lunedì 28 ottobre 2013

Jappe, Anselm, Guy Debord

Roma, Manifestolibri, 2013, pp. 191, euro 22, ISBN 978-8872857212.

Recensione di Riccardo Antoniucci - 06/07/2013

“Mentre nella famosa École Normale Supérieure, situata nel Quartiere Latino, la futura “élite” si preparava alla sua carriera, a pochi passi di distanza, nelle bettole evitate da ogni studente rispettabile, il giovane Debord cominciava un tragitto che l’avrebbe ugualmente portato a esercitare sul mondo un certo influsso” (p. 55).
Il senso dell’opera di Guy Debord si riassume in questa frase forse meglio che in ogni altra. O almeno è questa la prospettiva adottata da Anselm Jappe nella sua ricognizione,

recentemente riapparsa per Manifestolibri a quattordici anni dalla prima edizione (1999), dell’opera del pensatore francese. E ricognizione non è un termine neutro, in questo caso. Innanzitutto, infatti, il suo primario significato militare serve a segnalare quanto il lessico della guerra e della strategia sia importante per Debord, costituendo, si potrebbe dire, il vocabolario di riferimento della sua opera. Non è un caso, del resto, che la mostra che, all’inizio del 2013, la Bibliothèque Nationale de France ha dedicato all’esposizione degli archivi dell’autore si intitolasse proprio “Guy Debord. Un art de la guerre”. 
In un secondo luogo, la metafora della ricognizione caratterizza anche questo libro di Anselm Jappe, soprattutto per il suo tentativo di tenere insieme l’analisi (approfondita, dettagliata) della teoria debordiana con la valutazione (politica) del suo “posizionamento” rispetto al contesto sociale e teorico della sua epoca (per questo secondo aspetto si veda il terzo capitolo, esemplare, del libro: “Passato e presente della teoria”, pp. 139-172). Volendo sintetizzare, perciò, si potrebbe parlare di “analisi strategica”. Del resto, anche lo stile, vale la pena sottolinearlo, non lesina prese di posizione nette e radicali, che, a differenza di molti saggi retrospettivi, non intende minimamente smussare gli spigoli di un’opera e di una vita che hanno sempre perseguito l’obiettivo (teorico e pratico) della marginalità, a costo da tramutare quest’indipendenza in una condanna.
Il primo intento di Jappe, non c’è dubbio, è ricercare una prossimità con l’opera di Debord, creando un percorso di lettura capace di avvicinare il più possibile il lettore al laboratorio teorico del filosofo francese; alle radici, dunque, di una scelta radicale. D’altra parte, quando si parla di un pensiero come quello situazionista, per cui l’arte e la vita sono intimamente connessi, non si può evitare che questa stessa impostazione riverberi nell’opera di analisi, anche in quella che si pretende più accademica. E il libro di Jappe, per fortuna, non si nasconde quest’inclinazione mimetica.
L’impressione di mimesi è accentuata ancor di più dalla scelta di una presentazione non cronologica (ma quasi logico-analitica) dell’opera di Debrd. Così Jappe, in tre sezioni, tenta innanzitutto di fondare teoreticamente del concetto cardine del pensiero debordiano, quello di “spettacolo” (primo capitolo), e soltanto in un secondo tempo ripercorre la genesi della nozione, attraverso i vari passaggi, o “evoluzioni” (termine che compare a più riprese nel testo) dell’opera di Debord (capitolo secondo), ponendo, infine, la domanda cruciale dell’attualità del pensiero dell’autore (capitolo terzo).


