lunedì 24 febbraio 2014

D’Onofrio, Giulio, Vera philosophia

Roma, Città Nuova, 2013, pp. 376, euro 45, ISBN 9788831117500

Recensione di Antonella Fani - 03/06/2013

L’interessante rilettura filosofica proposta dal Prof. Giulio d’Onofrio, in un arco temporale che va dalla filosofia ciceroniana agli albori della filosofia moderna, è il frutto della revisione di articoli, saggi e studi (rigorosamente elencati nella postfazione del libro) dedicati alle condizioni che hanno contribuito a fondare il pensiero filosofico-teologico cristiano. Scopo principale del presente studio è quello di mettere in evidenza come la filosofia cristiana, recuperando i fondamenti epistemologici del platonismo e del neoplatonismo,

ha inteso porsi come vera philosophia, indicando una via di ricerca della verità fondata sull’accettazione della Rivelazione come verità prima.   
Lo studio di Giulio d’Onofrio prende l’avvio con l’illustrazione del pensiero filosofico di Cicerone. Secondo l’Arpinate, sebbene la sapientia sia la massima aspirazione a cui può tendere l’uomo, questi dovrà accontentarsi dello studium sapientiae, come tensione continua verso una conoscenza che orienta l’uomo al bene e alla felicità. Non a caso, alla sapienza egli accosta la virtù della prudenza poiché l’uomo è invitato a non conoscere “cose troppo oscure e difficili, la cui comprensione, proprio perché sono tali, non è indispensabile al vero fine della vita umana che è l’honestum” [p. 16]. Cicerone, quindi, colloca la sua gnoseologia entro i limiti dello scetticismo probabilistico, rinunciando al principio di verificabilità, e contribuendo al diffondersi di un senso di sfiducia sia nei confronti della filosofia, considerata vuota speculazione, sia verso i filosofi stessi che finivano per contrapporsi in sterili dissensiones. La crisi del sapere classico giungerà, poi, al suo culmine intorno al secondo secolo dopo Cristo, tanto che anche i primi pensatori cristiani (Lattanzio in particolare) riprenderanno il tema della dissensio philosophorum a favore della fede, capace di garantire il raggiungimento di quella verità invano cercata e pretesa dagli antichi. Essi intuirono la necessità di dare una organizzazione razionale a questa ‘nuova filosofia’, dove la verità assoluta era rivelata dalla divinità: “la fondazione di una corrispondenza tra res e verità logica poteva essere ora garantita dall’efficacia di quel principio divino che si pone nella Rivelazione non soltanto come autore volontario, onnipotente e immutabile, ma anche come mediatore tra le profondità della sua perfetta scienza e le manchevolezze di quella umana” [p. 34]. Fu poi Agostino, mediatore del pensiero neoplatonico in senso cristiano, a proseguire questo percorso di conversione della filosofia alla verità rivelata: nel Contra Academicos, il santo d’Ippona mostra ampiamente come alla filosofia non basti la inquisitio veritatis ciceroniana, ma sia necessaria la inventio veritatis, perché il cercare continuo senza trovare sarebbe solo un errare. Al posto del probabilismo degli accademici pone la regola dell’evidenza stoica, poiché ci sono delle conoscenze che non possono avere altre alternative possibili: così, anche la veritas se esiste è evidente e percepibile. Essa non può essere pienamente posseduta dalla mente umana perché le è superiore, impasse che può essere tuttavia superato a partire dalla autorivelazione divina, “il che equivale ad operare una totale conversio della filosofia non soltanto religiosa ma anche logica ed epistemologica, producendo cioè un’inversione di ruolo tra soggetto e oggetto” poiché “la verità viene in cerca dell’uomo per farsi conoscere” [p. 54]. Il credo ut intelligam è, quindi, la conversione logica di intelligo ut credam, dove all’accettazione della fede in Cristo corrisponde quella di una verità più estesa, che la mente da sola non avrebbe saputo trovare. Dio “si è espresso in parole e simboli e si è reso intellegibile nella sacra Scrittura” e il Verbo è “il principio normativo superiore ed eterno in cui tutte le scienze umane trovano verità” [p. 65], per cui l’illuminazione divina riesce e a rendere intellegibile tutta la realtà ai filosofi cristiani e a garantire l’unica verissima philosophia.
