sabato 18 settembre 2010

Henry, Michel, Marx. 1. Una filosofia della realtà, a cura di G. Padovani.

[Ed. or.: Une philosophie de la realité, Paris, Gallimard 19912]
Genova, Marietti 1820, 2010, pp. 632, € 35,00, ISBN 9788821185816

Recensione di Antonio G. Pesce 18/9/2010

Storia della filosofia (moderna), Filosofia politica

Se Guido Carandini, nel suo Un altro Marx, ha voluto consegnarci un profilo del filosofo di Treviri quale scienziato della società e del capitalismo, liberato dall’utopia politica, questo lavoro monumentale di Henry di cui, per ora, possiamo leggere in italiano solo la prima parte, mira a liberarlo perfino dalla scienza, per darci un Marx filosofo e, soprattutto, un Marx “umanista”. La tesi, infatti, è questa: non la storia e non le classi sociali fanno l’uomo, ma l’uomo fa la storia, le classi, ecc. E dunque l’”umanismo” non è un peccato di gioventù, come per ogni giovane borghese tedesco dell’epoca (secondo la tesi di Althusser), ma la cifra del pensiero più genuinamente marxiano. 
Henry, nell’introduzione ai cinque corposi capitoli, distingue subito Marx dal marxismo, considerando questo come “l’insieme dei contro sensi che sono stati fatti” su quello, un “riassunto” nato dall’impellenza dell’impegno politico (p. 71). E infatti questo “riassunto”, che prende avvio con la prefazione tedesca al Manifesto del 1883 scritta da Engels, è compiuto sulla base di testi politici, i quali “non sono dotati del principio di intellegibilità, i concetti che sviluppano non sono concetti fondanti e il loro fondamento non vi si trova né esposto né tanto meno indicato”. 
Il lavoro di Henry metodologicamenteè ben altra cosa, anche perché gli sono disponibili opere come l’Ideologia tedescae i Manoscritti: “Marx per noi non è come l’ammalato steso sul divano di un analista – scrive il fenomenologo francese – e i cui balbettamenti non potrebbero servire che da indizio o da sintomo nella scoperta della verità.” (p. 94). 
Il primo capitolo è dedicato alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, “il primo lavoro teoretico di Marx”. Lo Stato, per il filosofo di Treviri, “non si sovrappone alla società civile e alla famiglia come un’aggiunta sintetica al loro essere”: è, invece, “la realtà stessa di queste sfere”, la loro anima. In ballo, il problema mai risolto di particolare e universale, e come Hegel, Marx ne propugna l’identità, ma gli rimprovera di non averla saputa stabilire: l’attività individuale all’interno della famiglia e della società civile non è fondata sull’individuo stesso, sui suoi bisogni, bensì sullo Stato. L’uomo cosi è concepito come un semplice “fenomeno”, un’ombra di qualcos’altro che si muove dietro le quinte. Ecco perché Henry interpreta lo scritto del ’42 come una “critica radicale di ogni sussunzione … la credenza che la realtà è realmente spiegata, esposta nel suo essere quando è esposta alla luce dell’Idea”. Reale, invece, è solo “l’attività individuale, il bisogno in cui essa si radica, la vita”: “La vita degli individui è la ragione perché è essa che spiega e che produce la formazione della famiglia e della società civile. La vita degli individui è la ragione vera perché la sua spiegazione non è un explicat, cioè una semplice teoria e, come dice Marx, una “considerazione”, un’interpretazione che lascia invariato ciò che interpreta, ma precisamente perché produce ciò che spiega e ne è così la ragione nel senso ontologico di fondazione, di fondamento” (p. 103). Ma l’individuo a cui si riferisce Marx non è un’unità ideale, bensì una pluralità di individui. “Individuo” non è un nome comune, ma un singolare di una molteplicità di nomi propri. 
L’”umanismo” di Marx si esplica, nei testi del ’43 e del ’44, oltre che nella identità di umanismo e naturalismo e nella teoria della rivoluzione e del proletariato, anche nella critica che, seguendo Feuerbach e opponendosi a Bruno Bauer, Marx rivolge alla religione. Per Bauer la religione è un concetto, prodotto dalla coscienza che si è alienata da se stessa. Ma una critica di questo tipo, condotta all’interno della coscienza stessa, non raggiunge l’effetto sperato: atto della coscienza è l’alienazione, atto di coscienza la critica di questa. Per Marx, invece, è l’”uomo” e non già la coscienza, e infatti nota Henry: “È con un colpo solo, per la verità, e con uno stesso movimento, nello stesso mutamento concettuale che l’uomo diventa la coscienza e la religione una rappresentazione”. 
