lunedì 5 novembre 2012

Honneth, Axel, Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979 - 1989

a cura di Eleonora Piromalli, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 169, euro 14, ISBN 978-88-5750-856-6

Recensione di Denise Celentano – 22/04/2012

Il volume raccoglie alcuni fra i testi più rilevanti pubblicati nel decennio 1979 - 1989 da Axel Honneth, esponente della terza generazione della Scuola di Francoforte; essi sono esemplificativi dell'evoluzione teorica dell’autore, culminata nella più tarda e compiuta teoria sociale normativa del riconoscimento consegnata al testo del '92 Lotta per il riconoscimento. Gli scritti preannunciano in modo abbozzato e programmatico, all'interno di contorni teorici ancora in via di definizione, obiettivi di analisi che si dispiegheranno sistematicamente solo negli anni '90: 

nel volume il percorso si articola in un sempre superiore livello di determinazione delle categorie, finalizzate alla spiegazione del conflitto di classe in chiave normativa e morale. 
Complessivamente, gli scritti di Honneth testimoniano almeno due esigenze teoriche: da un lato, l'autore intende contestualizzare le istanze morali delle classi subordinate nell’ambito del conflitto con le classi dominanti, sondandone il potenziale d’azione politica; dall'altro, Honneth intende recuperare il contenuto normativo ed emancipativo della teoria, anche attraverso un costante confronto con l’eredità marxiana e con le precedenti evoluzioni della teoria critica. Secondo Honneth, che in questo segue una linea di pensiero habermasiana, Marx non ha considerato a sufficienza l’elemento di interazione discorsiva e comunicativa connesso al carattere morale ed emancipativo del lavoro sociale; d'altro canto nella maggiore astrattezza della teoria di Habermas è implicito un sostrato sostantivo che, se ignorato, porta un indebolimento delle istanze normative della teoria (Cfr. in particolare il saggio Etica del discorso e concetto implicito di giustizia, p. 129 e segg.); tali limiti costituiscono, tuttavia, il terreno sul quale Honneth articola le proprie ipotesi alternative. 
I primi scritti raccolti nel volume tematizzano una “fenomenologia della subordinazione sociale” (p. 11) particolarmente attenta, come rileva la curatrice e traduttrice Piromalli, al problema dell’identità “implicitamente declinata come ‘identità di classe’” (ibd.) e sviluppata tenendo conto del punto di vista dei soggetti implicati. In La "biografia latente" dei giovani della classe lavoratrice, Honneth muove dalla considerazione che le dinamiche di costruzione dell'identità sono determinate dai contesti di socializzazione ma anche da una specifica cultura di classe non esplicitata: nel concetto chiave di ‘biografia latente’, è possibile ricomprendere l'identità implicita dei soggetti appartenenti ad una classe cui pertengono modelli e culture specifiche, una sorta di "memoria collettiva" (p. 36) di classe tramandata "in modo non intenzionale, e pertanto 'oggettivo'" (p. 35), al contempo suscettibile di modifica e rielaborazione da parte dei soggetti sociali. Il concetto di identità sociale viene allora ricondotto alla sua specificità di classe, dal momento che al di sotto del sistema valoriale dominante la classe operaia mantiene "strutture di valori e di azioni non assimilate ad esso, bensì indipendenti" (p. 37). Tale indipendenza non esclude tuttavia un condizionamento e una frizione coi modelli egemoni, determinando tentativi di "'minimizzazione'" e di "rideterminazione di modelli tipici di espressione e di azione" (p. 38): è sul terreno della tensione fra norme dominanti e identità collettiva di classe che si sviluppano le potenzialità della critica sociale delle classi subordinate. 
Il sostrato culturale e morale delle classi subordinate è da Honneth concepito dunque in termini di risorsa per l’emancipazione dei soggetti (cfr. p. 13): come rileva Piromalli, qui risiede fra l’altro l’originalità dell’autore, che si distanzia dalla rappresentazione tradizionale delle classi lavoratrici come “prive delle risorse per interpretare la propria condizione di classe” (ibd.); un punto di vista che implica, fra l'altro, il rifiuto della riduzione corrente dell'azione sociale dei lavoratori "alla dimensione meramente cognitiva della coscienza operaia" (p. 36). A innescare il conflitto di classe è, secondo Honneth, non già la consapevole rappresentazione di un'alternativa sociale migliore, bensì la violazione di quello che Moore ha definito ‘contratto sociale implicito’ fra classi dominanti e classi dominate: il venire meno di quella "serie di accordi reciproci non verbalizzati" (p. 115), di quel “consenso morale fragile e aperto” (p. 116) oggetto di continua e implicita rinegoziazione sociale. Laddove tale consenso risulti minacciato, la tensione conduce a un’opposizione di tipo reattivo