La seconda parte è quella che più si avvicina all’“introduzione all’opera” classicamente intesa: Jappe vi segue il percorso di formazione di Debord a partire dagli anni ’50, cioè dal momento in cui entra a far parte dell’Internazionale lettrista di Isidore Isou. Quest’operazione serve a mettere in luce come le basi teoriche del pensiero dell’autore non siano in prima istanza riferibili alla filosofia, ma attingano piuttosto a una concezione creativa dell’arte e del suo rapporto con la vita (ereditata, ma con spirito critico, dall’approccio surrealista) e da “modelli poetici” (pp. 55-80). Anche a seguito della rottura fra Debord e Isou degli anni ’60, l’impostazione generale del lettrismo permarrà nel situazionismo, e in particolare “la convinzione che il mondo intero sia prima da smontare e poi da ricostruire, non più all’insegna dell’economia ma della creatività generalizzata” (p. 59). Ma accanto a questo tema, l’esperienza lettrista lascia anche in eredità un interesse spiccato per l’architettura della città, e soprattutto la prospettiva teorica, allora inedita, che tende a legare strettamente i fenomeni urbanistici e l’organizzazione economica complessiva della società, facendo dunque della città e delle sue trasformazioni i nodi fondamentali di concentrazione della lotta di classe. È in questo quadro che si delinea il concetto di “situazione”:
“Le arti hanno ormai la funzione di concorrere a un nuovo stile di vita, e inizialmente i lettristi parlano di “arte integrale”. Le situazioni, di cui i futuri situazionisti sono sempre alla ricerca, includono un aspetto materiale, e la vera realizzazione della costruzione di situazioni sarà un nuovo urbanismo, dove tutte le arti saranno utilizzate per creare un ambiente appassionante” (p. 67).
Ricerca artistica della creatività, da un lato, e interesse per l’urbanistica, dall’altro, costituiscono dunque, fin dall’inizio, i due capisaldi della teoria situazionista, che non farà che specificarsi, radicarsi e approfondirsi nel seguito. Da qui nascerà la celebre “pratica teorica” della dérive, per esempio, la «tecnica di passaggio rapido attraverso ambienti variati»[1].
Quando poi, nel luglio 1957, sarà costituta l’Internationale Situationniste, su queste basi Debord potrà edificare una critica integrale della vita quotidiana che andrà di pari passo con la ricerca pratica di situazioni “straordinarie”. Incontrando così un primo, importante, riferimento teorico nella figura del filosofo Henri Lefevbre, autore di Critica della vita quotidiana[2] e “unico personaggio con un ruolo istituzionale nel mondo culturale con cui i situazionisti abbiano accettato una collaborazione” (p. 82). Al sociologo francese si deve, com’è noto, l’importante contrapposizione tra il quotidiano come regno della ripetizione e del quantitativo e la storia, che si ritroverà poi ne La società dello spettacolo (p. 87)[3].
Il rapporto con Lefevbre, intenso verso la fine degli anni ’50 e poi radicalmente cessato dopo alcuni anni, al punto di diventare addirittura conflittuale all’alba 1968, è comunque determinante nella scoperta diretta del pensiero di Marx da parte di Debord e per la definizione teorica del situazionismo. È il tema, questo, del primo capitolo di Guy Debord, ed è anche il vero cuore pulsante della lettura di Jappe. Egli mette, infatti, in evidenza come l’originalità e anche la radicalità dell’opera di Debord stiano proprio in una determinata lettura di Marx: “la comprensione delle teorie di Debord richiede anzitutto di determinare il suo posto tra le teorie marxiste” (p. 8). 
 In particolare, ciò che più di ogni altra cosa restituisce il senso della singolarità dell’opera debordiana non è quella che è stata definita una critique artiste, ma proprio la ripresa di una certa parte della dottrina marxiana: quella che, prima degli anni ’70, era meno volentieri oggetto interesse, almeno nella Francia della forte tradizione di marxismo “umanista”. Si tratta dell’analisi della merce, che permette di porre in una nuova prospettiva la critica dell’alienazione e che diventa fondamentale per la definizione del concetto chiave del situazionismo, ovvero quello di spettacolo. Jappe restituisce, in altri termini, il senso del situazionismo come una teoria (marxista, e autenticamente marxiana) dell’alienazione, liberata dalle contraddizioni dell’affermazione ontologica di un’essenza umana atemporale e metafisica, e più “materialisticamente”, per così dire, fondata sull’idea della separazione dell’uomo dal prodotto del suo lavoro, nonché sull’analisi dell’intima struttura di questo stesso prodotto, la “merce”, come “feticcio”, secondo la fortunata definizione del libro primo del Capitale.
