mercoledì 27 marzo 2013

Hulin, Michel, La mistica selvaggia. Agli antipodi della coscienza

Milano, IPOC, 2012, pp. 246, euro 20, ISBN 9788896732748.

Recensione di Marco Cirillo - 16/10/2012

La mistica è un fenomeno sostanzialmente unitario, “non esiste da un lato una piccola mistica, marginale, incompleta, nebulosa, e persino degenerata o patologica, e dall'altro una Grande Mistica, l'unica autenticamente religiosa, la strada maestra che condurrebbe alla conoscenza di Dio” (p. 245). Questa è la tesi che sorregge il libro di Michel Hulin, che ha il merito di aiutare il lettore ad avvicinarsi a questa realtà posta “agli antipodi della coscienza” e a pensare le differenze religiose e ideologiche a riguardo come al prodotto 

di un'opera interpretativa secondaria, anche se inevitabile.
La comprensione dell'esperienza mistica, è stata a lungo impedita a causa di una “scissione delle ricerche in due filoni che, fondamentalmente, si ignorano e si disprezzano a vicenda” (p. 15): un approccio “dall'alto”, proprio degli storici delle religioni, dei filosofi e degli ecclesiastici, che porta avanti un'esplorazione dall'interno delle varie manifestazioni spirituali; un altro invece, “dall'esterno e dal basso”, considera e analizza le testimonianze dei o sui mistici secondo paradigmi estrinseci, in primis quello della patologia mentale.
Conseguenza di questa scissione è “il carattere rovinoso che ne consegue per l'intelligibilità stessa del fenomeno mistico” (p. 17) poiché in entrambi i casi l'esito è l'impossibilità di andare oltre il già noto, limitandosi a fornire prove e supporti alle proprie opinioni, metafisico-teologiche o positivistico-scientistiche che siano. E tuttavia si può trovare una “terza via”, magari più tortuosa ma che arriva al cuore del problema. Per questo “cercheremo di mostrare il valore proprio del fenomeno mistico, ovvero il suo potere di rivelazione, indissociabile da quell'elemento “patologico” che il riduzionismo invoca allo scopo di demistificarlo […] Il che porta a osservare, d'altra parte, come determinate strutture dell'essere-al-mondo “normale”, “”sano di mente” o “non alterato”, contengano di fatto un significato negativo, e come la distruzione di queste strutture, attraverso la disorganizzazione mentale che annuncia l'estasi, riceve lo statuto di una “negazione della negazione”, riportando così alla luce una positività latente” (p. 23). L'autore tratteggia, nel primo capitolo, una critica del riduzionismo freudiano, partendo dal carteggio (che copre l'intero arco degli anni Venti) tra il padre della psicanalisi e lo scrittore francese Romain Rolland, che aveva descritto il tema qui designato come “mistica selvaggia” nei termini di un “sentimento oceanico” o “sensazione oceanica”. L'espressione di Rolland viene criticata da Freud nelle prime pagine del Disagio della civiltà ma in maniera piuttosto ambigua, “come se Freud, pur proclamandosi estraneo all'Oceanico, si fosse tuttavia sentito intimamente toccato, forse minacciato, da tale tema, al punto di accendere una sorta di controfuoco con cui proteggere la propria costruzione teorica e le proprie scelte di vita” (p. 35). Questa minaccia con cui Freud è chiamato a confrontarsi, è rappresentata da quel particolare stato modificato di coscienza che è appunto l'esperienza mistica spontanea. Le testimonianze, pur riportando casi soggettivi, e diversificati, consentono tuttavia di individuare una forma ed un contenuto unico. La morfologia è quella di “una frattura, uno strappo nella trama ordinaria dei giorni e delle ore: accade qualcosa che non è stato ricercato, né previsto, e nemmeno presentito” (p. 50). Quanto all'oggetto, esso, nonostante “l'inadeguatezza congenita e definitiva del linguaggio umano rispetto ad un certo ordine di realtà […] può essere associato alla parola Gioia” (p. 51). 
L'analisi dell'estasi nella sua forma spontanea serve a Hulin per sostenere l'impossibilità di accettare la risposta freudiana alla domanda circa l'essenza della gioia mistica, la sua origine e la sua destinazione: “Freud è naturalmente portato a renderne conto in termini di sopravvivenza di elementi precedenti […] I soggetti esposti all'esperienza mistica sarebbero dunque prima di tutto coloro che, in funzione delle circostanze particolari della loro storia individuale, avrebbero preservato nel proprio intimo alcune tracce di quel solipsismo originario della coscienza infantile” (p. 53-54).
Se il narcisismo viene posto come il senso originario dell'esistenza individuale, l'estasi non può che essere concepita, regressivamente, come un ritorno ad una “libido autoerotica” che riporta la totalità del reale al principio di piacere, secondo una concezione riduzionistica e meccanicistica del funzionamento della psiche.
La critica alla spiegazione psicologista della mistica conduce l'autore sulle tracce di un'ulteriore lettura naturalizzata del fenomeno, quella dell'indianista americano J. Moussaieff Masson, il quale offre una rilettura della teoria freudiana che, sebbene resti nel solco del riduzionismo, ha comunque il merito di superare Freud nel sottolineare tutte le ambiguità e le zone d'ombra di un fenomeno che non è possibile liquidare sbrigativamente come una sorta di déjà-vu patologico.
Il secondo capitolo è dedicato quindi all'approfondimento del fenomeno mistico e del suo contenuto di beatitudine, che deriva dall'abbandono delle dicotomie bello/brutto, nobile/vile, puro/impuro, importante/insignificante, cui il pensiero è costantemente legato. Servendosi del contributo delle neuroscienze, Hulin critica la pretesa opposizione tra le vie ascetiche che conducono all'estasi e quelle chimiche, ossia l'utilizzo di stupefacenti e allucinogeni: “le pratiche ascetiche, considerate in sé stesse, si presentano come tecniche psicofisiologiche fra le altre, manipolazioni dell'organismo con effetti in via di principio individuabili, se non misurabili. Da questo punto di vista non esistono fra le droghe e le altre tecniche differenze di natura, ma soltanto differenze per quanto riguarda le modalità d'azione” (p. 92). 
