sabato 30 aprile 2005

Costa, Mario, Dimenticare l’arte. Nuovi orientamenti nella teoria e nella sperimentazione estetica.

Milano, Franco Angeli, 2005, pp. 142, € 18,00

Recensione di Antonio Tursi - 30/04/2005

Estetica, Filosofia teoretica (filosofia della tecnica)

Dimenticare l’arte è un libro che va consigliato per la chiarezza espositiva e per la forza delle argomentazioni. L’autore, con la passione che da sempre lo contraddistingue, ripropone alcuni dei concetti chiave che è andato elaborando negli ultimi due decenni e li inserisce in una ricognizione d’insieme sul dibattito estetologico moderno e contemporaneo. Se i filosofi moderni, che a vario titolo sono ascrivibili all’interno della disciplina etichettata con il termine “estetica”, si sono posti il problema di trovare la vera definizione del concetto di arte, gli attuali estetologi, di fronte soprattutto al nuovo scenario mediale, si interrogano sull’esistenza o meno di quello stesso concetto. Se i primi hanno foggiato e utilizzato nozioni quali “espressione”, “stile”, “genio”, “bellezza”, “idea” per definire e delimitare il campo delle “arti belle”, i secondi si dividono tra coloro che constatano il dilagare senza limiti dell’economico-comunicazionale che invade e riconduce a sé l’ambito di ciò che è stato detto arte (ambito al quale essi guardano con nostalgia), e coloro che invece proprio nell’arte intravedono una barriera a quell’onda anomala e altrimenti irrefrenabile. Rispetto a tutti costoro si pone Mario Costa. Egli mostra l’infondatezza teorica e dunque la non applicabilità di tutte le nozioni via via elaborate dall’estetica moderna, dal Rinascimento al secolo appena trascorso. E, proprio riferendosi agli autori novecenteschi, indica alcuni degli errori più radicati nelle concezioni dell’arte: stabilimento di una Categoria assoluta di ordine generale; confusione tra l’artistico, il vitale e l’estetico; mancata individuazione del nesso arte-tecnica e conseguente incapacità di periodizzare tale nesso; estensione indebita di considerazioni fatte su un tipo di prodotto artistico a tutti gli altri; trasferimento indebito di considerazioni fatte su un modo della tipologia a un altro; attenzione esclusiva agli effetti dell’arte a scapito dell’attenzione all’arte stessa. Su questa base, rispetto al dibattito contemporaneo, Costa presenta la sua definizione di arti (al plurale) come estetizzazioni della tecnica. Una definizione che, da un lato, preserva l’inutilità dell’artistico, il suo non essere riconducibile all’economico, ma dall’altro, non ne eradica il rapporto decisivo con le neo-tecnologie, con il nostro attuale destino. Nella visione di Costa, l’arte non sprofonda negli abissi dei flussi, ma neppure li trascende. L’artista o meglio il ricercatore estetico-epistemologico fa il surf sull’onda elettronica.

Cosa si intende per estetizzazione della tecnica? “Estetizzazione non può essere un termine univoco ed assume anzi un significato diverso a seconda della tecnica e della pratica artistica di cui si tratta. […] Ciò significa che devono esserci tante estetiche, una per ciascuna tecnica e per ciascuna pratica artistica, e, a rigore, una per ciascun prodotto” (p. 73). Sono dunque gli eventi, gli avventi della tecnica che danno l’impronta alle pratiche e alle teorie dell’arte. Sono quella “necessità iscritta nell’ordine delle cose” (p. 125) che orienta i singoli nelle loro intenzioni e nelle loro realizzazioni. Ecco perché le esemplificazioni del concetto di estetizzazione della tecnica (cfr. n. 71, pp. 73-74) sono le più varie e dipendono in ogni caso dalla tecnica oggetto (finanche soggetto) di intenzionalità estetica. Conviene dunque accennare alla periodizzazione che Costa offre dello sviluppo tecnico. Egli distingue un periodo tecnico, uno tecnologico e, infine, uno neo-tecnologico. La tecnica (il martello, la pittura) è “l’epoca della mano”, degli utensili individualizzati e separati, che rispondono ai bisogni. La tecnologia (la luce elettrica, la fotografia) è segnata al contrario dal “familiarismo” delle tecnologie, dal loro costruire complessi, sequenze, ibridazioni che marginalizzano l’uomo. Le neo-tecnologie (il digitale, le reti, le bio-tecnologie), infine, completano e pervertono il processo iniziato con le tecnologie, costituendosi in “blocchi” autonomi dall’uomo e sé-operanti. Da questa prima distinzione ne scaturisce una seconda, quella tra arti tecniche, tecnologiche e neo-tecnologiche. Le prime immediatamente legate al corpo, le seconde traduttrici del soggetto e dunque descrivibili come linguaggi, le terze infine legate unicamente all’oggetto e le cui categorie forti sono l’“esteriorità”, i “significanti”, il “non-soggetto”, la “sensorialità”, la “fisiologia della macchina”, segnata dal flusso comunicazionale. A queste due distinzioni se ne lega una terza che concerne un elemento più specifico quale l’immagine. L’autore distingue tra un statuto antico e pre-moderno, uno moderno e uno post-moderno dell’immagine. Il primo caratterizzato da uno stretto legame tra l’immagine e il referente, l’io e la realtà ontologica. Il secondo caratterizzato utilizzando l’espressione di Paul Virilio: “blocco immagine”, inteso come auto-riferimento radicale, come rimando inesorabile da un’immagine all’altra. Il terzo, infine, caratterizzato con l’espressione “blocco comunicante”, inteso come sistema di tecnologie della comunicazione, che assimila e dissolve ogni immagine, offrendo in cambio unicamente una “possibilità di immagine”.

L’instaurarsi del “blocco comunicante” comporta però dei rischi, quali la sua chiusura su sé stesso, la derealizzazione, l’induzione forzata di una comunicazione che diviene mera pulsione. Rispetto a questa situazione, non sono però possibili né auspicabili l’esodo e la fuga in un altrove che non è dato. Queste tecnologie sono il nostro destino e il ricercatore estetico deve essere perciò colui che “scopre le carte”, che permette di osservare la fisiologia della macchina, “instaura[ndo] tra i media dei legami non pertinenti per una comunicazione priva di contenuto ma ad intenzionalità estetica” (p. 116). In questa frase si riassume tutta la proposta teorica di Costa, in un’estetica del flusso che permette di abitare (e non di fuggire) i flussi, in un’estetica che fa girare a vuota l’impianto e che in tal modo lascia che esso si manifesti completamente.

Cosa resta da dire? Due cose. La prima riguarda il titolo del volume. Non ci pare affatto che Costa dimentichi l’arte, anzi ci pare vero il contrario. Tutto sta in come si definisce quella parola formata da quattro lettere. L’autore propone la sua definizione che sicuramente non rientra affatto tra quelle rese disponibili dall’estetica moderna. Ma proprio questo dovrebbe far riflettere. È possibile dichiarare una dimenticanza nei confronti di un qualcosa che è stato già a sua volta dimenticato? L’estetica moderna non ha forse dimenticato un rapporto essenziale -- quello tra arte e tecnica -- che invece il mondo greco aveva ben compreso (seppure nella diversità epocale determinata dal diverso sviluppo tecnico)? Perciò, forse, il vero titolo di questo volume dovrebbe essere Dimenticare la dimenticanza dell’arte oppure Dimenticare l’arte (come definita nell’epoca) moderna.

Che Costa non si dimentichi affatto dell’arte è detto dalla sua stessa definizione del proprio lavoro: egli parla di una “teoria delle arti”, di una “filosofia dei prodotti artistici”, di una “filosofia delle arti” e, infine, di una “filosofia delle pratiche tecnico-artistiche”. I contributi all’estetica tecnologica e a quella neo-tecnologica sono rivolti a un esame puntuale di vari prodotti individuati come artistici. Questo è sicuramente apprezzabile se si raffronta il lavoro di Costa (il presente come i precedenti) con i lavori di altri suoi colleghi troppo spesso incapaci di incaricarsi delle concrete pratiche tecnico-artistiche, ma anche della storia dell’arte tout court. Al contrario, però, si deve dire che delimitare l’estetica a “una filosofia delle arti” non rende un servizio completo alla comprensione del nostro presente attuale. L’estetica, soprattutto nel Novecento, si è mostrata disciplina assai troppo indisciplinata (come dimostra la stessa riflessione di Costa sulla questione della tecnica), ma capace proprio per questo di permettere una comprensione, profonda e ampia nello stesso tempo, del mondo nel quale ci siamo trovati ad abitare.

Indice

1. Delle categorie dell’estetica e della loro liquidazione
2. Delle arti in quanto estetizzazione delle tecniche
3. Degli errori dell’estetica
4. Contributo all’estetica tecnologica
5. Contributo all’estetica neo-tecnologica

L'autore

Mario Costa insegna Estetica presso l’Università di Salerno e Etica ed Estetica della comunicazione presso l’Université de Nice – Sophia Antipolis. Da almeno tre decenni è impegnato nella definizione e nella promozione di un’estetica legata alle nuove tecnologie dell’immagine, del suono, della scrittura, della comunicazione. Su questi temi ha pubblicato, tra l’altro, i seguenti volumi: L’estetica dei media (Lecce, Capone, 1990 e poi Roma, Castelvecchi, 1999), Il sublime tecnologico (Salerno, Edisud, 1990 e poi Roma, Castelvecchi, 1998) e, infine, Internet e globalizzazione estetica (Napoli, Tempo Lungo, 2002).

Links

Intervista a Costa su Dimenticare l’arte: http://www.luxflux.net/n12/artintheory1.htm
Art Media, manifestazione sull’arte neo-tecnologica curata da Costa: http://www.artmedia.unisa.it/

Rorty, Richard – Vattimo, Gianni, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, a cura di Santiago Zabala.

Milano, Garzanti, 2005, pp. 93, € 12,00, ISBN 88–11–60040-5.

Recensione di Maria Maistrini – 30/04/2005

Filosofia teoretica (ermeneutica, metafisica, pragmatismo), Storia della filosofia (contemporanea)

