daretur, che non esiste nella realtà.
Dell’asino parla, con cruda ironia, Nietzsche: sebbene tale animale sia simbolo di forza, sopportazione e caparbietà, è, in fondo, il prototipo di chi manca di coraggio, le cui unghie non hanno artigli, il cui sguardo è rivolto verso il suolo per cui non avrà mai la coscienza della sua forza. Ha inutili orecchie lunghe che non servono per udire ma sono il contrassegno plebeo di cui bisogna diffidare, perché appartengono a chi non ha sufficiente udito per sentire l’annuncio della morte di Dio. Per Nietzsche, “il suo I-A […] è anche il modo in cui i connazionali dicono di ‘sì’ (Ja)” (p. 89), in cui gli uomini non si pongono con aristocratica fierezza di fronte alla vita.
A conclusione del libro, le ultime interessanti suggestioni sulla realtà asinina arrivano da rappresentazioni attuali, come quella dell’asino Ih-Oh, compagno di Winnie Pooh e quella del Ciuchino dell’orco Shrek: anche in questo caso, permane l’ambivalenza dei due opposti rappresentanti di asinità, l’uno narrazione del tipico filosofo occidentale, un po’ decadente e pessimista, che si lagna del mondo perché depositario di un sapere che gli altri animali del bosco non hanno; l’altro, il miglior amico di Shrek, è il tipo positivo, un asino arguto, che parla e che vola grazie al quale anche l’orco riabiliterà la propria natura.

Indice

1.    Testi introduttivi  
Asini e filosofi
Chi ha paura dell’asino o la malAsinità
Metaforologia asinina
Pensare asino
Problemi di logica asinina
L’asino di Zarathustra
Un raglio di genere
Evoluzioni asinine o la rivincita degli asini


Gli autori

Giuseppe Pulina, nato a Sassari nel 1963, è insegnante di filosofia presso il liceo Dettori di Tempio Pausania e di Antropologia filosofica presso l’Issr Euromediterraneo. È direttore della rivista “Mneme Amentos”. La sua ricerca filosofica si dirige su vari fronti: dal pensiero ebraico contemporaneo alla critica musicale e al rapporto tra filosofia ed etologia. Tra le sue pubblicazioni, L’imperfetto pessimista. Saggio sul pensiero di Michelstaedter (Lalli, Siena 1996), Minima Animalia. Piccolo bestiario filosofico (Mediando, Sassari 2005), Animali e filosofi (Giunti, Firenze 2008), L’angelo di Husserl. Introduzione ad Edith Stein (Zona, Civitella in Val di Chiana 2008) e La cura (Zona, Civitella in Val di Chiana 2010).

Francesca Rigotti, nata a Milano, insegna nell’Università della Svizzera italiana di Lugano. La sua ricerca verte sulle procedure metaforiche e simboliche sedimentate nel pensiero filosofico, politico e nella vita quotidiana. Tra le sue pubblicazioni: Metafore della politica (Il Mulino, Bologna 1988), Il potere e le sue metafore (Feltrinelli, Milano 1992), La verità retorica. Etica, conoscenza, persuasione (Feltrinelli, Milano 1995), La filosofia in cucina (Il Mulino, Bologna 1999), La filosofia delle piccole cose (Interlinea, Novara 2004), Il pensiero pendolare (Il Mulino, Bologna 2006), Le piccole cose di Natale (Interlinea, Novara 2008).

Link

http://www.amicidellarte.it/pulina/index.html
http://www.sardegnaagricoltura.it/documenti/14_43_20071022121344.pdf
http://www.usi.ch/personal-info.htm?id=303

mercoledì 29 settembre 2010

Massarenti, Armando, Il filosofo tascabile. Dai presocratici a Wittgenstein. 44 ritratti per una storia del pensiero in miniatura.

Parma, Ugo Guanda Editore, 2009, pp. 232, € 13,50, ISBN 9788860888891.

Recensione di Tiziana Gabrielli - 29/09/2010

Storia della filosofia

“La filosofia” - ha scritto Bertrand Russell - “va studiata non per amore delle risposte precise alle domande che essa pone, perché nessuna risposta precisa si può, di regola, conoscere, ma piuttosto per amore delle domande stesse; perché esse ampliano la nostra concezione di ciò che è possibile, arricchiscono la nostra immaginazione e intaccano l’arroganza dogmatica che preclude la mente alla speculazione” (Introduzione, p. 9).

Il volume di Armando Massarenti, responsabile della pagina Scienza e filosofia del domenicale de “Il Sole 24 Ore”, prende l’avvio da una domanda che ai “filosofi di professione” potrebbe suonare ingenua e irriverente: “A che cosa serve la filosofia?” (ivi, p. 7). L’autore, ricordando l’etimologia del termine filosofia, e cioè amore “puro e disinteressato” per il sapere, rileva che “uno dei compiti della filosofia è appunto quello di sviluppare, per ogni aspetto della vita e della conoscenza, la capacità di fare le domande giuste, evitando di girare a vuoto intorno a falsi problemi o a questioni mal poste” (ivi, p. 8).

