sabato 24 marzo 2007

Gatti, Roberto, Filosofia politica.

Brescia, La Scuola, 2007, pp. 284, € 23,00, ISBN 9788835021476.

Recensione di Luca Mori – 24/03/2007

Filosofia politica

Il volume fa parte di una collana di “strumenti universitari di base” e, quindi, viene presentato come un manuale introduttivo allo studio della filosofia politica. L’autore, tuttavia, non ha voluto semplicemente aggiungere, alle tante esistenti, un’altra esposizione di tipo storico, scandita in termini cronologici; piuttosto, l’idea è quella di proporre un manuale costruito per nuclei tematici, utile sia agli studenti ma anche a chi è impegnato nella didattica o nella ricerca.
Il primo capitolo affronta i dibattiti sullo statuto della filosofia politica, in particolare quelli tra approccio ermeneutico e approccio normativo: semplificando e sorvolando sulle molteplici varianti dell’uno e dell’altro filone teorico, l’alternativa è tra chi si concentra sull’interpretazione dell’evoluzione storica delle relazioni politiche – ritenendo che la ragione non possa «sollevarsi al di sopra della condizionatezza temporale e sociale» (come nel caso dello storicismo) – e chi, proponendo una concezione generale del bene o del giusto, e presentandola come conseguimento di una ragione capace di trascendere la condizionatezza delle relazioni storicamente situate, ne fa il criterio per valutare, criticare ed eventualmente mutare le relazioni sociali e politiche esistenti. Sono esempi di quest’ultima opzione l’espediente teorico della fictio di un patto originario, oppure il rinvio alle implicazioni dell’agire discorsivo e alle caratteristiche di una comunità discorsiva ideale. Un’ulteriore domanda, presentata da Gatti come cruciale, è quella «se dimensione ermeneutica e dimensione normativa esauriscano lo statuto della filosofia politica o se la loro connessione non richieda il riferimento a un piano ulteriore, cioè quello metafisico, che comporta di misurarsi, pur in forme che possono essere evidentemente diverse, con il problema del fondamento ultimo del vivere politico […]» (p. 13).
L’autore passa in rassegna alcuni caratteri di fondo dell’intreccio tra epistemologia e pensiero politico nel positivismo, nello storicismo e nel marxismo, per delineare premesse e caratteri della «riabilitazione della filosofia pratica»: dal ruolo riconosciuto al «verosimile», al «probabile» e al «ragionevole» nella teoria dell’argomentazione di Perelman, fino al politeuestai su cui richiamò l’attenzione Hannah Arendt, insistendo sulla centralità del discorso pubblico relativo al bene comune, come unico spazio in cui può darsi una libertà propriamente politica, non confinata all’ambito privato né condizionata dall’economia; dall’agire comunicativo di Habermas – trattato con un’analisi attenta del concetto di «situazione discorsiva ideale», delle nozioni collegate e della distinzione tra consenso su regole morali e accordo su norme giuridiche –; fino al pensiero di John Rawls, dalla teoria della giustizia alla concezione del liberalismo politico.
Il secondo capitolo propone un interessante excursus sulle premesse antropologiche del pensiero politico, a partire dalla psyché di Platone e dall’“animale politico” di Aristotele fino alle concezioni di Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau, Marx, Hegel, Maritain e Mounier. Benché il carattere introduttivo e il disegno complessivo del volume costringano l’autore ad essere molto selettivo, non mancano, di volta in volta, i cenni a pensatori rappresentativi, le cui analisi convergono o entrano in tensione con quelle dei filosofi maggiormente trattati, nonché ad alcuni saggi di letteratura secondaria.
Nei successivi capitoli dedicati a “giustizia”, “autonomia”, “potere”, “libertà” e “bene comune”, la trattazione di filosofi di varie epoche, e l’attenzione riservata ad alcuni nodi emblematici del pensiero contemporaneo, fanno cogliere chiaramente uno dei maggiori pregi dell’esposizione per nuclei tematici: il raffronto tra le riformulazioni dei temi passati in rassegna introduce il lettore al metodo e allo stile caratteristici della “storia concettuale”.
La sezione antologica, pur succinta, ha il suo pregio nell’essere stata pensata per evidenziare alcuni passaggi centrali nel pensiero dei filosofi tradizionalmente più discussi, o per illustrare grandi “fratture” nella tradizione del filosofare politico (ad esempio, quella tra l’impostazione aristotelico-tomista e l’impostazione hobbesiana: p. 193).
Concludendo, nell’economia complessiva del volume – che tra l’altro accompagna l’esposizione dei capitoli con una fitta trama di citazioni degli autori trattati, distribuite nel testo – il lettore troverà un buon esempio di un’utile e stimolante storia concettuale della filosofia politica. Per chi volesse approfondire, infine, la terza parte del volume contiene un’agile raccolta di indicazioni bibliografiche essenziali, per la didattica e la ricerca, sulle questioni generali e sui singoli concetti tematizzati nel volume.