Questo piccolo ma significativo libro curato, sollecitato, introdotto e anche tradotto da Santiago Zabala contiene due interventi, rispettivamente di Richard Rorty e di Gianni Vattimo, a proposito di ruolo e valenza del tema religioso nell’esperienza e nella filosofia dei due protagonisti, i quali, pur, come si sa e s’immagina, nella differente presa in cura prospettica di luoghi e problemi della speculazione e della narrazione filosofica, offrono al lettore alcune interessanti convergenze.
Per presa in cura prospettica intendiamo nietzscheanamente la diversa prospettiva dalla quale, storicamente, Gianni Vattimo e Richard Rorty, si sono, ognuno a proprio modo, presi cura della verità. Poi, per quanto attiene al tema centrale qui in discussione, la religione, ci sembra lapalissiano ma lo ricordiamo ugualmente, con ogni probabilità nessuna seria riflessione filosofica (qualunque ne siano il più o meno contingente punto di partenza e lo sviluppo concettuale) può astenersi dall’emettere una sentenza su Dio.
Quale che sia questo giudizio (che tale Dio sia dato per morto, malato, o brillantemente sopravvissuto), la questione metafisica è e resta centrale, e può essere rimossa soltanto attraversando più o meno inconsapevoli mistificazioni storiche e teoriche.
Diciamo storiche perché non è di una qualsivoglia divinità che qui si parla, ma del Dio che si è incarnato nella storia, appunto, e questo, ci sembra, già in sé mette in moto un meccanismo produttore di differenza. Una differenza di categorie speculative che Gianni Vattimo ama presentare soprattutto sul filo della tradizione cosiddetta postmoderna dei filosofi continentali, e Richard Rorty, invece, in maniera più tenue, su quello piuttosto della possibilità, in generale, di tenere una conversazione più o meno interessante su un qualche argomento in qualche modo filosofico che possa essere soggettivamente condiviso – come può essere appunto il tema religioso.
Già da anni avvezzi al sottile umorismo – la famosa ironia - di Richard Rorty, i lettori non si lasceranno certo ingannare questa volta: al di là di uno stile così morbido e apparentemente dimesso, le argomentazioni del professore newyorkese non sono poi così deboli. Con la solita scrittura veloce ed attraente, l’autore esterna anche in questo breve saggio le ragioni della sua visione del mondo. Lo scritto, già apparso in “Reset” nel 2002, è giustamente ripreso qui da Zabala perché, al di là dell’argomento religioso comune, è lo stesso Rorty a istituire analogie e differenze del suo pensiero rispetto alla Weltanshaung vattimiana. Elogiando più volte infatti in particolare il saggio Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa? di Gianni Vattimo, il nostro giunge a vedere differenze non di sostanza - dopo aver ricordato che la sua posizione è comunque, a priori, “antiessenzialista” (p. 33) – fra loro: «e differenze fra me e Vattimo si riducono alla sua capacità di cogliere il sacro in un evento passato e al mio senso del sacro come qualcosa che può risiedere solo in un futuro ideale. […] Vattimo pensa (scil. invece) che la decisione di Dio di trasformarsi da nostro padrone a nostro amico sia l’evento decisivo» (p. 44). E conclude: «La differenza fra questi due tipi di persone (scil. come Vattimo e come me) è la differenza tra un’ingiustificabile gratitudine e un’ ingiustificabile speranza» (p. 45), riferendosi alla propria generica speranza in un mondo futuro migliore dove regni la solidarietà assieme con l’amore «docile, paziente, capace di sopportare ogni cosa» (ibid.). Questo, secondo Richard Rorty, è qualcosa come un futuro della religione. In effetti, una conclusione piuttosto “debole”.
Le sue argomentazioni, però, abbiamo detto, non ci sembrano particolarmente deboli, non più di altre. Sostiene difatti il nostro, introduttivamente, che «non c’è bisogno di raggiungere un occhio di Dio sovrastorico, una visione globale delle relazioni tra tutte le pratiche esercitate dall’uomo» (pp. 35–36), e anzi propone la solita tolleranza e il solito vivi e lascia vivere nei confronti gli uni degli altri, credenti e non credenti. E insiste: «L’arena ep istemica è uno spazio pubblico, uno spazio dal quale la religione può e deve ritirarsi» (p. 40). A noi, più che “pensieri deboli”, questi ricordano enunciati prescrittivi. 
Gianni Vattimo, al contrario, con l’altrettanto nota agilità, ma con più umiltà, propone in questo scritto, anche esso già uscito come articolo in “Eidos”, ma nel 2003, la sua ontologia debole già nota al pubblico. Ma, alla luce del principio – valore di carità, nel suo discorso splende un impegno – l’impegno personale e diretto in merito alla questione religione – che fa un po’ ombra alla generica tolleranza rortyana, la quale qui fa un po’ la figura di una metafora dell’indifferenza, sostanzialmente, cioè: nella sincerità intenzionale – che si sente – del desideri o di evitare conflitti, Rorty di fatto, paragonato a Vattimo,  evita le risposte, qualunque risposta, appellandosi a una sua presunta “non musicalità religiosa”. Come a dire che non si è mai posto la questione di Dio. E in questo è poco credibile. Ma si sa, per un cosciente pronunciamento del nome di Dio, a volte è davvero necessario aspettare situazioni – limite, come la morte, per esempio, su cui Rorty non esprime nulla, ma che certo non può passare inosservata all’heideggeriano (post quanto si voglia) prof. Vattimo.
Egli infatti, nel pensare ermeneuticamente anche le categorie della religione – cristiana - (cfr. anche il suo successivo Che cos’è la religione oggi?), ricorda che comunque «nella interpretazione si dà il mondo, non ci sono solo immagini ‹soggettive›» (p. 48). Questo per dire che l’ontologia ermeneutica può aiutare a uscire dall’oggettivismo che ha caratterizzato in particolare la storia della Chiesa cattolica, ma non è relativismo assoluto. Nell’“età dell’interpretazione” una buona idea (un’idea anche caritatevole) può essere un «rovesciamento di questo genere» (p. 52): «Dire che non crediamo al Vangelo perché sappiamo che Cristo è risorto, ma crediamo che Cristo sia risorto perché lo leggiamo nel Vangelo» (ibid.).
Questa la proposta di Gianni Vattimo.
Secondo l’acuta visione di Santiago Zabala, però, «l’ultimo traguardo della ricerca dopo la fine della metafisica non è più il contatto con qualcosa che esiste indipendentemente da noi, ma solo la Bildung, la mai conclusa formazione di sé» (p. 10, c.n.). E tanto più si può essere ancora d’accordo con lui, quanto più si rifletta sulla sua bella metafora dell’Occidente ancora “convalescente” (p. 14) rispetto alla malattia metafisica. Ma perché allora tanta brillante intuizione non trova il coraggio di scegliere la sua salute?
In un gradevolissimo confronto finale, infatti, i tre, Rorty, Vattimo e lo stesso Zabala, appunto, ripercorrono assieme i temi del libro, aggiungendo invero altri interessanti stimoli al pensiero circa l’attualità politica e filosofica; ma non giungono all’atto finale, cioè a individuare il futuro della religione nel futuro del Sé, né a proporre una possibile analogia tra guarigione dalla religione dogmatica e clericale e guarigione del Sé. Perché? A quale totem si sentono ancora vincolati i nostri? Di fronte a quale tabù arrestano la loro legittima aspirazione all’oltrepassamento della metafisica occidentale? C’è stato forse un errore terapeutico nel processo della cura della verità, che cos’è (se è), ciò che ancora sfugge e non si dà?
Proponiamo una risposta. Che la macchina del desiderio si sia arrestata proprio davanti a quel “in principio era il Logos” che dice di voler affermare. 
La religione, infatti, o per meglio dire, la religiosità del soggetto, non è ipso facto, forse, già in origine, in principio e per principio, connotata come desiderio, come dispositivo pulsionale, come macchina?
Macchina della differenza che è prodotta e produce, essenzialmente da una distanza tra umano e inumano – per dirla à la Lyotard – che è essa stessa religione, religiosità, co me desiderio profondo e incessante di avvicinamento che sempre di più allontana, non sazi, non dissetati, allorché non si colga nell’essenza stessa della fede questo costitutivo non – esserci dato dal suo essenziale essere sempre in riferimento strutturale a un Essere – mistero. Il che non significa necessariamente, però, secondo noi, che non possa sollevarsi l’ultimo velo di Maya. Anzi, è proprio questo evitamento programmatico dell’atto finale che imprigiona in una ormai inutile metafisica dell’interpretazione che può ormai solo essere stanca e infeconda imitazione dell’antenata metafisica dell’assoluto; in un relativismo che è stato utile nella sua fase rivoluzionaria (di decostruzione – distruzione), ma che non ci serve più adesso, come non servono più al malato i buoni rimedi che l’aiutarono a guarire un tempo. E anzi: come fanno ammalare ancora più gravemente dei farmaci assunti in tempo di quiete dell’organismo, di non malattia. 
In altre parole il desiderio del lettore riceve piuttosto una indicazione di teologia negativa – ci si passi il termine ironico – da questo Il futuro della religione, che rimane ugualmente e sicuramente un libro da leggere: cosa c’è, Santiago, al di là di teismo e ateismo, di interpretazione e metafisica, di violenza e nonviolenza, che può far bene alla nostra salute?
Non siamo, così, forse, ancora fermi all’antitesi, preoccupati della sintesi, o forse ancora di più ostili a una sintesi, per paura che si ripresenti, ancora, con gli antichi caratteri storicamente determinati della sopraffazione di un individuo sull’altro in nome della cosiddetta verità?
Il libro indica nel suo bel sottotitolo - ancora - ciò che non può far male… solidarietà, carità, ironia…, ma non vi sembra tuttavia, forse lo è!, la ricetta della nonna per l’adorato nipotino convalescente, minestrina e petto di pollo?  Certo, pollo biologico…

Ma per quanto ancora ci accontenteremo di essere convalescenti per non prendere freddo? Quando verrà l’ora di lasciarci alle spalle anche l’interpretazione, ringraziandola con tutto il cuore di essere stata una delle esperienze più belle dell’Occidente, ma pur sempre: l’altra faccia della sua malattia?

Indice

Introduzione
Una religione senza teisti e ateisti, di Santiago Zabala
Anticlericalismo e ateismo, di Richard Rorty
L’età dell’interpretazione, di Gianni Vattimo
Appendice. Quale futuro aspetta la religione dopo la metafisica?, Richard Rorty, Gianni Vattimo, Santiago Zabala

Il curatore

Santiago Zabala (1975) è dottorando in filosofia presso la Pontificia Università Lateranense di Roma e autore di Filosofare con Ernst Tugendhat. Il carattere ermeneutica della filosofia analitica (Franco Angeli 2004). Attualmente sta preparando la Festschrift per i settant’anni di Gianni Vattimo nel 2006 per la McGill-Queen’s University Press.

venerdì 29 aprile 2005

Lovibond, Sabina, Ethical Formation.

