mercoledì 24 febbraio 2016

Mendieta, Eduardo, vanAntwerpen, Jonathan (a cura di), Religioni e spazio pubblico. Un dialogo tra J. Habermas, C. Taylor, J. Butler e C. West

Roma, Armando, 2015, pp. 127, euro 15, ISBN 978-88-46677-899-8.

[Ed. or. The Power of Religion in the Public Spere, The Social Science Research Council 2011]

Recensione di Marco Damonte – 24/09/2015

Il libro contiene le relazioni – riviste – tenute da Habermas, Taylor, Butler e West durante un evento pubblico svoltosi il 22 ottobre 2009 presso la Great Hall della Cooper Union a New York alla presenza di oltre mille persone. Inoltre, vengono riportati anche i dialoghi tra i relatori che hanno animato questo appuntamento durato quasi cinque ore. Tra gli organizzatori istituzionali vanno annoverati l’Institute for Public Knowledge della New York University, il Social Science Research Council e la Stony Brook University. 

Tale contestualizzazione è quanto mai opportuna per comprendere l’intero testo ed apprezzarne il linguaggio, senza indugiare sui suoi limiti intrinseci. Il pubblico italiano è in realtà poco avvezzo a queste circostanze, sebbene traduzioni di eventi simili stiano circolando con un certa regolarità. Lo stile filosofico utilizzato ha peculiarità che possono apparire ostiche, ma che è necessario accettare per poter entrare nel vivo del testo. Le perplessità di fronte a un insieme di saggi divulgativi che hanno contribuito a creare un evento pomposamente e quasi provocatoriamente definito lungo e indiscutibilmente epico (p. 8) possono essere superate dal lettore solo impedendo che una retorica di maniera ostacoli la ricezione dei diversi messaggi. Il valore del testo è indubbio, piuttosto la questione sta nell’accettare di ripensare i concetti tipici del discorso filosofico in un ambiente non accademico, con i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Il rigore dell’argomentare filosofico cede di fronte alla sintesi, ma la chiarezza e la quantità di suggestioni proposte e di spunti offerti sicuramente se ne giovano. Se il lettore acconsente ad essere provocato, anziché convinto, e ad essere coinvolto nel dibattito, anziché attenderne passivamente l’esito, la lettura del libro diventa feconda e fruttuosa. Feconda, perché offre una serie di stimoli davvero notevole; fruttuosa perché in poche pagine si trova concentrato lo status quaestionis del dibattito attuale circa il rapporto tra religione e spazio pubblico così come concepito dai massimi esponenti in esso coinvolti. Solo alle condizioni sopra ricordate è però possibile procedere con ordine nella lettura del testo.
Nell’introduzione e nella postfazione  i due curatori e Craig Calhoun, moderatore del dibattito, invitano a mettere in discussione alcuni luoghi comuni: la religione è davvero una questione meramente privata? Può essere facilmente confinata nell’ambito dell’irrazionale? La sfera pubblica può esaurirsi a uno spazio di deliberazione razionale? Può essere descritta come un ambito dove raggiungere serenamente un libero consenso? Essi passano poi a presentare i diversi contributi, guidati dalla preoccupazione di farne emergere l’unità e la coerenza, pur salvaguardandone le specificità. Per raggiungere tale scopo offrono delle brevi, ma puntuali sintesi delle tematiche di cui i quattro intervistati si sono occupati nella loro carriera, la quali possono essere considerate degli schizzi dello loro biografie intellettuali. Per quanto concerne Habermas viene tracciata la parabola che da Storia e critica dell’opinione pubblica, dove mancava un’attenzione alla religione, arriva agli scritti più recenti, dove questa stessa tematica viene tematizzata esplicitamente. Di Taylor si sottolinea l’attenzione all’emergere e al costituirsi dell’ordine morale moderno, tema alla base di Immaginari sociali moderni e di L’età secolare. L’accesso al politico attraverso il linguaggio è invece il cardine del pensiero della Butler a cominciare da Parole che provocano: per una politica del performativo, dove si teorizza espressamente che la politica è una risposta al rischio di essere offesi che l’agire implica costitutivamente. Il pragmatismo profetico di West, esposto in La filosofia americana, è invece il tentativo di unire socialismo, cristianesimo e pragmatismo in una sintesi capace di offrire una chiave ermeneutica della situazione americana e, attraverso di essa, dell’intera cultura mondiale.