Se le sostanze psichedeliche presentano un lato oscuro che consiste in una straordinaria crescita del grado di vulnerabilità del soggetto agli stimoli esterni, il lato “glorioso” di tale esperienza mostra quattro temi dominanti, vale a dire una condizione di serenità che oltrepassa le vicende dell'esistenza, la sensazione della fondamentale interconnessione esistente tra tutti i viventi, e della loro intrinseca bontà, la percezione di un ritorno ad uno stato primordiale, in un certo senso “di natura”, ed infine la considerazione del precedente stato di coscienza come condizione essenzialmente povera e deludente. A questo punto “risulta difficile sospingere l'esperienza della droga fuori dal campo della mistica, per lo meno nella sua versione selvaggia” (p. 116).
E tuttavia la stessa esperienza della droga conferma il suo lato oscuro già citato in precedenza, che Hulin accosta al ruolo di un attore, il quale pur potendo interpretare sulla scena  il ruolo del santo, riuscendo addirittura ad incarnarne l'anima, una volta tornato nella vita reale deve tornare a fare i conti con la consapevolezza della propria esistenza banale: il balzo in avanti temporaneo che la droga consente di compiere a chi ne fa uso non consiste in un reale progresso della vita spirituale, piuttosto è un modo allucinato per intravedere ciò che, solo una costante pratica ascetica potrebbe portare a raggiungere in maniera libera e in un certo senso, meritata.
Se è dunque potere della droga ottenere il duplice effetto di generare esperienze mistiche e, al contempo, disturbi psichici, “la parentela fenomenologica fra questi due tipi di universo si manifesta in tutta la sua chiarezza” (p. 138). Hulin ci accompagna così lungo le pagine del libro di Pierre Janet De l'angoisse à l'extase: non esiste, è questa la tesi centrale del suo studio, una soluzione di continuità tra le manifestazioni mistiche tradizionalmente accettate ed i fenomeni considerati patologici, ma “la ripartizione dei devianti in psicopatici e mistici riflette prima di tutto l'accoglienza che la società riserva loro, a seconda che essa sia sensibile o meno al loro discorso, ne favorisca o intralci l'inclusione sociale” (p. 153).
La discussione sulla mistica selvaggia, a questo punto, rivela tutta la profondità della sua dimensione filosofica. “Mettere fra parentesi i codici teologici delle grandi religioni implica che il loro immenso valore sarà pienamente percepito solo dopo una preliminare deviazione. Questa deviazione rimanda a un'analisi fenomenologica che si sforzi di riafferrare allo stato nascente il senso vissuto, immanente, della gioia mistica, dunque innanzitutto della gioia tout court e, per il suo tramite, dell'esperienza affettiva in generale” (p. 162).
Prima di soffermarsi sulle considerazioni finali, Hulin passa in rassegna quindi due grandi temi della riflessione sull'uomo: l'affettività e la coscienza.
“La libido sciendi non è che una forma particolare, certamente privilegiata, della libido in generale, e la coscienza intellettuale, lungi dal poter ambire a una qualche autonomia di principio, poggia sulla coscienza affettiva come sua condizione di possibilità” (p. 165). La stessa dimensione della temporalità si costituisce a partire dalla dicotomia fondamentale piacevole/spiacevole funzionale all'autoconservazione; infatti è proprio in vista di un interesse, di un attenzione nei confronti di ciò che può risultare un vantaggio o un pericolo per l'esistenza, che gli oggetti dell'esperienza possono essere trattenuti nel ricordo o rappresentati in anticipo, che cioè l'uomo può guardare in avanti o indietro dispiegandosi così nel tempo. Al contrario, un individuo immaginato privo di ogni legame con la dimensione, affettiva e intellettuale al tempo stesso, del piacevole e dello spiacevole, non potrebbe essere considerato  come situato ancora nel tempo. “Riassumendo, la proprietà di successione degli oggetti dell'esperienza non si presenta mai alla coscienza sotto forma di un semplice dato esterno che essa si limiterebbe a registrare. La proprietà di successione non è che la proiezione all'esterno di un'insoddisfazione essenziale che abita la coscienza” (p. 187).
La panoramica sulle dimensioni costitutive fondamentali dell'esser-ci umano, porta Hulin a concludere che: “la coscienza morale rimane necessariamente una coscienza incarnata e desiderante, incapace in quanto tale di trascendere l'orizzonte di esperienza definito dalle reazioni positive e negative dell'organismo nei confronti dell'ambiente” (p.194). Da ciò deriva come corollario il fatto che  “gli oggetti dell'esperienza non possiedono in sé stessi nulla di attraente o ripulsivo, ma sono costituiti come tali dall'atteggiamento (di accoglienza o di rifiuto) della coscienza che giunge ad incontrarli” (p. 197), ed è su questa base che si innesta una visione essenzialmente pessimistica della condizione umana. Così come afferma la dottrina buddhista infatti “dukka non è tanto la sofferenza quanto l'alternanza di pene e gioie, la loro inestricabile mescolanza, il loro contrasto, il loro reciproco condizionamento” (p.204).
A conclusione del libro Hulin cerca di mettere in luce, attraverso il concetto di “ascesi”, la possibilità che l'uomo ha di superare tale dialettica. La mistica in generale, come fenomeno unitario, supera di gran lunga gli aspetti pscicopatologici cui è pur sempre legata come attesta l'esperienza. Ma essa supera altresì i diversi tipi rintracciabili in base alle spiegazioni e alle interpretazioni, pur necessarie ed inevitabili, che vengono date a posteriori ai singoli vissuti. “L'estasi resta uguale sotto tutti i cieli e in ogni tempo. Ma se mai si potesse incontrare un vissuto mistico allo stato puro, è vero che esso sparirebbe dal nostro campo di rappresentazione qualora lo lasciassimo sussistere, volatile com'è, vergine di interpretazione […] Selvaggia può diventare allora, l'interpretazione del fenomeno mistico, non il fenomeno stesso” (p. 246).