Secondo Wittgenstein, infatti, la filosofia deve aiutarci a “descrivere” i diversi giochi linguistici, per “dissolvere” i problemi filosofici correnti, ossia per “smascherare le argomentazioni sbagliate, i crampi del pensiero, le assurdità della metafisica...”. (pp. 230-231). Da qui scaturisce il carattere “terapeutico” della filosofia, che è un “lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare, sul proprio modo di vedere le cose” (p. 231). Wittgenstein ci esorta infatti a non cadere nelle trappole del linguaggio, senza illuderci, però, che le nostre inquietudini possano essere dissolte: “Quando uno crede di aver trovato la soluzione del ‛problema della vita’e vorrebbe dire a se stesso: ‛adesso è tutto semplice’, per confutarsi gli basterebbe ricordare che c’è stato un tempo in cui la soluzione non era stata trovata; eppure anche in quel tempo vivere doveva essere possibile” (p. 232). Sprovvisto - per sua stessa ammissione - di senso dell’umorismo, Wittgenstein confessò sul letto di morte al suo allievo più fedele di coltivare un sogno segreto, che purtroppo sarebbe rimasto tale: “scrivere un libro di filosofia fatto soltanto di battute di spirito” (p. 188). Nel 1900 ci pensò Bergson a scrivere un’opera dal titolo Il riso, in cui si legge: “non esiste comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano”; “l’uomo non è solo un animale che sa ridere, ma anche un animale che fa ridere”, perché questa caratteristica la può condividere con altri esseri viventi (ibidem).

Aristotele diceva: “Pensate da uomini saggi, ma parlate come la gente comune”. Le domande fondamentali della filosofia, dalle origini ai giorni nostri, non riguardano infatti solo i filosofi ma tutti gli uomini, in quanto aperti alla “meraviglia” (thaumazein): qual è l’origine del mondo e di che cosa è fatto? Esiste qualcosa di immutabile nel divenire dell’essere? L’uomo è un “essere-per-la-morte” o possiamo credere in un’anima immortale? C’è un destino già scritto o siamo liberi di scegliere? Come dobbiamo comportarci con gli altri? Esiste Dio e una giustizia divina? E delle norme etiche che orientino la nostra condotta? E, su tutte, la domanda prima ed ultima: come dobbiamo vivere? (cfr. ivi, pp. 7-8).

Massarenti ha raccolto in questo libro 44 ritratti “minimi” di grandi filosofi (da Anassimandro a Wittgenstein), trenta dei quali erano stati concepiti come prefazioni ai volumi della serie I grandi filosofi, usciti con “Il Sole 24 Ore” tra il 2006 e il 2007. Senza alcuna pretesa di esaustività enciclopedica o di sintesi manualistica, Massarenti ci mostra come il pensiero e la vita (e anche la morte) dei filosofi s’intreccino tra loro “con strani contrasti e sorprendenti coerenze. Lo scopo è far capire a colpo d’occhio quanto quel particolare filosofo – Platone, Bacone, Spinoza – può attrarci o respingerci, e persino irritarci; quanto il suo pensiero può rimettere in moto le nostre idee e il nostro senso critico, e riguardare direttamente le nostre vite a partire dal modo in cui ha riguardato la sua” (ivi, p. 11).

La preferenza di Massarenti per il “minimale” non è una novità, considerando che ogni settimana intrattiene i lettori de “Il Sole 24 Ore” con la rubrica “filosofia minima”, già in parte raccolta in un fortunato volume dal titolo Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima. Ne Il filosofo tascabile si può persino riconoscere - nota Umberto Eco nella recensione a Il lancio del nano - una sorta di “hýbris smisurata” nel pensare che i filosofi “in miniatura” possano insegnarci a vivere, come accadeva nel Seicento.

In questi miniritratti, incisivi, veloci e originali, Massarenti propone dunque con sagacia ed ironia aneddoti curiosi, aspetti peculiari di ciascun filosofo, di cui si mostrano anche le intrinseche contraddizioni ed i nodi teoretici irrisolti. L’intento divulgativo - tutt’affatto agiografico - dell’opera implica un approccio essoterico alla conoscenza della storia del pensiero occidentale, in grado di avvicinare ed attrarre un pubblico più vasto e trasversale. Che cosa significa dunque pensare? Pensare non significa soltanto mettere in questione con la ragione la tradizione e l’autorità, ma anche e soprattutto essere consapevoli che una vita senza ricerca “non è degna d’essere vissuta” (cfr. cap. XXVIII de l’Apologia di Socrate di Platone).

Indice

Introduzione. A che cosa servono i filosofi
In volo con Anassimandro
Opinioni di Parmenide
Socrate al concorso di bellezza
Note a piè di pagina di Platone
Il goal di Aristotele
Vita spericolata di Pirrone di Elea
Seneca condannato alla ricchezza
Agostino in due battute
Amore e logica di Abelardo (ed Eloisa)
Tommaso, le ragioni di un santo
L’amor platonico di Marsilio Ficino
Montaigne, la verità di uno scettico
Bruno, uno sguardo oltre il Vesuvio
Cartesio: erro, sono
In ginocchio con Pascal
La vita irta di Spinoza
Il pollo di Bacon
Locke, esperienze di libertà
Newton sulle spalle dei giganti
I sogni borgesiani di Leibniz
Il canto di Vico
Le uova di Hume
Rousseau, un uomo libero ovunque in catene
Il lumicino di Diderot
Smith e la ricchezza della morale
La pazzia di Bentham
Non siate fanatici, l’imperativo di Kant
Ridere di Hegel
Schopenhauer: non leggere, pensa
Distrazioni su Leopardi
Meglio un Mill triste che un maiale soddisfatto
Tocqueville e la fede nella libertà
La fidanzata di Kierkegaard
Viva il mercato: parola di Marx
Nietzsche, la verità da sopportare
Il cappello di Husserl
La durata di Bergson
Il profeta Max Weber
Un ministero per Dewey
Bertrand Russel, una logica per la pace
Heidegger e la casa dello Zombie
Sulla barca di Quine
Due mannaie (e un attizzatoio) per Popper
Il gioco dei due Wittgenstein


L'autore

Armando Massarenti è responsabile della pagina Scienza e filosofia del domenicale de “Il Sole 24 Ore”, dove si occupa, dal 1986, di storia e filosofia della scienza, filosofia morale e politica, etica applicata e dove tiene la rubrica “Filosofia minima”. Guanda ha pubblicato Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima (Premio filosofico Castiglioncello 2007, Premio di saggistica Città delle rose 2007) e Staminalia (2008).