Indice

Introduzione

PARTE PRIMA – Fondamenti

Capitolo primo: Che cos’è la filosofia politica

Capitolo secondo: Natura umana e ordine politico: alcuni modelli nella tradizione occidentale

Capitolo terzo: Definire la giustizia: l’agenda dei diritti e dei doveri

Capitolo quarto: Autorità, potere, libertà

Capitolo quinto: Etica pubblica, bene comune, democrazia

PARTE SECONDA – Antologia

Brani da Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau, Immanuel Kant, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Karl Marx, Carl Schmitt, Hannah Arendt, Jacques Maritain, Paul Ricoeur, John Rawls, Charles Taylor, Jürgen Habermas

PARTE TERZA – Bibliografia

1. Strumenti essenziali per la ricerca e per la didattica; 2. Sullo statuto della filosofia politica; 3. Modelli di ordine politico; 4. Sul concetto di giustizia; 5. Autorità e potere; 6. Autorità e diritti di libertà; 7. I diritti tra uguaglianza e differenza; 8. Etica pubblica, bene comune, democrazia

Indice dei nomi


L'autore

Roberto Gatti insegna Filosofia politica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Ha presieduto la Società italiana di Filosofia politica (2005-2006) e attualmente dirige il periodico on line della Società e la rivista ‘Cosmopolis’. Tra le sue pubblicazioni: Il “male politico”. La riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento, Città Nuova, Roma 2000; Il chiaroscuro del mondo. Il problema del male tra moderno e post-moderno, Studium, Roma 2002; “L’impronta di ciò che è umano”. Saggi di filosofia, Plus, Pisa 2006; ha curato, con G. Marini e G. M. Chiodi, i volumi collettanei La filosofia politica di Kant (Angeli, Milano 2000), La filosofia politica di Hegel (Angeli, Milano 2003), La filosofia politica di Locke (con G. M. Chiodi, Angeli, Milano 2005). Ha inoltre contribuito al Dizionario delle idee politiche, A.V.E., Roma 1996 e alla Enciclopedia filosofica di Bompiani (Milano 2006).

Links

Sito didattico dell’autore, con materiale didattico e articoli

venerdì 16 marzo 2007

Mario Alcaro, Filosofie della natura. Naturalismo mediterraneo e pensiero moderno.

Roma, Manifestolibri, 2006, pp. 223, ISBN 8872854423.

Recensione di Francescomaria Tedesco - 16/03/2007

Storia della filosofia (idealismo)

