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mercoledì 21 ottobre 2015

Vernaglione, Paolo (a cura di), Michel Foucault. Genealogie del presente

Roma, La talpa-Manifestolibri, 2015, pp. 175, euro 18, ISBN 978-88-7286-797-7.

Recensione di Alessandro Baccarin - 31/03/2015

«Vi faccio una richiesta, una richiesta a fidarvi dell'autore che studiate. Fidarsi dell'autore significa procedere tastando il terreno» (Gilles Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985/1986)/1, Ombre Corte, Verona 2014, p 21). Con queste parole Gilles Deleuze invitava i suoi studenti, nel lontano 1985, ad avvicinarsi al pensiero di Michel Foucault. Una cautela necessaria per un pensiero capace di decostruire ogni punto di appoggio, ogni ancoraggio di comodo, e per intraprendere con lui un viaggio anarchico verso l'innecessità

lunedì 17 marzo 2014

Butler, Judith, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità

Trad. it. di Sergia Adamo, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 220, euro 22, ISBN 978-88-581-0676-1. 
(Ed. or.: Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, 1999). 

Recensione di Debora Nucci - 10/02/2014

Questione di genere è il libro con cui la filosofa americana e femminista Judith Butler propone una nuova modalità di pensiero del genere, della sessualità, del corpo e del linguaggio. Già nel titolo si coglie l’intenzione di Butler di irritare e disturbare gli animi alla lettura di questo libro, presentando come illusorio ciò che fino a questo momento consideravamo reale e naturale. La stesura del testo risponde a svariati scopi, a partire dal rovesciamento della categoria dell’abietto e quindi una legittimazione

mercoledì 26 settembre 2007

Butler, Judith, Critica della violenza etica.

Trad. it. di Federico Rahola, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 180, € 18,00, ISBN 8807103966.
[Ed. or.: Giving an Account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005]

