martedì 24 aprile 2012

Margolis, Joseph, Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?

Milano, Mimesis , 2011, pp. 177, euro 16, ISBN 978-88-5750-259-5

Recensione di Alfonso Ottobre - 15/02/2012

La pubblicazione in italiano di questa raccolta di saggi di Joseph Margolis,  filosofo statunitense classe 1924, poco conosciuto in Italia, ma ben noto e stimato al di fuori della nostra penisola, dovrebbe essere innanzitutto accolta come un doveroso, seppur tardivo, riconoscimento dell’importanza di un autore che da circa mezzo secolo partecipa attivamente al dibattito filosofico, influenzandone spesso l’orientamento, soprattutto nell’ambito dell’estetica e della filosofia dell’arte. 


Chi segue con particolare interesse le vicende filosofiche anglo-americane conosce infatti la posizione peculiare di Margolis all’interno di quel contesto: egli infatti si contraddistingue per uno stile di pensiero che si distacca nettamente dal canone analitico, prediligendo invece il confronto con la tradizione pragmatista americana e quella ermeneutica europea . Tali caratteristiche contribuiscono a delineare la figura di uno studioso in grado di aggiungere idee nuove, o magari soltanto poco frequentate dai suoi colleghi, alle discussioni che vertono sugli annosi problemi della filosofia e della critica d’arte. Si pensi, per fare un esempio, al titolo del libro, che poi è anche il titolo di uno dei saggi in esso contenuti: sembrerebbe la ripresa di una vecchia questione ontologica ciclicamente presente nel dibattito estetico anglo-americano. In realtà, come spiega Andrea Baldini (curatore e traduttore del libro) nell’introduzione, “chi si aspetta di leggere un saggio di ontologia analitica…potrebbe rimanere in qualche modo deluso” (p.7); la domanda infatti non è posta con l’intento di spingerci a cercare una definizione che stabilisca le condizioni necessarie e sufficienti per individuare un’opera d’arte, bensì “ha a che vedere con il significato fondamentale delle pratiche artistiche” (p.8) e sulla loro capacità di svelarci aspetti basilari della condizione umana.
Il libro è costituito da lungo “Prologo”, quattro saggi e un breve epilogo. Il sottotitolo  del Prologo, “Al di fuori e al di là del dibattito tra Modernismo e Postmodernismo”, sintetizza meglio di ogni possibile considerazione il tema affrontato in via preliminare da Margolis. Essere infatti fuori e oltre quella diatriba significa riconoscere da un lato la futilità di un dibattito che è senza sbocco perché, pur giungendo a conclusioni diametralmente opposte, entrambi i contendenti condividono quegli assunti di base che invece andrebbero messi in discussione; dall’altro significa superare l’impasse proiettandosi invece verso il vero nodo problematico, “una sfida più profonda” come scrive lo stesso Margolis, “quella tra i sostenitori dell’invarianza modale e i sostenitori del flusso” (p.32). In questo modo, il filosofo statunitense può introdurre il tema centrale della sua riflessione, l’idea che percorre e informa l’intero libro, vale a dire il tema della “storicità”, “l’unico contributo, il più importante e originale, che il mondo moderno post-Rivoluzionario abbia aggiunto all’armamentario delle risorse concettuali dell’occidente”(p.33). Utilizzare consapevolmente tale risorsa concettuale, vuol dire infatti uscire da un falso dilemma che sembrerebbe costringerci a scegliere tra l’essenzialismo modernista e lo scetticismo rinunciatario postmodernista, e riconoscere che “l’oggettività è costruita e ricostruita senza sosta nel flusso della storia; che è sempre stato così…e che…la nostra scienza e la nostra critica d’arte (tra le altre discipline) non ne hanno mai sofferto più di tanto”(p.36).