“In Debord non si trova nessun tentativo di fondare un’“ontologia”, ma ciò non esclude necessariamente una qualche definizione dell’“essenza umana”. […] Si ritrova in Debord la concezione secondo cui l’essenza umana, invece di essere un dato fisso, è identica al processo storico, inteso come autocreazione dell’uomo nel tempo” (p. 38).
Del resto, questa netta collocazione della teoria debordiana nel solco della tradizione marxista è anche il maggior pregio teorico dell’opera di Jappe. Il situazionismo è iscritto così a pieno titolo in quel “filone minoritario del marxismo che assegna un’importanza centrale al problema dell’alienazione, considerandolo non un epifenomeno dello sviluppo capitalistico, ma il suo stesso nucleo” (p. 10). Come spiega molto chiaramente Jappe, infatti, la teoria situazionista non è altro che una teoria dell’alienazione applicata al capitalismo avanzato, in cui è giunto al massimo grado di sviluppo il processo di sottomissione della vita umana da parte dell’economia, attraverso l’espandersi della funzione della merce.
Su questo punto, l’analisi debordiana si avvicina molto a quella del Lukács di Storia e coscienza di classe, tradotto in francese per la prima volta nel 1960, contro la volontà del suo stesso autore. Nonostante una certa reticenza di Debord su questo autore (le citazioni dirette del “libro maledetto del marxismo” si limitano alle due frasi in epigrafe del secondo capitolo della Società dello spettacolo), il legame teorico tra i due è molto stretto, incentrandosi proprio sulla concezione dell’alienazione. In particolare, Jappe legge, tra le righe della presentazione dello spettacolo come ricomposizione illusoria di una vita frammentata dal capitalismo, l’idea lukácsiana dell’alienazione come contemplazione: “Quello che accomuna in modo specifico Debord e Lukács è la netta condanna di ogni forma di contemplazione, in cui vedono un’alienazione del soggetto. Loro identificano il soggetto con la sua attività, e per Debord la contemplazione, il “non intervento”, è l’esatto contrario del vivere” (pp. 29-30).
Com’è noto, è il concetto di società dello spettacolo a costituire “nucleo di tutto il pensiero e di tutte le attività di Debord” (p.12), ed esso è anche il punto in cui più chiaramente emerge il marxismo di Debord. “Il concetto di società dello spettacolo viene spesso inteso esclusivamente in riferimento alla tirannia della televisione e di simili mezzi. L’aspetto massmediatico dello spettacolo viene però considerato da Debord come quello più ristretto […]. Il funzionamento dei mezzi di comunicazione di massa esprime invece perfettamente la struttura dell’intera società di cui questi fanno parte. La contemplazione passiva di immagini, che per giunta sono state scelte da altri, sostituisce il vivere e il determinare gli eventi in prima persona”. (p. 12) 
Nell’economia della presentazione di Jappe, comunque, porre l’accento sulla derivazione della nozione di spettacolo dal concetto marxiano di alienazione serve, soprattutto, a segnalare il suo carattere di innovazione teorica rispetto alla stessa teoria marxista, punto di vista fondato su una lettura serrata de La società dello spettacolo. In particolare, Jappe si basa sul paragrafo 29 dell’opera, in cui l’autore dice espressamente che l’astrazione è il modo d’essere concreto dello spettacolo. Ma non solo: in quanto forma di alienazione, essa è altresì frutto dello specifico processo di astrazione derivante dalla struttura della merce del capitalismo contemporaneo. Per questa ragione, Jappe afferma che esso può essere interpretato come uno stadio ulteriore del processo di alienazione: se lo spettacolo può essere concepito come «lo sviluppo più estremo della tendenza all’astrazione» (p. 19), è perché esso è “un ulteriore sviluppo della forma-merce” (p. 25). Ciò permette di chiarire in che senso l’analisi situazionista dell’alienazione sia eterogenea rispetto alla tradizione umanista del marxismo, presentandosi come critica totale della