Recensione di Olivia Guaraldo – 26/09/2007

Filosofia politica, Etica

La produzione intellettuale, filosofico-politica, di Judith Butler sembra aver finalmente attratto l’attenzione delle case editrici italiane, che da qualche anno a questa parte puntualmente propongono in tempestiva traduzione italiana le ultime opere della pensatrice statunitense. Critica della violenza etica è forse il lavoro filosoficamente più impegnativo – e interessante – di Judith Butler degli ultimi anni. Si tratta di una complessa riflessione – a partire da Adorno, Foucault, Cavarero, Lévinas e Laplanche – sullo statuto etico e ontologico del soggetto postmoderno. Il testo mette a fuoco e approfondisce tematiche che avevano trovato una prima enucleazione in Vite precarie (Meltemi 2003). Scritto all’indomani del 9/11 sulla scorta di una forte indignazione per il modo in cui gli Stati Uniti avevano risposto, sia militarmente che mediaticamente, al ‘lutto collettivo’. Vite precarie abbozzava questioni diventate ora centrali in Critica della violenza etica: il rapporto fra violenza e ethos collettivo, la dimensione sociale del legame e della perdita, la possibilità filosofica – e la necessità politica - di superare una ormai obsoleta (e fallocentrica) nozione dell’umano strutturato a partire da un sé autocreato, autofondato, sovrano sui propri bisogni e sul modo di soddisfarli, indipendente dai legami, immune alle relazioni.
Il titolo inglese del libro è Giving an Account of Oneself, che in italiano potrebbe essere tradotto con ‘dar conto di sé’, nel duplice senso di raccontare di sé e di rendere conto, di narrarsi e di giustificarsi, di intessere il racconto con quella che Cavarero (interlocutrice privilegiata di Butler in questo testo) chiamerebbe la pulsione autobiografica infarcita di narcisismo autoassolutorio. Già in Vite Precarie Butler sosteneva che lo sbaglio fondamentale seguìto al trauma del 9/11 fosse stato proprio quello di leggere l’intera vicenda come una narrazione in prima persona, con il gigante statunitense – ferito nella sua presunta invulnerabilità – come unico protagonista. Invisibilità e indicibilità divennero invece le caratteristiche di tutto ciò che non trovava spazio in quella narrazione autocentrata e autocelebrativa - i necrologi delle vittime gay e lesbiche, i discorsi relativi alla violenza statunitense nel mondo e, di lì a poco, le vittime dei bombardamenti in Afghanistan, i volti o i corpi dei militari caduti in Iraq, le vittime palestinesi della violenza israeliana - di un dolore incommensurabile, ingiustificabile, inspiegabile, e che tale doveva rimanere. Ora, in Critica della violenza etica Butler pone come questione da pensare, all’indomani del 9/11 e in concomitanza con l’interminabile ‘war on terror’, la possibilità che la sovranità su di sé e sulle proprie azioni, come se il soggetto (e, per estensione, l’Occidente) fosse il protagonista assoluto di una storia in prima persona, non sia il presupposto dell’etica (come la tradizione vuole), ma la sua perversione. La possibilità dell’etica, azzarda Butler, risiede invece nell’impossibilità di ‘dar conto di sé’, in maniera conseguente, razionale e trasparente, ovvero si fonda sull’assenza di sovranità e controllo del soggetto sulle proprie azioni.
Butler non è sola nel sostenere, ormai da tempo, che il soggetto autocentrato e sovrano è un emblema – fittizio – del passato, di quella modernità che è stata liquidata dai fatti e dalle teorie del Novecento. Il tentativo – altrettanto fittizio, artificioso ma essenzialmente violento – di restaurare un soggetto pieno e consapevole, in grado di rendere pienamente e razionalmente conto di sé e dei suoi atti, di giustificare le sue azioni in virtù di una ferita ‘ingiustamente subita’ (torna sempre lo spettro del 9/11 e della guerra preventiva) - implica una pericolosa deriva identitaria che, come è ormai chiaro a tutti, pretende di fondare la propria azione militare sulla giustezza etica della guerra.
Nel variegato panorama del dissenso e dell’opposizione alla guerra, però, Butler emerge per la sua criticità sistematica, per il rifiuto di qualsiasi schieramento immediatamente di parte (à la Chomsky, per intenderci) e per l’originalità della sua proposta.