Link

Blog filosofico di Massarenti
http://armandomassarenti.nova100.ilsole24ore.com

lunedì 20 settembre 2010

Frigo, Gian Franco (a cura di), Disperazione. Saggi sulla condizione umana tra filosofia, scienza e arte.

Milano-Udine, Mimesis, 2010, pp. 395, € 22,00, ISBN 9788857501093

Recensione di Alessandra Granito – 20/9/2010

Etica, Estetica, Epistemologia

Con un linguaggio elegante e sensibile e con una scrittura affannosa e concitata, in Die Verstörung (Perturbamento) Bernhard scrive che l’uomo si costringe a non percepire il proprio abisso; eppure, per tutta la vita, egli non fa che guardare giù, al suo abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo. Cosa accadrebbe infatti se l’uomo riuscisse a infrangere le esili categorie (logiche, psicologiche) su cui erge la rappresentazione più tranquillizzante della sua esistenza e di se stesso? Cosa accadrebbe se egli prendesse coscienza che non ci sono più argomenti, ideali estetici, sociali o religiosi, considerazioni morali che giustifichino il fatto di vivere, che sappiano imprimere alla vita una direzione e trovarvi una finalità? L’uomo dispererebbe, in balìa di ragioni destituite di fondamento; solo, di fronte a se stesso, egli scorgerebbe la luce demoniaca del caos e percepirebbe solo la brutalità, la lontananza e la vacuità del tutto, lacerato e oppresso da sentimenti di estenuazione e di agonia.
L’uomo, il suo rapporto con se stesso (con la propria interiorità, con la propria soggettività), con la propria esistenza, con la realtà nella quale egli agisce e patisce, con le sue pretese metafisiche. Rapporti fragili e volubili – poiché caduca ed imperfetta è la stessa natura umana -, e che vengono compromessi e infranti nel loro equilibrio difficile e precario allorquando anche la flebile tensione tra l’interiorità (se stessi) e l’esterno, tra desiderio e realtà concreta viene frustrata dalla morsa di un’ospite inquietante, presente ma nascosto, che emerge in tutta la sua indecibilità: la disperazione che apre alla vertigine del nulla, a dubbi ed incertezze radicali, a contraddizioni insanabili, di fronte alla quale l’alterità diviene irriducibile e l’identità viene come erosa.
Questo è il tema centrale di Verzweiflung-Desperatio, il seminario italo-tedesco organizzato dal Dipartimento di filosofia dell’Università degli Studi di Padova in collaborazione con l’“Arbeitskreis Psychopathologische, Kunst und Literatur” e tenuto a Padova dal 29 al 30 settembre 2006. I saggi raccolti nel volume Disperazione. Saggi sulla condizione umana tra filosofia, scienza e arte a cura di Gian Franco Frigo sono i contributi presentati in occasione di tale convegno da studiosi che presentano un’ampia, ben articolata, appassionata e appassionante riflessione sul tema della miseria della vita umana e in particolare sulla disperazione, un sentimento pervasivo, anodino e sempre più caratterizzante la nostra epoca.
Leitmotiv e finalità del testo è l’interrogazione problematica sull’essenza della disperazione. Quest’ultima è indagata, in maniera programmatica, a partire dalla sua complessa etimologia latina e tedesca, o meglio, a partire dallo slittamento semantico verificatosi nel XVIII sec. del concetto di disperazione dalla latina desperatio alla tedesca Verzweiflung. Scrutare la natura più profonda della disperazione, la sua fenomenologia, le sue dimensioni e i suoi abissi richiede un ampliamento e un approfondimento sia delle origini latine (teologico-cristiane) della disperazione (il latino de-speratio indica la peccaminosa negazione/mancanza di speranza – spes – nella misericordia di Dio), sia dell’accezione rinascimentale-moderna e filosofica secondo cui la disperazione – così come la Bestimmung des Menschen (‘la destinazione umana’) – non è più concepita in una prospettiva trascendente (ossia come assenza di speranza) bensì in una direzione strettamente laica, storica e immanente (si pensi alla estremizzazione di questo discorso con il concetto di ‘dissoluzione completa, assoluta e coerente della teologia nell’antropologia’ di Feuerbach). Nella modernità, infatti, l’affievolirsi della prospettiva ecclesiastico-religiosa si traduce in una sempre maggiore richiesta di autonomia dell’uomo (il sapere aude kantiano) che mira a fondare unicamente su se stesso il senso della storia, intesa come progressiva realizzazione di un’assoluta libertà, e della propria esistenza.
La chiave di lettura con cui nel testo è affrontata la questione articolata della disperazione è propriamente esistenziale. La disperazione è fondamentalmente ed essenzialmente un sentimento di profonda inquietudine; di angoscia lacerante; di perturbamento; di smarrimento e spaesamento; di vertiginoso vuoto metafisico; di assenza e/o mancanza di senso vissuti in modo insopportabile, inconsolabile, ineluttabile e insolubile; un senso di radicale estraneità rispetto a se stessi, alla realtà circostante e rispetto alla propria esistenza. In altri termini: la disperazione è una ‘situazione-limite’ (la Grenz-Situation jaspersiana) che rivela, in maniera conturbante e destabilizzante, la natura umana nella sua provvisorietà e finitezza. Di fronte ad essa naufraga la certezza indubitabile, la fiducia di giungere alla verità e al senso del tutto, ed emerge il ‘dubbio radicale’ (il tedesco Zweifel) nel quale e attraverso il quale l’uomo non solo esperisce una frattura tra la propria individualità (la soggettività) e l’esterno, ma è come assalito da un senso opprimente di solitudine esistenziale, di nullità, instabilità e vacuità dell’esistenza (di se stesso e del mondo), di sradicamento, di non-essere-mai-a-casa-propria. Nella disperazione, infatti, il dubbio non è ‘metodico’ – ossia finalizzato al suo stesso superamento –, non si volge in modo finalistico a qualcosa, ma ‘lascia in sospeso’ tanto da spingere verso un’inquietudine esistenziale, una distonia emotiva senza scampo, ad un’intollerabilità letale.