Il primo a prendere la parola è Habermas con un intervento dal titolo “Il politico”. Il significato razionale di una discutibile eredità della teologia politica. Dal punto di vista storico, questa è la tesi principale, la categoria del politico ebbe origine nelle prime società statuali sorte nella Mezzaluna fertile ed indica, fin da allora, una stretta connessione tra diritto e potere politico sulla base di credenze e pratiche religiose grazie alla quali i governanti sono certi che la gente obbedisce ai loro ordini. In quest’ambito la religione garantisce quel potere persuasivo necessario al sorgere e al permanere di una potenza politica. A partire dall’epoca assiale la categoria del politico e quella della norma hanno iniziato a entrare in una relazione dialettica, ma fino alla prima età moderna l’autorità politica avrebbe continuato a trarre la sua legittimazione dalla credenza nell’autorità di un Dio onnipotente. Quest’ultima affermazione, ripresa da Carl Schmitt, viene problematizzata da Habermas, il quale invita a considerare il sorgere degli stati sovrani moderni come una risposta al capitalismo e alla rottura dell’unità religiosa, cioè come tentativi di neutralizzare il politico. Di conseguenza, nelle attuali società ogni velleità da parte dei processi sistemici di restituire un ruolo pubblico alla religione va considerata un tentativo di ravvivare una teologia politica. Rawls, dal punto di vista liberale, ma coerentemente con quanto appena affermato, considera la legittimazione democratica l’unica forma percorribile per la formulazione di una costituzione, ma finisce con l’ammettere un ruolo, seppur limitato, della religione nella sfera pubblica, nella misura in cui il politico è migrato dal livello dello Stato a quello della società civile. Affinché tale concessione non sfoci nel clericofascismo paventato da Schmitt, è necessario che le affermazioni religiose vengano tradotte in un linguaggio accessibile a tutti prima di poter essere rese fruibili alle agende di parlamenti, tribunali e istituzioni amministrative. Per contro, i cittadini non credenti devono essere attenti al contributo dei cittadini credenti e addirittura auspicarlo, seppur debbono pretendere che sia veicolato attraverso l’uso pubblico della ragione.
Taylor, in Perché dobbiamo ridefinire radicalmente il secolarismo, propone una sorta di analisi concettuale del termine secolare, di cui esiste una versione più debole, secondo cui lo Stato non può legarsi ad alcuna confessione religiosa, e una versione più forte, secondo cui il pluralismo della società richiede da parte dello Stato una qualche neutralità. La tesi più originale che egli propone concerne il contenuto del secolarismo o laïcité: esso riguarderebbe la relazione tra lo Stato e le differenze e non principalmente quella tra lo Stato e le religioni. Dal punto di vista storico, in Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e dalla Francia, il secolarismo si è affermato quando gli Stati nazionali hanno preso le distanze dalla religione, ma il farlo dipendere esclusivamente da tale rapporto è imputabile a una confusione tra mezzi e fini. Sarebbe infatti la tendenza a definire il secolarismo nei termini di una precisa architettura istituzionale, piuttosto che in base agli scopi dello Stato in quanto tale, a confinarlo nelle pastoie di un conflitto tra politica e religione. A ciò si aggiunge il fatto che il più alto grado di impegno e partecipazione richiesto dalle società libere ai propri membri tende a cristallizzare le istituzioni, in quanto esse diventano garanti di identità politica e degne di fiducia da parte dei cittadini. L’esempio di Taylor riguarda l’uso dello hijab da parte delle donne mussulmane nei luoghi pubblici e la gestione di tale questione in Germania (vietato alle insegnanti e permesso alle studentesse) e in Francia (vietato a tutte le donne): esso testimonia la condanna dei paesi democratici occidentali a vivere in un consenso per intersezione. Qui il confronto con Habermas si fa più serrato: è possibile che tutti i cittadini condividano un linguaggio comune? Perché tale linguaggio dovrebbe essere più razionale, cioè epistemicamente superiore a quello delle religioni? Tale linguaggio comune deve riguardare il dialogo tra i cittadini o non è forse il linguaggio in cui si esprimono la legislazione, i decreti amministrativi e i verdetti dei tribunali? La mancanza di fiducia nel pensiero religiosamente connotato dipende storicamente da quello che Taylor chiama mito dell’Illuminismo con i suoi corollari di fondazionalismo gnoseologico, indicazione delle scienze naturali come modello di conoscenza e concezione del regime secolare come baluardo contro la religione. Nelle democrazie odierne tale mito andrebbe sostituito con lo sforzo comune, perseguito in buona fede, di assicurare alcuni beni fondamentali, tra cui diritti umani, uguaglianza e assenza di discriminazione.