Secondo Ernst Bloch il carattere germanico è speculativo, gotico, ripiegato su se stesso, mentre quello europeo-meridionale è tutto il contrario, e il suo rispecchiamento è nella natura, nel sole caldo, nel cielo terso, nella pioggia che “batte argentina sulle foglie delle piante meridionali” (Bloch citato in Alcaro, p. 137). Qualcosa di simile ha sostenuto Albert Camus, il quale in L’Uomo in rivolta “contrappone lo spirito del Mediterraneo alla cultura del Nord-Europa come il giorno alla notte” (Alcaro, p. 19), laddove il primo è l’unica speranza contro il disincanto del mondo, la progressiva mercificazione della vita, il nichilismo del mercato e del successo. Camus è un autore ricorrente tra gli esponenti del ‘pensiero meridiano’, un orientamento che da qualche anno propone di guardare al Meridione italiano e al Mediterraneo come a possibili antidoti “alla volontà di potenza e di dominio dell’uomo occidentale” (Alcaro, p. 21) mediante un percorso teso a recuperare la natura tellurica dell’uomo, abbandonare il disincanto del mondo e “ritrovare e rianimare la natura […] riappropriarsi della sacralità dei luoghi […] ritornare sulle rive del Mediterraneo e, lì, mettersi in ascolto” (Alcaro, p. 24).
Alcaro propone, sulla scia dell’intuizione di Camus, e più in generale nell’ottica di una presunta biforcazione del pensiero occidentale tra un Nord tutto concentrato sul soggetto ponente dell’idealismo e del costruttivismo cartesiano e un Sud ‘panteistico’ e ‘spiritualista’, un singolare e interessante contributo al pensiero meridiano: lo scopo di Filosofie della natura è di mettere in luce che il pensiero dominante nord-occidentale è percorso – e qui l’autore segue Alain Badiou – dalla convinzione che “ogni ente è tale in quanto nominato” (Badiou cit. in Alcaro, p. 129), e dunque che tale pensiero è ammantato di relativismo ‘nominalistico’ e gnoseologico. Ciò, sostiene Alcaro, rende il pensiero filosofico egemone dimentico del corpo, dello ‘spirito del mondo’ e della natura, laddove questi ultimi elementi sono al centro – invece – della riflessione minoritaria, ‘sconfitta’ dal soggettivismo (l’idea che l’io ‘pone’ la realtà): il pensiero meridiano, appunto.
Per Alcaro occorre riscoprire la filosofia di Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Bernardino Telesio, tre filosofi meridionali che rappresentano, secondo l’autore, un tentativo di resistere alla diffusione del pensiero nord-occidentale che separa radicalmente lo spirito dal corpo e assoggetta il secondo al primo e che nega l’anima mundi intesa come visione panteistica, che fa leva sulla filosofia greca degli Stoici e di Aristotele. In altre parole, per Alcaro sulle sponde del Mediterraneo è nato un pensiero immanentista in armonia con la natura, che non pensa all’uomo come il signore del cosmo e che ritiene che ogni cosa è animata.
Come si è detto, le tesi del libro sono quanto mai affascinanti, e l’analisi di Alcaro è condotta con precisione e rigore.
Tuttavia, alcuni rilievi critici si fanno necessari. Innanzi tutto, pare problematico sostenere che il tema dell’armonia tra la natura naturans e la natura naturata – o meglio, il tema della loro coincidenza – sia specificamente ‘meridiano’. Buffon e Diderot in Francia, i neo-platonici di Cambridge in Gran Bretagna, Leibniz in Sassonia o Spinoza nei Paesi Bassi, per non dire della direttrice che da Heidegger va a Schmitt, tutti testimoniano (come peraltro lo stesso Alcaro riconosce) la diffusione – autonoma rispetto a Bruno, Campanella e Telesio – di un pensiero nord-occidentale critico rispetto all’atteggiamento del ‘relativismo gnoseologico’. Per non dire delle bellissime pagine che Carlo Ginzburg dedica all’immanentismo/panteismo materialista del mugnaio friulano Menocchio.