Indice

Prefazione
Introduzione
1.  I.        L'oceano interiore
1. Freud, Romain Rolland e il sentimento oceanico
2. L'esperienza mistica spontanea
3. Una embriologia della psiche?
4. Estasi e meccanismi di difesa
1.  II.        Dall'estasi all'angoscia
1. L'esperienza mistica indotta
2. Paradisi e inferni artificiali
3. Estasi e psicopatologia
1.  III.        Affettività e assoluto
1. L'enigma dell'assoluto
2. Sentire e comprendere
3. Sofferenza e temporalità
4. Al di qua del bene e del male
5. Ascesi e vita mistica
1.  IV.        Conclusione

2 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

Mistica della droga... mistica della clinica?!

Se accompagnata dai riferimenti geometrici-linguistici di Freud, al termine delle sue comparazioni tra realtà neurotica e realtà psicotica senza il risultato da lui sperato di una spiegazione-riduzione neurologica della psicologia, anzi col principio della dimostrazione dell'assenza inevitabile di tal nesso, cosa che lo indusse a riformulazioni linguistiche di fatto occultatorie ed etnofobiche quando la smentita della realtà lo indusse a confronto serio coi propri odi contro le culture psicologiche empiriche contro il romanzo psicologico ottocentesco e contro il germanesimo e col senso da attribuirvi... insomma se accompagnata dalla dimostrazione-occultazione freudiana, la meditazione sulla mistica perderebbe di sistematica rigorosità.
Allora, senza obbedire all'odio di Freud e freudiani, bisogna dalla duplicità, di immediatezza di tutto ciò che è istintivo e di inesplicabilità di tutto ciò che è intuitivo (inferiorità / superiorità), includere l'elemento misterioso ed escluderne l'occulto, evitando così che questo diventi alterità etnica ed impossibilità di pensare restando tali quali si vuol essere; schiudendo accanto all'esempio di estasi stupefacente l'altro esempio di estasi malinconica: nel primo caso ritrovandosi solo senso analogico e senza vie di significato, nel secondo invece trovandosi senso dialogico, tra l' Io e un Destino, con via obbligata di significato, imposta dall'orrore dei malesseri e dall'avvilimento per le malattie.
Nonostante siano accomunati entrambi i casi da mancanza di inventiva ed assenza di creatività, per cui il senso sviato ed il senso obbligato, l'uno riducendo, l'altro adducendo, non conducono ad alcunché, non potendosi compiere ascesi vera se ciascuna estasi è non spontanea — infatti è vero che la forma della mistica è la differenza impensata, il divario non ricercato — perlomeno però la riflessione di entrambi gli estremi della non compiutezza mistica offre ragione di questa e pensiero di cosa sarebbe una autentica 'partecipazione mistica'.
...

