venerdì 27 aprile 2012

Heidegger, Martin, Che cos'è la verità?

(Edizione italiana a cura di Carlo Götz), Milano, Marinotti, 2011, pp. 331, euro 30, ISBN 978-88-8273-124-3

Recensione di Giuliano Zingone - 27/02/2012

Il libro che qui presentiamo raccoglie i corsi universitari tenuti da Heidegger nel 1933 (Die Grundfrage der Philosophie) e nel 1933-1934 (Vom Wesen der Wahrheit), vale a dire contestualmente al periodo in cui il filosofo ricoprì la carica di rettore dell'Università di Friburgo.
Pubblicati nella Gesamtausgabe (vol. 36/37) con il titolo Sein und Wahrheit, entrambi i testi si caratterizzano, da una parte, per lo stile estremamente contratto, quasi stenografico, di appunti - tratto sicuramente dovuto all'eccezionale carico di lavoro che Heidegger 

dovette sopportare a causa del suo nuovo impegno accademico e che non gli permise un'adeguata elaborazione organica del materiale qui presentato-, dall'altra, per i numerosi inserti polemici legati all'attualità politica. In tal senso, ad esempio per il corso del 1933/1934 che gli editori tedeschi ci propongono attraverso la pubblicazione degli appunti di uno degli uditori heideggeriani, W. Hallwachs - intitolato, come quello del 1931/1932, Vom Wesen der Wahrheit. Quest'ultimo, tradotto in italiano da Franco Volpi per Adelphi con il titolo L'essenza della verità-, andrebbe tenuto costantemente presente per una piena intelligibilità del successivo.
L'idea della filosofia, che Heidegger sviluppa nei primissimi anni Trenta e che culmina nei due corsi universitari qui tradotti, oltre a costituire, da una parte, il coronamento della ricerca -- già ampiamente approfondita con il riconoscimento della centralità della triplicità estatico-orizzontale della 'temporalità dell'essere'(Temporalität) rispetto alla 'temporalità dell'esser-ci' (Zeitlichkeit) affermata nel corso marburghese I problemi fondamentali della fenomenologia (1927) - avviata con Essere e tempo sul 'senso dell'essere' e perfezionatasi nel frattempo nella questione della 'verità dell'essere' grazie allo scritto Dell'essenza della verità (1930, specialmente nel passaggio dal § 5 al § 6  (incluso) dello stesso, dove Heidegger retrospettivamente individuerà il primo 'balzo' nella Kehre, nell' Ereignis, introducente la categoria strategica di mistero quale "autentica non-essenza della verità"), rappresenta un'incendiaria dichiarazione di guerra, dai toni marcatamente nietzscheani, nei confronti di un esangue sapere cattedratico e di una nozione di lotta politico/spirituale - come nel caso dell'allocuzione di Kolbenheyer ferocemente stigmatizzata da Heidegger durante il corso -  che ha abbandonato il proprio radicamento nella vita e nella lotta di quel popolo che dell'originaria interrogazione greca sull'essere deve essere il rinnovatore, pena la propria definitiva disgregazione e l'emarginazione definitiva della questione della metafisica. Il popolo tedesco, sì caldamente invocato in queste pagine, deve poter tornare, per Heidegger, proprio per la sua organica cooriginarietà linguistica e concettuale con il passato greco - quel passato mai realmente passato che torna costantemente a colpire l'uomo, con la potenza e la violenza di un'intimazione primigenia, nel momento in cui quest'ultimo viene messo di fronte alla scelta dell'esistenza autentica -, ad ascoltare la lontana ingiunzione dell' Inizio, la fondante voce dell'Essere palesatasi originariamente presso i Greci e presto spentasi sotto l'incalzare di una nuova concezione della verità fondata sul primato della 'dottrina delle idee' e del soggetto logocentrico.
Ed effettivamente, il termine ricorrente, strategico, in entrambi i corsi è : 'lotta' (Auseinandersetzung), qui tradotto con   "diremzione scismatica", come conflitto radicale e senza quartiere che segue ad una preliminare "decisione scismatica" (Entscheidung) pro o contro una determinata concezione dell'essere e della verità.
Nel primo corso, infatti - vòlto ad una pugnace disamina di Hegel quale culmine della metafisica occidentale (più tardi questo ruolo sarà di Nietzsche) già ampiamente analizzato da Heidegger in molteplici occasioni a partire da Essere e tempo fino al corso del 1930/31 sulla Fenomenologia dello spirito - sono prese in considerazione le due componenti fondamentali - cristianesimo e matematicità - che presiedono, appunto, all'affermazione della metafisica e che, proprio per ciò, vanno destituite di fondamento mediante una rigorosa lotta culturale.
Platone con la sua dottrina meta-sensibile delle idee - che costituirà più tardi il paradigma cristiano della svalutazione del mondo -, Cartesio (e la sua filiazione leibniziano-wollfiano-baumgarteniana guidata dal principio logicistico dell'essere come possibile, della quidditas come pensabile non-contraddittorio) con il primato 'matematico' della consapevolezza, del sapere di un ego puntuale ed auto-referenziale scisso dal contatto fondante con l'esperienza, aprono la strada alla loro sintesi nel pensiero, appunto, dello Hegel della Scienza della Logica, fondato sullo Spirito assoluto che riassorbe, neutralizzandone la natura oggettiva di potenze, gli antagonismi e la lotta nella propria identità totalistica dopo averli attraversati.