Inoltre, occorre rilevare che il Mediterraneo è sì l’alveo di tale ecologismo panteistico, ma è anche il brodo di coltura dei monoteismi ebraico, cristiano e musulmano, e che almeno i primi due costituiscono il fondamento dell’atteggiamento meccanicistico e razionalistico del pensiero religioso occidentale. Come ricorda Luigi Lombardi Vallauri (Riduzionismo e oltre, Giuffrè, Milano 2002, pp. 130-132) non c’è un solo passo della Bibbia in cui un uomo venga descritto con le fattezze di un animale. L’antropocentrismo biblico (l’uomo signore del creato e soggetto solo al divino; tutte le creature ‘inferiori’ sono ‘funzionali’ all’uomo) si fonde perfettamente al razionalismo cartesiano. Cartesio, come è noto, pensava agli animali come a delle macchine, ed è altrettanto noto l’episodio di un papa che, visitando i lavoratori di un macello, raccomandò loro di non lasciarsi impressionare dalle urla strazianti delle bestie che venivano macellate, ma di considerarle alla stregua del clangore prodotto dalle macchine in una fabbrica.
Ancora, suscita qualche perplessità l’attribuzione, operata da Alcaro, della soggettività a tutti gli ‘enti’, compresi gli organismi unicellulari o l’embrione. Infatti, se si attribuisce tale soggettività, essa dovrebbe avere delle implicazioni giuridiche, nel senso che il soggetto deve essere – in quanto soggetto, appunto – titolare di diritti, e sarebbe piuttosto bizzarro sostenere che gli esseri unicellulari che ‘formicolano a milioni nel nostro ano’ (l’espressione è di Edgar Morin: cfr. Alcaro, p. 207) siano titolari di diritti. Di certo non è peregrina l’idea di estendere la soggettività giuridica ai viventi non umani, ma solo in ragione di una considerazione utilitaristica (un soggetto è tale se è in grado di soffrire, ovvero se è dotato – come gli animali e al contrario delle piante o dei minerali – di un sistema nervoso centrale). Da ciò naturalmente non discende affatto il disprezzo per forme di vita altre rispetto all’animale, e tuttavia esse sono degne di tutela al di fuori del progetto di differenziazione e gradualizzazione della soggettività.
Per concludere, le tesi che Alcaro esprime in Filosofie della natura paiono in gran parte condivisibili nella loro tensione verso un pensiero non-antropocentrico, attento ai temi della natura non più intesa come oggetto di sfruttamento da parte dell’uomo e dunque ecologista. È tuttavia arduo sostenere che tale pensiero sia prerogativa di un Mediterraneo ‘solidale’, ‘resistente’ alle spinte che provengono dal nichilismo del mercato e del profitto occidentali, ‘lento’ rispetto al mondo nord-occidentale e al suo pensiero dominante. Ma c’è di più: la descrizione di un Mediterraneo (e di un Sud italiano) siffatto cela il rischioso cavallo di Troia dell’orientalizzazione interna, ovvero della costruzione ideologica di un’alterità ‘meridiana’ che capovolge gli stereotipi negativi (la lentezza, la centralità della madre, l’armonia con la natura intesa come ‘stato ferino’) e ne fa elementi identitari. Mi pare di poter sostenere che un tale atteggiamento orientalizzante (il riferimento è alle pratiche discorsive analizzate da Said) sia, inoltre, la risposta ‘localista’ e ‘minimalista’ alla perdita di senso delle grandi narrazioni: laddove il momento rivoluzionario inteso come liberazione del genere umano è diventato un miraggio, è consolatorio ripiegarsi su se stessi, pensare la resistenza alla luce di una prospettiva ‘estetizzante’ che svuota quel momento e lo rende posa plastica. Non sarebbe forse il caso di indagare il Sud con le lenti dei bisogni materiali e della necessità di infrastrutture, piuttosto che continuare a proiettare su esso – come hanno già fatto, non a caso, tanta parte del cinema e della fotografia, nonché della letteratura – l’immagine di un luogo ctonio, lento, irrazionale, determinato a tutti i costi a preservare tali caratteristiche a discapito dello sviluppo? Non sarebbe forse saggio mettere il Sud nelle condizioni materiali e culturali per decidere con quale voce parlare, e cosa dire?