La sfida di Butler è in primo luogo quella di smascherare i tentativi restaurativi di un soggetto forte, postulato come ‘pienamente umano’, che si declina politicamente in un ‘noi’ ferito e legittimato alla vendetta, a sua volta giustificata dalla disumanizzazione dell’altro. Il ‘narcisismo morale’ di un soggetto autocentrato e convinto della propria indipendenza necessariamente porta a concepire l’autoconservazione come criterio dirimente dell’umano, il quale, di nuovo, giustifica e promuove l’uso della violenza come unica risposta possibile all’offesa subita:
“Si cerca sempre di proteggersi e immunizzarsi dalle offese dell’altro, ma quando si riesce davvero a erigere un muro, si finisce per diventare inumani.[…] Uno dei principali problemi che incontra chi insiste sull’autoconservazione come fondamento dell’etica è che così finisce per trasformare quest’ultima in una pura etica del sé, se non addirittura in una forma di narcisismo morale. Perché solo continuando a oscillare tra il bisogno di rivendicare il diritto a non essere offesi o respinti, e la necessità di resistere a un tale bisogno, si può davvero ‘diventare umani’”. (p. 139).
Nell’aporia, nell’assenza di sintesi tra il bisogno di proteggersi dall’altro e l’apertura verso di esso sta, secondo Butler, la possibilità di pensare diversamente l’eticità.
In secondo luogo, infatti, compito della sua Critica è proporre un nuovo paradigma dell’umano, o meglio, criticare l’idea che l’umano sia pensabile e codificabile una volta per tutte, sia secondo trame contrattualistiche che pongono appunto l’autoconservazione – e la sovranità – come criteri privilegiati di definizione dell’etica, sia secondo varianti neokantiane dell’universalismo a tutti i costi, incapaci di adeguarsi alle specificità culturali e divenire, così, violente. Anziché essere il luogo di una inoppugnabile razionalità e di una identità fortificata da una storia di successi politici e culturali, l’Occidente – e il soggetto – sono (da sempre) il luogo di una costante intrusione da parte dell’altro. Svelare il feticcio di una razionalità autocentrata e di un sé sovrano sono compiti che la filosofia post-strutturalista ha ormai ampiamente svolto in tutte le sue possibili varianti. Butler, dal canto suo, tenta l’impresa (già iniziata da Derrida) di una declinazione etica della svolta decostruzionista, senza però celebrare la dissoluzione dell’umano e l’avvento del post-umano. Al contrario, la questione dell’umano sta al centro della teoria butleriana, in quanto questione da pensare. Sulla scorta delle riflessioni morali dell’ultimo Adorno e delle indagini sulla ‘cura di sé’ dell’ultimo Foucault, Butler giunge a sostenere che umano e inumano vanno pensati assieme, in tutta la loro inestricabile interdipendenza.
L’umano risiederebbe quindi nell’ininterrotto costituirsi e destituirsi del soggetto, nel prender coscienza della sua vulnerabilità, dipendenza, relazionalità. Tale opacità del soggetto a se stesso prende le fattezze sia di un altro in carne ed ossa (il volto di Lévinas) sia di una generica alterità, costitutiva delle relazioni primarie (l’inconscio come risposta alle sollecitazioni seduttive del mondo adulto per lo psicanalista Laplanche). Ma questo non significa che il soggetto sia semplicemente assenza, vuoto – come direbbe il lacaniano Zizek – che necessita di essere riempito da un ordine simbolico dominante. Significa invece che il soggetto è il luogo di un decentramento del sé da parte di una esteriorità che come tale è incontrollabile, perché precede e permette l’emergere del soggetto in quanto tale. Dar conto di sé è perciò possibile solo nella forma dell’interruzione, della dislocazione del sé parlante dal piedistallo di un monologo autocentrato: dar conto di sé significa prendere parte ad una scena interlocutoria dove l’altro mi convoca, mi chiama in causa, mi interpella, mi fa, in altre parole, esistere in virtù di questa convocazione. Dar conto di sé significa infine prendere coscienza dell’impossibilità di una autorialità e di una consequenzialità narrative, decentrare il racconto in prima persona (quel narcisismo autobiografico e morale di cui sopra) non attraverso un atto