Il terzo intervento, della Butler, concerne un ambito più circoscritto, ovvero il rapporto tra ebraismo, ebraicità e sionismo. Il riferimento alla religione ebraica è spesso usato in modo retorico dai sionisti per accusare chiunque critichi l’attuale politica di Israele nei confronti del popolo palestinese. Ma quanto di ebraico c’è nell’uso della violenza di Stato? Non è forse più ebraica la critica a tale atteggiamento politico, come sembra suggerire il pensiero religioso della Arendt e, in parte, anche di Buber e di Benjamin? Il nesso tra questo caso pratico particolare e le teorie a più ampio respiro presentate nelle precedenti relazioni consiste in ciò: «lo sforzo di distinguere lo status cognitivo delle credenze religiose e non religiose perde di vista il fatto che spesso la religione funziona da matrice di formazione del soggetto, schema radicato di giudizio e modalità di appartenenza e pratica sociale incorporata» (p. 71). L’ebraicità, e questa è la tesi principale della Butler, insegna alla nostra epoca che la coabitazione plurale e inclusiva non è oggetto di scelta, ma è un dono che esige la responsabilità di tutti.
Cornel West, che si autodefinisce bluesman della vita della mente e jazzista del mondo delle idee, chiude con un quarto intervento dal titolo La religione profetica e il futuro della civiltà capitalista. Il suo pressante invito, di fronte ai tentativi prometeici degli uomini di controllare l’intera realtà, tentativi che oggi sono portati avanti dal capitalismo finanziario, riguarda l’uso dell’empatia e dell’immaginazione. In particolare egli propone una modalità profetica di stare al mondo connotata biblicamente «che si radica nel pianto dei popoli oppressi e nelle loro grida che pretendono attenzione e, infatti, essere umani significa amare l’orfano, la vedova, lo straniero, trattare dignitosamente, con gentilezza e amore, chi non è ebreo» (p. 92).  Questa religione profetica è presentata come una prassi performativa individuale e collettiva di cattivo adattamento all’avidità, alla paura e alla chiusura mentale. Pur essendo votata alla catastrofe e al fallimento, essa è dotata della forza della testimonianza che la rende contagiosa e rivoluzionaria. 
Se i dibattiti tra i diversi protagonisti non possono che essere letti nella loro interezza affinché non perdano vigore e incisività, un’ultima parola va espressa per il traduttore italiano, Matteo Bormolini, ricercatore di Sociologia presso l’Università di Padova. La sua scelta di lasciare trasparire il gergo informale dell’originale è apprezzabile, così come la decisione, non dichiarata, di riportare in nota i testi citati nella loro versione italiana, dove disponibili. Un indice dei nomi avrebbe arricchito il suo lavoro e reso più facilmente fruibile il confronto tra i diversi autori che hanno fatto spesso ricorso alle medesime fonti nel presentare le loro tesi di filosofia politica e di storiografia filosofica. Quest’ultima si dimostra, con una certa sorpresa, la chiave di volta per l’intero dibattito tra sfera pubblica e religione.


Indice

Ringraziamenti
Introduzione: Il potere della religione nella sfera pubblica di Eduardo Mendieta e Jonathan vanAntwerpen
“Il Politico”. Il significato razionale di una discutibile eredità della teologia politica di Jürgen Habermas
Perché dobbiamo ridefinire radicalmente il secolarismo di Charles Taylor
Dialogo di Jürgen Habermas e Charles Taylor
Ebraismo e sionismo sono la stessa cosa? di Judith Butler
La religione profetica e il futuro della civiltà capitalista di Cornel West
Dialogo di Judith Butler e Cornel West
Discussione finale di Judith Butler, Jürgen Habermas, Charles Taylor e Cornel West
Postfazione: I molti poteri della religione di Craig Calhoun

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