Indice

Disincanto e modernità
L’universo e le sue anime. Il naturalismo in Grecia e dintorni
L’anima del mondo si fa cristiana
Uomo e natura in S. Agostino e S. Tommaso
Il “canto del cigno”. Rinascimento e naturalismo mediterraneo
La signoria del soggetto nella modernità 
Meccanicismo, spinozismo, romanticismo
La rimozione dei fini di natura
Dalla filosofia della vita al naturalismo anglo-americano      
Epilogo


L'autore

Mario Alcaro insegna Storia della filosofia nell’Università della Calabria. Tra i suoi libri più recenti: Bertrand Russell (Giunti, 1990), John Dewey. Scienza, prassi, democrazia (Laterza, 1997), Sull’identità meridionale (Bollati Boringhieri, 1999), Economia totale e mondo della vita (Manifestolibri, 2003).

Ernesto Capanna, Telmo Pievani, Carlo Alberto Redi, Chi ha paura di Darwin?

Como-Pavia, Ibis, 2006, pp. 140, € 9,50 (ISBN 88-7164-209-0)
Recensione di Giuseppe Pulina - 16 marzo 2007

Mancano due anni al bicentenario della nascita (2009) di Charles Darwin e non sappiamo che tipo di ricorrenza sarà quella che dovrà ricordare la figura del padre dell’evoluzionismo. Non sappiamo nemmeno se la ricorrenza sarà celebrata come una festa, secondo i riti che queste occasioni richiedono. Sarà però l’occasione per interrogarsi ancora una volta sulla forza e sull’attualità delle tesi dell’evoluzionismo e fare magari i conti con quelle tendenze che, presenti soprattutto negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone, hanno ingaggiato un processo di revisione e di marginalizzazione delle teorie darwiniane. Una sorta di anticipazione di quanto, tra due anni, potranno produrre il dibattito culturale e il mercato editoriale è il volume della Ibis che raccoglie tre diversi saggi di Ernesto Capanna, Telmo Pievani e Carlo Alberto Redi. Un esperto di anatomia comparata, un epistemologo e uno zoologo che fanno fronte comune contro il tentativo oscurantista di ridimensionare la validità del darwinismo, le cui perplessità si sintetizzano efficacemente nel titolo del libro: Chi ha paura di Darwin?

Ma chi, a distanza di un secolo e mezzo, ha ancora paura delle teorie del padre dell’evoluzionismo moderno? Rispondere alla domanda significa, per Ernesto Capanna, ripercorrere le tappe del grande progetto di ricerca che Darwin ha condotto, esaminare le fonti e le circostanze che lo hanno in qualche modo incoraggiato (la lettura di Malthus, le prime, anticipatrici osservazioni di Wallace, le resistenze della cultura accademica nell’Inghilterra vittoriana, la battagliera apologia delle sue scoperte da parte di Thomas Huxley, che ridicolizzò avversari astiosi e spinse Darwin a fornire una sempre più solida certificazione scientifica alle teorie meno difendibili) e fare tesoro di quel lungo processo di riflessione che, se non ha spianato la strada all’ultimo evoluzionismo, ha comunque indicato una rotta da seguire. 

Darwin è stato però oggetto di contesa tra gli stessi darwiniani, che, spesso con toni accesi, se ne sono disputata l’eredità ideale. Tra questi può essere considerata esemplare la querelle che ha visto fronteggiarsi a lungo l’etologo inglese Richard Dawkins e il paleontologo americano Stephen Gould. Merito dei due, che qualche critico ha accusato di eccessivo protagonismo, è stata la divulgazione di teorie scientifiche poco note al grande pubblico, oltre alla quotidiana battaglia, condotta con serrati confronti pubblici, nelle tv, sui tabloid e nelle conferenze, con gli esponenti del creazionismo e con i sostenitori del «progetto intelligente». Per Telmo Pievani, la contrapposizione tra i due darwiniani si è tradotta in una serie di risultati concreti e apprezzabili. «Sul tappeto del loro confronto a distanza si stendono i grandi temi della teoria dell’evoluzione – il progresso, la gradualità, l’adattamento, l’importanza dei geni nel determinare lo sviluppo, il ruolo della selezione naturale – e due visioni diverse della storia e dei pesi che dobbiamo attribuire ai diversi meccanismi che producono il cambiamento: un mondo di replicatori genetici che mirano a diffondersi quanto più possibile di generazione in generazione, utilizzando organismi e gruppi come loro veicoli, come nel caso di Dawkins; una storia naturale influenzata da fattori ecologici molteplici e contingenti, nonché da vincoli strutturali che limitano la selezione, nel caso di Gould» (p. 77). Quelli di Gould e Dawkins sarebbero perciò stati due modi di essere darwiniani che non hanno affatto nociuto alle sorti del darwinismo.