volontaristico, bensì proprio in virtù di una struttura interlocutoria che ci chiama ad essere. Senza l’appello di altri (che in parte sono anche personificazioni delle norme, portatori delle griglie di intelligibilità attraverso cui il sé può emergere come soggetto) restiamo muti ed invisibili. Relazionalità quindi non significa semplicemente celebrazione dell’apertura all’altro, impegno etico verso chi mi sta di fronte: essa ha invece a che fare con la vivibilità. Al di fuori della scena interlocutoria in cui sono chiamata in causa, in cui entro a fare parte di un regime di verità e di realtà – in cui, direbbe Foucault, mi costituisco come soggetto, pagando un certo prezzo - non c’è riparo individuale. Dalla relazionalità interlocutoria dipendo per esistere. Prendere atto di questa totale dipendenza dalla convocazione altrui significa anche, per Butler, fare il contropelo a quel discorso pubblico che disumanizza i propri ‘nemici’, iperumanizzando le proprie vittime.
La violenza etica di cui Butler intraprende la critica coincide con l’imposizione di una norma morale come se essa fosse naturale, condivisa, collettivamente accettata, come se ciascun individuo, sovranamente e razionalmente potesse decidere di ‘dar conto di sé’ affidandosi ai principi morali di una società. Sappiamo bene – e Butler in quanto attivista queer, lo sa ancora meglio – quanto la presupposizione di un ethos collettivo e condiviso nasconda invece la violenza dell’imposizione normativa, la repressione di ciò che non si conforma all’apparenza collettiva. L’ethos collettivo (afferma Butler sulla scorta di Adorno) diviene violento nel momento in cui non è più universalmente condiviso e ogni volta che ignora le condizioni sociali esistenti. Ma ben oltre una critica della società repressiva di francofortese memoria, ciò che Butler auspica è una critica sociale che non può non comprendere anche una critica del soggetto. Di come, in altre parole, viene pensato, strutturato, reso intelligibile l’io. Le forme della soggettivazione, foucaultianamente intese, non possono però essere analizzate solo nella loro dimensione genealogica o storico-strutturale, ma devono essere declinate anche secondo una prospettiva ontologica relazionale, che prenda in considerazione come le norme che precedono la mia soggettivazione siano sempre mediate da una relazione umana. Io apprendo le norme da altri, e vengo interpellata, convocata, fatta esistere da questi altri che mi introducono alle norme. C’è una dimensione relazionale, intersoggettiva che presiede ai processi di soggettivazione e che occorre vedere sotto luce nuova. Il tentativo butleriano è quello di dare forza teoretica e praticabilità etica alla critica post-strutturalista dell’umanesimo. Ma, in vigorosa polemica con i critici del ‘relativismo morale’ che sarebbe tipico della postmodernità, Butler è convinta che post-strutturalismo non significhi nichilismo morale. La sua sfida è proprio quella di contrastare, filosoficamente, il pregiudizio secondo cui al fine di attribuire responsabilità in ambito etico sia necessario postulare un sé autonomo, razionale, in ‘possesso di sé’. L’assenza di ‘possesso di sé’, afferma Butler, non significa nichilismo morale, né tantomeno infondatezza dell’etica. Tutt’altro: dati i disastrosi risultati di una politica eticamente giustificata a partire dalla sovranità violata, dal controllo su di sé e sugli altri, proprio la critica alla nozione di un sé sovrano è forse l’unico modo rimasto per fondare l’etica. L’altro, sia in qualità di mediatore di norme, sia come elemento di espropriazione della mia ‘autoaffezione’, mi costituisce, mi consegna ad una esteriorità che impedisce al sé di essere trasparente a sé stesso. Proprio in virtù di questa relazionalità costitutiva (che Butler legge principalmente in chiave psicoanalitica) sono ‘già da sempre fuori di me’, e lungi dall’essere frustrata per questo spossessamento, cerco di trasformarlo in una risorsa morale: “[…]se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a sé stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell’opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici” (p. 32).