Nel secondo capitolo del volume è presentato il pensiero di Severino Boezio, continuatore e innovatore di questa linea filosofica come “ultimo dei Romani e il primo degli Scolastici” [p. 71]. La philosophia diventa ora il percorso che dalle differenti arti, o scientiae, conduce a una sapientia intesa come comprensione della verità delle cose che veramente sono. Il problema gnoseologico è risolto in chiave neoplatonica mediata dall’influsso aristotelico (attraverso l’uso di una strumentazione logico-scientifica). Boezio riprende il ribaltamento conoscitivo tra soggetto e oggetto operato da Agostino affermando una complementarietà di interazione tra i due  poli. Se l’uomo può, quindi, aspirare alla conoscenza del vero sia a livello soprasensibile sia a livello fenomenico, ciò accade in quanto è stato collocato da Dio in una tale condizione creaturale. La vera philosophia confluisce ora nella conoscenza teologica, inizio e  fine della sapientia che orienta gli uomini a Dio. Non a caso, nei cinque opuscoli boeziani dedicati alla comprensione dei dogmi della fede cristiana la Rivelazione risulta essere la fonte dei principi primi della conoscenza e in essa si può ravvisare una regolamentazione metodologica di tipo scientifico. 
Nel terzo capitolo, La missione teologica del sapiente, viene approfondita la figura di Giovanni Scoto Eriugena il quale, oltre a essere verosimilmente stato uno dei fondatori dell’università di Parigi, può essere considerato – per l’originalità del suo pensiero – l’iniziatore del medioevo filosofico e teologico. Attraverso l’equazione in base alla quale “la vera filosofia è vera teologia” e “la vera teologia è vera filosofia”, egli applica abilmente le regole della dialettica come ars disputandi, capace di difendere la verità e consentire (con l’ulteriore contributo delle altre arti liberali) la ricostruzione mentale dell’ordine che Dio ha imposto alla creazione. L’Eriugena intende dar vita a un sapere in cui logica e ontologia vanno di pari passo e dove la vera sapientia è una sintesi armonica che mira a ricostituire l’unità originaria dell’Uno. Il d’Onofrio, infatti, partendo dalla quadruplice divisione eurigeniana sulla natura creata e non creta, mostra come Giovanni Scoto intenda sviluppare un percorso epistemologico che ha come meta il tentativo di delineare il fine ultimo nella conoscenza umana, conoscenza che trova la sua verità e unità in un reditus specialis culminante nella deificatio. Infatti, per l’Eriugena l’attività dell’intelletto umano è orientata a risolversi in quella dell’intelletto noetico, partecipando allo stesso modo di conoscere del Verbo. Quindi, il fine proprio della vera conoscenza filosofica è il divenire Dio, condizione già raggiunta solo dall’evangelista Giovanni a cui è stata rivelata la dottrina del Verbo ed è stato concesso di trasformarsi in una realtà superiore al modo di essere di ciò che è creato: un livello di conoscenza che va oltre la vera philosophia, che sarà accordato solo ad alcuni eletti tra i redenti, instaurando una harmonica pulchritudo tra i differenti livelli di conoscenza che permarranno anche nella vita futura, prefigurati dalla parabola evangelica delle vergini.