L’ultimo grande ostacolo che il darwinismo ha incontrato lungo il suo cammino è stato, come si sa, il cosiddetto «progetto intelligente». Di questo insidioso ostacolo per le teorie di Darwin si occupa Carlo Alberto Redi nel saggio conclusivo. Per i sostenitori del «progetto intelligente», la selezione naturale non può avere in sé una matrice materialistica, perché la vita presente nell’universo risponde al disegno di un Creatore. Alcuni hanno anche ammesso la possibilità di un’evoluzione, e, contravvenendo al principio leibniziano secondo il quale «natura non facit saltus», hanno sostenuto che nel processo evolutivo c’è un salto qualitativo di cui è autore Dio. La dimostrazione dell’ascientificità del progetto intelligente può farsi forte della biologia evolutiva dello sviluppo e delle ricerche in corso sul genoma. Studi innovativi e risultati prima solo ipotizzati non solo confermano la validità dell’impianto teorico del darwinismo, ma vanificano i non pochi attacchi che questo continua a ricevere. Il volere, ad esempio, sostenere a tutti i costi che quella di Darwin è una teoria, come è stato recentemente chiesto di fare agli insegnanti di una scuola della Pennsylvania, vuol dire che ancora oggi c’è chi crede di screditare l’evoluzionismo confondendolo ad arte con altre concezioni. Alla domanda se Darwin faccia ancora paura bisognerebbe allora rispondere in senso affermativo, come indirettamente fanno i tre autori. Dai tre saggi del volume si fa strada anche la convinzione che l’unico modo di sostenere e difendere l’eredità di Darwin è quello di continuare a diffonderne e a promuoverne la conoscenza, tanto nelle scuole, quanto nei centri di ricerca e in tutti quei luoghi dove il discorso scientifico rischia di farsi influenzare da preoccupazioni di carattere teleologico. «È certamente possibile – scrive con motivato ottimismo Redi nelle righe finali del suo saggio – affermare che Darwin sarebbe oggi ben soddisfatto del proprio lavoro: dalla geologia alla paleontologia, dalla botanica alla zoologia ed ora la biologia molecolare ci dicono che siamo sulla strada giusta per capire da dove veniamo, e forse dove stiamo andando» (p. 131). 

Indice

Presentazione di Silvia Garagna e Maurizio Zuccotti

Ernesto Capanna, Darwin e il suo tempo
L’Essere e il Divenire
La Scala Naturae
Le petit homme à longue queue
Il trasformismo di Lamarck
Sir Richard Owen
Charles Robert Darwin
Dal viaggio del Beagle all’Origin
Darwin nella bufera!
L’Origine dell’Uomo

Appendice
Telmo Pievani, Richard Dawkins, Stephen J. Gould e la ricchezza dell’eredità darwiniana
Due modi di essere darwiniani
Il gioco dell’ortodossia e dell’eterodossia
Darwinismo minimale o darwinismo inclusivo
Quell’ultima lettera

Riferimenti bibliografici

Carlo Alberto Redi, Darwin oggi: biologia evolutiva dello sviluppo (evo-devo) e genoma
Riferimenti bibliografici


Gli autori

Ernesto Capanna, autore di diversi contributi scientifici, tra i quali Il tempo e la verità. Una breve storia della biologia, insegna Anatomia comparata all’Università di Roma La Sapienza.

Telmo Pievani, professore di Filosofia della scienza all’Università di Milano Bicocca e membro dell’International Research Group on Evolutionary Hierarchy Theory, ha pubblicato nel 2002 Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione.

Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia, dove insegna Zoologia, è l’ideatore di Open Lab, laboratorio di biologia molecolare aperto ad un pubblico di non esperti.

martedì 13 marzo 2007

Colli, Giorgio, Platone politico.

Milano, Adelphi, 2007, pp. 163, € 12,00, ISBN 8845921344.