Lo scopo della complessa operazione critica e decostruttiva che Butler intraprende in questo testo (in linea con la sua precedente produzione intellettuale) è quello di proporre “un’etica pubblica non violenta”, come suggerisce Ida Dominijanni. Tale proposizione prende le mosse da una complessa compenetrazione di soggettività e socialità, proprio perché l’intenzione è trasformativa. Contestare egemonia e naturalità di un ethos collettivo fondato sulla padronanza di sé, sulla coerenza, sulla reciprocità violenta moralmente ammessa significa avvalorare l’ipotesi che l’eticità risieda invece in un soggetto non sovrano, opaco a sé stesso, incapace di dare pienamente conto di sé e costitutivamente dipendente dalla convocazione altrui.
È facile vedere una continuità tra i lavori di Butler relativi alla critica del femminismo ‘essenzialista’ e all’elaborazione di una teoria performativa del gender (Gender Trouble, Bodies That Matter) e la più recente produzione ‘etica’: la meticolosa revisione dei paradigmi di intelligibilità del soggetto (l’eredità foucaultiana che Butler mette a frutto in un’originalissima chiave femminista) non è mai scissa dalla volontà di rendere possibile una agency politica consapevole sì della propria fallibilità, emendabilità, e dipendenza da un crogiolo di relazioni sociali, ma non per questo acquiescente. Il lavoro su di sé – portato rivoluzionario della pratica femminista degli anni ’70 - comporta sempre il contemporaneo lavoro su un regime impersonale di intelligibilità e rappresentabilità politica. Il lavoro su di sé, (sulla propria ‘differenza’, che non è mai però indicibile unicità) quindi, acquisisce automaticamente una dimensione impersonale, che potremmo spingerci a definire collettiva. Tale compito critico era già presente nella ‘citazione sleale’ della norma eterosessuale di cui Butler parla in Gender Trouble: il disincantamento ipermoderno verso ogni forma utopica di liberazione prendeva già in quel testo l’originale forma di una critica parodistica, ironica, sfacciata dei feticci identitari di genere. È come se Butler continuasse a dirci: prendiamo consapevolezza dell’impossibilità di una escatologia secolare, di una liberazione finale dalla discriminazione, dall’oppressione, dallo sfruttamento, ma non smettiamo di contestare la violenza che si annida in ogni ‘regime di verità’ che si pretende esclusivo.
Si tratta, a mio avviso, dell’elaborazione di un’etica ‘tragica’, che rimane consapevole delle ambivalenze costitutive del sé e del mondo, e che si ‘limita’ al riconoscimento che non può esserci altro modo di vivere se non quello, preconizzato da Marìa Zambrano, del ‘conoscere patendo’, del collocarsi in una frattura costitutiva del sé (la sua opacità a se stesso) senza però rinunciare alla contestazione, alla trasformazione, sempre provvisoria ma non per questo inefficace. Il ‘prezzo’ da pagare in quest’etica tragica è quello dell’inattingibilità di un prodotto finale, di un controllo su di sé, di una trasparenza a se stessi, di un ‘ordine nuovo’ stabilito una volta per tutte. Questo è il portato ‘moderno’, la consapevolezza che il soggetto, una volta che conosce la sua verità non può essere salvato (Foucault)
Ma in questo sta il paradosso dell’eticità del soggetto non sovrano: l’assenza di controllo su di sé, lo spossessamento, la destituzione da parte di altri è ciò che rende pensabile – e forse praticabile – un agire politico non violento. In forza della mia ‘non libertà’, sempre paradossalmente agita in relazione ad altri – nelle forme della dipendenza, della convocazione, dello spossessamento – sono in grado di accogliere la ‘non libertà’ altrui, la sua dipendenza da me, la mia responsabilità verso la sua sofferenza.
“La violenza non è né una giusta punizione che subiamo, né una giusta vendetta per ciò che abbiamo subito. Al contrario, attesta una vulnerabilità fisica di cui non possiamo sbarazzarci e che non possiamo risolvere una volta per tutte nel nome del soggetto, ma che può offrirci l’opportunità di comprendere come nessuno di noi sia totalmente delimitato, assolutamente separato, e come si sia invece tutti costitutivamente, epidermicamente, affidati gli uni agli altri, nelle mani gli uni degli altri, alla mercé gli uni degli altri” (p. 136).

