giovedì 24 gennaio 2013

Bloch, Ernst, Ornamenti. Arte, filosofia e letteratura

Roma, Armando, 2012, pp. 112, euro 9, ISBN 978-88-6081-803

Recensione di Mario Tanga - 17/07/2012

Non ci si lasci ingannare dalle dimensioni (fisicamente esigue) di questo testo, in realtà denso e ricco di contenuti, né dal suo titolo, “Ornamenti”, che, nel mondo ordinario, così come in una certa cultura, sembra riferirsi a una tematica secondaria, marginale, accessoria.
Bloch usa la dimensione ornamentale delle creazioni umane (non solo opere figurative, ma soprattutto architetture, oggetti di design…) per seguirne in profondità le radici fino ai gangli vitali della cultura, delle concezioni del mondo e della vita.

Nonostante la brevità e la natura composita di questi scritti, Bloch traccia una significativa ontologia dell’ornamento. Si inserisce nel dibattito novecentesco sull’argomento con una posizione tutt’altro che manichea o semplicistica e senza nulla concedere a luoghi comuni o a concezioni scontate. Le sue argomentazioni, se pur esposte in scritti separati e distinti (ben quattro, distribuiti in un arco temporale dal 1914 al 1968), sono ben strutturate, organiche e coerenti, fin oltre quello che ci si potrebbe aspettare.
L’autore prende le distanze dai due principali indirizzi che dominano il XX secolo con alterne vicende: il Funzionalismo, più coerente e unitario (Gropius e il Bauhaus, van der Rohe, Adolf Loos, spesso citato), e l’architettura organica, più articolata ed eterogenea, cui vengono ricondotti tanto il Liberty quanto il Razionalismo di Wright e altri (che, a partire dagli anni ’30-’40, vogliono integrare artificiale e naturale, in piena continuità) o gli arredi realizzati sul calco dell’anatomia in chiave ergonomica (Carlo Lodoli).
Entrambe le correnti segnano una rottura decisa rispetto alla tradizione, ma è soprattutto il Funzionalismo che si pone come uno spartiacque, contrapponendo ornamento, decorazione, tradizione da una parte e linearità, minimalismo (valga su tutto un aforisma di Van Der Rohe, “Less is more”), ingegnerizzazione, pura e nuda funzionalità dall’altra. Gli esponenti del Funzionalismo considerano l’arte e l’architettura precedenti una sorta di preistoria indistinta. Stante questa ripartizione, la posizione che prendono è presto detta: sostenere e spingere a oltranza la propria posizione, esplorando e sperimentando percorsi di totale rottura, con l’imperativo di liberarsi da tutti gli orpelli (tali sono sentiti dal Funzionalismo ornamenti e decorazioni di ogni sorta), sovraccarichi estetici, ogni concessione a ciò che va oltre l’essenziale, l’indispensabile.
Tutto questo ha agganci scientifico-filosofici, di tipo positivista, e anche politico-ideologici, con la ricerca di un carattere “democratico” di edifici e oggetti, intendendo garantire a tutti accessibilità in termini di fruizione e comprensione, senza preclusioni o elitarismi. Le ragioni del funzionalismo si possono riassumere in un celebre aforisma di van der Rohe “nella sua forma più semplice l’architettura è ancorata a considerazioni assolutamente funzionali, ma può ascendere attraverso tutti i livelli di considerazione fino alla più alta sfera di esistenza spirituale, nel regno della pura arte”. Il valore estetico dell’opera, cioè, emerge dall’eliminazione proprio di ciò che aveva pretese estetiche, individuato nell’ornamento.
A rendere accattivante ciò è l’aura di purezza e di assoluto che questa concezione evoca.
Bloch mette a nudo lo scacco in cui finisce tale posizione, ne rimette in discussione i fondamenti. Per liberarsi di “eczemi e ulcere” (così Loos definisce ogni concessione a ogni carattere ornamentale), si finisce paradossalmente con il ricoprire tutto con una “crosta” uniformante, una patina di piattezza e sterilità, che rende irriconoscibile proprio la stessa funzione che si voleva esaltare, negli oggetti e nelle architetture. Un aeroporto è uguale a un teatro, nota Bloch, e noi potremmo allinearci, dicendo che un iPad è pressoché uguale a uno smart phone. Di più, non solo sono uguali, ma l’uno è l’altro. E l’edificio, dice ancora Bloch, è ridotto a “macchina per abitare”, estremo esito dell’ingegnerizzazione dell’architettura, processo rivoluzionario avviato in epoca guglielmina.