Cambridge (Mass.)-London, Harvard University Press, 2002, pp. xiii, 203

Recensione di Lorenzo Greco – 29/04/2005

Etica

L’obiettivo di Ethical Formation è di presentare una forma di razionalità pratica in etica che sia in grado di spiegare in che modo possa aversi un agente virtuoso capace di comportarsi in maniera eticamente corretta. Nella riflessione di Lovibond sono fondamentali le nozioni di carattere e di formazione del carattere attraverso un processo educativo. L’individuo moralmente equilibrato è colui che è giunto ad avere la giusta sensibilità nei confronti degli aspetti eticamente salienti della realtà, cioè la capacità di percepire le ragioni morali, e quindi di agire come deve a partire da esse. La prospettiva di Lovibond si offre pertanto come una forma di cognitivismo etico: chi ha sviluppato un carattere virtuoso è in grado di cogliere la rilevanza morale della realtà, poiché è in grado di conoscere le ragioni che essa presenta. Questa prospettiva è anche una forma di realismo morale, in quanto le ragioni morali sono concepite come oggettive e indipendenti dalla psicologia dei singoli individui. In questo senso, Lovibond rifiuta lo psicologismo di stampo neo-humeano perché l’etica, a suo avviso, non ha a che fare con i desideri particolari degli esseri umani, bensì con una razionalità pratica che permette a colui che la possiede di rispondere adeguatamente a una dimensione morale che appartiene alla realtà. Inoltre, la centralità che viene riconosciuta alla nozione di carattere pone questa prospettiva nell’alveo di quella tradizione di pensiero di stampo aristotelico nota come etica delle virtù. Lo scopo di Lovibond è quello di rivedere questa linea di pensiero sganciandola dai presupposti metafisici della concezione classica e “naturalizzandola” alla luce dei recenti sviluppi della filosofia morale.
Questa concezione della razionalità pratica come una forma di sensibilità morale ricorda da vicino le posizioni etiche di John McDowell – e con esse riflette una più generale impostazione di tipo wittgensteiniano che contraddistingue il pensiero di Lovibond sin dal suo primo libro, Realism and Imagination in Ethics. Come McDowell, anche Lovibond è convinta che la realtà si dia da subito come contraddistinta concettualmente, poiché a suo avviso non esiste alcuna posizione neutra da cui osservarla: essa si offre come uno “spazio delle ragioni” al cui interno colui che la sonda si trova immerso fin dal principio. Ciò porta Lovibond ad abbracciare come paradigma dell’indagine filosofica una forma di “quietismo”: qualsiasi indagine si voglia intraprendere non consisterà nell’attività di un osservatore che guarda qualcosa di esterno a lui, bensì nell’esercizio del suo potere naturale di riverberare in se stesso la razionalità di cui la realtà è permeata.
Il fatto che non sia possibile concepire una realtà “in sé” che precede la riflessione a cui la sottoponiamo – e il fatto che i soggetti che la pensano non lo facciano da un punto di vista esterno, ma siano a loro volta parte dell’oggetto che stanno cercando di descrivere – spiega la preferenza tributata da Lovibond a un’impostazione etica in cui non si opera una separazione netta tra la dimensione valutativa e quella descrittiva. In particolare, il suo rifiuto della pretesa di circoscrivere la dimensione valutativa come una sfera di indagine distinta la porta a mettere da parte l’idea che l’etica possa essere tradotta nei termini di una teoria morale organizzata attorno a un insieme di regole precise. Al contrario, il ragionamento pratico consiste in una forma di saggezza che l’agente virtuoso – il phronimos di aristotelica memoria – dimostra di possedere quando si trova a dover risolvere dei casi specifici, poiché è in grado di muoversi con sicurezza nella realtà eticamente densa in cui vive. Lovibond perora quindi una forma di particolarismo in etica: lo scopo della filosofia morale non è di delineare una teoria morale, ma di concentrarsi sul modo in cui è possibile educare un carattere eticamente esemplare, vale a dire di esaminare quei processi formativi attraverso i quali la nostra “seconda natura” – cioè la nostra dimensione di esseri umani dotati di un linguaggio, che partecipano a pratiche linguistiche e sociali condivise – può essere plasmata, così da conformarla a un modello di razionalità pratica che permette a coloro che giungono a padroneggiarla di esprimere un giudizio morale corretto nelle circostanze opportune.
Ciò che differenzia l’approccio all’etica delle virtù di Lovibond da quello classico è il modo in cui si rende conto della capacità dell’agente virtuoso di armonizzarsi con lo spazio delle ragioni. Lovibond rifiuta infatti una spiegazione di ciò in cui consiste lo sviluppo di un carattere moralmente eccellente che faccia appello a un fine inscritto ontologicamente nella natura umana, per riferirsi invece a un “naturalismo rilassato”, ossia a una concezione in cui gli esseri umani sono visti come esseri naturali la cui forma di vita è specificata (anche) dall’uso di segni e dallo scambio di ragioni. Gli esseri umani, in quanto creature caratterizzate tanto da una natura biologicamente determinata quanto da una seconda natura linguistica e sociale, si trovano “immersi in una cultura”, all’interno della quale si svolge quel passaggio del testimone che consiste nel tramandarsi da una generazione all’altra della razionalità pratica, di quel deposito di saggezza comune che consiste nel sapere “che cosa è una ragione per cosa”. L’etica delle virtù di Lovibond presenta dunque una storicizzazione della saggezza pratica che si delinea come una “teleologia sociale”, e concepisce l’educazione come lo strumento che permette agli individui di acquisire nel corso del tempo le capacità necessarie – vale a dire di foggiare la sensibilità morale – attraverso un processo di formazione che vede gli esseri umani come sempre collocati all’interno di un contesto culturale particolare.
Se nella prima parte del libro (Form) Lovibond indica la struttura e gli intenti della sua etica delle virtù, nella seconda parte (Teleology) affronta il problema del modo in cui di fatto l’educazione morale modella l’individuo. Specificamente, Lovibond esamina cosa significa per un individuo realizzarsi come un sé unitario e stabile. Questo processo consiste nel fare propri da parte dell’agente i valori della comunità, nell’interiorizzarli e quindi renderli parte della sua seconda natura, così che egli possa diventare a sua volta l’autore delle sue espressioni morali; non più qualcuno che ripete supinamente gli insegnamenti ricevuti, ma un individuo completo che parla in prima persona. In questo modo, un sé unitario si guadagna – come Lovibond sostiene riprendendo Nietzsche – “il diritto di fare promesse”, ossia diventa responsabile per quello che dice, ed è riconosciuto tale dagli altri appartenenti alla sua comunità.
Ora, è all’interno di questo quadro che Lovibond dialoga con tutta una serie di autori e di prospettive filosofiche – con Michel Foucault, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard, con Isaiah Berlin e con vari esponenti del pensiero marxista e del pensiero femminista contemporanei – che da punti di vista differenti rappresentano una minaccia per la sua concezione dell’educazione morale e della razionalità pratica. L’accusa a cui Lovibond deve fare fronte è che la sua impostazione, lungi dallo spiegare in che modo si possa realizzare un sé unitario, responsabile e autonomo, dotato di un carattere virtuoso, non farebbe altro che promuovere una razionalità che ha la pretesa di offrirsi come universale, ma che in realtà corrisponde a una forma di controllo esercitata dalla società nei confronti degli individui. Come Lovibond sostiene nella terza parte (Counter-Teleology), il contrasto che si pone è tra l’esigenza di raffinare sempre di più l’educazione impartitaci all’interno della comunità a cui si appartiene, così da renderla sempre più conforme ai dettami di un ideale di razionalità pratica eccellente, e la protesta di coloro che accusano questo ideale di essere in realtà un tentativo di oppressione e di imposizione ai danni delle persone. In particolare, si pone la questione del modo in cui ci si deve mettere in rapporto con il “recalcitrante”, vale a dire di colui che rifiuta di adattarsi agli insegnamenti della comunità e con essi all’idea stessa che sia necessaria una nozione di ragione universale. Se infatti la possibilità di acquisire la giusta sensibilità per rispondere alle ragioni che la realtà ci offre è data solo dall’interno di una cultura, se non è possibile cioè sganciarci dall’ideale di razionalità pratica che essa ci presenta, in che modo siamo in grado di rispondere a colui che la mette in discussione? Come è possibile valutare l’alternativa che egli ci propone se gli strumenti che abbiamo sono espressione della comunità a cui si appartiene, e che cosa ci garantisce che questa alternativa non consista a sua volta in un differente ideale di razionalità universale, magari peggiore di quello che viene criticato?
Lovibond presenta la sua soluzione – che in realtà si rivela debole, data la sua impostazione, poiché, più che una soluzione, di fatto si tratta di una constatazione del problema – nelle ultime pagine del libro. Sebbene sia vero che la nostra seconda natura si realizza all’interno di una comunità particolare, a suo avviso ciò non significa che l’ideale di razionalità pratica che apprendiamo debba ridursi soltanto alla dimensione che viene offerta da quella comunità, ma può fare riferimento a un orizzonte più ampio che accolga al suo interno altre fonti di valore. Inoltre, il “recalcitrante” non può in effetti muovere le sue critiche senza riconoscere che egli stesso si è formato a partire dalla prospettiva valutativa di quella comunità che sta mettendo in discussione. Esiste pertanto un principio di “conservazione intellettuale” che va sempre presupposto e da cui appare difficile liberarsi. E tuttavia, secondo Lovibond è altrettanto difficile specificare questo principio con precisione, cosicché non è possibile avere la certezza di trovarsi in una posizione da cui poter esprimere un giudizio che possa dirsi certo su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato. E’ necessario adottare un atteggiamento di tipo fallibilista, poiché resta aperta la possibilità che si sia in errore; per questo motivo Lovibond finisce con il riconoscere valore all’atto della scelta in se stessa, cioè ammette che a volte non c’è altra soluzione che “azzardare” una certa azione, pur sapendo che a posteriori potrebbe rivelarsi sbagliata.

Indice

Preface
Acknowledgements
PART I. FORM
1. The Practical Reason View of Ethics
2. Practical Wisdom Scrutinized
3. Form, Formlessness, and Rule-Following
PART II. TELEOLOGY
4. Why Be “Serious”? Natural Basis of Our Interest
5. On Being the Author of a Moral Judgement
6. The “Intelligible Ground of the Heart”
PART III. COUNTER-TELEOLOGY
7. The Determinate Critique of Ethical Formation
8. The Violence of Reason?
9. Reason and Unreason: A Problematic Distinction
Index

L'autrice

Sabina Lovibond è Fellow e Tutor in Philosophy al Worcester College, Oxford. È autrice di Realism and Imagination in Ethics (1983).

mercoledì 27 aprile 2005

Peirce, Charles Sanders, Scritti scelti, a cura di Giovanni Maddalena.