Recensione di Luca Mori – 13/03/2007

Filosofia politica

Questo breve saggio di Giorgio Colli (1917-1979), risalente alla primavera del 1937, confluì nella tesi di laurea discussa dall’autore nel 1939. Come osserva il curatore, Enrico Colli, il Platone politico costituisce il «primo lavoro di un certo impegno» (p. 11) dello studioso destinato a diventare un grande storico della filosofia antica, nonché curatore con Mazzino Montinari dell’edizione filosofica delle opere di Friedrich Nietzsche.
L’autore, ventenne, si segnala per la chiarezza e l’efficacia dello stile e per il gusto della ricostruzione rigorosa. L’intenzione, dichiarata esplicitamente nelle prime pagine, è quella di seguire «l’intimo sviluppo» dei pensieri di Platone restituendo «l’unità e la coerenza dello spirito dell’autore» (p. 25). Richiamandosi al Platon di Wilamowitz (1919) e al Plato and his Predecessors di Barker (1918; 1925), inoltre, Colli ritiene importante leggere gli scritti politici di Platone alla luce delle condizioni politiche del suo tempo, delle esperienze politiche che visse e delle testimonianze sugli uomini che incontrò.
Coerentemente con questi assunti, l’autore dedica molto spazio alla biografia di Platone e, nel ricostruirla, tiene in gran conto la discussa Lettera VII, giudicata autentica (seguendo il Platon del Wilamowitz, che aveva inizialmente negato l’autenticità della lettera nel suo Aristoteles und Athens). Nell’economia del saggio, è importante lo spazio dedicato alla cronologia dei dialoghi; questione intricata, nella quale il giovane Colli si destreggia riferendosi ad alcuni tra i maggiori contributi disponibili al suo tempo, motivando la propria adesione all’una o all’altra tesi avanzando originali congetture sull’evoluzione del pensiero platonico. Da questo punto di vista, il libro appare datato: un esempio può essere la datazione del Gorgia al periodo precedente il primo viaggio in Sicilia.
Lo studio di Colli è interessante anche per quello che non vi compare. I primi decenni del ventesimo secolo, in Germania, sono segnati da letture di Platone alla luce di Hegel, con l’insistenza sul nesso tra eticità e Stato; non mancarono letture di tipo razziale e nazional-socialista; di rimando, in ambito anglosassone s’iniziava a discutere del Platone totalitario, militarista e antiliberale. Le priorità di Colli sono altre. Egli evita di proiettare le categorie del dibattito politico contemporaneo su Platone e ne segue il problema di fondo (ad un tempo metafisico, epistemologico e politico), cioè quel contrasto tra ideale e reale che divenne centrale dopo la condanna a morte di Socrate.
Sul distacco di Platone da Socrate, Colli scrive pagine ancora oggi interessanti: pensando lo scarto tra ideale e reale, Platone riconobbe un dualismo tra il lato conoscitivo e quello volontario-affettivo dell’anima, che lo indusse da un lato ad abbandonare l’intellettualismo socratico e, dall’altro, a studiare nuove modalità di ricomposizione dell’unità della psiche. È in questo scenario problematico che si comprendono le concezioni tripartite dello Stato e dell’anima, a proposito delle quali Colli richiama altresì la rielaborazione platonica degli spunti pitagorici e dell’esperienza egizia. A proposito del lato volontario-affettivo dell’anima, l’indagine di Colli sul testo platonico si fa minuziosa quando distingue l’éros del Fedro da quello del Simposio, più “politico”: entrambi ulteriormente distinti dalla philía pitagorica a cui Platone sembra richiamarsi nella Repubblica, definendo il rapporto tra filosofi e guardiani.
Sostenendo l’interpretazione filosofica con l’approccio storico-filologico, Colli segue lo svolgimento del pensiero di Platone evidenziandone i temi persistenti e i ripensamenti. Non schierandosi rispetto all’accusa di totalitarismo, anzi prescindendo da quel dibattito, il giovane Colli riusciva a restituire Platone al suo tempo e al suo problema: l’accessibilità di una conoscenza sottratta all’incertezza dell’opinione e la possibilità di educare legislatori e governanti capaci di usare quella conoscenza per il bene della comunità.

Indice

Nota del Curatore

I. Lo Stato ideale
I.I. Introduzione
I.II. La gioventù sino alla crisi mistica
I.III. Il sistema educativo e politico dei Pitagorici

I.IV. La Repubblica
II. La fase ulteriore della politica platonica
II.I. Le vicende in Sicilia e il Politico
II.II. Le Leggi

Appendice
Primo piano-sommario
Secondo piano-sommario
Note
Sigle e abbreviazioni
Fonti


L'autore

Giorgio Colli (1917-1979), noto per l’edizione critica delle opere di Nietzsche curata con Mazzino Montinari, fu storico della filosofia antica e coltivò ad un tempo la ricerca storico-filologica e l’impegno teoretico. Lo testimoniano gli appunti raccolti nel volume La ragione errabonda (1955-1977) e Filosofia dell’espressione (1969), editi da Adelphi. La stessa casa editrice ha pubblicato anche i tre volumi su La sapienza greca ed altri saggi importanti (Gorgia e Parmenide; Zenone di Elea; La natura ama nascondersi; La nascita della filosofia; Per una enciclopedia di autori classici; Scritti su Nietzsche; Dopo Nietzsche).  