Quasi come a voler mettere alla prova la bontà delle argomentazioni presentate nel Prologo, nel primo saggio del volume, intitolato “La storia dell’arte dopo la fine della storia dell’arte”, Margolis prende in esame e sottopone a feroce critica le teorie di due critici illustri che a suo giudizio rappresentano magnificamente le due fazioni in campo: Clement Greenberg e Arthur Danto. Diciamo subito che il merito del saggio sta non tanto nella critica diretta alle due posizioni teoriche in sé (che soprattutto nel caso di Danto non è certo impresa titanica), quanto nella possibilità lucidamente intravista da Margolis di analizzare e smontare le due tesi contrapposte sulla base delle loro caratteristiche (sorprendentemente) comuni. Entrambi i “campioni” in gara sono infatti, secondo Margolis, “vittime della stessa tendenza essenzializzante” (p.46), i loro giudizi non sono differenti “in spirito”, e le loro dottrine in fondo “sono forme di platonismo, letture false della storia” (p.43). Ma soprattutto entrambe le teorie “commettono lo stesso errore concettuale nel giustificare l’innovazione storico-artistica che reclamano di aver scoperto…tutte e due confondono le opere d’arte con gli oggetti materiali ordinari” (p.51): Greenberg confonde la bidimensionalità della tela con quella della pittura, mentre Danto fonda la sua pretesa di indiscernibilità tra due oggetti confondendo i prodotti fisici con le opere d’arte. Ciò accade, secondo Margolis, perché entrambi non tengono conto del fatto che le opere d’arte possiedono (e le mere cose reali non possiedono) strutture/proprietà Intenzionali , vale a dire “tutte quelle proprietà comunemente definite come rappresentazionali, semiotiche, simboliche, espressive, stilistiche, storiche e di significazione” (p.59). Se non si capisce questo, ci si preclude la possibilità di capire la natura peculiare delle opere d’arte e quale sia il modo migliore per percepirle, analizzarle, valutarle e sottoporle a critica.
La questione del nostro approccio valutativo alle opere d’arte è il tema che lega il secondo saggio del libro, “Relativismo e relatività culturale”, agli argomenti trattati in precedenza. Apparentemente centrato più su questioni di teoria e di logica della conoscenza che non di filosofia dell’arte, il saggio è in realtà il punto di articolazione più importante del libro, perché spiega i motivi di alcune radicali scelte “di campo” dell’autore, che sono poi alla base delle sue idee sull’arte. La difesa del relativismo da parte di Margolis non si basa infatti soltanto su una convinzione di tipo “metafisico”, e cioè sull’idea che le cose reali non possiedono una struttura immutabile che funga da fondamento ontologico e epistemologico (flusso vs invarianza modale); bensì anche sull’insegnamento profondo che deriva dalla consuetudine di trattare oggetti ricchi di proprietà intenzionali come le opere d’arte; è in queste occasioni infatti che “il relativismo gioca in casa” (p.80) e può dimostrare tutta la forza della sua logica. Come spiega efficacemente Margolis, “è la natura elusiva delle opere d’arte a obbligarci ad abbandonare una bivalenza stretta” (p.89); e in un altro punto: “un’analisi appropriata dell’Intenzionalità non è ostaggio di una qualche strategia che privilegi il relativismo. E’ esattamente il contrario: le proprietà Intenzionali, che caratterizzano il mondo della cultura umana…ci indicano in definitiva quali dovrebbero essere le nostre politiche in campo aletico, ontico ed epistemico” (p.92)
Il terzo saggio porta il titolo del libro: Ma allora, che cos’è un’opera d’arte? La domanda però ora suona in modo differente, dato che il lettore, grazie al prologo e ai precedenti saggi, è adesso in grado di capire il significato del quesito sullo sfondo di un contesto filosofico meglio determinato. Le risorse di cui Margolis intende avvalersi per avvicinarsi alla risposta sono state infatti ampiamente discusse nel saggio precedente; i discorsi sulle proprietà Intenzionali e sugli enti che ne sono provvisti, sulla assoluta non necessarietà di ammettere l’immutabilità della natura di tali enti, sulle difficoltà di giudicarli secondo una logica bivalente, sono tutti nuovamente al servizio della tesi di base dell’autore, e cioè che “le opere d’arte sono enti fisicamente incorporati e culturalmente emergenti” (p.98) che, si può aggiungere conoscendo già il resto