orino, Utet, 2005, pp. 735, € 79,00

Recensione di Gianfranco Cordì - 27/04/2005

Filosofia teoretica (pragmatismo), Semiotica

Charles Sanders Peirce (Cambridge, Mass. 1839 - Milford, 1914) ebbe un’esistenza tribolata e feconda. Fu chimico, fisico, logico, matematico e geometra per brevi momenti, e in filosofia fondò il pragmatismo e la semiotica. Dalla lettura di questi suoi Scritti scelti collazionati per la Utet da Giovanni Maddalena, quella che emerge è una figura di pensatore sospesa a vari livelli e fra varie argomentazioni. Proprio questa caratteristica afferente al suo “essere sospeso” può essere vista, a una lettura non superficiale, come quella che risalta perspicuamente dal volume in questione. Peirce formula un ossimoro e lo pone alla base della sua teoria. Che cosa ci potrebbe infatti apparire più recondito che legare la sfera della “pratica” a quella delle “concezioni”, cioè della logica, del pensiero, comunque della “teoria”? Peirce, nelle pagine di questo volume, fa proprio questo. La stessa “massima” in cui egli fa consistere il suo pragmatismo ravvisa tale circostanza: “Considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra conoscenza abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto” (p. 215). Ci accorgiamo dunque che gli “effetti” vengono collegati all’“oggetto” di ogni nostra elaborazione intellettuale in un connettivo che, potremmo dire in termini di analisi matematica, va a realizzare la seguente proposizione: “Effetto” (con portata pratica) implica “Concezione”.
La realtà cioè genera la teoria in un contesto che è del tutto teorico, che fa uso di mezzi teorici e dentro al quale la stessa realtà è “un’ipotesi di lavoro che proviamo, la nostra disperata minuscola speranza di conoscere qualcosa” (p. 294).
Tutto il pragmatismo di Peirce (che diventerà “pragmaticismo” negli scritti dell’ultimo periodo, quelli cioè redatti dall’aprile del 1905, per differenziarlo da quello di William James, della cui dottrina filosofica Peirce aveva apprezzato “molto alcune parti, mentre giudicai, e giudico, opposte a ogni logica fondata altre parti del suo lavoro”, p. 648) non si allontanerà mai da questa posizione e considerazione portando alle estreme conseguenze quella che era, in ogni caso, una tradizione classica della storia della filosofia: quella dell’empirismo inglese. Dal quale si differenzierà per il diverso concetto dell’“esperienza”: per l’empirismo l’esperienza era solo quella “passata”, per il pragmatismo sarà invece l’apertura verso il “futuro”. Peirce si pone dunque in continuità rispetto a una tradizione di pensiero che in questi Scritti scelti fa risalire a Matteo 7,20 ( “dai loro frutti li riconoscerete”, p.595) al De Anima (432a 3-8) di Aristotele (“Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu”, ibidem) e alla definizione di “certezza” data da Alexander Bain in I sensi e l’intelletto, ovvero “ ciò sulla scorta di cui un uomo è pronto ad agire” (p. 593). E ciò, nonostante egli stesso nello scritto Uno schizzo di critica logica del 1911 dica in modo esplicito che ha sempre riferito la paternità del suo pragmatismo a “Kant, Berkeley e Leibnitz” (p. 700). Inevitabilmente il pragmatismo ha una ragion d’essere e una ricaduta correntemente effettuale, “pratica”. Ma Peirce, non dimentichiamolo, è un logico. E dunque queste sue pagine usano e definiscono nozioni che vanno da quella di “categoria” (nel corso degli anni e degli studi le Categorie passeranno da cinque a tre: da Essere, Qualità, Relazione, Rappresentazione e Sostanza alle sole Qualità, Relazione e Rappresentazione), a quella di “segno”, a quella di  “deduzione”, “induzione”, “abduzione”, “intuizione”, “abito”, “simbolo” (a sua volta diviso in Termine, Proposizione e Argomento), “indice”, “icona” oltre a molte altre che egli utilizza di continuo. In alcuni casi Peirce conia, per i suoi scopi, anche termini del tutto nuovi; la sua assunzione, in questo senso, è che la filosofia, a differenza ad esempio della letteratura, deve tendere a rinunciare al “bello stile” e orientare invece i propri discorsi su quella che è la “necessità” intrinseca al suo dire. Ma Peirce, lo si diceva, rimane “sospeso”. Un po’ come lo stesso tipo di vita che egli ha condotto, che non gli ha mai consentito di dare alle stampe un’opera in sé organica, a causa di un pudore che fra l’altro Peirce manifesta in maniera diretta in questi Scritti scelti. Pudore verso le opere degli “altri” stampate solo, come diremmo oggi, “per fini commerciali”, un po’ come il complesso stesso delle sue vicende biografiche che l’hanno condotto a un’esistenza sofferta fra miserie e genialità, un po’ come quella che deve essere stata la sua stessa “identità di uomo”, se è vero che a un certo punto scriverà: “L’identità di un uomo consiste nella coerenza di ciò che fa e di ciò che pensa” (p. 143). Peirce è “sospeso” non perché non vada a fondo nelle cose - possiede infatti un metodo rigoroso – e non perché non tragga le dovute conclusioni dalle sue premesse (leggiamo ad esempio quello che alla fine “concluderà” riferendosi alla sua famosa “massima” teoretica: “Nessun desiderio può generare la sua stessa soddisfazione, nessun giudizio si può giudicare vero da se stesso, nessun ragionamento può concludere da se stesso di essere fondato”, p. 476), ma lo è perché il suo spirito vero aleggia e riesce a venir fuori così all’improvviso, proprio nel bel mezzo di una discussione logica per molti versi del tutto astratta. E il suo spirito più vero è proprio quello che lo porta dire che il pragmatismo è “una sorta di attrattiva istintiva per i fatti viventi” (p. 463). Fedele a questo assioma, Peirce estende la sua Weltanschauung all’intera filosofia, la quale “si limita a un esame attento e a una comparazione dei fatti della vita quotidiana così come essi si presentano a ogni persona adulta normale nella maggior parte dei giorni e delle ore della vita cosciente” ( p. 446 ). Ma Peirce non è un romanziere, è uno scienziato. Questi fatti a lui servono solo per trarne leggi generali. E solo di queste egli parla. Più volte ci tiene a ribadire che il “suo” pragmatismo non ha “niente a che fare con le qualità delle sensazioni” (p. 596). Il pragmatismo di Perice è del tutto logico. Di quella logica significativa e particolare per cui “tutte le proposizioni solo legate […] alla totalità degli oggetti reali” (p. 540). E da questi Scritti scelti tale logica emerge nella sua piena specificità. Questa è la “sorpresa” di Peirce, che parte sempre dall’esperienza e, stimandosi fallibile, perviene alla teoria attraverso un senso “sospeso” di transitorietà e di gioia per la conquista ottenuta. “Sorpresa” che non è un caso neppure per il suo stesso argomentare. Nella conferenza intitolata Difesa delle categorie - una delle Harvard Lectures tenute da Peirce tra il 26 marzo e il 15 maggio del 1903 a Cambridge e inserita nella Parte Quarta del volume –  si può leggere infatti: “Tutto ciò che l’esperienza si degna di insegnarci, ce lo insegna per sorpresa” (p. 457).

Indice

Introduzione
PARTE PRIMA. LA SEMIOTICA COGNITIVA DEGLI ANNI SESSANTA
Una nuova lista di categorie
Questioni riguardo a certe pretese capacità umane
Alcune conseguenze di quattro incapacità
Fondamenti di validità delle leggi logiche: ulteriori conseguenze delle quattro
Incapacità
PARTE SECONDA. LA FONDAZIONE DEL PRAGMATISMO NEGLI ANNI SETTANTA
Il fissarsi della credenza
Come rendere chiare le nostre idee
PARTE TERZA. IL RAGIONAMENTO E LA LOGICA DELLE COSE NELLE CAMBRIDGE CONFERENCES DEL 1898
La filosofia e la condotta di vita
Tipi di ragionamento
La logica delle relazioni
La prima regola delle logica
Allenarsi a ragionare
Causalità e forza
Abito
La logica della continuità
PARTE QUARTA. LA LOGICA DELL’ABDUZIONE NELLE HARVARD LECTURES ON PRAGMATISM DEL 1903
[La massima pragmatica]
La fenomenologia
Difesa delle categorie
I sette sistemi della metafisica
[Le tre scienze normative]
La natura del significato
[Pragmatismo inteso come logica dell’abduzione]
PARTE QUINTA. GLI ULTIMI SCRITTI
Pragmatismo
Un argomento trascurato per la realtà di Dio
Saggi sul significato
Delucidazione dell’arte di ragionare
Uno schizzo di critica logica
Un saggio per migliorare il nostro ragionamento in sicurezza e fecondità
Indice dei nomi
Indice delle tavole

L'autore

Charles Sanders Peirce,logico e filosofo americano, nacque nel 1839 e morì il 19 aprile 1914. Studiò all’Università di Harvard e lavorò per il servizio geodesico dal 1859 al 1891. Partecipò alle discussioni del “ Metaphisical Club” ma non riuscì mai pubblicare il suo trattato di logica né a ottenere una cattedra universitaria. Lasciò, alla morte, un solo manoscritto compiuto, The Grand Logic, e numerosi altri che furono acquistati dall’Università di Harvard. Essi furono pubblicati da M.R. Cohen (Chance, love and logic, 1923) e successivamente da C.H. Hartshorne e P. Weiss in Collected papers of C.S.P. (6 voll., 1931-1935).

Links

Scheda sul pragmatismo su Riflessioni.it: www.riflessioni.it/enciclopedia/pragmatismo.htm
Scheda sul pragmatismo americano su Filosofico.net: www.filosofico.net/pragmatismamericano.htm
Sito dedicato a Peirce (in inglese): www.peirce.org

martedì 26 aprile 2005

Capitini, Aldo, Le ragioni della nonviolenza.

Pisa, Ets (Philosophica), 2004, pp. 195, € 16,00

Recensione di Andrea Tortoreto – 26/04/2005

Etica (violenza/nonviolenza)

È quanto mai opportuno che, in una congiuntura storica come quella attuale, vengano riproposti all’attenzione del pubblico i testi di un pensatore, per troppo tempo non adeguatamente considerato, qual è Aldo Capitini. In un momento in cui la violenza si sta mostrando in tutte le sue luttuose forme, dalla follia terroristica all’insensata ipocrisia delle guerre preventive, costringendo a una drammatica ripresa del dibattito etico–politico intorno ad essa, risulta infatti imprescindibile riflettere sul lascito teorico del padre della non violenza italiana, il cui emblematico messaggio si propone come via alternativa ricca di spunti e obiettivi che, oggi più che mai, è necessario perseguire.
Proprio questa può essere vista come una delle idee guida che sono alla base della presente antologia. Il testo si articola, attraverso la riproposizione di alcuni dei passi più significativi dell’opera capitiniana, in quattro parti: dalla presentazione dei fondamenti teorici dei principi della non violenza, che Capitini discute fin dalla sua prima opera (quegli Elementi di un’esperienza religiosa che risalgono al 1973), per giungere alla discussione del metodo e della prassi, quanto mai attualizzabili, che scaturiscono proprio dall’impegno nonviolento.
Mi pare opportuno, in questa sede, concentrare l’attenzione sui fondamenti filosofici della nonviolenza che, come accennato, occupano la prima, densissima parte dell’opera e vengono dettagliatamente presi in rassegna nella puntuale introduzione di Mario Martini. Due sono gli elementi fondamentali individuati dal Martini come strettamente necessari alla comprensione della riflessione capitiniana: “il primo la lettura della realtà dal movimento della sua esperienza, e il secondo la tensione partecipativa alla sorte dell’uomo perché si orienti alla sua liberazione” (p. 10).
Capitini vive quindi religiosamente, e questo è il nucleo dal quale prendono le mosse gli Elementi, l’insufficienza della realtà, i suoi limiti così manifestamente palesati dalla violenza e dalla menzogna sulle quali si regge lo stato fascista. Da ciò, l’atteggiamento religioso si fa tutt’uno con l’opposizione, con la radicale ribellione, il rifiuto morale dello status quo. La condanna etica, senza appelli, che Capitini opera nei confronti del reale, sfocia quindi nella prassi che, in quanto religiosa, è prassi profondamente ristrutturante la realtà. L’atto nonviolento scaturisce gandhianamente proprio da questa religiosa coscienza del limite e si concretizza come apertura a un universo che è profondamente altro, a un mondo che si pone in aperto contrasto con quello attuale. Dice Capitini in Il problema religioso attuale: “Nell’alternativa tra questa realtà che è così insufficiente e svogliata a raggiungere la realtà ideale, e una realtà in cui amore e libertà coincidano perfettamente nell’affettuoso appello all’altrui libertà di decidere, l’atto della nonviolenza sceglie senz’altro di anticipare questa realtà, di farla vivere, di iniziarla con assoluta fedeltà, togliendo di colpo la distanza dal mezzo al fine. È l’annuncio puro del fine; l’atto di persuasione che supera le distinzioni e lo spazio riservato al diritto, l’impazienza di vivere il sacro, la diversa atmosfera della diversa realtà: bisognera pure che scoppi in questa realtà inadeguata l’atto adeguato, l’atto atomico della nonviolenza” (p. 61).
Ecco “la trascendenza rispetto all’immanenza dei fatti”, ovvero il nucleo di quella prassi valoriale che ancora il Martini sottolinea con grande attenzione. Il soggetto  persuaso, che opera religiosamente nell’ottica della nonviolenza, è infatti colui che, con il suo atto pratico, rompe la logica del reale e fa esplodere in esso il valore, opera quindi l’aggiunta che è modificazione profonda, dall’interno della realtà stessa. L’atto nonviolento si pone quindi nell’ottica di quella che Capitini definisce la “dialettica dell’aggiunta” e che il filosofo perugino pone in aperto contrasto con la hegeliana dialettica del superamento: là dove la realtà non si presenta più come semplice vitalità, come potenza, e non si regge più sulla sola legge dell’opposizione dei contrasti, ma è produzione valoriale, ebbene lì vige la logica dell’aggiunta, la dialettica dell’elemento che, facendo sistema con la natura, la squarcia verticalmente aprendo in essa la trascendenza, un orizzonte radicalmente altro.
Qui, sia detto per inciso, si possono rintracciare tutti i temi fondamentali della filosofia di Aldo Capitini, primo fra tutti  la critica della coincidenza fra atto ed essere; l’atto capitiniano è eticamente, non ontologicamente fondato, è apertura all’altro, opzione religiosa verso la compresenza, scelta responsabile e profondamente libera della nonviolenza.
Ebbene, su questi nuclei teoretici, trova la propria ragion d’essere tutto il prosieguo del discorso capitiniano intorno alla nonviolenza, tanto quello più specificamente politico, quanto quello sui suoi metodi e le sue tecniche. Ed è proprio da queste tematiche che emerge la sorprendente attualità del pensiero do Capitini, attualità che questo volume ha il grande merito di porre in risalto mostrando la carica profondamente innovativa che gli scritti del filosofo umbro mantengono ancora oggi. Quando infatti Capitini prende posizione nei confronti delle più scottanti questioni politiche del suo tempo quali il ruolo delle Nazioni Unite, la Guerra fredda, il problema dei rapporti tra Italia ed Europa e quello tra controllo giuridico e libero mercato, la posizione degli Stati Uniti nella scacchiera globale, il contrasto Oriente e Occidente, lo fa proponendo soluzioni che si fondano tutte sulla necessità di una rivoluzione che investa, in primo luogo, l’interiorità dei soggetti e che apra questi ultimi alla persuasione religiosa e all’etica nonviolenta, primo vincolante passo verso una politica e quindi una realtà davvero nuove. E sembra, proprio oggi, farsi sempre più viva la necessità di una ridiscussione radicale della cultura e della prassi politica, una rilettura in cui la nonviolenza può giocare ruolo determinante se vista, capitinianamente, in tutta la sua religiosa carica rivoluzionaria che “al dilagare del borghesismo edonistico e dell’indifferentismo, sempre utili ai gruppi reazionari, contrasta con tensioni ad alti valori e con continui impegni pubblici, per incessanti riforme nella direzione di sempre maggiori sviluppi delle libertà di informazione, di controllo, di espressione, di associazione, e di sempre maggiori sviluppi di forme socialistiche: tutto ciò arricchisce la società, rende attiva ed eroica la pace” (p. 139).