In questa prospettiva vanno inquadrati i saggi di G.F. Frigo, di U. Diehl e anche l’approccio pratico di A. Pernice e di H. A. Kick, i quali mettono in luce soprattutto l’ambivalenza del sentimento della disperazione: la disperazione, in quanto inasprimento ed espressione estrema di stati normali, ha sì un potenziale distruttivo e violento – può cioè generare manifestazioni patologiche (visioni, allucinazioni, stati di trance) e/o fantasie autosvalutative o autodistruttive; può avere tratti depressivi, aggressivi e violenti –, ma ha anche un insospettabile potenziale di energia positiva tanto da poter indurre a vere e proprie sfide creative e a un originale superamento della distruttività.
Rilevante è che il denso volume fornisce uno spettro significativo della storia culturale e della valenza antropologica della ‘disperazione’. L’approccio all’indagine di questo sentimento così complesso e sempre più dominante non è squisitamente psichiatrico/psicologico (questo l’approccio di C. Nicolini e di E. Lo Monaco, D. von Engelhardt), ma attiene anche alla filosofia, alla letteratura e alla storia dell’arte. Ciò che emerge in maniera precipua è proprio il sostrato culturale della disperazione: il giovane Schiller di Die Räuber e del Der Geisterseher (analizzato nel bel saggio di L. A. Macor), il Goethe del Werther e del Faust (oggetto degli studi di M. Misch e R. Tiedemann), Karamsin e Pušchkin (su cui si è soffermato R. Neuhäuser), il Mann delle opere precedenti ai Buddenbrook (al centro della riflessione di A. Schneider), il Büchner del Lenz e il Döblin del Der schwarze Vorhang (presentati e approfonditi in maniera acuta e pregevole da W. Schmitt e F. La Manna); il ritratto di von Humboldt di Emma Gaggiotti-Richards (analizzato da P. Gentz-Werner); il Giotto della Cappella degli Scrovegni e il Picasso della parafrasi della Donna che piange (Legado Picasso) (su cui si sono soffermati G. Pisani e M. Oehmichen). E ancora: la ‘coscienza infelice’ descritta da Hegel nella Fenomenologia quale forma teoretico-conoscitiva della disperazione (il tema affrontato da D. Wandschneider); l’algologia tra angoscia e disperazione nel pensiero di Heidegger e Pessoa (oggetto dell’originale indagine filosofica di M. Di Bartolo), le considerazioni di Wittgenstein sul ‘mondo del felice e dell’infelice’ (approfondite da G. Tomasi).
Al di là della varietà dei temi trattati e delle implicazioni squisitamente disciplinari e metodologiche, ritengo che una riflessione sulla disperazione impostata in maniera così urgente e radicale, vissuta e tormentata; proposta altresì in maniera così mirabilmente eterogenea, corale e attenta alle luci e alle ombre dei sentieri dell’esistenza e dell’interiorità umana, dia atto del tentativo di promuovere un dibattito di ampio respiro culturale su un nodo tematico delicato e su una categoria dell’attualità (come è indicato bene dal saggio di F. Grigenti) qual è la disperazione, sentimento ancora troppo e sottaciuto.
Dunque: se quello della disperazione è un principium disperationis che sembra caratterizzare nella maniera più ricca e drammatica la condizione dell’uomo contemporaneo; se essa è un sigillo della nostra epoca che implica un’inaspettata sfida dell’uomo e che custodisce la rivelazione della natura umana, allora qual è il cammino che l’individuo deve seguire affinché non si lasci travolgere da essa in maniera irreversibile? Dalla disperazione ci si può davvero salvare, come scrive Kierkegaard in Sygdommen til Døden (La malattia per la morte) in virtù del ‘salto nella fede’ e del ‘rapportarsi a se stessi mediante il rapporto con Dio’? Oppure ha ragione E.M. Cioran quando afferma, in Pe culmile desperării (Al culmine della disperazione), che l’uomo può non soccombere alla disperazione – dinanzi alla quale i gesti quotidiani e le aspirazioni normali perdono ogni fascino e ogni seduzione – solo se si aggrappa alla ‘passione dell’assurdo’ come ad un’intuizione assoluta, a qualcosa, cioè, che non ha alcuna consistenza, ma la cui finzione può creare un’illusione di vita?
Si tratta di vivere l’in-dicibile; di vivere con disincanto la solitudine dell’animo trasformando i sospiri in pensieri; di saper patire nel non-sapere; di non cedere al respiro mortifero della ragione; si tratta di saper subire poeticamente la freddezza dell’inevitabile e la nostalgia di un tempo anteriore al tempo; si tratta di rimanere in silenzio di fronte al tramonto della prospettiva dell’illimitato. Perché nessun silenzio è tanto profondo quanto nell’impossibilità di spiegare.