Indice

Dar conto di sé
Contro la violenza etica
Responsabilità
Indice dei nomi


L'autore

Judith Butler insegna alla University of California, a Berkeley, presso il Dipartimento di Letteratura comparata. È autrice di numerosi volumi di filosofia e teoria femminista, tradotti in molte lingue. In italiano sono stati pubblicati i seguenti volumi: Corpi che contano (1996), La rivendicazione di Antigone (2000), Vite precarie (2004), Scambi di genere (2004), La vita psichica del potere (2005), La disfatta del genere (2006).

Links

Bibliografia e altre risorse su Judith Butler (in inglese)
Bibliografia completa di Judith Butler (in inglese)

lunedì 25 dicembre 2006

Butler Judith, La disfatta del genere.

Roma, Meltemi, 2006, pp. 287, € 21,50, ISBN 88-83-53500-6.

Recensione di Ottavia Spisni - 25/12/06

Filosofia politica (femminismo)

Undoing Gender viene presentato in traduzione italiana con il titolo La disfatta del genere. Si tratta di una raccolta eterogenea di saggi, scritti in anni diversi, in cui l’autrice riflette sulla differenza sessuale (cap. I), il genere e la sessualità (cap. II), mettondo in campo una descrizione importante e dettagliata dell’attuale situazione europea e americana. Le discussioni comprendono la situazione attuale legale e medica degli Intersessuali e Transessuali (cap. III e IV), il dibattito sui PACS, sul matrimonio tra omosessuali, sull’adozione e la procreazione omosessuale (cap. V), e importanti confronti con altre teoriche femministe (ad esempio la replica a Metamorfosi di Rosi Braidotti contenuta nel nono capitolo). Le posizioni contemporanee sono descritte a partire dalle molteplici premesse teoriche che orchestrano il dibattito sviluppatosi negli ultimi anni in un contesto globale.
Judith Butler si propone di ripensare alcune posizioni contenute nel testo Gender Trouble, scritto quattordici anni prima di Undoing Gender e che venne proposto al pubblico italiano nel 2004 con il titolo Scambi di Genere. Questo primo libro prende significativamente il nome da un film di John Waters, Female Trouble, recitato dalla drag queen Divine (all’anagrafe Harris Glenn Milstead). Butler argomenta come la coerenza delle categorie di sesso, genere e sessualità sia una costruzione culturale prodotta dalla ripetizione di atti performati nel tempo. Si tratta dunque di discorsi che hanno una forza regolativa e normativa dal momento in cui decidono a priori quali tipi di orientamento sessuale e di genere siano consentiti o meno dalla società (cap. X).
I saggi contenuti in Undoing Gender sono focalizzati sulla questione di cosa potrebbe significare disfare (undo) il genere, intendendo con il termine ‘genere’ le concezioni socialmente acquisite e riperformate acriticamente che normalizzano la vita sessuale e i generi sessuali. Con il termine ‘becoming undone’, i saggi intendono anche l’essere moralmente ed emotivamente distrutti, sottolineando, però, il potenziale non solo distruttivo, ma anche creativo dell’esperienza negativa del ‘disfacimento del genere’. Butler nota come le questioni irrisolte e problematiche del femminismo contemporaneo (il quale non prevede una gamma condivisa di premesse per dare atto ad un programma politico coerente) siano il suo punto di forza, e sottolinea l’importanza di ‘mantenere il valore democratico di un movimento che può contenere, senza addomesticarle, interpretazioni contraddittorie su questioni fondamentali’ (p. 207). E’ democratico il tentativo di riappropriazione dei termini che la modernità ha escluso.
La teoria per Butler non si discosta mai dalla pratica della vita reale e concreta, ed è per questo che l’accento è sempre posto sui termini ‘possibilità’ e ‘vivibilità’. La domanda delle possibilità concrete e immaginarie, corporee e simboliche della vita possibile è posta costantemente e nemmeno si elude la questione problematica della ‘violenza di genere’ cui la comunità GLBQTI (Gay, Lesbiche, Bisessuali, Queer, Trans, Intersessuali) sembra essere particolarmente esposta (cap. X). La pratica di fare e disfare il proprio genere è dunque una modalità di azione creativa e politica individuale e collettiva che può e deve essere costantemente performata. Ciò accade perché, come ha già messo in luce Foucault, il genere non è alieno dal binomio sapere/potere e il corpo nella sua esistenza sociale è sempre sessuato e sottoposto ad assoggettamento normativo. Ad esempio il transgender rientra nella sfera politica ‘non solo perché ci costringe a domandarci cosa sia o debba essere considerato reale, ma perché ci mostra come si possano mettere in discussione le attuali concezioni della realtà e istituirne di nuove. La fantasia non rappresenta solo un esercizio cognitivo, un film interiore che proiettiamo all’interno del teatro della mente. Essa struttura la relazionalità e partecipa alla stilizzazione dell’incarnazione stessa. I corpi non sono spazialità date. Nella loro spazialità, essi si attuano nel tempo: invecchiando, cambiando forma, cambiando significato – a seconda delle loro interazioni – e la rete di relazioni visive, discorsive e tattili che diviene parte della loro storicità, del loro passato, presente e futuro’ (p. 249).