da parte delle classi subordinate, legata alla percezione del “mancato rispetto delle aspettative di riconoscimento che tali classi nutrivano verso la collettività” (p. 17). Declinato in termini morali, il conflitto di classe non può dunque esclusivamente risolversi nella reazione a un’ineguale distribuzione delle risorse materiali: nella sua spiegazione deve rientrare la "ripartizione asimmetrica di opportunità di vita dal punto di vista culturale e psicologico" (p. 15). Lo stesso conflitto che scaturisce da deprivazioni di tipo materiale conduce infatti alla "percezione, ad essa associata, che il proprio contributo alla riproduzione della società non venga adeguatamente riconosciuto" (p. 16). E' su questo terreno che maturano "zone di conflitto normativo che si sono silenziosamente insinuate nella quotidianità" (p. 108) - idea formulata sulla scorta del Richard Sennett teorico della "diseguale distribuzione della dignità sociale" (p. 109) in The Hidden Injuries of Class. La reazione pragmatica alle esperienze di ingiustizia consiste allora, nel contesto di controllo sociale imposto dalle classi dominanti, in "azioni pre-politiche individualizzate, come anche in tentativi solipsistici [...] di innalzare simbolicamente lo status della propria attività lavorativa" (p. 109), ma anche in tentativi di "controllo informale sul processo produttivo" (p. 110) per un'"autodifesa pratica sul posto di lavoro" (ibd.), nell’ambito di un conflitto di classe "mantenuto al di sotto della soglia dell'espressione articolata" (p. 108).
Tali aspetti non sono tuttavia sufficientemente raccolti dalle precedenti versioni della teoria critica. In Coscienza morale e dominio di classe l'autore osserva che se Adorno e Marcuse non hanno ricollegato "i principi normativi della loro critica della società ad una moralità empiricamente effettiva" (ibd.), finanche Habermas è teoricamente insufficiente laddove mostra di trascurare "tutte le forme esistenti di critica della società che non siano riconosciute dall'opinione pubblica politicamente egemone" (ibd.): la sua etica del discorso focalizza infatti le sole forme espressive delle classi dominanti, presentandole tuttavia in termini formalistici e universalistici. Vi è piuttosto, osserva Honneth, una radicale distanza tra "le idee di giustizia su base normativa formulate nella cultura specialistica borghese e nelle avanguardie politiche" (p. 95) e "la moralità sociale altamente frammentaria e dipendente dal contesto espressa dalle classi subordinate" (ibd.). Preso atto di tale involuzione in seno alla teoria critica, Honneth si propone di mostrare che "al di sotto della facciata di integrazione tardo-capitalistica, potrebbe nascondersi un ambito di conflitti pratico-morali nel quale i vecchi scontri di classe continuano a riprodursi in forme nuove" (p. 94). Tale ambito di conflitti affonda le proprie radici in un’‘etica sociale delle classi subordinate’ che si presenta come “un eterogeneo complesso di richieste di giustizia formulate in reazione ad esperienze di ingiustizia" (p. 96); lungi dall'essere consapevolmente formalizzata in un coerente sistema morale di principi e giustificazioni argomentate, essa indica le "possibilità di giustizia rese ineffettuali dai rapporti di dominio" (ibd.) in virtù di quella ‘moralità interna’ o ‘coscienza dell'ingiustizia’ che agisce in forma di "filtro cognitivo" (ibd.), espressa da Barrington Moore. La sua mancata formalizzazione non va intesa come espressione di "un'inferiorità cognitiva delle classi subordinate" (ibd.), bensì come risultato del suo contesto storico-sociale di elaborazione. Per riconoscere il contenuto morale delle azioni delle classi subordinate al di là degli schemi teorici correnti che fissano la moralità ai paradigmi formalistico-argomentativi propri della classe egemone, è dunque necessario un lavoro categoriale che riesca a non "lasciarsi sfuggire questa moralità implicita" (p. 99), di modo che le "azioni sociali che, a prima vista, sembravano prive di ogni intenzione e orientamento pratico-normativo, possono invece essere riconosciute come manifestazioni della coscienza dell'ingiustizia sociale" (ibd.): vi è qui uno dei primi riferimenti alla lotta per il riconoscimento, in base al quale i soggetti nutrono delle aspettative morali in termini di opportunità sociali di stima di sé. 