vita, nella condizione contemporanea. Pur partendo da un’analisi della cultura (quindi, marxianamente della “sovrastruttura”), infatti, il concetto di spettacolo è irriducibile al solo piano della rappresentazione (dell’ideologia), proprio perché definisce un assetto produttivo della società, tanto nel senso economico quanto culturale: “Il concetto di spettacolo analizza il modo in cui il processo di astrazione trasforma tanto il pensiero quanto la produzione. Così tale concetto va proprio nella direzione di un superamento dell’opposizione dualistica tra “base” e “sovrastruttura”, tra “apparenza” ed “essenza”, tra “essere” e “coscienza”, di cui si faceva forte un “marxismo” che non aveva compreso che il valore è un fatto sociale totale […]” (p. 163). 
È proprio a partire da questa posizione che la teoria di Debord può essere compresa nella sua novità rispetto alla (ma anche all’interno della) teoria marxista. Perché, rifiutando l’approccio “economicistico”, colpevole di dividere il mondo in base alla separazione ontologica e gerarchica tra il livello economico, “neutro” e l’ideologia che lo descrive secondo diversi gradi di mistificazione, il situazionismo riapre di fatto la strada alla critica totale della società, cioè alla possibilità di rifiutare totalmente il sistema del valore, per come esso si dà nel capitalismo. E tutto questo a partire, sì, da un’ispirazione “poetica”, come dice Jappe (usando il termine come opposto a “scientifico”), ma in un percorso che segue la lettera dell’economia politica marxiana, fondata sull’analisi della merce (cfr. pp. 164-165).
Ciò che appare alla fine è che, per l’appunto, la società dello spettacolo è da intendere come uno stadio ulteriore del capitalismo in cui l’astrazione si estende all’intera vita dei soggetti, astraendo e frammentando la totalità dell’esistenza: “lo spettacolo è concepito da Debord come una visualizzazione del legame astratto che lo scambio istituisce tra gli uomini” (p. 25). Se l’alienazione classicamente intesa è quella che trasforma, degradandolo, l’“essere” in “avere”, lo spettacolo allora continua questo processo trasformando l’“avere” (il denaro, la merce) in “apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima”[4]. Portata fino in fondo, la critica debordiana dell’alienazione può assurgere al livello transindividuale, diventando una critica della separazione non soltanto dell’uomo dal prodotto della sua attività, ma della vita stessa dal progetto globale e cosciente che la caratterizza (p. 179). Separazione che ha la sua causa prima nella nascita e nell’espansione dell’economia.
In questo modo, il situazionismo si traduce in un programma teorico e politico “di abolire tutto ciò che è separato dall’individuo” e di rimetterlo in possesso della sua vita, intesa come totalità: “L’attualità dei concetti di Debord non sta più nel voler generalizzzare una cultrua del gioco che il progresso avrebbe reso possibile, ma nell’aver dato un nuovo fondamento all’osservazione del gioca Marx  secondo cui l’economia politica è la negazione totale dell’uomo (p. 172). Da questo punto di vista, come segnala Jappe alla fine della sua ricognizione, il pensiero di Debord dev’essere inteso come una forma di illuminismo, in quanto intende proseguire l’opera di demistificazione dell’“impostura regnante” dello spettacolo[5] e di affrancamento dell’uomo dalla minorità in cui il capitalismo spettacolarizzato lo relega (ibid.).
Questa valutazione è tutt’altro che secondaria, approfondisce il carattere singolare di Debord rispetto alla sua epoca. Se la filosofia francese contemporanea, negli anni ’60 e ’70, tentava di uscire dall’impasse della critica attraverso una riflessione sulla violenza intrinseca della ragione (les lumières sombres di Foucault, la riflessione derridiana sul logocentrismo…) proponendo sostanzialmente di abbandonare il progetto illuminista, Debord, invece, sembra rilanciare la sua necessità, tentando, a suo modo, di rendere questa luce ancora più fulgida. Quella di una nuova teoria critica, insomma, “di cui questi tempi hanno un bisogno così urgente” (ibid.).
“Lo spettacolo, nel momento in cui ha spinto tanto lontano la sua invasione della vita sociale, conoscerà l’inizio del capovolgimento del rapporto di forze. […] la storia e la vita reale sono ritornate all’assalto del cielo spettacolare”[6].