La corporeità è la dimensione fondamentale dell’umano, e collegata ad essa è la questione della memoria,e dunque del racconto. La corporeità può essere raccontata in miriadi di modi, può occupare la norma, o eccederla, rielaborarla, oppure trasformarla. La norma dipende dalla sua ripetibilità; di qui l’importanza del ‘fare’ e del ‘disfare’ il genere. Il ‘becoming undone’ deve dunque essere costantemente riperformato, perché i ‘generi che ho in mente esistono da lungo tempo, ma non hanno ancora avuto accesso al linguaggio che governa la realtà. Quindi si tratta di sviluppare un nuovo lessico, nell’ambito della legge, della psichiatria, della sociologia e della teoria letteraria, che legittimi la complessità di genere che da molto tempo stiamo vivendo’ (p. 251).
I problemi che Butler si pone sono dunque concreti e si pongono sul filone contemporaneo della giustizia distributiva. Il contenitore sociale non può essere messo da parte ‘Il fatto stesso che io sia in grado di agire è reso possibile dalle circostanze stesse della mia formazione, la quale ha origine in un mondo sociale che non ho mai scelto. Il fatto poi che la mia agency sia lacerata dal paradosso non significa che sia impossibile. Significa solo che il paradosso è la condizione della sua possibilità. Ne consegue che l’“Io”, che io sono, si ritrova, a un tempo, costituito da norme e da queste dipendente, ma si sforza anche di vivere in modo da mantenere con esse un rapporto critico e trasformativo’ (p. 27). La pratica dell’agency è dunque sempre condivisa e questa condivisione presuppone riconoscimento (Anerkennung).
Il tema del riconoscimento (che presuppone un rapporto di simmetria tra le parti) trova formulazione nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel e arriva fino alla teoria critica francofortese. Il tema viene discusso da Butler nel capitolo sesto ‘Desiderio di riconoscimento’. Butler dissente sul fatto che la relazione debba presupporre necessariamente un termine medio, un terzo, un mediatore tra le parti, e sostiene che le problematiche legate alle molteplici sfumature che la vita di chi è transgender mette in luce, sono una prova evidente di questa carenza intrinseca della metodologia hegeliana (ma anche strutturalista e psicoanalitica). L’utilizzo del termine queer ad esempio muove in una direzione liberatoria perché in grado di comprendere il desiderio non come esclusivamente eterosessuale o omosessuale, ma fluttuante e trans-gender (in senso letterale) e mai legato e incardinato in maniera esclusiva o conseguente alla sessualità. Il desiderio è fluttuante, mobile, instabile, non può essere catalogato, è nomade. Questo discorso teorico è volto a scardinare gli assunti principali della psicoanalisi e dello strutturalismo quali il complesso di Edipo (capitoli settimo e ottavo ‘Dilemmi del tabù dell’incesto’ e ‘Confessioni del corpo’) e a mettere in discussione i presupposti psichiatrici (diagnosi di disturbo di identità di genere contenuta nel DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali IV revisione) e legali della medicalizzazione degli Intersessuali e Transessuali (FTM, Female to Male o MTF, Male to Female).
La riflessione di Butler ha una profonda finalità pratica e trasformativa della realtà sociale e politica. A questo scopo è importante agire concretamente a livello sociale e istituzionale, e l’attività teorica è solo un presupposto per la trasformazione al fine di una maggiore ‘vivibilità’. In questo senso il femminismo è una riflessione propriamente filosofica perché si pone le domande fondamentali su cosa si intenda per vita buona e si interroga sul problema della violenza (sulla scia delle riflessioni foucaultiane sul nesso che intercorre tra sapere e potere).
Una proposta e una sfida importante è ad esempio quella di riportare nel contesto dei diritti umani internazionali le problematiche sulla priorità teorica della differenza sessuale rispetto al genere, del genere sulla sessualità, della sessualità sul genere, (cap. IX). La sfida alla regolazione del genere, che ha sempre fatto parte dell’attività normativa eterosessista, è esemplare perché contiene in sé il filo rosso e il paradosso di tutta la riflessione sul ‘genere’ e sui ‘queer studies’: la differenza sessuale non è né totalmente data né totalmente costruita e non è possibile istituire un confine tra biologico e psichico, tra discorsivo e sociale. Per Butler è di fondamentale importanza tenere conto del fatto che la differenza sessuale ‘non è un dato, né una premessa, né un fondamento su cui costruire una teoria femminista’ (p. 210).