Però commetteremmo un errore, se pensassimo che la critica della religione abbia un risvolto solo negativo. Essa, invece, vuole essere anche positiva, dirci cosa sia l’essere, “cioè precisamente l’uomo, il genere umano”.
Nel capitolo terzo, sulla Riduzione delle totalità, Henry da queste premesse giunge a conclusioni che infrangono molti degli stereotipi su cui si è radicata la lettura militante e marxista di Marx. Innanzi tutto, non è la storia che fa l’uomo, ma è l’uomo a far la storia: “La specie umana è questa realtà una che costituisce sia il soggetto che l’oggetto della storia, il suo principio e il suo contenuto” (p. 269). Ma la specie umana si realizza non in quanto specie naturalisticamente intesa, ma in quanto società, e la storia “è il processo di questa realizzazione”. Tuttavia Marx, criticando Stirner, rifiuta il concetto di società-persona, affermando invece che la società non è che “l’ipostasi di ciò che è altrove”. Questo “altrove” è la vita individuale, che della storia è condizione trascendentale, cioè “immanente a tutto ciò che essa rende possibile, condizione interna, essenza e in ultimo sostanza”. Dunque, capovolgendo un vecchio adagio marxista, non è la società che fa gli uomini, ma sono gli uomini a fare la società. Come a dire che se viviamo in una società di depravati o di infelici, la colpa non è dell’astratto nome che ci accomuna, ma del concreto comportamento personale che ci lega. 
Ma questa presenza centrale dell’individuale non smentisce l’altrettanto importante presenza del concetto di classe nel pensiero marxiano? No, dice Henry, se consideriamo le proprietà della classe come proprietà individuali vissute da più individui: “La realtà di una classe sociale – scrive il filosofo francese – è costituita da un insieme di determinazioni, la realtà di queste determinazioni sta nella vita fenomenologica individuale e trova in essa soltanto il luogo della sua possibilità e della sua efficacia” (p. 328). 
Si comprende perché Marx critichi aspramente la divisione del lavoro e come questa sia “il luogo ultimo a partire dal quale si effettua questa genealogia [delle classi]”: la società è divisa in classi perché gli uomini si sono divisi i compiti, ma dividere quel che c’è da fare significa anche potenziare alcuni aspetti della propria persona a scapito di altri, col risultato che l’uomo si depaupera ontologicamente, non si sviluppa completamente come avrebbe potuto e dovuto (p. 372). 
L’uomo è la realtà della realtà, e Marx nel terzo Manoscritto lo definisce “essere della natura”, espressione che va intesa in duplice modo: in senso ontico, e così l’uomo è l’”omogeneo” alla natura, le appartiene come essere portare “in sé della materialità opaca dell’essente”; in senso ontologico, è la “sensibilità trascendentale in seno alla quale il mondo si fa mondo”. L’uomo sente gli oggetti, li sente suoi, vive egli nell’intuizione dell’essere. Ma il “senso” di cui parla Marx non designa i cinque sensi tradizionali, bensì “l’insieme delle potenze della soggettività”, e la pratica non un mero agire bensì “la relazione effettiva all’essere in quanto questa si compie nella sensibilità” (p. 430). Tant’è vero, che Feuerbach ha sbagliato nel pensare la realtà della realtà nell’intuizione “e quindi l’essere come un oggetto”: l’essenza del reale sta nella pratica indicante l’”attività”, la pura attività. Feuerbach, insomma, ha sostituito l’intuizione al pensiero hegeliano, e Marx l’azione all’intuizione feuerbachiana. Qui Henry parla del grande capovolgimento operato da Marx nel pensiero occidentale, perché da sempre il soggetto è stato pensato come il luogo del darsi dell’essere, mentre nel concetto di prassi marxiana è pensato in modo radicale: è una soggettività assoluta, che rende “soggettivo” l’oggetto.
La prassi – il lavoro, la lotta, la sofferenza degli uomini sulla terra, “lo sforzo infaticabile e questa attività senza fine della vita per il proprio mantenimento” - come attività generale non esiste, perché non essendoci che individui, non possono esserci che singole azioni. Si può parlare – scrive Henry – di prassi sociale, ma solo a condizione di riferirla sempre al luogo in cui ha compimento, “nei molteplici individui che fanno, ciascuno per proprio conto, ciò che “essa” fa”. 