Nel XII secolo, la figura di Anselmo d’Aosta ha rappresentato un passaggio cruciale in direzione della razionalizzazione della fede che, oltre ad essere creduta perché Rivelata, può essere espressa tramite concetti e argomentazioni dialettiche che ne dimostrano la sua coerenza. La dialettica diventa quindi una scientia disputandi et argumentandi: intende essere di sostegno non solo all’ars iudicandi, ma anche all’ars inveniendi, arrivando a mostrare la coerenza logica della verità rivelata, poiché la ragione può essere ricondotta entro un sistema di conoscibilità dell’assoluto. Tale progetto anselmiano ha inizio col Monologion, dove il Nostro prosegue la via affermativa pseudo-dionisiana e attraverso un’applicazione razionale delle regole che stanno alla base della predicazione delle dieci categorie aristoteliche mostra la predicabilità in Dio di tutto ciò che può venir riferito all’essere – il concetto più adatto a parlare di Dio. Tale progetto giunge poi a compimento con il Proslogion, dove Anselmo espone il suo unum argumentum, riducendo la prova dell’esistenza di Dio a un’unica argomentazione come prova assoluta e predicando l’esistenza di Dio – al vertice delle perfezioni – a partire dalla sua pensabilità come id quo maius cogitari nequit, affermazione questa che può essere collocata nell’ambito della teologia negativa. L’insipiens a cui si oppone è allora colui che non accetta l’esistenza di Dio poiché ha una debole razionalità e ignora le regole della dialettica. 
Infine, nell’ultimo capitolo del volume è esposto il pensiero dell’umanista Niccolò Cusano e di alcuni filosofi che ne hanno recepito l’orientamento, come Gianfranco Pico, Iacopo Sodoleto e Sebastiano Castellione, tutti volti al recupero di un’epistemologia chiaramente influenzata dal pensiero neoplatonico (con una variegata gerarchizzazione delle potenze conoscitive dell’anima, ereditate dai pensatori precedenti) e consapevoli della fragilità dei ragionamenti umani non indirizzati a quella verità che solo Dio stesso può concedere. Niccolò Cusano, in particolare, ha voluto prendere le distanze dalla concezione scolastica aristotelico-avicenniana della verità intesa come adaequatio rei et intellectus e dalla sua pretesa di arrivare a un sapere dove l’anima rifletterebbe passivamente le forme delle cose. Egli inverte nuovamente il rapporto tra soggetto e oggetto, sostenendo, in sintesi, che la conoscenza è frutto delle potenzialità dell’anima del soggetto e che l’adeguamento è qualcosa di mai compiuto e sempre perfettibile. Nel De pace fidei, inoltre, aspirando ad un ampio e universale concordismo teologico, arriva ad affermare che ogni culto, ogni religione e ogni pensiero filosofico contiene una parte di verità, perché le varie dottrine sono collegate tra loro da una verità comune. Ne deriva che le dissensiones sarebbero, in realtà, solo apparenti perché determinate dai vari particolarismi e non da una visione universale sulle cose. 
A conclusione della lettura di questo dettagliato e ben documentato studio, non possiamo non apprezzare l’originale ricostruzione operata dal Prof. d’Onofrio, volta a dimostrare l’importanza dell’apporto del pensiero platonico e neoplatonico in ambito epistemologico, che – integrandosi pienamente con il pensiero cristiano – ha saputo trovare in esso i suoi frutti migliori, superando l’impasse dello scetticismo e del probabilismo accademico. L’Autore, infatti, mostra ampiamente come quest’integrazione abbia dato vita a un pensiero autenticamente filosofico, nonché teologico, capace sia di tendere a un assoluto conoscitivo, sia di indicare una conciliazione tollerante nei confronti delle diverse posizioni. Unico limite che riscontriamo – forse inevitabile in quest’ampio studio che ha cercato di ricostruire il filo rosso di una corrente filosofica che ha coperto ben 1500 anni –  è l’aver tralasciato alcune colonne portanti della filosofia e della teologia sia tardo antica che medievale. Parallelamente, anche la critica (sottesa ma stringente) all’interpretazione scolastica della verità come adaequatio rei et intellectus, se da un lato non ci è sembrata del tutto aderente alle variegate accezioni semantiche assunte dal concetto di verità e di vero nei testi dell’Aquinate, dall’altro non si può non riconoscere all’Autore di aver rispettato il criterio storiografico, cercando di far valere le ragioni di quella corrente di pensiero che è stata oggetto di un minuzioso lavoro di chiarificazione storico-speculativa.