Sull’altare della “lavabilità” (così Bloch definisce in “Spirito dell’utopia” il criterio che sembra ispirare scelta di materiali e forme nel Funzionalismo) viene sacrificata ogni differenziazione, ogni specificità, capace di dare un senso e un significato all’opera e al mondo di cui fa parte.
Corollario è la perdita di orientamento nella fruizione (insieme estetica e funzionale) dell’opera. Bloch non usa mai il termine “globalizzazione”, anche se lucidamente ne individua le condizioni e le implicazioni. Lo “stile internazionale da stazione” (p. 61) è l’espressione che forse più si avvicina all’idea di appiattimento su scala planetaria, ed è ciò che estingue ogni dialettica alterità/identità, ogni dinamica generatrice di bellezza, portando di fatto a una nullificazione dell’opera, architettonica o di design.
Bloch rifiuta soprattutto gli sviluppi  dell’Art Nouveau, che propone una crescita dell’apparato ornamentale (più propriamente: decorativo) come prolificazione simil-organica (una rivisitazione in altra chiave dell’imitatio naturae di memoria classica e rinascimentale). Come ci ricorda Latini nella prefazione (p. 19), Bloch in Utopia arriva a definirla un “brulichìo viscerico degli ornamenti”, il che non richiede ulteriori commenti.
Bisogna guardarsi dall’errore di accomunare frettolosamente Bloch agli oppositori del Funzionalismo e dell’Architettura Organica sulla base di ragioni ideologiche. L’esempio tristemente famoso e brutalmente esplicito del rifiuto ideologico è quello di Hitler e della sua violenta condanna a tutte le forme di arte “degenerata” (a parte il monumentalismo nostalgico poco si salva: né cubismo, né futurismo, né espressionismo…), di cui troviamo espressioni significative nella chiusura del Bauhaus nel 1933 e nel suo discorso al Congresso sulla Cultura del 1935.
Bloch non ha nulla da condividere con queste lugubri e incolte posizioni. E sbaglia anche chi crede che sia un nostalgico che fa apologia dell’ornamento sic et simpliciter. Secondo Bloch occorre individuare, denunciare ed eliminare il decorativismo superficiale e menzognero (sulla menzogna come pericolo nell’arte insiste a più riprese), pretestuoso, senza alcun radicamento. È soprattutto per questo che la decorazione si differenzia dall’ornamento, essendo la prima un riporto posticcio e la seconda coessenziale dell’espressione artistica. Non esita a individuare la decorazione (nel senso suesposto, altro dall’ornamento) nel kitsch, nonché in ogni piacere facile, “culinario”, di consumo, che una certa arte o un certo design pretestuosamente diffondono, sull’onda della produzione industriale, nonché di uno sbrigativo e malinteso senso estetico. Con la stessa arroganza o presunzione certe frange della nuova produzione “oggettivano” l’arte ornamentale o primitiva, la (ri)assumono come proprio contenuto dopo averla distaccata dai motivi autentici della sua genesi e della sua originaria contestualità, la riducono a motivo banalmente decorativo o a oggetto di curiosità, una raccolta di mirabilia come secoli addietro si intendevano. È una sorta di “mise en abîme” che alimenta una sterile e fuorviante vezzosità culturale. In proposito si veda il caso dell’arte africana nel primo saggio del 1914 e del menhir in quello del 1934.
Non mancano sguardi retrospettivi che necessariamente, vista la natura di questi scritti, sono solo accennati. Bloch indica il Gotico e il Barocco come casi paradigmatici di un’arte ornamentale per antonomasia, di carattere “metaorganico”. Citando poi Dürer esalta il suo “mondo pieno di figure” in termini che ricordano la signatura rerum di sapore rinascimentale.