Indice

Introduzione di Mario Martini, Capitini e l’attualità della nonviolenza
PARTE PRIMA
Le premesse teoriche
Elementi di un’esperienza religiosa
PARTE SECONDA
Argomenti e ragioni della nonviolenza
Il problema religioso attuale
Religione aperta
PARTE TERZA
La nonviolenza attuale
Italia nonviolenta
Aggiunta religiosa all’opposizione
La nonviolenza oggi
PARTE QUARTA
L’impegno nonviolento
In cammino per la pace
Azione nonviolenta
Le tecniche della nonviolenza

L'autore

Aldo Capitini (Perugia 1899-1968) formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, fu, assieme a Calogero, il fondatore del Movimento liberalsocialista. La sua opposizione al regime fascista gli valse la prigione. Dopo la liberazione fu docente di filosofia morale all’università di Pisa e di pedagogia prima a Cagliari e poi a Peugia. Fra le sue opere principali: Elementi di un’esperienza religiosa (1937), Saggio sul soggetto della storia (1947), Religione aperta (1955), La compresenza dei morti e dei viventi (1966).

Il curatore

Mario Martini, docente di filosofia morale all’università di Perugia è autore di numerosi studi sul pensiero nonviolento e sulla filosofia di Aldo Capitini. È anche curatore dell’importante raccolta di scritti capitiniani intitolata Scritti filosofici e religiosi, Perugia 1998.

venerdì 22 aprile 2005

Branchi, Andrea, Introduzione a Mandeville.

Roma-Bari, Laterza (I Filosofi), 2004, pp. 192, € 10,00

Recensione di Andrea Fonzo - 22/04/2005

Storia della filosofia (moderna)

Bernard Mandeville, medico olandese trasferitosi a Londra sulla fine del Seicento, è stato per molto tempo ritenuto una figura quantomeno controversa nel penorama filosofico europeo. La scarsità di fonti bibliografiche a dispodizione degli studiosi su questa figura, unita ai tentativi da parte delle autorità religiose sue contemporanee di distruggere le tracce di un uomo catalogato come empio, hanno cucito adosso a Mandeville un'immagine fumosa. Le sue teorie riguardo all'origine della morale ed al ruolo del lusso e delle debolezze umane in ambito sociale, sono state ritenute per svariati anni frutto di una mente immorale e libertina tanto da portare a storpiare il nome dell'autore di tali idee in "Man-devil". Tuttavia è anche vero che il suo lavoro, dopo un periodo di indifferenza, ha suscitato, intorno alla metà degli anni Settanta, un nuovo periodo di interesse tanto che Mandeville è ormai ritenuto una delle figure più acute del pensiero politico moderno.
Nel 1714 viene pubblicata a Londra, anonima, la prima edizione della Favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici. In questo scritto Mandeville espone pienamente le proprie convinzioni, già accennate in precedenza in vari articoli, sulla centralità delle passioni egoistiche nella natura umana e sull'influsso che queste esercitano sull'attività economica e sociale di un paese commerciale. In opposizione agli ipocriti preconcetti dei moralisti suoi contemporanei, Mandeville tratteggia, potendosi avvalere di uno stile ironico e provocatorio, una serie di caratteri, di situazioni sociali, nelle quali vengono alla luce i veri moventi passionali dell'azione umana. Bernard Mandeville, se condivide con gli scrittori moralisti la diagnosi che nella società a loro contemporanea il vizio si è ormai diffuso in ogni settore sociale, non ne condivide la valutazione. Mandeville rovescia, infatti, la pessimistica visione del vizio degli autori succitati e ne evidenzia invece il valore positivo per il benessere economico della società. Secondo il suo modo di vedere, virtù ed economia, virtù e commercio sono incompatibili: lo sfruttamento degli altrui bisogni, lo sforzo per il conseguimento del profitto, il commercio e la diffusione dei beni di lusso sono queste le basi per un'economia florida. Riconoscendo l'influsso esercitato su di lui dai pensatori francesi (Bayle su tutti), Mandeville si avvale del concetto di "amor di sé" per spiegare in termini più specifici l'impulso egoistico, gli sforzi compiuti dalla ragione sia per controllarlo sia per soddisfarlo, che spingono l'uomo ad agire.
Nella Ricerca sull'origine della virtù morale, Mandeville coerentemente illustra una propria teoria sull'origine della morale basata, in virtù del sentimento dell'amor di sé, sulla sensibilità dell'uomo ad essere socialmente apprezzati ed al conseguente timore della vergogna pubblica. Su questi sentimenti opposti, fa leva l'azione adulatrice degli "abili politici" che si pongono il problema di rendere socievole l'uomo “un animale straordinariamente egoista e ostinato, oltre che astuto, che non può essere reso docile e insieme progredito esclusivamente con la forza” (p. 48). Gli uomini accettano di qualificare come" vizio" tutto ciò che un individuo può fare per soddisfare un prorpio privato desiderio, e viceversa, di chiamare "virtù" ogni atto che va a scapito degli impulsi naturali ma a vantaggio degli altri. L'idea che l'uomo possa agire secondo principi razionali siffatti, attechisce in realtà per Mandeville, sull'egoismo e sul desiderio di lode che spinge l'individuo a ben comportarsi agli occhi dei suoi simili. Tale desiderio lo porta ad accettare la definizione di virtù come controllo e nascondimento di quelle passioni da cui però, come si è visto, un individuo è comunque dominato. La virtù di conseguenza per Mandeville altro non è che un autoinganno, tenuto in piedi da un'ulteriore passione, anch'essa non riconosciuta, impegnata in un coercitivo controllo degli impulsi naturali. Sono queste quindi le verità delle relazioni sociali ed economiche che il coraggioso medico olandese paventa agli occhi dei suoi contemporanei.
L'altro grande tema affrontato dagli scritti mandevilleani è rappresentato dallo studio dell'origine del sentimento religioso nella natura umana e il suo sviluppo in forme di organizzazione eclesiastiche. Nei suoi Liberi pensieri sulla religione, la Chiesa e il felice stato della Nazione, Mandeville, dopo aver nuovamente sottolineato la difficoltà di opporsi agli istinti naturali per seguire i dettami divini, fa notare come anche molti sinceri credenti, anche fanatici, non facciano eccezione, e come anche questi vivano spesso in maniera non conforme alle regole proprie della religione cristiana. Il dovere cristiano principale è la rinuncia, l'esercitare, con il massimo rigore, un totale controllo sugli istinti naturali, in definitiva il sacrificio del sentimento. Come tutto ciò collida con le trattazioni mandevilleane fin qui esaminate è evidente. Evidenziando il potere che le passioni esercitano sulla natura umana a scapito della ragione, Mandeville sottolinea l'impotenza di quest'ultima in campo religioso. L'oggetto della fede è qualcosa di sovrarazionale e pertanto non può essere conosciuto per certo. La causa di guerre e di intolleranze non può perciò essere la religione in sé che, essendo qualcosa di così sfuggevole per l'umana ragione, non dona a nessuno il diritto di ritenersi custode della piena verità. Le cause dei conflitti che insanguinano l'Europa di Mandeville sono, dietro al "paravento" religioso, l'uso politico che della religione viene fatto e le pretese di verità assoluta degli ecclesiastici che, essendo uomini come tutti, anch'essi non sfuggono agli impulsi delle loro passioni. Dubbio e rispetto sono le medicini che il medico olandeseprescrivere per stemperare il clima di intolleranza che attanaglia il suo tempo.
Nel 1723 viene edita la seconda edizione della Favola delle api. Tra le aggiunte, quella senza dubbio più rilevante è costituita dal Saggio sulla carità e sulle scuole di carità. In questo scritto la critica mandevilleana prende di mira le istituzioni create, sotto l'impulso di un'ampia campagna moralizzatrice, con l'obbiettivo di combattere il malcostume soprattutto nel ceto popolare. Mandeville, provocando l'indignazione generale, giudica l'intero movimento come mosso dalle medesime passioni egoistiche già ampiamente descritte nei suoi lavori precedenti. La compassione, secondo il suo metro di giudizio, non consiste in una partecipazione dolorosa alla sofferenza altrui, ciò che spinge un individuo ad agire anche in questo caso non è certo un moto disinteressato e virtuoso, ma l'impulso egoistico a liberarsi di uno sgradevole senso di disagio che la vista della sofferenza provoca, unito al solito desiderio di accaparrarsi il pubblico elogio mostrando una condotta caritatevole. Ma il pungente attacco non si ferma a questo "smascheramento", Mandeville aggiunge una propria considerazione ritenendo che tali opere, oltre a non avere niente di genuina carità, è anche dannosa socialmente: dando un'istruzione al ceto popolano, possono creare seri danni in un futuro per l'economia e per la società nel suo complesso. Molto meglio, per Mandeville, poter disporre di una massa lavorativa incolta da potere utilizzare come base per il contonuo sviluppo che incentivarli ad un' improponibile "scalata sociale".
Le continue accuse di voler diffondere diffondere immoralità e vizio, portarono Mandeville a publicare nel 1725 un seguito alla Favola delle api. Nei Dialoghi tra Cleomene ed Orazio, Mandeville si confronta ancora una volta con i moralisti ribadendo conto di essi la propria tesi sull'importanza dell'orgoglio, dell'indole egoistica, nella natura umana. La socievolezza non è il punto di partenza, ma il frutto dello sviluppo delle capacità umane: “L'errore -sia di Shaftesbury che di Hobbes- è stato quello di attribuire agli uomini nello stato di natura caratteristiche che sono esse stesse risultato dei processi di civilizzazione” (p. 114). La strada che conduce alla socievolezza, è da Mandeville suddivisa in tre tappe: la formazione dei primi nuclei familiari, in cui l'uomo trova soluzione al suo bisogno di sicurezza verso l'eterno, questo rappresenta il primo passo verso la civiltà; il secondo passo viene generato dall'orgoglio e dall'ambizione innata nell'uomo che portano alla creazione di una figura carismatica che faccia valere delle regole che appianino i conflitti interni; con l'invenzione della scrittura si ha infine il terzo passo verso la società civile: le consuetudini vengono ora fissate per iscritto in leggi e regole.
L'ultimo scritto mandevilleano, una sorta di testamento, è un pamphlet in risposta all'ennesimo attacco. In queste pagine Mandeville chiarisce definitivamente il proposito del proprio studio: i moralisti fanno affidamento su una nozione di natura che contiene in seno una preventiva valutazione morale. Confondono ciò che è acquisito con ciò che è proprio della natura umana. Il pensiero mandevilleano, il modo rigoroso ma disincantato di esaminare le azioni umane partendo dalla loro matrice passionale, si pone come fine quello di illustrare come ciò che negli uomini siamo abituati a chiamare "male", sia in realtà una delle componenti fondamentali della società civile.