E’ ancora sul terreno del lavoro che si concentra la riflessione di Honneth in Lavoro e azione strumentale. Problemi categoriali per una teoria critica della società, poiché è a suo avviso a partire da una sua rivalutazione che può e deve svilupparsi una teoria dell'azione in chiave emancipativa. A tal fine Honneth riflette sullo stato del marxismo contemporaneo, rilevando la diffusa convinzione che vi sia una "crisi della teoria della rivoluzione" (p. 43) che non consenta più di conciliare l'analisi del capitale con gli obiettivi della teoria critica. Secondo l'autore va recuperato il concetto marxiano di lavoro sociale, compreso "non solo in relazione allo sviluppo economico della società, ma anche alla finalità pratico-normativa di una Bildung rivolta all'emancipazione" (p. 44). Se, data la sua "posizione categorialmente privilegiata" (ibd.) nella riflessione di Marx, il significato del lavoro vi è declinato in più modi (come "forma specificamente umana di riproduzione dell'esistenza" (ibd.); come attività sociale che consente un'apertura cognitiva alla realtà; come “Bildungsprozess" [ibd.]), tale polisemicità del concetto di lavoro è ad oggi ridotta alle letture intersoggettivistiche o strutturalistiche – tanto più che le teorie del diciannovesimo secolo (per esempio, quelle di Max Scheler e Hannah Arendt) hanno proseguito nel processo teorico di negazione del nesso normativo fra lavoro e emancipazione, in virtù di un generalizzato appiattimento dell'analisi alla situazione storico-sociale sopraggiunta con il taylorismo: di qui il "graduale processo di depurazione del concetto di lavoro dai suoi tradizionali contenuti normativi" (p. 61) con l'esito che oggi "nessuno attribuirebbe più un'azione emancipativa al lavoro in quanto tale" (p. 151). D’altronde, se Marx secondo Honneth non si è spinto al punto di "comprendere il processo lavorativo direttamente come un processo di formazione in grado di liberare motivi pratico-morali" (p. 54), è perché "metodologicamente richiesto dalla riconversione della sua teoria della società in analisi del capitale” che come critica immanente “può tematizzare le connessioni d'azione sociale unicamente nella forma di determinazioni del capitale". Di fronte alle difficoltà che Honneth mette in luce, all’interno dello stesso paradigma marxiano, nel connettere teoria dell’azione sociale e teoria dell’emancipazione (pp. 54 - 55), egli propone dunque di fare ricorso alla distinzione elaborata da Habermas tra agire comunicativo e agire strumentale, abbandonando quindi il monismo della produzione teorizzato da Marx. Al contempo, però, in questo scritto egli intende integrare nella sfera habermasiana dell'agire strumentale un criterio normativo interno, relativo allo svolgimento di un’attività lavorativa non alienata, ossia il più possibile rimessa al controllo e al sapere del lavoratore (pp. 85-86). 
Il confronto con l’eredità del marxismo prosegue in La logica dell'emancipazione - sull'eredità filosofica del marxismo. Se il marxismo analitico è il solo in cui il marxismo sopravviva "nella sua forma tradizionale" (p. 140), tuttavia soffrendo del contrasto tra le prognosi empiriche della teoria e la prova dell'esperienza storica (cfr. pp. 140 - 41); la "critica riparatrice del marxismo" (p. 142) – distinta in: marxismo in chiave di teoria dei giochi, marxismo teorico-culturale, marxismo in chiave di teoria del potere - fa strada all'idea che una teoria sociale ispirata a Marx debba rinunciare al primato funzionalistico recuperando gli altri ambiti d'azione. Ciò si risolve, tuttavia, nella mera contrapposizione di un diverso paradigma al funzionalismo economicistico marxiano; essa inoltre non rende conto delle intenzioni di riconoscere un contenuto espressivo, emancipativo, al lavoro. Si pone allora il problema: "In che modo il concetto di emancipazione e l'analisi del capitalismo possono essere nuovamente riuniti in un'unica teoria sociale" (p. 153)? Nella risposta a questa domanda Honneth riprende esplicitamente il punto di vista di Marx, nel suo concepire il lavoro come essenziale per la "riuscita formazione dell'identità" (p. 154) ostacolata dal capitalismo che "distrugge ogni valenza espressiva connessa al lavoro" (p. 153). E' in nuce, confinata al livello di implicita premessa, la prospettiva che in luogo di una "logica del lavoro" (p. 154) predilige la logica del riconoscimento, per la quale nell'ambito del capitalismo il processo di riconoscimento intersoggettivo è interrotto. Non a caso se nel primo saggio l'analisi focalizza "i giovani della classe lavoratrice", nel percorso honnethiano la griglia teorica del riconoscimento si universalizza progressivamente, fino a comprendere non solo la specifica conflittualità propria della lotta fra classi dominanti e classi subalterne, ma “potenzialmente ogni conflitto su basi normative e ogni oggetto sociale” (p. 11), aprendo in tal modo alla prospettiva più onnicomprensiva del '92. Il volume può allora concludersi, significativamente, tracciando le linee per un futuro approfondimento della categoria del riconoscimento, ritenuta da Honneth in grado di assumere "l'eredità del paradigma marxiano del lavoro" (p. 156) all’insegna di una convergenza di una teoria dell'emancipazione con l’analisi della società (cfr. ibd.), nell'ambito di "un unico concetto di teoria dell'azione" (ibd.). 