Bloch si astiene comunque da toni da Cassandra: non siamo, ci rassicura, sulla soglia della fine dell’arte per il solo fatto che sono stati imboccati alcuni vicoli ciechi, ma siamo piuttosto alle prese con la necessità di rifondare e di rinnovare l’arte, come del resto altre volte nella storia è accaduto. Questa transizione inoltre è satura di energia, feconda, carica di mille possibilità e bella in sé: ci dà il brivido di attraversare uno “spazio vuoto con scintille” (p. 75). L’arte e la dimensione ornamentale, che le è connaturata e con cui è in totale continuità, si devono orientare per (ri)divenire un “Organon della conoscenza” (p. 98), quindi uno strumento euristico in senso pieno, un “laboratorio di verità” (è l’espressione che significativamente suggella il libro), oltre che di immersione nel mondo (cfr. p. 92, in cui cita Keller: “Bevete, o occhi, quel che le ciglia trattengono dell’abbondanza donata dal mondo, invece di congedarvi dal mondo.”) oltre che di intervento su di esso: “Si tratta di un’arte che, quindi, non prende più il mondo come modello, ma continua a modellarlo…” (p. 98).
L’arte instaura una drammatica dialettica, irrinunciabile e irrisolta, tra alterità e trascendenza (cita Franz Marc: “Dipingere è emergere in un altro luogo”) da una parte, e l’impossibilità di eludere la nostra contestualizzazione concreta (quasi un “essere gettati nel mondo” di sapore esistenzialista…) dall’altra, per cui si rimane sospesi in un “trascendimento senza trascendenza” (p. 96).
Possiamo avvicinare (senza però farle coincidere) la posizione di Bloch a quella di Cesare Brandi che, nel 1956, in “Eliantea o dell’architettura”, rivaluta l’ornamento nell’accezione piena e autentica come ciò che dà funzione all’immagine, determina lo scatto dal nudo schema alla forma figurativa, senza essere tributario né dell’imitatio naturae né del decorativismo vuoto e gratuito.
Per concludere e volendo schematizzare, possiamo riconoscere almeno cinque tratti che caratterizzano la posizione di Bloch:
1. sprezzante rifiuto del vuoto decorativismo, principio e fine in se stesso, in particolare di quello Liberty e del kitsch,
2. necessità del carattere autenticamente ornamentale, in senso attuale, dell’arte,
3. distanza dal Funzionalismo, denunciandone i rischi e lo scacco cui è destinato,
4. superamento della visione statica e compiuta della bellezza e dell’ornamento in chiave classica: l’ornamento greco rimane comunque in superficie; Bloch rivaluta apertura, sperimentazione, abbozzo, frammento, montage (sembra in perfetta sintonia con Magritte che, ne “I valori personali” -1952-, afferma “La mia pittura consiste in immagini sconosciute di ciò che è noto”) sono gli assi portanti di una concezione dell’ornamento rinnovata nel profondo; l’ornamento non va confuso tout-court con lo stile, in quanto è quest’ultimo in forma di espressione ambivalente e aperta,
5. riconoscimento all’arte della funzione di costruire e veicolare, oltre agli irrinunciabili valori estetici, la verità (indicando una possibile soluzione a una questione non da poco in filosofia dell’arte…), al pari delle altre forme culturali, il che la espone al rischio di cadere nel falso, oltre che nel brutto.
Preziosa e ricca l’introduzione di Micaela Latini, che significativamente cita spesso e rimanda a “Spirito dell’utopia” dello stesso Bloch, pubblicato per la prima volta nel 1923.
Ernst Bloch (Ludwigshafen, 8 luglio 1885 – Tubinga, 4 agosto 1977), tedesco di origine ebraica, laureato in Filosofia nel 1908, è un autore di massimo rilievo nel panorama culturale internazionale del Novecento. È considerato il più grande utopista contemporaneo. Fu allievo di Simmel e di Weber e amico di Adorno, Brecht, Benjamin, Luckcás. Fu esiliato nel 1933 con l’avvento del Nazismo, si stabilì in Svizzera, in Francia, in Cecoslovacchia, in Austria e, alla fine, negli Stati Uniti. Caduto il Nazismo, rientrò in Germania Est, insegnando a Lipsia e, nel 1961, dopo i contrasti con il governo della DDR che lo definiva “un tentatore della gioventù” per la sua non adesione all’ortodossia marxista di stato (nonostante Hegel e Marx fossero tra gli autori che segnarono la sua formazione), fuggì in Germania Ovest, a Tubinga, dove si stabilì e riprese la carriera di insegnante.