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

...
Chi vive il disagio solamente quale problema ha esperienza negativa di negatività patologica perché questa gli è identica a sintomatologia che non sa decifrare preventivamente e allora la psicopatologia nella riflessione gli (le) è sempre un dramma e non sa darne rilievo neutrale; allora in tal escludente vivere, che è morte di civiltà non sua assenza ancora perché il rimedio civile insufficiente rende i disagi né indifferenti né polivalenti, si presentano l'autoconservazione e la relativa consapevolezza, senso umano del sacro ed anima numinosa, distantemente attraverso l'intuizione della vita senza civiltà cioè la selvatichezza; ma pure altramente, chimericamente: perché quale esito è o sarebbe interrotto dagli effetti del disagio, ché principio di risoluzione esterno e successivo non può darsi; e quale guida esterna offrirebbe terapie del suicidio o eutanasie del morire...
Questa impossibilità di evitare dal dramma la tragedia ha per speranza il restare in àmbito dei fenomeni allorché il lato misterioso della vita darebbe opportunità di un mutamento improvviso; fenomenologia che è selvatichezza latente, ché ne ha in comune non elaborazione cultica-culturale, non traduzione di ineffabilità in apofasi; ma ciò riformulando tragedia stessa, tranne che non sia motivo di meditazione ulteriore, filosofica; pur non risolutiva, con sola ragione di ulteriore speranza, virtù di non fatalità.
Ma per ottenerne qualcosa come si farebbe senza notare da parte dei medesimi coinvolti (non io anche), 'smarriti per le vie del mondo', il fato cui tentano distacco? Un destino, spiace ridirlo forse, clinico, perché il disagio di essi stessi se non proprio l'ebbrezza né l'alterazione da alcolici e droghe ne è comunque omologo, un errore di artifici e per artifici civilmente favorevoli in apparenze momentanee; e possibilità per essi nella integrazione della estasi artificiale con la estasi clinica; non una nullità, se tanta (innocente) stranezza o (colpevole) aberrazione trovasse una ascesi non omologata alle estasi, fossero codeste unite in psicologico distacco ed antropologica mutazione:
non tragedia ultima, aspettazione tragica di un intero mondo sull'orlo di umana decadenza ma non in umana decadenza!
Ma assumendo cattivi maestri per guide, senza capire cosa peraltro essi avevano fatto di buono e lasciandosi irretire dalle loro iniziative di odio, non c'è neanche la salvezza del rifiuto etnico. In tal caso (menzionato anche in mio precedente commento) i cattivi maestri sono Sigmund Freud e freudiani, col loro odio che genera umana psicofisica decadenza per chiunque ne segua destino. I rapporti clinici-ospedalieri britannuci su Sigmund Freud ne descrissero disfacimento antropico e psicologica insostenibilità di condizioni. La cultura, cattolica, filocattolica, sull'orlo di questo baratro non trova beneficio dal negare i risultati delle ricerche scientifiche neurologiche di Freud né dal negarne i compiti interdisciplinari assegnatigli ed in parte svolti da lui (sovente suo malgrado e per ingiunzioni di Autorità esecutive di Stato); ma parallelamente a questa accortezza ne dovrebbe essa maggiore: diffidare della sottrazione da parte del clero cattolico della psicologia scientifica, questa dimostrando utilità, anche terapeutica seppure non più fondamentale, della religione; ma del mondo devoto agli ultimi editti vaticani — sessuofobici, non universali nel supporre mancanze di saggezze non di tutti — restando estasi artificali e cliniche nonché combattuta ascesi e non ancora un futuro solo eventualità di esso.
Altrimenti la morte dell'universalismo civile cattolico, già in atto, sarà la morte degli individui, per la incoerenza di una assolutezza ma parzialità, per una civilizzazione solo formalmente giusta alle cui forme vitali corrispondono accadimenti esiziali.

Altra soluzione ed immediata, dunque, la filosofia la scorge, per chi in tal mondo in bilico tra vita e morte, nel terminarsi stesso suo mondo, se anche voluto così da terminare senza ipocrisie.

MAURO PASTORE