Indice

Fonti
Introduzione di Eleonora Piromalli
La "biografia latente" dei giovani della classe lavoratrice
Lavoro e azione strumentale. Problemi categoriali per una teoria critica della società
Coscienza morale e dominio di classe
Consenso morale e senso di ingiustizia. Sullo studio di Barrington Moore Le basi sociali dell'obbedienza e della rivolta
L'onore ferito - forme quotidiane dell'esperienza morale
Etica del discorso e concetto implicito di giustizia
La logica dell'emancipazione - sull'eredità filosofica del marxismo
Bibliografia

11 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

La raccolta di scritti di Alex Honneth recensita da D. Celentano rappresenta l'esito linguistico degli studi di questa Scuola detta di Francoforte, attiva durante Guerra Fredda tra Est - Ovest del mondo, fino ai tempi di definitiva capitolazione del Blocco Comunista che era in gran parte determinante Blocco Orientale. Soltanto ad invertire della materia intellettuale di tal scritti le sequenze logiche e a privarle di stesse contingenze materiali determinate, se ne trova una modalità filosofica valida per un riconoscimento delle istanze sociali politiche rilevanti; infatti le sequenze erano in dialettica con le pratiche politiche marxiste-comuniste ed in quanto tali soggettive, arbitrariamente significanti, entro cioè decisione soggetta a poteri antioccidentali, dei quali per i regimi capitalisti europei erano accettabili solamente critiche fondate e non distruttive mentre i partiti comunisti occidentali in quanto tali ne accettavano soltanto anche critiche distruttive cioè purché non fossero contro stessa e sia pur non medesima occidentale convivenza. Entro sequenze originali il riferimento della lotta per il riconoscimento risulta essere stato anche riferimento di decisionalità, la scelta di avvalorare alcuni movimenti di protesta, difatti politologicamente si può affermare che tale lotta esisteva ma non costituita per un riconoscimento o per un riconoscimento possibile, finanche evitato da quegli stessi oppositori in lotta anticapitalista, i quali quando cercavano potere neppur volevano farsi socialmente-etnicamente riconoscere. A parte le eccezioni, degli emarginati, non antioccidentali ma ingiustamente negati nelle identità anche etniche, la maggior parte degli sconosciuti pretendenti sociali e politici era fatta di ex-occidentali per incapacità a sfruttare il progresso occidentale — in Italia moltissimi cosiddetti “cattocomunisti“ erano tali — oppure di non occidentali di provenienza euroasiatica od anche di altra provenienza a questa connessa, ma pure di antioccidentali che erano vissuti e che vivevano esistenza clandestina in quasi tutto gravemente ostile ad Occidente; e tutto ciò si replicò quindi anche su scala mondiale in forme differenti contro economia politica globale non socialista non comunista e questa contrarietà era ed è stata e sarebbe se ve ne fosse ancora una ostilità antipolitica ed una violenza antiumanitaria perché di fatto agiva trovandosi ad imporre presenze o compresenze finanche infelicitanti. Negli scritti recensiti questo più ampio quadro è contesto rilevante non effettivamente esplicitato e comprendere tale implicitezza rende comprensibile anche le ragioni filosofiche, ad analisi filosofica superficiale in apparenza assenti, della scrittura di essi, che vanno intesi, in quanto pensieri anche di politica, entro conoscenze storiche minime sufficienti, che non sono sempre semplici ed in certi casi precluse ai più. Affinché siano ridotte tali preclusioni, seguiranno a questo mio invio altri miei invii.