Indice

Presentazione

G.F. Frigo, La disperazione come sfida e rivelazione della natura umana

U. Diehl, Che cos’è la disperazione? Un esperimento filosofico
L.A. Macor, La disperazione nei primi scritti di Schiller: dubbi sulla destinazione dell’uomo
M. Misch, Assenza di mondo e disperazione. Sul Werther di Goethe
P.Gentz-Werner, L’angoscia dinanzi al proprio ritratto: a pittrice romana Emma Gaggiotti-Richards e il suo ‘modello’ Alexander von Humboldt
R. Tiedemann, Disperazione e sensi di colpa nel Faust di Goethe
D. von Engelhardt, Fenomenologia, cause e terapia della disperazione
A. Pernice, Dimensioni della disperazione nella prassi, nel quotidiano e nell’arte
D. Wandschneider, La ‘coscienza infelice’ nella Fenomenologia di Hegel – Una forma teoretico-conoscitiva di disperazione
W. Schmitt, Disperazione e psicosi nel Lenz di Georg Büchner
R. Neuhäuser, Karamsin e Pušchkin: dalla “disperazione per qualcosa” alla “disperazione per se stessi”
G. Pisani, La desperatio, ultimo vizio nella Cappella degli Scrovegni di Giotto
M. Oehmichen, Le parafrasi della Donna che piange di Picasso: volti della disperazione
C. Nicolini-E. Lo Monaco, La disperazione della perdita
H.A.Kick, La disperazione: trance, visione e allucinazione – superamento o fuga nella distruttività
M. Di Bartolo, Il respiro dell’anima. Algologia tra Heidegger e Pessoa
F. Grigenti, Il “principio disperazione” come categoria dell’attualità
G. Tomasi, “Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice”. Riflessioni in margine a un passo del Tractatus di Wittgenstein
F. La Manna, La disperazione d’amore. Der schwarze Vorhang di Alfred Döblin
A. Schneider, In principio fu la Verzweiflung: logos e topos nell’opera giovanile di Thomas Mann.

Il curatore

Gian Franco Frigo insegna Storia della filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova. È membro del Beirat della “Internationale Schelling-Gesellschaft”; fa parte del Wissenschaftlicher Beirat della collana “Wissenschaftskultur um 1900” (Stuttgart, Steiner); è membro del direttivo del Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Morfologia “Francesco Moiso” (CIRM). Recentemente ha curato il volume Vernunft unf Glauben. Ein philosophischer Dialog der Moderne mit dem Christentum, Berlin.

sabato 18 settembre 2010

Henry, Michel, Marx. 1. Una filosofia della realtà, a cura di G. Padovani.

[Ed. or.: Une philosophie de la realité, Paris, Gallimard 19912]
Genova, Marietti 1820, 2010, pp. 632, € 35,00, ISBN 9788821185816