Marx contrappone la prassi alla teoria proprio perché, mentre nella prassi si dà questa soggettività assoluta che è ciascuno di noi – l’”immanenza radicale di questa soggettività” che il filosofo tedesco chiama “vita”, e qui bisogna fare attenzione perché non della vita del genere umano si parla, ma della vita di ogni individuo - la teoria si astrae dalla vita del singolo per viverne una tutta propria. Ora, questo è quel che Marx intende per ideologia: “l’insieme delle rappresentazioni della coscienza umana nel senso di semplici rappresentazioni” (p. 502). Eppure, nonostante l’ Ideologia tedesca si fondi su questa distinzione tra realtà e rappresentazione, Marx non la ritenne mai banale. Perché? Perché la realtà non si oppone soltanto, ma fonda la rappresentazione. Ed è alla realtà (all’individuo) che bisogna ricondurla per farle guadagnare la concretezza. La realtà, infatti, fonda la rappresentazione non solo nel contenuto, ma anche nel modo “in cui la coscienza si rappresenta l’essere vitale”. Per questo “è la struttura oggettiva di una società in un momento della sua storia la sola che possa dire che cosa pensano gli uomini che vivono in essa e perché lo pensano. È la struttura economica e sociale che fonda la “sovrastruttura” politica, giuridica, filosofia, ecc., e la determina completamente” (p. 543). La struttura oggettiva, però, è data dalla vita dell’individuo, non già dalla materia – concetto che Henry considera il “controsenso fondamentale” di Engels – che produrrebbe le idee tramite il cervello. La materia di cui parla Marx è qualcosa di assai diverso – chiosa ancora Henry - dal bieco materialismo del XVIII secolo, e in questo non possiamo non notare come avesse colto già nel segno Giovanni Gentile quando, inserendosi nella discussione tra Antonio Labriola e Benedetto Croce, metteva in evidenza la sostanziale differenza del materialismo di Marx rispetto alle forme precedenti. 
“Questo sapere della vita che è la sua stessa soggettività – scrive Henry – la sua inquietudine, la sua sofferenza o il suo appetito, che precede e fonda ogni “sapere”, ogni “coscienza” e ogni “pensiero”, lo ritroveremo in tutti i momenti decisivi dell’analisi di Marx. È ciò che costituisce la fonte invisibile e sempre presente dell’ideologia sotto tutte le sue forme, il principio, sepolto nella propria fenomenalità, e la condizione di possibilità di tutte le rappresentazioni in generale” (p. 552). 
Qui si è data una sola chiave di lettura, quella dell’”umanismo” - che è poi la principale. Tuttavia, un buon lettore può trovare altrettanto importante rileggere, alla luce della fenomenologia del filosofo francese, il rapporto Hegel-Feuerbach-Marx o ritenere interessante il confronto tra alcune intuizioni marxiane e aspetti del pensiero di Husserl e Heidegger.
Un libro – questo di Henry – che dovrebbe essere studiato più che letto, e che G. Padovani ha avuto il merito di aver curato accompagnandolo con una corposa prefazione. Attendiamo il seguito - cioè l’analisi dell’economia – sperando che né l’editrice né il curatore si ritraggano dall’impresa. Difficile, però, che Marx il filosofo, così come ci viene consegnato in quest’opera, prenda il sopravvento sull’omonimo profeta, soprattutto da quando, a causa della crisi finanziaria del 2008, si è dato il bentornato al mitologismorivoluzionario.

Indice

Michel Henry: Marx, oltre Heidegger e Husserl di G. Padovani
Bibliografia di riferimento
Introduzione. La teoria dei testi
La critica dell’essenza politica, il manoscritto del ‘42
L’umanismo del giovane Marx
La riduzione delle totalità
La determinazione della realtà
Il luogo dell’ideologia


L'autore

Michel Henry (1922-2002), tra i più importanti rappresentanti della scuola fenomenologica francese, ha esposto in L'essence de la manifestation (1963) e in altre opere successive una fenomenologia della vita come prova di sé ed affettività. Tra i suoi lavori: Philosophie et phénoménologie du corps. Essai sur l'ontologie biranienne, Puf, Paris 1965; Généalogie de la psychanalyse. Le Commencement perdu, Puf, Paris 1985; Voir l'invisible. Sur Kandinsky, Bourin, Paris 1988; Phénoménologie matérielle, Puf, Paris 1990; C'est moi la verité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996. 

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