Indice

Virtù e Commercio
Medicina e Morale
"La Favola delle api"
1720-1725: Religione e natura umana
I dialoghi tra Cleomene e Orazio
Cronologia della vita e delle opere
Storia della critica
Bibliografia

L'autore

Andrea Branchi è autore di vari articoli su Mandeville e su Fielding; si è anche occupato della traduzione dello scritto mandevilleano riguardante il tema dell'onore nel diciottesimo in Gran Bretagna.

martedì 19 aprile 2005

Taylor, Charles, Etica ed umanità, a cura di Paolo Costa.

Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 332, € 25,00

Recensione di Vincenzo Pavone – 19/04/200

Etica

In un momento storico che ci riporta ogni momento a riflettere su quello che una vita morale possa rappresentare per un società comunemente percepita in funzione delle sua aspirazioni globali, questa raccolta di vari saggi di Charles Taylor, filosofo canadese autore del famoso Sources of The Self, ha un grande valore critico ed euristico. I diversi saggi, che si articolano su vari temi cercando di riprodurre un immagine complessa ma fedele del pensiero di Taylor sull’antropologia etica e filosofica, sanno stimolare il lettore a rimettere in discussione una notevole quantità di postulati filosofici e morali ereditati, spesso inconsapevolmente, dai moderni epigoni di quella tradizione epistemologica che a partire dal Seicento ha rivoluzionato scienza, conoscenza, filosofia e morale.

La rivoluzione epistemologica – Taylor non esita a definirla tale – del Seicento non ha semplicemente cambiato le basi della conoscenza ma anche, e soprattutto, le basi della riflessione morale. Eliminando la prospettiva dell’agente incarnato, che aveva dominato la filosofia occidentale a partire da Aristotele sino alla Riforma, la rivoluzione epistemologica ha iniziato a rivedere l’intera gamma dello scibile umano a partire dalla prospettiva dell’agente distaccato. Come la ricerca scientifica si era soffermata sulle qualità secondarie degli oggetti, cioè quelle qualità che esistono a prescindere dalla relazione tra oggetto ed osservatore, così la riflessione etica è stata costretta ad eliminare i suoi presupposti antropologici per muoversi in direzione di ciò che fosse ‘oggettivamente’ calcolabile. In altri termini, la riflessione morale viene ridefinita in relazioni a valutazioni ‘deboli’ in merito a un fine ultimo, considerato universale e a-problematico, e cioè la felicità umana. Eppure, Taylor insiste, l’uomo non si caratterizza soltanto per la capacità di valutare le proprie azioni in vista del raggiungimento di uno scopo – ambito in cui è strategicamente superiore agli animali e alle macchine – ma deve la propria umanità alla capacità di valutare tra fini diversi, orinandoli gerarchicamente tra loro ed elaborando un quadro complessivo di quella vita morale che ai suoi appare come ‘buona’, degna di essere vissuta.

L’accurata scelta dei saggi operata da Costa è innanzitutto riscontrabile nella capacità del libro di introdurre il lettore nelle problematiche facendolo gradualmente appassionare e, quindi, dandogli la possibilità di inoltrarsi a fondo in tutte quelle discussioni dialetticamente serrate che caratterizzano lo stile inconfondibile di Taylor.  Sin dal primo saggio, Oltre l’epistemologia, è possibile trovarsi di fronte a tutti gli interrogativi che segnano – direi quasi tormentano – il pensiero di Taylor. Ma come è possibile, si chiede il filosofo canadese e, in verità noi con lui, che il fascino e l’influenza dell’approccio morale riduttivo, soggettivista, procedurale e distaccato derivato dalla svolta epistemologica di Cartesio, Hobbes e poi Bentham, abbia resistito sino ad oggi nonostante le sue incoerenze siano state già ampiamente messe in luce non solo in campo morale ma anche e soprattutto in quello scientifico? Tale interrogativo, in realtà,  è inquietante non tanto in relazione a color che per primi si avventurarono lungo le vie dell’empirismo e del razionalismo quanto in relazione ai suoi epigoni moderni, a cominciare da Bentham sino agli utilitaristi moderni. Va riconosciuto a Costa che quest’interrogativo, che attraversa tutto il pensiero di Taylor, è anche il vero leit-motiv di questa raccolta di saggi e che, pertanto, risulta agevole e coinvolgente seguirne il percorso lungo le pagine e i capitoli. D’altro canto è innegabile che la raccolta soffre un po’ di ripetizioni che si intrecciano e si richiamano da un saggio all’altro, ma ciò è dovuto al riproporsi di tematiche, intuizioni e dubbi internamente alla riflessione del filosofo di Montréal e non certamente alla mancata oculatezza nelle scelte di Costa.

I saggi seguenti vanno al cuore di tutti i dubbi e le incongruenze che saremmo costretti ad accettare qualora volessimo veramente sostenere un’etica derivata dalla scomposizione di fatti e valori, dalla riduzione della complessità del volere morale a una sola dimensione della massima utilità, alla ferrea determinazione razionale delle regole e delle procedure per stabilire il ‘giusto’ e mai il bene. Siamo animali che si auto-interpretano – Taylor non si stanca mai di ripeterlo – e non possiamo rinunciare a questo processo di costante auto-interpretazione, di cui il linguaggio è elemento essenziale e cornice ontologica. Di fronte all’agire umano non possiamo ridurre tutto a valutazioni di preferenze tra aspirazioni deboli, subordinate al conseguimento di una presupposta felicità universale. Al contrario, spesso e volentieri, ci troviamo di fronte a scelte che si basano su un’immagine di contrasto da fini diversi, in conflitto tra loro sul piano del valore e della morale. Di fronte a questi conflitti, inevitabili ma non sempre insolubili, abbiamo il dovere di fare scelte chiare, basate su valutazioni forti, cioè di secondo grado: non dobbiamo solo valutare ciò che desideriamo ma anche ciò che vogliamo desiderare. Non si può nemmeno però, Taylor avverte, rifugiarsi nella soluzione di Sartre della scelta radicale che propone la semplice – e inspiegabile – inclinazione verso una scelta morale piuttosto che verso la sua alternativa, moralmente altrettanto valida.

Valutare ciò che vogliamo desiderare richiama il quadro di riferimento culturale in cui siamo socializzati, gli elementi di identità collegati al linguaggio, alla propria cultura e tradizione, ivi inclusi i quadri normativi religiosi. Era e rimane un attacco tanto all’universalismo utilitarista  quanto a quello procedurale. L’universalismo basato sul calcolo oggettivo della felicità in base a una visione ridotta dei fini dell’uomo non è superato dall’universalismo di matrice kantiana che unisce Dworkin, Rawls e Habermas nel tentativo di spostarsi da una riflessione etica basata sui calcoli ad una basata sulle procedure che, universalmente, permetterebbero di stabilire non tanto qual è il bene quanto ‘ ciò che è giusto ’ in quanto giustificato dai risultati della procedura. Non che Taylor voglia davvero rinnegare l’utilità e la pertinenza di questi approcci rispetto a determinati casi e situazioni contingenti alla modernità, ma non può assolutamente accettare che la riflessione venga ristretta in questa direzione in nome di una razionalità scientifica o di un anelito etico universalista.

L’umanità, conclude Taylor, non può prescindere dalla riflessione morale basata sulla ricerca del ‘bene’ non tanto perché, da un punto di vista normativo, ciò sarebbe più giusto o semplicemente più proficuo quanto perché questo tipo di riflessione morale è costitutivo dell’essere umano. La riflessione etica su cui Taylor vuole richiamare giustamente l’attenzione è basata sull’agente incarnato, sulla sua coscienza di essere-nel-mondo, sulla sua identità culturale e linguistica, sulle valutazioni forte e sul tentativo di scegliere tra proposte morali diverse in base alla loro efficacia comparativa (e non assoluta, cioè nei confronti dei fatti, della realtà). Essa non si configura come una possibile variante in mezzo ad altri approcci etici relativi a una concezione dell’umanità neutra, distaccata, razionale e oggettiva. Piuttosto si configura come elemento fondante, essenziale, dell’essere persona umana inserita in una realtà sociale, linguistica, politica, culturale, storica. Se l’uomo non fosse inserito in un contesto linguistico non solo non saprebbe parlare e relazionarsi agli altri e al mondo che lo circonda, ma propriamente parlando non sarebbe nemmeno un essere umano. Alla stessa stregua, si potrebbe dire, l’uomo o è morale o non è.

Ma la morale di cui parla Taylor è una morale che riflette sul bene, non calcola, non osserva procedure auto-legittimanti, ma, seguendo l’antica virtù della phronesis, si pone la questione ontologica della vita buona, quella civica e non soltanto la questione pratica del giusto e della vita comune. In questo, Taylor è convincente nel ribadire che di questo l’uomo, in quanto uomo, non può fare a meno. Certo, è evidente che portando alle estreme conseguenze le premesse e le posizioni di Taylor la moderna di pretesa di oggettività e universalità viene a cadere. Ad essa si contrappone una visione della vita morale complessa, non interamente soggetta al calcolo e alla procedura razionalista, incarnata appunto. Sotto questo aspetto, la filosofia di Taylor non può non risultare ostica e, persino, inaccettabile a coloro che hanno da sempre, incessantemente e infruttuosamente, tentato di sganciare la riflessione etica dalla realtà contingente per lanciarla nell’olimpo della razionalità universale. Ma per tutti coloro che, al contrario, non chiudono gli occhi di fronte all’evidente bisogno di essere soggetti morali incarnati, nella cultura, nel linguaggio e nella realtà sociale di cui partecipano, la scelta di Taylor, che non rinuncia certo al valore del confronto razionale, si rivela liberatoria, coraggiosa e fertile. Certo il fantasma dei conflitti culturali, delle politiche di identità, dell’etnocentrismo, dell’attacco alla libertà sacra dell’individuo e infine della sostanziale anti-democraticità di certe possibili posizioni morali basate sull’identità e sulla ricerca del bene, aleggia sul pensiero di Taylor. Eppure non si riesce mai ad averne davvero paura perché è evidente che tutto ciò che minaccia la realtà sacra dell’individuo è, in fondo, ciò che davvero la costituisce.

Indice

Introduzione
Oltre l’epistemologia
La validità degli argomenti trascendentali
Che cos’è l’agire umano?
Animali che si autointerpretano
Il concetto di persona
Il linguaggio e la natura umana
Spiegazione e ragion pratica
La diversità dei beni
Beni irriducibilmente sociali
La motivazione dietro un’etica procedurale
Appendice. Intervista a Charles Taylor
Indice dei nomi

L'autore

Charles Taylor (Montreal 1931) è professore di Filosofia e Diritto alla Northwestern University of Chicago e Professore Emerito di Filosofia e Scienze politiche alla McGill University di Montreal. E’ autore, tra l’altro, di Hegel e la filosofia moderna (Bologna 1984), Radici dell’io (Milano 1993), Il disagio della modernità (Roma-Bari 1994) La modernità della religione (Roma 2004), Modern Social Imaginaries (Durham 2004).

Il curatore

Paolo Costa è Dottore di Ricerca in Antropologia filosofica. Svolge attività di ricerca presso l’Istituto per le Scienze Religiose di Trento. E’ autore, tra l’altro, di Verso un’ontologia dell’umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor (Milano 2001) e ha curato l’edizione italiana di La modernità della religione.