Indice

Prefazione (Elio Matassi)
Introduzione Poetica dell’ornamento (Micaela Latini)
Ornamenti
Su una raccolta: scultura negra (1914)
Età della pietra e architettura (1934)
Sull’arte figurativa nell’era delle macchine (Conferenza tenuta in occasione di Documenta 3, 1964, Kassel)
Iconoclastia e ornamenti (Conferenza tenuta in occasione di Documenta 7, 1968, Kassel)

3 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Nella recensione la biografia dell'Autore posta alla fine rivela anche se non con tutto il sufficiente qualcosa che sfugge a recensore stesso. Ernst Bloch non volle mai saperne delle origini del proprio ambiente di appartenenza, non volle farsi coinvolgere nell'avvilimento dei sottoposti ai regimi totalitari nazisti e comunisti né ai poteri paralleli fatti di entrambi, non volle sopravvalutare l'ideologia del capitalismo. Si potrebbe affermare de 'La funzionalità senza possibile automanifestazione estetica-etica funzionalista' che fu una sua filosofica identificazione, critica, anche in senso kantiano, intorno a sublimità, anche di nature umane, quindi su senso della bellezza, attuata da matrice storica-filosofica-intellettuale contemporanea. E. Bloch dava e pretendeva attenzioni: l'arte africana doveva esser per tale riconosciuta e intesa; i resti dei culti delle pietre, eredità direttamente post-neolitica o dopo stessa Età primitiva della pietra, erano da considerarsi con serietà e proprio per ciò che erano... e oggi si sa che erano reperti recenti e da nessuna parte autoctoni, né in Europa né in Africa, né avrebbero potuto esserlo altrove, perché erano memoriali senza sapienze storiche ma emotivamente vissuti. Quel che Bloch notò, la divergenza estetica di sensibilità e percettibilità in parte del Design da lui conosciuto e studiato, era una altra realtà cui tener conto! Di questi suoi inviti ad osservare e capire si può tracciare analogia con i rifiuti a restare in avvilente politica costrizione, ma analogia valendo se fatta con espliciti i veri nessi tra i due eventi, non speculari. Infatti le sue notazioni estetiche oltre a stigmatizzare la stoltezza dei totalitarismi di destra e sinistra e dei coinvolgimenti totalitaristi reciproci, assai forti in Germania Est, anche davano improvviso àdito ad ulteriorità-alterità, mostrando una separazione di due mondi di cui uno sconosciuto ancora e nemico per la politica globale e per ciò da cui essa era sorta, invero la conservazione o restituzione di un potere autenticamente umano nell'umano stare al mondo. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... Il funzionalismo estetico còlto in decadenza ma tanto grave da non essere autentico decadere ma deviazione e tradimento era segno di ciò che potrebbe descriversi quale 'un massificato non saper stare al mondo perché non saper cosa farsene di qualcosa'. Quest'altro mondo non decadente ma caduto nell'abisso della insensatezza meno vitale che si possa concepire non era l'oggetto delle sue mirabili fughe politiche, fatte anche di tattiche di argomentazioni interrotte da stessi nemici timorosi della vergogna di esser descritti, ma il soggetto di sue ricerche etiche raggiunte da meditazioni estetiche rigorose, che dell'ornare identificavano soggettività ed oggettualità, rispettivamente umanità e costrutto materiale, attraverso analisi di affermazioni possibili emotivamente-razionalmente tramite impressioni ineludibili. Questa ineludibilità era etica di sopravvivenza, a fronte dell'aberranza che suscitava inerenti paure e dispiaceri tra le non inerenze estetiche non etiche. Ma... districandosi tra destrorsi rinnegamenti delle idee naturali del Nord e tra sinistrorsi entusiasmi per disastrose primitività sociali E. Bloch incontrò solo indirettamente negatività assai diversa e maggiore! L'etica naturale ed umanista cui egli aderiva lo guidava e lo poneva in grado di descrivere le influenze del negativo più grave per il benessere della umanità attraverso la critica all'arte contemporanea del Design che aveva fatto scadere l'ornamento ad ornamento-decorazione. Trovata nella grecità una estetica d'arte differente, chiusa a siffatto connubio, egli poteva quindi definire i termini effettuali dell'indiretto accadere negativo analizzando la vitalità della fatalità primigenia e la 'mortuarietà', così si può dire, di destini ultimi diversi e distinti da codesta fatalità. La enormità di questa scoperta culturale-intellettuale impedendo di passare dalla analisi estetica-filosofica ad una difensiva filosofia politica-estetica ne impediva però sconfitta di politica e filosofia, data assoluta sorpresa dei fatti su opinioni e degli eventi sulle decisioni. ...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

MAURO PASTORE :

... Restava così la conoscenza rifiutata delle origini dell'ambiente suo familiare e sociale, legato al giudaismo e in contatto con l'ebraismo, senza per lui la curiosità altrimenti naturale di saperne; e di questa eccezione se ne può trarre via di decifrazione biografica-bibliografica di sue Opere, sobriamente quasi anonimamente sorte sull'orlo della non irreale 'fine totale' delle umane culture stabilite, grazie al suo 'non voler prima di non poter', come nel biliardo giocato e vinto con le stecche anche poggiate sul tappeto verde artificiale... ed ugualmente a un quartetto di musica da camera suonato a finestre rigorosamente chiuse mentre fuori strane forme di vita minacciando a quelli dentro mortali destini.. Con questa ultima, rivelativa metafora, la quale corrisponde a misteriosissimo episodio della vita di W. A. Mozart — questi da bimbo "buon selvaggio" e da ragazzo amico della Massoneria — il Sud oblioso della Selvatichezza e le durezze fascinose dei grandi occulti Architetti della Epoca dei Lumi si posson mostrare affatto eguali agli indizi, delle novecentesche passioni meridionali e sentimentalità cavernicole, individuati da stesso Ernst Bloch... !

MAURO PASTORE