Indice

Prefazione. La disfatta del gender e la questione dell’umano
Ringraziamenti
Introduzione. Agire di concerto
I. Al di là di se stessi: i limiti dell’autonomia sessuale
II. Regole di genere
III. Fare giustizia: riattribuzione di sesso e allegorie della transessualità
IV. Dilemmi diagnostici
V. La parentela è già da sempre eterosessuale?
VI. Desiderio di riconoscimento
VII. Dilemmi del tabù dell’incesto
VIII. Confessioni del corpo
IX. La fine della differenza sessuale?
X. La questione della trasformazione sociale
XI. L’“Altro” della filosofia può parlare?
Bibliografia

L'autore

Judith Butler (1956) insegna Retorica, Letteratura comparata e Women’s Studies all’Università di Berkeley in California. Ha una formazione filosofica: ha studiato in Germania con Hans George Gadamer e ottenuto il Ph.D. in Filosofia all’Università di Yale nel 1984 con una dissertazione su ‘Desiderio e riconoscimento’ nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel. E’ la maggiore teorica Queer e femminista contemporanea. Sono stati tradotti in italiano Corpi che contano (1996), Scambi di genere (2004), Vite precarie (2004), La vita psichica del potere (2005), Critica della violenza etica (2006).

Links

Wikipedia - Judith Butler Voce "Judith Butler" su Wikipedia (in inglese)
Wikipedia - Queer studies Voce "Queer studies" su Wikipedia (in inglese)
theory.org.uk - Judith Butler Bibliografia e altre risorse su Judith Butler (in inglese)
Judith Butler: A Bibliography Bibliografia completa di Judith Butler (in inglese)
Human Rights Campaign Associazione statunitense per la tutela dei diritti degli omosessuali e transgender (in inglese)
Intersex Society of North America Associazione statunitense di supporto agli intersessuali (in inglese)
International Gay and Lesbian Human Rights Commission ONG per la tutela dei diritti degli omosessuali (in inglese)
Movimento identità transessuale Associazione per la tutela dei diritti di transessuali, travestiti e transgender

Filmografia

Female Trouble, diretto da John Waters (1974)
The Rocky Horror Picture Show, diretto da Jim Sharman (1975)
My beautiful Laundrette, diretto da Stephen Frears (1985)
Mery per sempre, diretto da Marco Risi (1989)
Paris is Burning, diretto da Jennie Livingstone (1990)
Stonewall, diretto da Nigel Finch (1994)
Go Fish, diretto da Rose Troche (1994)
But I am a cheerleader, diretto da Jamie Babbit (1999)
Boys don’t cry, diretto da Kimberly Peirce (1999)
Todo sobre mi madre, diretto da Pedro Almodóvar (1999)
Hedwig and the Angry Itch, diretto da John Cameron Mitchell (2001)
Le fate ignoranti, diretto da Ferzan Ozpetek (2001)
The Hours, diretto da Stephen Daldry (2002)