Links

Un articolo di Dene Baker dedicato a Taylor (in inglese): http://www.philosophers.co.uk/cafe/phil_may2003.htm
Bibliografia tayloriana stilata dalla University of Kent: http://www.kent.ac.uk/politics/research/charlestaylorbib/

domenica 17 aprile 2005

Carter, Ian, La libertà eguale.

Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 313, € 25,00

Recensione di Enrico Biale – 17/04/2005

Filosofia politica (libertà, uguaglianza)

Carter ha il pregio di introdurre in Italia un dibattito, molto diffuso nei paesi anglosassoni, sul concetto di libertà (Berlin, Steiner, Taylor ecc.) tentando, inoltre, di conciliare tale ideale con quello altrettanto importante di uguaglianza. Quadratura del cerchio quest’ultima che da Rawls, passando per Nozick, Sen e altri, è diventata il concetto portante di tutta la più importante filosofia politica contemporanea. A tale centralità a livello tematico non sempre però corrisponde un’attenzione dal punto di vista concettuale, tanto che spesso ci troviamo di fronte ad analisi imprecise che non definiscono i termini con chiarezza e conferiscono maggior importanza alla persuasione piuttosto che all’argomentazione. Testi quindi dal forte impatto emotivo, ma che sembrano molto distanti da un’analisi filosofica attenta e puntuale. Carter non corre tale rischio; quella presente nel suo testo è una puntigliosa analisi concettuale che vuole “evitare che [le argomentazioni politiche] esprimano semplicemente intuizioni morali confuse”. Parola d’ordine: giustificare; non possiamo semplicemente affermare che per noi libertà e uguaglianza sono concetti politici fondamentali che devono poter convivere; dobbiamo essere in grado di giustificare tale affermazione; spiegare quale sia il significato di libertà e mostrare come possa essere sostenuto insieme a quello di uguaglianza.

Abbiamo davanti agli occhi un testo di filosofia analitica; un autore che fonda la sua filosofia sull’analisi concettuale e questo implica il rischio di “non veder più il bosco dagli alberi”, di perdere insomma il filo conduttore dell’argomentazione a causa delle continue critiche che Carter rivolge a Sen, Nozick, Dworkin ed altri.

Un altro problema, che spesso si coglie nel leggere un testo di filosofia politica analitica, è quello di percepire un livello di astrazione eccessivo; concetti perfetti, argomentazioni rigorose ma nulla più. Tali difficoltà sono realmente insormontabili? L’analisi concettuale è veramente cosi arida, distaccata e noiosa?

Personalmente crediamo di no, anzi, come Carter, la troviamo particolarmente divertente. Ma l’analisi concettuale non è un fine in sé e per sé, bensì un utile strumento per essere in grado di trattare problemi molto concreti in maniera rigorosa e puntuale. Pensiamo, ad esempio, al dibattito che nei paesi anglosassoni si è sviluppato intorno alla prolusione di Berlin e la sua famosa distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. Sarebbe impossibile nel breve spazio a nostra disposizione sintetizzare tali posizioni, ma possiamo tentare di dare alcune indicazioni. Nessuno di noi è in grado di affermare che la libertà sia un disvalore; che una società meno libera sia una società migliore; d’altro canto le concezioni che di tale idea ognuno di noi ha in mente risultano abbastanza diverse. Si può credere che siano liberi i soggetti che non sono vincolati da altri nelle loro azioni o pensare che la libertà consista nella realizzazione di alcuni fini particolarmente importanti per la vita degli individui. Riprendendo l’esempio di Taylor, possiamo reputare che la libertà religiosa abbia maggiore importanza rispetto alla libertà di attraversare senza alcun impedimento la strada. Chi può credere in Dio piuttosto che in Allah è più libero di chi non sa cosa siano i semafori. Intuitivamente tale affermazione sembra ampiamente condivisibile. A questo punto entra in gioco l’analisi concettuale che tenta di chiarire un po’ le cose rendendo esplicito ciò che, nelle nostre affermazioni, era implicito. In primo luogo pare evidente che consideriamo la libertà una proprietà degli individui e che la reputiamo misurabile (un soggetto è più libero di un altro come un uomo è più alto di un altro).

Inoltre, affinché la nostra affermazione, abbia senso dobbiamo essere in grado di compilare una lista delle azioni, valori ecc. ordinati gerarchicamente. Come possiamo pensare di essere capaci di soppesare il valore delle azioni altrui? Cosa succederà se altri soggetti avranno liste diverse? Chi farà da arbitro? Chi può avere una tale autorità? Come ci sentiremmo se qualcuno ci dicesse che ciò che noi facciamo, quello che per noi ha valore, non ha senso e ci impedisse di agire, sostenendo per di più che così ci rende più liberi? Tali passaggi dovrebbero ovviamente essere rigorizzati; abbiamo però visto l’utilità dell’analisi concettuale; la sua capacità di evidenziare problemi dove tutto sembrava in ordine.

Scartata l’intuizione, che ci resta in mano? Secondo Carter possiamo “ripiegare” su un concetto di libertà empirica che si misura semplicemente considerando le azioni che possiamo compiere senza essere bloccati da altri soggetti. Sarà più libero chi potrà compiere più azioni; questo spiega tra l’altro perché consideriamo importante la libertà religiosa; tale libertà infatti implica tutta una serie di azioni che sono a noi aperte maggiore di quelle che sono a nostra disposizione in un mondo sprovvisto di semafori . Tale libertà ha un valore non-specifico; non è quindi libertà di parola, movimento, ma semplice libertà di un type generico declinabile nelle più svariate forme (tokens). Come è facilmente intuibile, tale idea è molto forte dal momento che permette a ogni soggetto di realizzare i propri fini come meglio crede; è quindi condizione necessaria dell’autonomia e valore centrale non solo per ogni liberale, ma anche per qualsiasi individuo che abiti in una società pluralista e voglia vedersi riconosciuti i propri valori.

Carter non desidera solo difendere la libertà dagli attacchi di autori che, dal suo punto di vista, l’hanno snaturata; si impegna anche a coniugare tale idea con quella altrettanto importante di uguaglianza. Nel fare ciò desidera prendere le distanze tanto da autori come Sen o Nussbaum, che tendono in modo più o meno marcato a definire i canoni di una vita giusta, quanto dai libertari puri, che fondano le loro argomentazioni su un concetto di responsabilità forte. Se la prima posizione non sorprende, più interessante risulta la seconda; secondo Carter, infatti, è impensabile non giustificare l’intervento da parte dello Stato (nella realtà dei fatti) o anche di un’assicurazione (nel discorso ideale) per aiutare alcuni soggetti che stanno particolarmente male, anche se sono completamente responsabili della loro condizione. Come è possibile però giustificare un’affermazione del genere dal punto di vista di un libertario che conferisce alle scelte individuali una grande importanza? Come si può far convivere l’intuizione che ci spinge ad affermare che l’intervento dello Stato in questo caso è corretto con il timore di una deriva paternalista? Bisogna mettere in gioco un nuovo personaggio: il paziente morale. Ognuno di noi è infatti un agente morale in grado di prendere decisioni e responsabile delle proprie azioni, ma al di sotto di una certa soglia perdiamo tale qualifica, anche se grazie a un intervento esterno potremmo riacquistarla: siamo pazienti morali. L’intervento dello Stato per riportarci al di sopra della soglia non è un atto di carità ma un dovere. Abbiamo quindi un doppio livello distributivo: in primo luogo si deve dare a tutti un uguale quantità di libertà iniziale (un capitale iniziale) che potrà essere utilizzata da ognuno in piena autonomia; sarà però possibile garantire a chiunque cada sotto la soglia che identifica il paziente morale interventi che lo “riportino in carreggiata”. Da buon libertario, Carter sottolinea come la prima quantità debba essere il più ampia possibile e la seconda il più limitata possibile per garantire ad ognuno un elevato livello di libertà (non ovviamente il più alto possibile, dal momento che un po’ è sacrificata per garantire la rete di protezione). Le proposte di un capitale iniziale sono appena abbozzate e in ciò non possiamo non vedere un limite nuovamente dettato dall’amore quasi maniacale per la precisione dell’analitico Carter, che non sembra voler sostenere politiche che non ha studiato approfonditamente.      

I tecnicismi non si possono eliminare ed alcune delle conclusioni dell’autore sono senza dubbio criticabili; Carter ci ha però mostrato cosa voglia dire fare analisi concettuale in filosofia politica e ci ha fatto capire che se vogliamo parlare di libertà e uguaglianza in modo serio e senza troppi preconcetti dobbiamo misurare le parole e studiarne tutte le possibili sfumature.

Indice

I LA LIBERTÀ
1. La libertà e il suo valore
2. La misurazione della libertà
3. Libertà e scelta
II IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ
4. Aspetti strutturali del diritto alla libertà
5. I titolari del diritto alla libertà
6. Il diritto alla libertà e i diritti di proprietà
III IL DIRITTO ALL’EGUALE LIBERTÀ
7. Funzionamenti e capacità
8. Libertà ed uguaglianza
9 Eguaglianza e responsabilità
10. Un libertarismo doppiamente eretico

L'autore

Ian Carter ha studiato in Gran Bretagna alle Università di Newcastle e Manchester, e in Italia all'Istituto Universitario Europeo di Firenze. Nel 1992-93 è stato docente in teoria politica presso l'Università di Manchester. Dal 1998 è ricercatore in Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Pavia. Nel secondo semestre del 2003 è stato Research Fellow presso l'Università di Oxford, con una borsa di ricerca dell'Economic and Social Research Council (GB). Principali ambiti di ricerca riguardano la definizione, l’analisi e la misurazione della libertà e le idee di uguaglianza e di diritto soggettivo.

Althusser, Louis, Marx nei suoi limiti.

Milano, Mimesis (Althusseriana), 2004, pp. 157, € 13,00

Recensione di Maurizio Brignoli – 17/04/2005

Filosofia politica (socialismo), Storia della filosofia (marxismo)