Recensione di Antonio G. Pesce 18/9/2010

Storia della filosofia (moderna), Filosofia politica

Se Guido Carandini, nel suo Un altro Marx, ha voluto consegnarci un profilo del filosofo di Treviri quale scienziato della società e del capitalismo, liberato dall’utopia politica, questo lavoro monumentale di Henry di cui, per ora, possiamo leggere in italiano solo la prima parte, mira a liberarlo perfino dalla scienza, per darci un Marx filosofo e, soprattutto, un Marx “umanista”. La tesi, infatti, è questa: non la storia e non le classi sociali fanno l’uomo, ma l’uomo fa la storia, le classi, ecc. E dunque l’”umanismo” non è un peccato di gioventù, come per ogni giovane borghese tedesco dell’epoca (secondo la tesi di Althusser), ma la cifra del pensiero più genuinamente marxiano. 
Henry, nell’introduzione ai cinque corposi capitoli, distingue subito Marx dal marxismo, considerando questo come “l’insieme dei contro sensi che sono stati fatti” su quello, un “riassunto” nato dall’impellenza dell’impegno politico (p. 71). E infatti questo “riassunto”, che prende avvio con la prefazione tedesca al Manifesto del 1883 scritta da Engels, è compiuto sulla base di testi politici, i quali “non sono dotati del principio di intellegibilità, i concetti che sviluppano non sono concetti fondanti e il loro fondamento non vi si trova né esposto né tanto meno indicato”. 
Il lavoro di Henry metodologicamenteè ben altra cosa, anche perché gli sono disponibili opere come l’Ideologia tedescae i Manoscritti: “Marx per noi non è come l’ammalato steso sul divano di un analista – scrive il fenomenologo francese – e i cui balbettamenti non potrebbero servire che da indizio o da sintomo nella scoperta della verità.” (p. 94). 
Il primo capitolo è dedicato alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, “il primo lavoro teoretico di Marx”. Lo Stato, per il filosofo di Treviri, “non si sovrappone alla società civile e alla famiglia come un’aggiunta sintetica al loro essere”: è, invece, “la realtà stessa di queste sfere”, la loro anima. In ballo, il problema mai risolto di particolare e universale, e come Hegel, Marx ne propugna l’identità, ma gli rimprovera di non averla saputa stabilire: l’attività individuale all’interno della famiglia e della società civile non è fondata sull’individuo stesso, sui suoi bisogni, bensì sullo Stato. L’uomo cosi è concepito come un semplice “fenomeno”, un’ombra di qualcos’altro che si muove dietro le quinte. Ecco perché Henry interpreta lo scritto del ’42 come una “critica radicale di ogni sussunzione … la credenza che la realtà è realmente spiegata, esposta nel suo essere quando è esposta alla luce dell’Idea”. Reale, invece, è solo “l’attività individuale, il bisogno in cui essa si radica, la vita”: “La vita degli individui è la ragione perché è essa che spiega e che produce la formazione della famiglia e della società civile. La vita degli individui è la ragione vera perché la sua spiegazione non è un explicat, cioè una semplice teoria e, come dice Marx, una “considerazione”, un’interpretazione che lascia invariato ciò che interpreta, ma precisamente perché produce ciò che spiega e ne è così la ragione nel senso ontologico di fondazione, di fondamento” (p. 103). Ma l’individuo a cui si riferisce Marx non è un’unità ideale, bensì una pluralità di individui. “Individuo” non è un nome comune, ma un singolare di una molteplicità di nomi propri. 
L’”umanismo” di Marx si esplica, nei testi del ’43 e del ’44, oltre che nella identità di umanismo e naturalismo e nella teoria della rivoluzione e del proletariato, anche nella critica che, seguendo Feuerbach e opponendosi a Bruno Bauer, Marx rivolge alla religione. Per Bauer la religione è un concetto, prodotto dalla coscienza che si è alienata da se stessa. Ma una critica di questo tipo, condotta all’interno della coscienza stessa, non raggiunge l’effetto sperato: atto della coscienza è l’alienazione, atto di coscienza la critica di questa. Per Marx, invece, è l’”uomo” e non già la coscienza, e infatti nota Henry: “È con un colpo solo, per la verità, e con uno stesso movimento, nello stesso mutamento concettuale che l’uomo diventa la coscienza e la religione una rappresentazione”. 
Però commetteremmo un errore, se pensassimo che la critica della religione abbia un risvolto solo negativo. Essa, invece, vuole essere anche positiva, dirci cosa sia l’essere, “cioè precisamente l’uomo, il genere umano”.
Nel capitolo terzo, sulla Riduzione delle totalità, Henry da queste premesse giunge a conclusioni che infrangono molti degli stereotipi su cui si è radicata la lettura militante e marxista di Marx. Innanzi tutto, non è la storia che fa l’uomo, ma è l’uomo a far la storia: “La specie umana è questa realtà una che costituisce sia il soggetto che l’oggetto della storia, il suo principio e il suo contenuto” (p. 269). Ma la specie umana si realizza non in quanto specie naturalisticamente intesa, ma in quanto società, e la storia “è il processo di questa realizzazione”. Tuttavia Marx, criticando Stirner, rifiuta il concetto di società-persona, affermando invece che la società non è che “l’ipostasi di ciò che è altrove”. Questo “altrove” è la vita individuale, che della storia è condizione trascendentale, cioè “immanente a tutto ciò che essa rende possibile, condizione interna, essenza e in ultimo sostanza”. Dunque, capovolgendo un vecchio adagio marxista, non è la società che fa gli uomini, ma sono gli uomini a fare la società. Come a dire che se viviamo in una società di depravati o di infelici, la colpa non è dell’astratto nome che ci accomuna, ma del concreto comportamento personale che ci lega. 