Così, il carattere effettivo, inaggirabile, inscritto nella natura stessa delle cose, del contrasto quale suprema legge d'essere è destinato progressivamente ad estenuarsi nel mero contrasto concettuale e, da ultimo, nell'annullamento stesso dell'antagonismo e nel primato di un'ovvietà non problematica veicolata dalla concezione della 'verità come correttezza' contrapposta alla 'verità come disascosità' (alétheia, s-velatezza,s-velatività). La prima è stata sempre spacciata - a partire da Platone e, per certi versi, Aristotele - per quella originaria, sicché abbiamo, da una parte, un soggetto che determina, attraverso le categorie della  metafisica occidentale operanti nel luogo deputato all'accertamento della verità, vale a dire la proposizione, i caratteri e la natura dell'oggetto. La seconda, dopo l'affioramento nel pensiero dei presocratici - in particolare, in Eraclito e Parmenide - come physis (aprente potenza originaria, spalancarsi primigenio di un ambito, 'schiudentesi imporsi' tendente alla stabilità ed alla presenza come consistenza nei limiti delle possibilità essenzialmente proprie di ciascun essente,'caos' in senso esiodeo), quindi, come dis-ascosità, è stata occultata pur essendo la nozione originaria di verità, cosicché l'uomo greco progressivamente perde di vista la consapevolezza, propria di un Eschilo o di un Sofocle, che a dominare la realtà non è l'individuo - categorie come questa, così come quella di 'libera personalità', dice Heidegger, sono estranee alla mentalità greca - bensì la Potenza del 'predominante', della physis.
Ed è proprio la physis, questa originaria potenza, costituente e disponente, che giunge addirittura a scindersi, quindi a lottare con se stessa, a porre la lotta addirittura nel proprio cuore per poter arrivare a comunicare, come destino, con l'uomo ingiungendogli di collaborare all'allestimento di un mondo inteso come 'dimora dell'Essere', ad avere la centralità nella serrata analisi del frammento 53 di Eraclito - quello sul pòlemos come 'padre' e 'dominatore' di tutte le cose - che occupa la parte iniziale del corso del 1933/34 e che lo differenzia costitutivamente dall'omologo del 1931/32, vòlto esclusivamente all'analisi della platonica 'allegoria della caverna'. 
La physis - cui l'uso linguistico e concettuale post-aristotelico, a partire dalla romanitas fino alle articolate elaborazioni giudaico-cristiane del Medioevo, ha sovrapposto i caratteri della mera 'natura' fisica, impoverendone fatalmente l'inaggirabile spessore ontologico-fondamentale - è, essenzialmente, in questa serrata analisi heideggeriana, accadimento della disascosità, come edèixe ('mostrare') e come èpoìese ('ad-fermare' consolidante come ulteriore determinatezza dello 'stagliare' come 'messa-in-opera-di-un-mondo'), auto-istituzione della potenza originariamente generante come 'dimensione' intrascendibile della possibilità stessa della manifestazione di qualsivoglia fenomeno, di qualsivoglia essente, sia esso assente o presente, così come - a maggior ragione- della traduzione linguistica dei fenomeni nelle proposizioni - veri e propri prodotti 'derivati' (si veda il § 33 di Essere e tempo) dell' interpretazione quale originario raccoglimento silente nella strapotente corrente d'essere che, come 'lingua madre' (§ 5), come lògos (inteso come 'posare-portar fuori-raccogliente per custodire l'aperto così inaugurato come unità dei reciprocamente contrastanti' nel senso di Introduzione alla metafisica) si pone , ma solo come docile presagio, nei dintorni del soffio vivificante ed aprente della sovrumana quiete del 'Niente nientificante', all'ombra della 'voce afona dell'essere' quale scaturigine 'donante' del senso, quale senso che si dà, quale Er-eignis.
Se volessimo usare ancora il linguaggio di Introduzione alla metafisica (1935), questa Potenza originaria sarebbe il tò deinòn che - come  dìke, come giustizia, ordine (còsmos), originaria articolazione di un  destino che si fa mondo istituendo la polarità oppositiva delle regioni dei divini e dei mortali, del cielo e della terra - soggioga e guida il tò deinòtaton, il 'più inquietante', cioé l'uomo, espropriandolo della sua pretesa autosufficienza e trasformandolo nell'instancabile 'guardiano' del consolidamento del mondo così dischiuso in un mondo dello spirito mercè la téchne, che altro non é che il perfezionamento creativo di quell'essenza della cosa - l'idea, l'essere - che previamente ci investe ogniqualvolta ap-prendiamo qualcosa in un anticipante 'scorgere' (er-blicken).
Il termine greco téchne, infatti, non è assimilabile alla nostra parola 'tecnica' né esprime un'idea di sapere come conoscenza meramente teorica, bensì significa l' 'intendersene di qualcosa', la conclamata capacità di mettere-in-opera l'attitudine di una cosa a realizzarsi seguendone l'idea , la preliminare configurazione della sua essenza, della sua 'possibilità' oggettiva. In questo senso, la téchne implica un profondo riguardo verso la natura specifica della cosa affrontata, tant'è che i Greci usano anche la locuzione téchne epimèleia per indicare l'accorto 'prendersi cura' (M. Heidegger, Nietzsche, Milano 1995, p.166).