...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

La Scuola di Francoforte rilevando fallimenti del blocco comunista ne imputava a totalitaristica organizzazione dei bisogni attuata internamente nel blocco capitalista ed influente esternamente; senonché tale organizzazione era a sua volta dipendente da obbligazioni sociali imposte dallo stalinismo più esternamente che internamente a blocco comunista. Quel che rimaneva autentica opposizione anticapitalista nel mondo in mezzo alla dittatura stalinista che subbissava passate dittatorialità proletarie, consumate quasi tutte per soli fini proletari ma con falsi scopi manifestati od a questi soli fini dai suscitatori stessi di esse costrette, era a suo modo rappresentato dagli studi della Scuola di Francoforte solo programmaticamente, agendosi in essa in soggezione ai dettami marxisti-comunisti emanati nel blocco comunista per volere del cosiddetto "Stalin" e degli stalinisti, volere che non era per riconoscimento ma per disconoscimento di successi reali e d'altre situazioni e per produzione di condizioni che giustificassero lo Schema dell'attività comunista-classista di Marx, dei marxiani e dei marxisti, insomma un volere che era un crimine contro vera politica onestamente pattuita. Era insomma quello iniziato dal cosiddetto "Stalin" un delittuoso gioco di sopraffazioni, privazioni, costrizioni, per costruire il mondo che stesso Karl Marx aveva odiato ma che mai era esistito veramente tale e quale né grande né piccolo e allora il marxismo antimarxiano spesso si incaricava di risolvere drammi veri ma non originari e pareva quindi avere sensatezza storica originale ed autentica. La Scuola di Francoforte operò entro prassi antimarxiana-marxista e la sua analisi sulla organizzazione capitalista dei bisogni era per risolvere dilemmi di provenienza ad essa ignota, ponendo fine a tante tragiche condizioni intellettuali imposte dallo stalinismo ma poi restandone nuovamente sottoposta, fino a che non apparve la sociologia ove distinti erano agire comunicativo ed agire strumentale. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... La distinzione sociologicamente scientificamente definita da J. Habermas tra strumentalità e comunicabilità smascherava stessa propaganda comunista-classista, che sulla opposta indistinzione si fondava e su conoscenze sociali superiori ma estranee di stessa distinzione, negata per ostilità antioccidentale. Questa ostilità non era del movimento operaio e dei movimenti dei lavoratori. Entro questi movimenti nascevano i comunismi non totalitari, la stessa Unione Sovietica era stata da Lenin costruita senza alcuna logica di lotta di classe; ma molti ciò lo temevano ritenendo a torto che potesse essere stato o che fosse un possibile modo per ignorare le ingiustizie. Di fatto però la lotta di classe assurgendo a soggetto principale della politica si rivelava eterodotta secondo logiche ad essa estranee. Nonostante tutto l'Occidente non era fatto di classi sociali in reciproco conflitto fondamentale né radicale, ma l'antioccidentalismo e poi genericamente l'antiglobalismo socialista-comunista considerava le classi quali ceti e ciò faceva per arbitrario economicismo perché rifiutava di rispettare le vere identità di classe. Dalla Scuola di Francoforte che era stata riassoggettata agli intrighi criminali dello stalinismo ma che se ne era di nuovo riaffrancata con la riflessione sull'agire sociale non poteva giungere alcunché di realmente valido filosoficamente politicamente socialmente; e ciò era favorevole a nuova tragica beffa criminale stalinista, trasformatasi anche in gioco criminale preferito di varie ambigue moltitudini, peggiori nel Blocco Occidentale che in quello Orientale. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... In Unione Sovietica accadde che esponenti del Regime, preoccupati per le sorti di intero mondo politico ed alcuni di essi introdottisi nel Sistema di Regime proprio per scopo di negarne violenza fino a destituirlo, ponessero le moltitudini ambiziose ed insensate nella Unione stessa contro stesso Sistema che esse sfruttavano; e le controreazioni anche e specialmente non delle folle ma dei disparati essendo state tanto subdole da costringere quegli esponenti alla divisione di stessi vertici dei poteri (tanto che non può esistere elenco continuativo isolato di presidenze sovietiche dato che se ne trovano in successione ma mutua negazione, restando possibile solo dopo la fine della Presidenza di Andropov riconoscere politicamente legittima questa e legittimate le altre due, le quali prima e dopo destinate ad esser validabili in funzione soltanto dei provvedimenti disciplinari di Andropov, che prima da poliziotto poi da presidente aveva di fatto identificato volontà popolari ostili al quieto vivere della intera umanità e ne aveva individuato ed impedito le prassi finali quando era presidente). Ma inaccettabili ostilità di massa erano tali e quali anche nel Blocco Occidentale, in America dove però negli Stati Uniti non trovavano adito ai posti del potere politico e dove a Cuba erano state già neutralizzate dalla militarizzazione liberal-socialista-comunista attuata dalla guerriglia, tra cui proprio quella di Fidel Castro (per cui da ambo i luoghi era, in un modo o nell'altro, bellicoso o pacifico, stima politica diretta o indiretta per Andropov), in Europa dove invece si consumò una lotta sociale e non solo sociale spietata, in parte trasversale alla divisione di schieramenti capitalista/comunista perché restava la opposizione reciproca dei due poteri ideologici con un senso e con uno scopo, nonostante vi si fosse intromesso stalinismo e poi anche falso capitalismo. Così la Scuola di Francoforte senza prospettive pareva oramai in sciagura, per ingenuità di premesse e distrazioni politiche; ma essa era pur sempre sorta anche per disperazione durante una guerra, sia pure combattuta con minacce quali ordinarie armi, tra le quali non essendo legalmente accettabili gli ordigni atomici ed esistendo pure diffide giudiziarie interne ad usarne, ciò in ambo gli schieramenti, ma entro cui insavi ed ignoranti guerrafondai continuavano ad agire paventando catastrofi antiecologiche oltre che stragi. Proprio per le aberrazioni sociali interne tuttavia lo stalinismo-ex-stalinismo non potette sfruttare della Scuola di Francoforte l'itinerario interrotto, il quale anzi era assunto per tale in stessa Scuola, trasformatene le motivazioni per conflitto in descrizione di conflitto, quale mezzo comunicativo che serviva a moderare le ulteriori aberrazioni, da precedente altra assunzione improvvida ma non deliberata dello schema marxista proletariato/borghesia che era strumento della imposizione comunista-totalitaria ma che appunto durante le fasi concitate della Guerra Fredda era diventato di fatto soltanto un linguaggio chiarificatore delle vere ostilità in conflitto nonché smascheratore di altre ostilità intromesse o di degenerazioni capitalistiche del capitalismo ed associazioniste del socialismo.
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MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