del saggio, posseggono storie, anzi, forse ancora meglio, sono storie, “sviluppi intenzionalmente strutturati disposti su un intervallo temporale come enti individuati” (p.123) come scrive lo stesso Margolis tentando una definizione sintetica. Certo, gli appassionati di definizioni rimarranno delusi: la definizione sembra decisamente un po’ troppo “larga” per poter contare come tale. Ma anche questo sembra far parte della strategia dell’autore: le definizioni dell’arte, a suo giudizio, falliscono proprio perché si ostinano a confondere le condizioni attraverso le quali le opere d’arte, in quanto enti culturali, sono individuate e re-identificate e le condizioni che regolano la loro natura mutevole. Non vi è nulla di immutabile nella natura delle opere d’arte, come è dimostrato del resto dalla variabilità delle interpretazioni possibili che le riguardano, sebbene le nostre pratiche conoscitive condivise siano perfettamente in grado di continuare a identificarle come tali: “L’unità intellegibile delle opere d’arte è più profonda dei nostri canoni ipotetici perché, quando ci muoviamo da un esemplare all’altro, siamo già convinti delle infinite possibili varianti di numero e natura che le opere d’arte generano grazie alla loro stessa esuberanza” (p.128).
L’ultimo saggio del libro, intitolato “Riproducibilità tecnica e umanesimo cinematografico” si potrebbe definire una messa in opera, focalizzata sul cinema, degli strumenti concettuali presentati in precedenza. Margolis si rivolge con piglio critico ad alcune riflessioni sul cinema assai note (anche se un po’ vecchiotte), per dimostrare come esse si basino sulla presunzione che ci sia un’unica verità riguardo le arti e che quando tale verità viene “mancata” allora si ha l’impressione che sia quella specifica forma d’arte ad essere sbagliata. Anzi, dato il parallelismo che Margolis porta avanti tra natura dell’opera d’arte e natura dell’essere umano, il vero problema nasce da una forma di presunzione ancora più grande, vale a dire quella di ritenere che l’essenza degli esseri umani sia immutabile: essi invece “sono formati e trasformati nello stesso modo in cui lo sono le opere d’arte; sono modificati dal mondo dell’arte circostante così come dalle loro tecnologie; così modificati , gli esseri umani danno e ridanno forma (a loro volta) alle arti, alle tecnologie e alle storie appartenenti alla loro stessa cultura” (p.139). Ciò ha portato, ad esempio, un filosofo come Benjamin a dare un giudizio sull’arte cinematografica che si è presto mostrato inadeguato e fuorviante, sopravvalutando la questione dell’aura, come se essa fosse “una norma senza tempo che domina la storia dell’arte” (p.145) Una volta superata l’ansia legata ad una presunta incontrollabilità della tecnologia, Il cinema ci appare, secondo Margolis, in una situazione privilegiata nello svolgere quella funzione fondamentale dell’arte che è il portare l’uomo a comprendere la sua condizione: “in questo momento storico, il cinema conferma in modo convincente quanto sia plausibile considerare la comprensione di noi stessi e del nostro mondo come frutto di un montaggio in senso analogo al montaggio dei mondi cinematografici” (p.165).
Per la sua esplicita volontà di inserire la riflessione sull’arte in una più ampia ricerca di antropologia filosofica, Margolis rappresenta degnamente una tradizione di studi importante del suo paese, ancora oggi molto vitale, che si ispira alla figura e al lavoro di John Dewey. Speriamo che, come accaduto in passato per il  suo illustre predecessore, verrà data la possibilità ai lettori italiani di conoscere altre, e magari più sistematiche, fatiche filosofiche di questo autore. 


INDICE 

Introduzione
Prologo. Al di fuori e al di là del dibattito tra Modernismo e Postmodernismo 
1. La storia dell’arte dopo la fine della storia dell’arte 
2. Relativismo e relatività culturale
3. Ma allora, che cos’è un’opera d’arte?  
4. Riproducibilità tecnica e umanesimo cinematografico 
Epilogo

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