La filosofia diventa così eminente lotta per la vita o per la morte spirituale, se è vero che lo spirito - lungi dal potersi caratterizzare come intelligenza tecnica subalterna alla manipolazione tecnocentrica e/o statocentrica o come mero acume, secondo le profetiche parole del discorso di Rettorato - e non potendo mai essere dato come qualcosa di definito una volta per tutte (come accade invece per l'animale)  è solo e soltanto quell'incoercibile volontà di suscitare un mondo sulla base dei suggerimenti dell'essere, sulla base di una fondante 'apertura' alle potenze originarie dell'esistenza ed adempie questo compito esclusivamente ingaggiando un inesausto combattimento con la velatezza nella duplicità delle sue articolazioni, sia essa la velatezza sovrana e mai trascendibile della physis adombrata da Eraclito nel fr. 123 (Physis kryptesthai philei), sia essa la velatezza intesa come quell' 'apparenza' (Schein) - connaturata all'insorgere della verità come 'apparire' (Erscheinung), come venire alla presenza uscendo dal velamento, che Heidegger individua come l'autentico senso greco della verità - che Parmenide, nel suo poema filosofico, invita a tenere costantemente presente, insieme con la minaccia del nulla, come la via dell'errore cui il filosofo è costantemente esposto nel corso della sua lotta. Così la verità, come tensione all'acquisizione di un mondo inteso come stabile permanere in sé di una struttura, come messa-in-opera, dettata dall'essere, di qualcosa nella totalità delle sue determinazioni essenziali, ossia delle sue possibilità autentiche, è essenzialmente conquista e lotta dell'uomo contro la non-verità, contro l'incombente e mai trascendibile minaccia dell'occultamento.
Il culmine di questa lotta - e con ciò entriamo nel cuore del corso del 1933/34, anche se già da tempo, con la nostra analisi, stiamo operando nell'ambito delle problematiche fondamentali dello stesso - viene raggiunto da Platone nella celebre 'allegoria della caverna' contenuta nel Libro VII della Repubblica (514 a - 517 a 6): in essa, attraverso quattro stadi, ha luogo il tormentato processo di elevazione di un prigioniero - simbolo dell'uomo deietto della quotidianità media - dall'originaria condizione di dipendenza dalle ombre nella caverna alla contemplazione delle idee quale luogo dell'essere sino all'intellezione finale dell'idea suprema, l'idea del bene (Rep., VI, 506-511 e VII, 517 a-c), eco dell'antica potenza generante della physis ma ancora suprema potenza s-velante, concedente/accordante verità ed essere, anticipazione della Lichtung (' radura', 'contrada').
Pur avendo sempre a che fare con svelatezze parziali - anche l'ombra è pur sempre qualcosa di svelato, qualcosa che si mostra ma non come dovrebbe, proprio in virtù della dialettica oggettiva di quella dòxa che, lungi dal significare mera 'opinione', ospita invece - nella successiva e conclusiva analisi heideggeriana del Teeteto -, come fenomeno dell' Ansicht ('veduta'), la complessa e parmenicida dinamica di ri-conoscimento/mis-conoscimento, di presentazione/ri-presentazione immanente all'apparente enigma, generato dall'essere stesso nello scontro delle sue componenti oggettive e soggettive, della 'biforcazione' conseguente al fenomeno della pseudés dòxa - il prigioniero, lungo il suo itinerario di emancipazione, si rende conto solo a partire dal terzo stadio che il supremo dolore derivante dalla lancinante sofferenza per l'incontro con la luce del sole altro non è che il prezzo da pagare per la visione delle idee, che nell'allegoria è rappresentata dalla potenza illuminante e disvelante della luce, metafora della conoscenza autentica del vero essere delle cose attingibile solo da parte di un preventivo 'apprendere' (come Ver-nehmen e Vor-nehmen, come accoglimento ed elaborazione progettuale) quello 'sguardo' che preliminarmente l'Essere ci rivolge e al quale dobbiamo conformarci attraverso un ri-orientamento radicale della nostra esistenza in direzione delle nostre più proprie possibilità - paideìa (Rep., 514 a 1 sgg.) intesa come 'cura' (Sorge, epiméleia) del Sé in senso foucaultiano e quindi antagonisticamente a qualsivoglia torsione teoreticistica -, acquisizione che poi deve necessariamente spingere colui che si è liberato a tornare, da liberatore e nel rischio della morte, nelle profondità della caverna per ottenere, di nuovo, quell' 'esperienza fondamentale' (eundo assequi), evocata poi nella Lettera VII (340b-344e), dell'accadere della disascosità nel genuino dialogo filosofico, nella genuina interrogazione che sarà poi attivata nel Teeteto - luogo della giustificazione del non-essere e della sua cooriginarietà antagonistica con l'essere - con coloro che vogliono 'udire' (Er-hören) e 'scorgere' (Er-blicken) autenticamente.