Ma questa presenza centrale dell’individuale non smentisce l’altrettanto importante presenza del concetto di classe nel pensiero marxiano? No, dice Henry, se consideriamo le proprietà della classe come proprietà individuali vissute da più individui: “La realtà di una classe sociale – scrive il filosofo francese – è costituita da un insieme di determinazioni, la realtà di queste determinazioni sta nella vita fenomenologica individuale e trova in essa soltanto il luogo della sua possibilità e della sua efficacia” (p. 328). 
Si comprende perché Marx critichi aspramente la divisione del lavoro e come questa sia “il luogo ultimo a partire dal quale si effettua questa genealogia [delle classi]”: la società è divisa in classi perché gli uomini si sono divisi i compiti, ma dividere quel che c’è da fare significa anche potenziare alcuni aspetti della propria persona a scapito di altri, col risultato che l’uomo si depaupera ontologicamente, non si sviluppa completamente come avrebbe potuto e dovuto (p. 372). 
L’uomo è la realtà della realtà, e Marx nel terzo Manoscritto lo definisce “essere della natura”, espressione che va intesa in duplice modo: in senso ontico, e così l’uomo è l’”omogeneo” alla natura, le appartiene come essere portare “in sé della materialità opaca dell’essente”; in senso ontologico, è la “sensibilità trascendentale in seno alla quale il mondo si fa mondo”. L’uomo sente gli oggetti, li sente suoi, vive egli nell’intuizione dell’essere. Ma il “senso” di cui parla Marx non designa i cinque sensi tradizionali, bensì “l’insieme delle potenze della soggettività”, e la pratica non un mero agire bensì “la relazione effettiva all’essere in quanto questa si compie nella sensibilità” (p. 430). Tant’è vero, che Feuerbach ha sbagliato nel pensare la realtà della realtà nell’intuizione “e quindi l’essere come un oggetto”: l’essenza del reale sta nella pratica indicante l’”attività”, la pura attività. Feuerbach, insomma, ha sostituito l’intuizione al pensiero hegeliano, e Marx l’azione all’intuizione feuerbachiana. Qui Henry parla del grande capovolgimento operato da Marx nel pensiero occidentale, perché da sempre il soggetto è stato pensato come il luogo del darsi dell’essere, mentre nel concetto di prassi marxiana è pensato in modo radicale: è una soggettività assoluta, che rende “soggettivo” l’oggetto.
La prassi – il lavoro, la lotta, la sofferenza degli uomini sulla terra, “lo sforzo infaticabile e questa attività senza fine della vita per il proprio mantenimento” - come attività generale non esiste, perché non essendoci che individui, non possono esserci che singole azioni. Si può parlare – scrive Henry – di prassi sociale, ma solo a condizione di riferirla sempre al luogo in cui ha compimento, “nei molteplici individui che fanno, ciascuno per proprio conto, ciò che “essa” fa”. 
Marx contrappone la prassi alla teoria proprio perché, mentre nella prassi si dà questa soggettività assoluta che è ciascuno di noi – l’”immanenza radicale di questa soggettività” che il filosofo tedesco chiama “vita”, e qui bisogna fare attenzione perché non della vita del genere umano si parla, ma della vita di ogni individuo - la teoria si astrae dalla vita del singolo per viverne una tutta propria. Ora, questo è quel che Marx intende per ideologia: “l’insieme delle rappresentazioni della coscienza umana nel senso di semplici rappresentazioni” (p. 502). Eppure, nonostante l’ Ideologia tedesca si fondi su questa distinzione tra realtà e rappresentazione, Marx non la ritenne mai banale. Perché? Perché la realtà non si oppone soltanto, ma fonda la rappresentazione. Ed è alla realtà (all’individuo) che bisogna ricondurla per farle guadagnare la concretezza. La realtà, infatti, fonda la rappresentazione non solo nel contenuto, ma anche nel modo “in cui la coscienza si rappresenta l’essere vitale”. Per questo “è la struttura oggettiva di una società in un momento della sua storia la sola che possa dire che cosa pensano gli uomini che vivono in essa e perché lo pensano. È la struttura economica e sociale che fonda la “sovrastruttura” politica, giuridica, filosofia, ecc., e la determina completamente” (p. 543). La struttura oggettiva, però, è data dalla vita dell’individuo, non già dalla materia – concetto che Henry considera il “controsenso fondamentale” di Engels – che produrrebbe le idee tramite il cervello. La materia di cui parla Marx è qualcosa di assai diverso – chiosa ancora Henry - dal bieco materialismo del XVIII secolo, e in questo non possiamo non notare come avesse colto già nel segno Giovanni Gentile quando, inserendosi nella discussione tra Antonio Labriola e Benedetto Croce, metteva in evidenza la sostanziale differenza del materialismo di Marx rispetto alle forme precedenti. 
“Questo sapere della vita che è la sua stessa soggettività – scrive Henry – la sua inquietudine, la sua sofferenza o il suo appetito, che precede e fonda ogni “sapere”, ogni “coscienza” e ogni “pensiero”, lo ritroveremo in tutti i momenti decisivi dell’analisi di Marx. È ciò che costituisce la fonte invisibile e sempre presente dell’ideologia sotto tutte le sue forme, il principio, sepolto nella propria fenomenalità, e la condizione di possibilità di tutte le rappresentazioni in generale” (p. 552). 
Qui si è data una sola chiave di lettura, quella dell’”umanismo” - che è poi la principale. Tuttavia, un buon lettore può trovare altrettanto importante rileggere, alla luce della fenomenologia del filosofo francese, il rapporto Hegel-Feuerbach-Marx o ritenere interessante il confronto tra alcune intuizioni marxiane e aspetti del pensiero di Husserl e Heidegger.
Un libro – questo di Henry – che dovrebbe essere studiato più che letto, e che G. Padovani ha avuto il merito di aver curato accompagnandolo con una corposa prefazione. Attendiamo il seguito - cioè l’analisi dell’economia – sperando che né l’editrice né il curatore si ritraggano dall’impresa. Difficile, però, che Marx il filosofo, così come ci viene consegnato in quest’opera, prenda il sopravvento sull’omonimo profeta, soprattutto da quando, a causa della crisi finanziaria del 2008, si è dato il bentornato al mitologismorivoluzionario.