Indice

Il concetto di spettacolo
        Bisogna bruciare Debord?
Lo spettacolo, stadio supremo dell’astrazione
Debord e Lukács
La storia e la comunità come essenza umana
La prassi della teoria
        L’Internazionale lettrista
I situazionisti e l’arte
La critica della vita quotidiana
I situazionisti e gli anni sessanta
Il maggio ’68 e il seguito
Il mito di Debord
Lo spettacolo vent’anni dopo
Passato e presente della teoria
        La critica situazionista nel contesto della sua epoca
        Le aporie del soggetto e le prospettive dell’agire
        Le due fonti e i due lati della teoria di Debord
Scritti di Debord
Bibilografia critica

4 commenti:

MAURO PASTORE ha detto...

È stato detto “Guy Debord. Un art de la guerre”, ma non nel senso limitato attribuibile, attribuito dal recensore, di linguaggio bellico.
Si trattava di una guerra culturale di cui" Guy Debord" disegnava scenario tutt'altro che spettacolare ma tattica mimetica di spettacolo culturale, secondo strategia demistificatoria.
Questa demistificazione era una filosofia della critica politica alla insensatezza della preponderanza del Terziario in economia politica, che Debord tratteggiava con emotivi coinvolgimenti degli osservatori esterni, tra i quali postumamente autore A. Jappe dell'opera biografica su stesso personaggio della cultura Guy Debord, portati 'per forza di cose' ad estetiche da Era dei Dinosauri, in fondo perché trovavano certo primitivismo-fondamentalismo tra gli oggetti di critica assunti da Debord, che non considerava il marxismo una teoria filosofica ma un dato subculturale: 'sub' sia perché potere sotterraneo alle ufficialità sociali francesi in reale vigore, sia perché movimento sociale non solo ignaro ma ignorante ed inconsapevole delle scaturigini dei contrasti politici, economici, sociali entro cui accsdeva ad esso di agire derivandone, di fatto quale 'spettacolo della finanza ridotta ad anticapitalismo comunista'.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Per il così nomato Guy Debord il comunismo era la spettacolarizzazione della degenerazione dei poteri dei capitali, perché Egli aveva potuto constatare gli sfondi urbani dai quali esso era configurabile e configurato, secondo separazione di espressioni e mezzi di espressione, cose e scopi delle cose: numeri di banconote da materiali di banconote, disegni su (non sopra) monete da conio delle materie stesse, secondo un regresso in indefinito, non un pensiero astratto senza fondo ma proprio le altrui assenti percezioni ed assenti elaborazioni mentali corrispondenti al senza-fondo delle città e cittadi e cittadine europee, non infinito di per sé e per insondabilità: anche e proprio quello dei tombini, grate, feritoie, fesse interne ai fossi, crepe sottostanti ed anche dal sottostante. Critica totale per "Guy Debord" significava notazione di una mancata completezza di diaframmi e di una immancabile insufficienza di deduzioni, intorno... a poca salubrità, irrazionalità di acari e imprevedibilità di polveri, deviazioni di luminosità solari e forza di campi elettrici artificiali (come non pensare all'attenzione filosofica di Schelling alla primigenia indescrivibile forza fisica elettrica e magnetica, energie chimiche elettriche?), significava ravvisare la volontaria passività non inurbana ma extraurbana dell'ingenuo vissuto meta-fisico che comparava smog e nebbie astraendone uguaglianze non differenze, il vissuto anche alchemico di pseudoadattamenti a circostanze-coincidenze non vere opportunità-combinazioni... In questa grande Chimera priva di rigorosità metropolitane ma in esse sconfinante e mutuantene senso di misura, era da collocarsi la Grande Illusione di Marx ed Engels, che Debord intuiva essere inscenata dal capitalismo selvaggio, questo però tutto interno alla Chimera e ad esso devoluto. In tal senso "Marx & Engels" era un teatrino gestito da falsi bancari ma neppure usurai perché gli impresari ne erano... gli acari, microforme uguali ad insetti solo in apparenza non apparire, questo uguale ad aeree meduse... Ma di ciò la extraurbanità capitalistica non poteva intenderne né voleva percepire! Ed in ciò si trova 'lezione etica' di Debord, per implicite osservazioni ai costumi non sociali, al vestiario degli schiavi della Grande Chimera, insensibilizzante alle polveri da acari ma non neutralizzantene. Il capitalismo mosso dalle istanze capitalistiche era mosso anche... dai pruriti fisici cui ne corrispondevano i metaforici dei "rivoluzionari comunisti", uomini forti e rudi che si trovano descritti nei fumetti sugli Evi Giurassici; né il fior di piretro sostituto del DDT avrebbe potuto svelare i nessi politici sociali della Chimera, neppure dalle lontane ex-colonie del Sud, perché ciò che per aria ha potere di trasparenza e consistenza animale non cade vittima degli oblii percettivi neurovegetativi catalettici impartiti dalle sostanze del piretro. Questa era l'ispirazione situazionista di "Debord". Il suo situazionismo intellettualmente-superficialmente mostrava la struttura economica e la struttura economicista e le sovrastrutture culturali-sociali e sociali-culturali criticate dai marxiani e dal marxismo quali risultati e risultanti delle strutturazioni urbane di matrici ingegneristiche quindi architettoniche e le necessità vitali non solo umane da queste dipendenti. Dato assunto non acquisito era verbo marxista ma si trattava di impegno filosofico e militanza intellettuale  a n t i m a r x i s t a.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