...
Unica eredità filosofica del marxismo, compiuta del tutto la trasformazione-rigenerazione della Unione Sovietica in entità statali varie, può esser individuata all'incirca per anno 1989 fino ad anno 2012, riconosciuta in sorta di conferita moderazione postuma, effettiva a causa delle rovine sociali, economiche, politiche del 'Dopo Guerra Fredda', consistente eminentemente in filosofica decostruzione linguistica, conferita a realtà umane peggiori di quanto stessa violenza schematica marxiana e marxista era non filosoficamente od antifilosoficamente protagonista; restando quindi che il marxismo in filosofia non è stato un movimento filosofico ma un coinvolgimento di facoltà filosofica a scopo di riduzione delle violenze ma essendo stata tale facoltà devoluta indirettamente, palesemente o più o meno occultamente; inoltre resta imprescindibile anteporre a tale devoluzione la parallela non devoluzione, polemica o non polemica; e la stessa decisione finale di Karl Marx va collocata entro tale prospetto notando che essa con l'autorinnegamento aveva costituito preferenza per la non devoluzione e tolleranza per la devoluzione, questa ultima da egli ammessa se relativa ed ora senza più alcuna forza realmente filosofica. In tal senso devoluzione stessa, eventualità in ultimo accolta extrafilosoficamente da Marx, era, è destinata ad autotrasvalutazione politica non solo e non tanto di valori, non perché ma poiché il filosofema di Marx prima di essere stato autorinnegato ne era coesistente ma poi era stato autorinnegato e ciò senza opere ma mediante inazioni fu atto non indifferente che toglieva la forza pretesa non filosoficamente poi non ottenuta da marxiani e marxisti ma soprattutto restando un accadimento di valore etico-filosofico: il rifiuto del comunismo totalitario, che è rifiuto di politica marxiana e marxista ma che è diventato rifiuto di ulteriore uguale devoluzione filosofica, cioè segna dal passato stesso la fine di tal dato impegno filosofico, questo inoltre destinato ad esser tratto fuori dalle condizioni antifilosofiche entro cui agiva per contrarietà e dunque ad esser riformulato senza alienazione talché sia chiaro il senso di devoluzioni e non devoluzioni stesse. Per altro verso non dipendente da autorinnegamento di Marx ma da esigenze di rispettare i valori di Occidente e Globalità restano tali devoluzioni tutte fatalmente sottoposte a recuperi trasformativi, per cui le storie della filosofia riguardanti tali argomenti dovranno contenere esplicitazione del senso interno delle facoltà filosofiche che erano state devolute a scopo non amichevole ma per riduzione della violenza agli ambienti, violenti, del comunismo totalitarista e del comunismo classista, distinguendo facoltà stessa, non marxiana né marxista, politicamente non totalitaria e non classista, da elementi cui essa applicata. In Scuola di Francoforte tale destinalità era in principio formulata quale finalità estranea a stessi studi, poi formulata quale non estranea ma non recava stessi significati solo uguali poi ne prescindeva per assenza di prosequio finale e con prosequio solo effettivo e parziale.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Riguardo ai recuperi trasformativi, di cui ho detto in mio precedente messaggio, trovo interessante indicarne uno recentissimo, di quelli però specificamente riferiti al totalitarismo comunista-marxista, ma secondo pensiero schematico-antischematico ed antischematico, che sostituisce al binomio fisso proletariato/borghesia il monomio non fisso, tautologicamente-glottologicamente definito quale sociale precarietà (ovvero schematicamente: |precariato| ), lavorativa, politica, affettiva, elemento unico non consistente di per sé quale schema e se tale fatto consistere autodisintegrantesi, monomio da autore già applicato a realtà erotica con fatale positivo-nichilistico effetto tutto antischematico interno a stesso schema, in precedenza applicato a binomio stesso del marxismo con parimenti fatale effetto di liberazione-distruzione intellettuale, prima ancora avendone autore tentata ignara configurazione non distruttiva evolutiva con — dapprima involontario — esito fatale di incoerenza politologicolamente insostenibile per stessi quadri politici postmarxisti ed entro stessi ambienti comunisti totalitaristi revanscisti.
Ecco la interessante indicazione, bibliografica:

"La notte del mondo. Marx, Heidegger e il tecnocapitalismo", autore Diego Fusaro.
Qui di sèguito mia previa considerazione non recensione:
\ Si tratta di argomento avvalorabile diversamente e differentemente avvalorato, senza che le duplicità possano interferirsi in doppiezze perché i tempi diversi sono in uno spaziotempo comune di postume riflessioni, collettive marxiste, singolari di Heidegger, talché il passato di Marx ed il successo marxiano sono soggetto per critica e l'heideggerismo è oggetto non per critica ma di critica, inoltre talché heideggerismo sia soggetto di critica ad oggetto di critica su Marx e marxiani. Tutto ciò senza legger per niente il libro lo posso dire perché non mi riferisco ad interezza ma a necessarietà intellettuale logica, di realtà già fatalmente preordinata prima di riflessioni di Fusaro, che per tal via reca anche scopo risaputo dunque, di superamento di fatto della prospettiva marxiana-marxista e annichilimento dello stesso heideggerismo di sinistra posto in causa per agire annullandosi... infatti date antinomie di filosofemi politici e filosofia politica delle due parti in gioco altro non potrebbe accadere. /


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Invio precedente essendo accaduto senza correzione apportata, specifico che 'politologicolamente' sta per: politologicamente.
Avendo menzionata correzione accludo qui sotto direttamente testo intero e corretto:

Riguardo ai recuperi trasformativi, di cui ho detto in mio precedente messaggio, trovo interessante indicarne uno recentissimo, di quelli però specificamente riferiti al totalitarismo comunista-marxista, ma secondo pensiero schematico-antischematico ed antischematico, che sostituisce al binomio fisso proletariato/borghesia il monomio non fisso, tautologicamente-glottologicamente definito quale sociale precarietà (ovvero schematicamente: |precariato| ), lavorativa, politica, affettiva, elemento unico non consistente di per sé quale schema e se tale fatto consistere autodisintegrantesi, monomio da autore già applicato a realtà erotica con fatale positivo-nichilistico effetto tutto antischematico interno a stesso schema, in precedenza applicato a binomio stesso del marxismo con parimenti fatale effetto di liberazione-distruzione intellettuale, prima ancora avendone autore tentata ignara configurazione non distruttiva evolutiva con — dapprima involontario — esito fatale di incoerenza politologicamente insostenibile per stessi quadri politici postmarxisti ed entro stessi ambienti comunisti totalitaristi revanscisti.
Ecco la interessante indicazione, bibliografica:

"La notte del mondo. Marx, Heidegger e il tecnocapitalismo", autore Diego Fusaro.
Qui di sèguito mia previa considerazione non recensione:
\ Si tratta di argomento avvalorabile diversamente e differentemente avvalorato, senza che le duplicità possano interferirsi in doppiezze perché i tempi diversi sono in uno spaziotempo comune di postume riflessioni, collettive marxiste, singolari di Heidegger, talché il passato di Marx ed il successo marxiano sono soggetto per critica e l'heideggerismo è oggetto non per critica ma di critica, inoltre talché heideggerismo sia soggetto di critica ad oggetto di critica su Marx e marxiani. Tutto ciò senza legger per niente il libro lo posso dire perché non mi riferisco ad interezza ma a necessarietà intellettuale logica, di realtà già fatalmente preordinata prima di riflessioni di Fusaro, che per tal via reca anche scopo risaputo dunque, di superamento di fatto della prospettiva marxiana-marxista e annichilimento dello stesso heideggerismo di sinistra posto in causa per agire annullandosi... infatti date antinomie di filosofemi politici e filosofia politica delle due parti in gioco altro non potrebbe accadere. /


MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Rendo informazione utile forse necessaria alla lettura specificando che sono spiacente per inconveniente di scrittura accaduto a causa di continue intromissioni negative dirette e indirettile da attorno dove stavo e sto, specialmente suggestionatori ma realmente ambigui gridi, o ugualmente parole, emessi secondo modalità suggestionatorie non europee ed africaneggianti non africane, che non mi hanno consentito attenzione maggiore e parimenti saggia, anche perché i tedi erano (e restano anche adesso che scrivo) uniti a 'subliminale' minacciosità contro di me, mie cose, mio mondo, anche contro miei modi di offrire spiegazioni per minima possibile garanzia a chi riceve miei messaggi. Gli autori dei tedi purtroppo rivelano di essere assolutamente indifferenti ai problemi e ai dilemmi della vita realmente occidentale ed europea ed italiana.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Nel secondo messaggio inviato qui, la dizione 'subbissava' non scorretta ma non comune, la ho usata preferendola ad altra comunemente usata ovvero 'subissava', in quanto intendevo porre in maggiore attenzione il prefisso 'sub' e dare maggior senso evidente sia a idea di dualità che a concetto di inferiorità: 'subissava', invero 'subbissava' ovvero 'sub-bissava' sono tre dizioni più che sinonimi cioè alomologhi e non identici, il che è abbastanza ovvio considerando la dizione soltanto quale vocabolo ma altrimenti del tutto ovvio non è.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Messaggio precedente conteneva errore in scrittura: "alomologhi" sta per: omologhi. Qui di sèguito messaggio corretto:

Nel secondo messaggio inviato qui, la dizione 'subbissava' non scorretta ma non comune, la ho usata preferendola ad altra comunemente usata ovvero 'subissava', in quanto intendevo porre in maggiore attenzione il prefisso 'sub' e dare maggior senso evidente sia a idea di dualità che a concetto di inferiorità: 'subissava', invero 'subbissava' ovvero 'sub-bissava' sono tre dizioni più che sinonimi cioè omologhi e non identici, il che è abbastanza ovvio considerando la dizione soltanto quale vocabolo ma altrimenti del tutto ovvio non è.

( Rendo informazione utile forse necessaria alla lettura specificando che sono spiacente per inconveniente di scrittura accaduto a causa di continue intromissioni negative dirette e indirettile da attorno dove stavo e sto, specialmente suggestionatori ma realmente ambigui gridi, o ugualmente parole, emessi secondo modalità suggestionatorie non europee ed africaneggianti non africane, che non mi hanno consentito attenzione maggiore e parimenti saggia, anche perché i tedi erano (e restano anche adesso che scrivo) uniti a 'subliminale' minacciosità contro di me, mie cose, mio mondo, anche contro miei modi di offrire spiegazioni per minima possibile garanzia a chi riceve miei messaggi. Gli autori dei tedi purtroppo rivelano di essere assolutamente indifferenti ai problemi e ai dilemmi della vita realmente occidentale ed europea ed italiana. )

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Rendo di nuovo informazione (e con ulteriore correzione!) utile forse necessaria alla lettura specificando che sono spiacente per inconveniente di scrittura accaduto a causa di continue intromissioni negative dirette e indirette da attorno dove stavo e sto, specialmente suggestionatori ma realmente ambigui gridi, o ugualmente parole, emessi secondo modalità suggestionatorie non europee ed africaneggianti non africane, che non mi hanno consentito attenzione maggiore e parimenti saggia, anche perché i tedi erano — e sono restati anche fino ad adesso — uniti a 'subliminale' minacciosità contro di me, mie cose, mio mondo, anche contro miei modi di offrire spiegazioni per minima possibile garanzia a chi riceve miei messaggi. Gli autori dei tedi purtroppo hanno rivelato di essere assolutamente indifferenti ai problemi e ai dilemmi della vita realmente occidentale ed europea ed italiana.
Essendo internet un sistema di acquisizione dati non una libreria, ne basta successo finale degli invii.

MAURO PASTORE