Indice

Nota all'edizione italiana

Semestre estivo 1933

Avviamento: L'interroganza di fondo della filosofia e il fondale generarsi della nostra genitura

Parte principale: Interroganza di fondo e metafisica. Preparazione di una diremzione della posizione di Hegel

Capitolo primo: Configurazione, trasformazione i improntamento in senso cristiano della metafisica tramandata

Capitolo secondo: Il sistema della metafisica del tempo nuovo e la prima delle sue <due> principali determinazioni di fondo: la matematicità

Capitolo terzo: Determinazione cristiana e pensiero metodico-matematico della fondazione nei sistemi metafisici del tempo nuovo

Capitolo quarto: Hegel. Il compimento della metafisica in quanto teo-logica

Conclusione

Semestre invernale 1933/34 

Avviamento: Capziosità e inaggirabilità dell'interroganza di stanziazione

Parte prima: Verità e libertà.Un'interpretazione dell'allegoria della caverna nella "Repubblica" di Platone

Capitolo primo: I quattro stadi del generarsi della verità

Capitolo secondo: L'idea del bene e la disascosità

Capitolo terzo: L'interoganza dello stanziarsi della disverità

Parte seconda: Un'interpretazione del "Teeteto" di Platone in vista dell'interroganza dello stanziarsi della disverità

Capitolo primo: Considerazioni preliminari sul concetto greco di conoscenza

Capitolo secondo: Le risposte di Teeteto all'interroganza dello stanziarsi del sapere e la refutazione di queste risposte

Capitolo terzo: L'interroganza dell'attendibilità della pseudés dòxa

Appendice I: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre estivo 1933

Appendice II: Appunti e schizzi per le lezioni del semestre invernale 1933/34

Postfazione del curatore dell'edizione tedesca

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