In primo messaggio 'accsdeva' sta per: accadeva.
Reinvio intero testo del messaggio corretto:

È stato detto “Guy Debord. Un art de la guerre”, ma non nel senso limitato attribuibile, attribuito dal recensore, di linguaggio bellico.
Si trattava di una guerra culturale di cui" Guy Debord" disegnava scenario tutt'altro che spettacolare ma tattica mimetica di spettacolo culturale, secondo strategia demistificatoria.
Questa demistificazione era una filosofia della critica politica alla insensatezza della preponderanza del Terziario in economia politica, che Debord tratteggiava con emotivi coinvolgimenti degli osservatori esterni, tra i quali postumamente autore A. Jappe dell'opera biografica su stesso personaggio della cultura Guy Debord, portati 'per forza di cose' ad estetiche da Era dei Dinosauri, in fondo perché trovavano certo primitivismo-fondamentalismo tra gli oggetti di critica assunti da Debord, che non considerava il marxismo una teoria filosofica ma un dato subculturale: 'sub' sia perché potere sotterraneo alle ufficialità sociali francesi in reale vigore, sia perché movimento sociale non solo ignaro ma ignorante ed inconsapevole delle scaturigini dei contrasti politici, economici, sociali entro cui accadeva ad esso di agire derivandone, di fatto quale 'spettacolo della finanza ridotta ad anticapitalismo comunista'.

MAURO PASTORE

MAURO PASTORE ha detto...

Sono spiacente dell'inconveniente di scrittura. Ugualmente ad altre volte specifico che esso è dipeso da impedimenti consistenti anche in gravi minacce a vita, sue cose, sue eventi, minacce fatte specialmente per via 'subliminale'. Purtroppo un intero ambiente umano è gravemente e del tutto ingiustamente ostile a queste comunicazioni ed ha anche praticato intromissioni indebite in Stato e scrivendo ma non solo scrivendo mi accade di ricever continui messaggi non solo indiretti di disturbo cui non vale la pena di opporsi fino al punto da concentrarsi tanto sullo scrivere perché ho trovato più saggio badare più al resto e affidare messaggi ad ultimi invii di testi autorevisionati, infatti Internet non è una libreria ma un sistema di acquisizioni dati (ovviamente non è fatto per le appropriazioni indebite neppure intellettuali).

MAURO PASTORE