Marx nei suoi limiti è un testo inedito, e probabilmente incompiuto, del 1978, col quale Althusser torna a riflettere sui limiti della teoresi e della politica marxista con i quali è indispensabile confrontarsi da un punto di vista filosofico. Il punto di partenza della riflessione althusseriana è costituito dalla convinzione che la crisi politica del marxismo, esplosa col XX Congresso del Pcus e con la rottura fra Cina e Urss, rinvii alla sua crisi teorica che, essendosi preclusa ogni soluzione con la forma stalinista assunta negli anni Trenta, è esplosa ora in tutta la sua gravità permettendo finalmente un lavoro di correzione e revisione.
Marx è convinto di aver inaugurato una nuova conoscenza: quella delle condizioni, delle forme e degli effetti della lotta fra classi, è quindi convinto di far comprendere, per la prima volta, conoscenze oggettive adeguate per guidare un movimento rivoluzionario. Da questo punto di vista Marx era “marxista”, quando invece non si dichiarava tale protestava in anticipo contro qualsiasi interpretazione della sua opera come filosofia della storia e contro l’idea che la sua ricerca avesse scoperto la “scienza” dell’“oggetto” Economia Politica quando, invece, il suo obiettivo era di criticare radicalmente sia l’Economia Politica sia il suo “oggetto”. “Critica” nel Capitale non è il giudizio che l’Idea (vera) pronuncia su un reale contraddittorio, ma è il reale, come lotta di classe, che critica se stesso.
Marx è un intellettuale borghese ed è grazie a ciò che comprende come la società capitalistica occulti lo sfruttamento di classe tramite un’ideologia dominante. Per abbattere questa costruzione bisogna cominciare dalla filosofia, non per eliminarla, ma per cambiarne la base. Lavoro più difficile di quanto non pensasse Marx stesso che, secondo Althusser, con le Tesi su Feuerbach delinea una specie di storicismo soggettivistico e con L’ideologia tedesca uno storicismo positivistico che porta alla fabbricazione di una “delirante ma interessante filosofia materialista della storia” (p. 55). Ma quel che conta veramente è che Marx, nell’elaborazione teorica come nello scontro politico, non ha mai abbandonato il terreno di lotta della classe operaia. Il suo è un pensiero che si sviluppa all’interno del movimento operaio esistente e non è quindi una teoria introdotta dall’esterno.
In Marx permane, dall’Ideologia tedesca al Capitale, una filosofia della storia, che scomparirà del tutto solo nella Critica al programma di Gotha e nelle Glosse a Wagner, consistente nella successione progressiva dei vari modi di produzione. Ma l’idealismo permane in una forma più sottile anche nell’unità fittizia dell’esposizione del Capitale. Marx si ritiene costretto ad affrontare in una disciplina scientifica il problema filosofico del cominciamento dell’opera. Marx, ritenendo necessario partire dall’elemento più “semplice” e “astratto”, cioè dalla merce, si è costretto a partire dall’astrazione del valore con la conseguenza di lasciare necessariamente fuori da questo ordine di esposizione ciò di cui deve comunque parlare – dalle varie forme della produttività del lavoro, alla storia delle condizioni del capitalismo – per elaborare una teoria dello sfruttamento che non può, secondo Althusser, ridursi alla teoria del plusvalore. E, infatti, questi elementi sono al di fuori dell’“ordine di esposizione” e creano un salto continuo dalla teoria alla storia e dall’astratto al concreto.
Tutte queste difficoltà derivano dall’Idea che il Processo del pensiero materialista debba cominciare necessariamente con l’astrazione. Marx ha come punto di riferimento le scienze naturali, ma è guidato anche da un’Idea di Verità che deriva da Hegel. Nella pratica del Capitale Marx rompe con l’idea hegeliana della scienza, del metodo e della dialettica, ma, contemporaneamente, si autoimpone di cominciare dal valore. Le conseguenze di questa concezione filosofica idealistica del Processo del Pensiero Vero si vedono nell’esposizione in stile contabile del plusvalore che porta, secondo Althusser, a un’interpretazione “economicista” dello sfruttamento.
La necessità di adottare una posizione che rappresenti il proletariato non può da sola e di colpo regolare i conti con la coscienza filosofica anteriore ed infatti, a parte le emblematiche Tesi su Feuerbach, Marx non ha mai spiegato chiaramente la sua filosofia. Questo non vuol dire che Marx non si sia continuamente misurato con la filosofia e non abbia sviluppato un continuo processo d’autocritica e rettificazione per trovare parole e concetti che ancora non esistevano per pensare ciò che fino allora era rimasto occultato.
Marx si distingue da tutta la filosofia idealistica, come solo Machiavelli ha saputo fare, perché non crede nell’onnipotenza delle idee, comprese le sue. L’influenza delle idee si esercita solo sotto condizioni ideologiche e politiche che esprimono un rapporto di forza fra le classi. Marx, infatti, pone le sue idee, oltre che come principi di analisi dell’insieme del suo oggetto (congiuntura politica o struttura di una formazione sociale), tra le forme ideologiche all’interno delle quali gli uomini prendono coscienza del conflitto di classe. Da qui deriva la distanza tra la “verità” delle idee che coprono tutto lo spazio del loro oggetto e l’efficacia delle stesse che sono situate in una piccola parte dello “spazio” dell’“oggetto” (p. 71).
Lo Stato secondo Marx non è solo distinto dalla base, ma ne è “separato”, è qualcosa di realmente elevato al di sopra di essa ed è separato perché è uno strumento di cui la classe dominante si serve per perpetuare il suo dominio. Marx, nelle opere giovanili, applica lo schema dell’alienazione feuerbachiana allo Stato ed è qui che compare per la prima volta la nozione di separazione, ma, anche una volta superato Feuerbach, lo Stato è non solo sempre “separato”, ma diventa una “macchina”, un “apparato” (18 Brumaio di Luigi Bonaparte). Lo Stato è separato nel senso di “separato dalla lotta tra classi”. Proprio perché è uno strumento è separato dalla lotta tra classi per poter intervenire nella lotta stessa, anche, eventualmente, nella lotta di classe interna alla classe dominante. Marx ha così al contempo svelato la mistificazione della neutralità dello Stato: lo Stato è separato per essere uno Stato di classe, per servire meglio gli interessi della classe dominante.
Correlato è poi il problema della dittatura del proletariato. Sia Marx che Lenin hanno esitato su due concezioni: una falsa, che consiste nel considerare la parola “dittatura” nel senso politico di un governo che agisca al di sopra delle leggi, ed un’altra che parla della dittatura di una classe che va intesa come “dominazione” di classe che abbraccia l’insieme delle forme economiche, politiche e ideologiche tramite cui il proletariato impone la propria politica ai vecchi sfruttatori e dove lo Stato è la macchina che serve da strumento alla dominazione di classe. La dominazione si può esercitare senza violenza e se i vecchi sfruttatori aggirano le nuove leggi si possono costringere, non con la violenza, ma con la legge a rispettarle. In tutto ciò la questione della violenza avrebbe un posto transitorio e subordinato.
Nel capitolo dedicato alle Genesi della rendita fondiaria capitalistica nel terzo libro del Capitale Marx fornisce uno schizzo di una teoria dello Stato che pone lo Stato stesso in relazione col rapporto di produzione proprio di un modo di produzione determinato, mostrando così il radicamento dello Stato nei rapporti di sfruttamento. Secondo Althusser questa indicazione è comunque insoddisfacente per due motivi: Marx non dice niente delle forme specifiche di questa manifestazione e, cosa ancor più grave, non si trova menzione della funzione dello Stato nella riproduzione delle condizioni sociali e materiali della produzione.
Lo Stato è una macchina nel senso preciso del termine, implica cioè una separazione dei corpi materiali della macchina dai materiali energetici che sono consumati per la loro trasformazione. Lo Stato è separato perché, come ogni macchina, ha un corpo strutturato per realizzare una trasformazione d’energia. Lo Stato è una macchina per produrre potere legale; trasforma in energia-Potere l’energia precedente costituita dalla energia-Forza o energia-Violenza della lotta di classe. L’elemento fondamentale è l’eccesso di forza che nella lotta di classe determina la classe dominante e che deve essere trasformato in potere (diritto, leggi) dalla macchina dello Stato. Una volta che la Forza è entrata nello Stato si delinea il rifiuto radicale della lotta tra classi e si sviluppa un’ideologia che nega il funzionamento della natura di classe dello Stato. Si rimuove completamente che solo la classe dominante ha accesso allo Stato per trasformare la propria forza in potere.
Una concezione descrittiva dello Stato che si accontenti di sottolineare la sua “separazione” è comunque sterile in quanto può essere assorbita nella teoria borghese dello Stato come al di sopra delle parti. Per essere più chiari bisogna far intervenire il concetto di riproduzione: lo Stato è “separato” e “al di sopra delle classi” solo per assicurare la riproduzione delle condizioni materiali e sociali di dominazione della classe dominante. Lo Stato è un guardiano che controlla che lo sfruttamento sia conservato, mantenuto e rinforzato a vantaggio della classe dominante.
Althusser sostiene che comunque Marx abbia sempre concepito l’ideologia in relazione alla forma-coscienza, come “oggetto” della coscienza. L’importante contributo marxiano alla questione sta, da un lato, nell’aver prospettato che le ideologie siano sistemi di idee e rappresentazioni nei quali viene rappresentata, in modo deformato, la realtà del soggetto stesso e, dall’altro, nell’aver difeso la tesi del carattere sociale delle ideologie e della loro funzione nella lotta di classe. Alla fine il significato che prevale in Marx non è più quello di una falsa rappresentazione individuale che un soggetto si fa di se stesso, ma quello di una realtà oggettiva nella quale gli uomini (classi e individui) prendono coscienza del loro conflitto di classe e lo portano fino in fondo.
In realtà Marx non ha mai superato la convinzione che l’ideologia riguardi le idee e che per comprenderla siano necessari, e bastino, tre elementi: la coscienza da un parte, le idee dall’altra, ed il loro rapportarsi alle condizioni reali del soggetto (individuo, classe, società) esistente. Da qui segue materialisticamente che non si debba giudicare un individuo, una classe, una società in base alla sua coscienza di sé. Marx però non è mai uscito dalla riserva filosofica da cui attingeva coscienza e idee. Credendo che le ideologie avessero un rapporto con la pratica e gli interessi di classe non ha superato il “limite assoluto” dell’esistenza materiale delle ideologie (p. 146). Lo stesso Althusser del resto aveva già provato a superare questi limiti suggerendo che le ideologie potessero trovare la loro esistenza materiale all’interno degli apparati annessi allo Stato parlando di “Apparati Ideologici di Stato”.
Anche il modo con cui Gramsci ha cercato di superare i limiti di Marx sull’ideologia e lo Stato non è soddisfacente. Nello schema gramsciano l’egemonia si presenta più volte sotto diversi aspetti. È come se l’egemonia compendiasse in sé tutti i conflitti e le contraddizioni della società. In questo modo in ogni lotta di classe si ha a che fare con una contraddizione interna all’egemonia. Con Gramsci ci si trova a che fare con l’idealismo assoluto di un’Egemonia senza base materiale. Infatti i concetti che usa Gramsci – la “Forza”e l’“egemonia” come momenti dello Stato e la “società civile” come insieme degli “apparati egemonici” – non si capisce come funzionino visto che Gramsci non fa intervenire la struttura perché, fondamentalmente, la distinzione fra struttura e sovrastruttura gli pare un errore meccanicistico-economicistico. La struttura finisce per essere mascherata sotto il concetto arbitrario di “società civile”, nascondendo così la riproduzione, la lotta di classe e la Forza dello Stato che viene considerata nulla in quanto integrata nell’effetto di Egemonia. In realtà Gramsci ragiona da politico considerando tutto ciò che riguarda la struttura, la riproduzione, la lotta di classe come una realtà costante che può essere messa fra parentesi. La pretesa di ricondurre tutta la lotta di classe nella produzione alla sola realtà dell’Egemonia è, secondo Althusser di un idealismo stupefacente. Se si tratta la lotta di classe solo sotto l’aspetto dell’Egemonia ci si dispensa dall’esaminare sia la natura che la funzione dello Stato e si mettono tra parentesi gli apparati di Forza dello Stato stesso. La conseguenza ancora più grave è che in questo modo si giunge all’aberrante tesi dell’“autonomia della politica” che porta di fronte ad un altro limite assoluto del marxismo: l’incapacità di pensare la politica.

Indice

L’impensabile politica di Althusser di Fabio Raimondi
Louis Althusser, Marx nei suoi limiti

L'autore

Louis Althusser (1918-1990) è stato uno dei principali pensatori marxisti del Novecento. Dopo la sua morte, oltre all’autobiografia L’avvenire dura a lungo (Parma 1992), si è avviata la pubblicazione dei suoi testi inediti: Lo Stato e i suoi apparati (Roma 1997), Machiavelli e noi (Roma 1999), Sul materialismo aleatorio (Milano 2000), Sulla filosofia (Milano 2001), L’impensato di Jean-Jaques Rousseau (Milano 2003), Su Feuerbach (Milano 2003). 

Links

Associazione Louis Althusser http://www.mercatiesplosivi.com/althusser/default.htm
Centro studi Marxhaus http://www.fes.de/marx
Dizionario Marx-Engels http://www.argument.de/wissenschaft
Marx-Engels [Mega – opere] http://www.marxforschung.de/home.htm
Testi marxisti (in italiano) www.bibliotecamarxista.org
Marxists Internet Archive www.marxists.org