Indice

Michel Henry: Marx, oltre Heidegger e Husserl di G. Padovani
Bibliografia di riferimento
Introduzione. La teoria dei testi
La critica dell’essenza politica, il manoscritto del ‘42
L’umanismo del giovane Marx
La riduzione delle totalità
La determinazione della realtà
Il luogo dell’ideologia


L'autore

Michel Henry (1922-2002), tra i più importanti rappresentanti della scuola fenomenologica francese, ha esposto in L'essence de la manifestation (1963) e in altre opere successive una fenomenologia della vita come prova di sé ed affettività. Tra i suoi lavori: Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l'ontologie biranienne, Puf, Paris 1965; Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985; Voir l'invisible. Sur Kandinsky, Bourin, Paris 1988; Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990; C'est moi la verité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996. 

martedì 7 settembre 2010

Capitini, Aldo – Calogero, Guido Lettere 1936-1968, a cura di Thomas Casadei e Giuseppe Moscati.

Roma, Carocci, 2009, pp. 618, € 64,00, ISBN 9788843051359

Recensione di Giuseppe Pulina – 07/09/2010

Filosofia politica

La nonviolenza può essere esplosiva come una bomba e produrre effetti, in questo caso benefici, che dureranno nel tempo. Di ciò era profondamente convinto Aldo Capitini, il filosofo perugino che ha iniziato generazioni di italiani alla conoscenza dell’opera di Gandhi e che molti conoscono soprattutto per essere stato l’ideatore della marcia per la pace Perugia-Assisi. Del verbo della nonviolenza capace di deflagrare come una bomba scrisse una volta al suo amico Guido Calogero, costruendo così un ossimoro (quale bomba potrà mai diffondere la prassi della pace senza seminare vittime?) che ben mette in luce tutte le difficoltà di un’impresa che sembra avere nell’immediato, allora come oggi, poche chances di successo. Le convinzioni, le speranze e le angosce per il futuro della nonviolenza in Italia e nel mondo rivivono in un carteggio dato alle stampe dall’editore Carocci in cui viene raccolto il fitto scambio epistolare (686 carte tra missive, cartoline e dispacci postali) che il filosofo perugino intrattenne per più di trent’anni con Calogero, altro calibro da novanta del mondo intellettuale nazionale del ‘900. Sapientemente curato e introdotto da Thomas Casadei e Giuseppe Moscati, il volume fa parte di un progetto editoriale realizzato dalla Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” che si avvale del benemerito sostegno di diversi enti.
Tante sono le ragioni che inducono a ritenere il carteggio Capitini-Calogero una delle testimonianze più sorprendenti, acute e profonde dei decenni centrali del XX secolo. Decenni che abbracciano un periodo caratterizzato dal progressivo radicamento del fascismo, la rapida e rovinosa caduta della dittatura, la Liberazione e la nascita della Repubblica. Trent’anni di vita nazionale che chiamarono ripetutamente la classe intellettuale a prendere posizione e a schierarsi, rendendo sempre più difficile l’autooccultamento nelle retrovie di chi, anche nel mondo culturale, è solito evitare, quando le circostanze glielo consentono, di fare scelte nette e compromettenti. Tali furono invece le scelte dei due amici di lunga data Capitini e Calogero, capaci di discutere e risolvere con pacatezza anche i punti di maggiore contrasto, sebbene, è giusto precisare, fossero più le sintonie tra i due che i dissensi teorici.
Tante pagine dell’epistolario conservano ancora oggi a distanza di tanti anni un valore quasi profetico. Risale al marzo del ’47 la realistica convinzione di Capitini che confessava all’amico una sua personale visione dell’Italia del tempo. “Gli italiani – scriveva allora Capitini – debbono ancora sviluppare molto la loro interiore coscienza etico-politica per poter avere i vantaggi ma non i danni di un grande partito” (p. 152). E, a proposito di partiti, sin dai primi mesi del secondo dopoguerra Capitini lavorò intensamente alla creazione di un movimento, un polo aggregante, che richiamasse e raccogliesse il consenso di quella parte del Paese che avrebbe gradito un’alternativa radicale e socialista all’avanzante egemonia democristiana e al primato morale e storico che il Partito Comunista, forte dei risultati della Resistenza, sapeva esercitare su una parte rilevante della società nazionale. Anche per questo i due amici guardavano con interesse e preoccupazione all’esito della scissione di Saragat dal Partito Socialista.
Tra i tanti pregi del carteggio c’è anche il ritratto di quell’Italia di metà secolo che il Ventennio fascista aveva profondamente segnato. Non c’è personalità intellettuale di primo piano che non venga in qualche modo e per una qualche ragione richiamata nell’epistolario. Potrebbe essere sufficiente citare, e a solo titolo di esempio, i nomi di Cantimori, Luporini, Abbagnano, Bobbio, che tra i due fu un illuminante punto di incontro, De Martino, Sciacca, Banfi, Garin, Ada Prospero, moglie di Gobetti, Viano, Binni, Buonaiuti. Ebbene, a tanti riferimenti corrisponde una grande varietà di temi e interessi. Calogero e Capitini avevano in comune molto, e l’uno dimostrava sempre di tenere alle “cose” dell’altro in modo autenticamente amichevole. Quando potevano, si davano reciproco sostegno. Spesso è accaduto che a beneficiare dell’apporto dell’amico sia stato Capitini, soprattutto per vedere riconosciuto all’interno del mondo universitario italiano il ruolo che gli competeva e che criteri blandamente selettivi e nient’affatto meritocratici rendevano poco evidente. Di grande aiuto all’amico, Calogero sarà anche quando dovrà impegnarsi in prima persona (cosa che, comunque, era solito fare) per sbrogliare la complicata questione dell’incarico universitario a Perugia, reso ormai necessario e non più rinviabile per le condizioni di salute di Capitini, sempre più provato dalle fatiche della trasferta a Cagliari.
Il carteggio va oltre la dimensione affettiva e intima di un rapporto di amicizia che il trascorrere degli anni ha sempre più profondamente cementato. Esso è uno strumento indispensabile per chi oggi voglia farsi un’idea quanto più precisa delle tendenze e priorità che animavano allora il dibattito culturale nazionale. Leggendolo, si scopre quanto Capitini fosse impegnato in prima persona per combattere battaglie difficili che esigevano un coraggio e una caparbietà non comuni. Tra le tante non poté non assumere un rilievo oltremodo significativo quella che lo portò a perorare in prima persona la campagna di don Milani in favore dell’obiezione di coscienza. A Silone, Parri, Lombardi, Ernesto Rossi e, naturalmente, a Calogero chiederà il pieno sostegno in difesa del sacerdote di Barbiana sul quale pendeva minacciosamente allora l’esito di un processo travagliato. Ancora una volta, dialogo, apertura e nonviolenza avrebbero dovuto tracciare la rotta da seguire per mobilitare un’opinione pubblica che – e si era allora nel ’65 – si sarebbe manifestata più sensibile al messaggio capitiniano negli anni che fecero seguito alla stagione del dissenso?

Indice

Introduzione di T. Casadei e G. Moscati
Nota dei curatori
Carteggio Capitini-Calogero
Indice dei nomi

Gli autori

Aldo Capitini (1899-1968) è stato uno dei primi filosofi italiani ad accogliere e diffondere il pensiero gandhiano. Pensatore antifascista, ha ricoperto diversi insegnamenti universitari. Tra le sue pubblicazioni più note vanno ricordati gli Elementi di un’esperienza religiosa (1937), in cui esplora e ridefinisce il concetto michelstaedteriano della “persuasione”, e Nuova socialità e riforma religiosa (1950). L’elemento teorico che più saldamente lo avvicina a Guido Calogero (1904-1986) è l’ideale politico del liberal-socialismo. Studioso di levatura internazionale della filosofia antica, Calogero è autore anche di numerosi saggi di filosofia politica.