Indice 

Capitolo I
Il pensiero ‘convertito’

Capitolo II
La veste di Filosofia

Capitolo III
La missione teologica del sapiente

Capitolo IV
La logica divina 

Capitolo V
La rinascita della vera philosophia

Postfazione
Bibliografia 
Indice dei nomi 
Indice biblico
Summary

1 commento:

MAURO PASTORE ha detto...

In recensione (di Antonella Fani) non si mostra per intero di materia trattata (da Autore Giulio D'Onofrio) positività di eventi ed ancor meno negatività di accadimenti, mancando in testo recensivo parte di argomenti essenziali pur senza omissioni di fondamentali argomentazioni ed essendo tralasciati temi fondamentali in mezzo ad esplicitazione di tematiche essenziali, della Pubblicazione recensita; assenze di cui invece deduzione da Indice accluso, dunque da quanto recensito.

La "inquisitio veritatis" era per Cicerone neutralità di atto veritativo in se stesso e non neutralità di esso quale strumento della azione affinché se ne manifestasse imputabilità in procedimenti di giustizia non pregiudicabilità in procedimenti di opposta azione non veritativa; in ciò possibili onestà di non verità e disonestà di verità opposte — nel Foro e finanche a Giustizia — e funzione probante della Retorica, politica - giudiziaria o giudiziaria, per condotta limitata a condizioni istituzionali repubblicane allora a Roma rette da Istituzione del Senato Romano. Le vicende di sua attività di rètore ebbero esito tragico non solo personale e ciò svelando di Repubblica romana grave precarietà; ma non v'era nei fatti percezione generica di insufficienza notandosene, tra fatalità secondaria, arbitrarietà primaria da parte delle vittime della tragedia, anche Cicerone stesso, punito per incomprensioni inderimibili anche a sé.
Altri fatti dopo, davano senso di inadeguatezza futura di sapienza pagana romana; ma non solo non tanto questa era guida ai romani, taluni inoltrati a saperi non pagani tratti da spiritualità monoteista del mondo etrusco allora anche in convivenza col romano — essendo Patriziato romano altramente istituzionalmente in azione, non già solo Garante nella Repubblica accanto a facoltà dei Senatori; a questo potere più originario il successivo Cristianesimo non era di sorpresa ma non direttamente conoscibile fino ai tempi di primo Tardo Impero.
La "dissensio philosophorum" per Lattanzio era concludenza filosofica al saperne trarre significazione di stessi dissentire; Agostino nelle cose fondamentali era restato pitagorico e la "inventio veritatis" gli era costruzione di cultura civile di contro a vecchia foriera di guai, da pitagorista muovendo perplessità al neoplatonismo cui ridotti talvolta accademici platonici, egli usando elementi di filosofia di accademia neoplatonica in sua dottrina ed ottenendone attenzione a libertà di soli usi non utilizzi. Il dissidio tra pensatori del Dio Unico platonico e neoplatonico e credenti nel Dio unico cristiano e biblico terminò prima di chiusura di Accademia con devoluzioni da filosofia non cristiana a dottrine cristiane. La sua chiusura accadde dopo altro tempo, per inoperosità e assenza di programmi.
Con l'Arianesimo cristiano non eretico Roma destinandosi alla Religione della Salvezza ovvero il Cristianesimo, altra parte ne restava disinteressata; per quest'ultima la filosofia nata da scontro-incontro di dottrine teologiche cristiane e di intuizioni assolute filosofiche era solo utile propagazione culturale; ma attraverso il Medio Evo diverso dei restanti o nuovi politeismi religiosi e monoteismi spirituali tal parte aggiunta ne era pure coinvolta, senza confluenza postuma, secondo interessi filosofici-teologici non viceversa teologici - filosofici, così da comporre variegato universalismo intellettuale, postplatonico e neoplatonista non specificamente neoplatonico. Perciò quel di superstite, in Italia ed Europa e di romano, da tragedia cui incorsa Urbanitas ciceroniana ad albori di Modernità, evitava più tragiche evenienze...
Ma altro era la Civitas agostiniana, pensata per sponde meridionali del Mediterraneo, altro ancora la Humanitas filosofica da Severino Boezio facoltosamente (anche in scritti cioè) inconsapevolmente (senza capirne veri destinatari) ingenerosamente (non più accolta da egli medesimo che costrinse a farsi dare suicidio pur di non vederne incarnata altramente in anima e corpo dei goti) rammentata.

MAURO PASTORE