Links

Sito di Perseus Digital Library, per ricerche mirate sui classici greci e non solo (testi in greco o in inglese)

Il sito propone, nella sezione “Testi”, un archivio di classici della filosofia, tra cui la traduzione italiana delle opere di Platone (ma senza la numerazione Stephanus)

Raccolta di links utili sul pensiero politico di Platone e dei Sofisti

Girard, René, La voce inascoltata della realtà. Una teoria dei miti arcaici e moderni, a cura di G. Fornari.

Milano, Adelphi, 2006, pp. 271, € 26,00, ISBN 8845921123.
[Ed. or: La Voix méconnue du réel, Grasset, Paris 2002]

Recensione di Domenico Turco – 13/3/2007

Antropologia culturale

La voce inascoltata della realtà è l’ultimo libro tradotto in italiano di René Girard, studioso di letteratura e antropologo francese che si caratterizza per estrema originalità, interessi multidisciplinari e anticonformismo. Si tratta di un pensatore notevole, per certi versi geniale, benché il suo complesso anti-sistema non cessi di suscitare polemiche, a causa della radicale incomprensione di importanti fenomeni culturali dell’età contemporanea, come l’ermeneutica, la psicanalisi, il decostruzionismo nietzschiano, lo strutturalismo. Nelle sue opere, compresa quest’ultima, Girard spazia dalla letteratura all’antropologia culturale, dalla filosofia alla psicanalisi, senza tuttavia scadere nella superficialità, rischio perenne del saggista eclettico, del poligrafo tradizionale che, confrontandosi con una molteplicità di discipline, saperi e generi di scrittura, spesso non è materialmente in grado di approfondire tutto.
L’espressione la voce inascoltata della realtà indica quell’apertura interrogante al mondo-della-vita, della vita reale e delle sue misteriose e ineffabili regole, una voce che Girard afferma di cercare di trascrivere, nonostante sia coperta e quasi soffocata dal coro unanime di un pensiero omologato e omologante, che obbedisce alle logiche irrazionali e alle mode tiranniche del nostro tempo. Per l’intellettuale francese il fine del discorso antropologico va rintracciato in una ricerca inquietante delle origini capace di invertire la rotta segnata da Levi-Strauss, tendente ad addomesticare in qualche modo il pensiero selvaggio, radicandolo nel mito inteso come creazione poetica avulsa dal reale, invenzione pura priva di possibili agganci con fatti veramente accaduti. Invece Girard, nel primo capitolo del libro, Violenza e rappresentazione nel testo mitico, pone a fondamento della mitologia possibili eventi reali, nella fattispecie episodi di linciaggio o sacrificio rituale a danno di vittime poi divinizzate. Nel contesto del saggio si fa l’esempio dei racconti medioevali di linciaggi o progrom contro gli ebrei, massacri assurdi giustificati ricorrendo alla consueta accusa di diffondere la peste o di avvelenare le acque. Il concetto di capro espiatorio è centrale nell’antropologia di René Girard, ossessivamente legato a questa figura, al punto da essere definito da Roberto Calasso in La rovina di Kasch “l’ultimo dei porcospini”. Con il curioso termine zoologico, Calasso intende riferirsi a quei pensatori ispidi e spinosi che rimangono in qualche modo ostaggi di una sola idea. In realtà, questa definizione non coglie tutta la complessità della prospettiva antropologica proposta dal presunto porcospino-Girard, il cui teorema della vittima rappresenta soltanto il punto di partenza di un itinerario che svolge ulteriori e suggestivi percorsi intorno all’uomo e alla sua specificità di animale sociale.
La girardiana “teoria dei miti arcaici e moderni” mostra un profilo molto rigoroso e a suo modo scientifico, di una scientificità che risulta molto peculiare, perché tendente a riabilitare importanti aspetti della cultura cristiana, presentati comunque in maniera “imparziale”, con argomenti accettabili anche da un punto di vista profano. È questo il caso del capitolo quarto, Dioniso e il Crocifisso, in cui, dopo aver demolito dialetticamente l’impianto filosofico della Genealogia della morale di Nietzsche, viene smascherato il carattere violento della concezione dionisiaca celebrata dal filosofo tedesco, e criticata l’assimilazione tra Cristo e le varie incarnazioni pagane del dio-vittima, dallo stesso Dioniso ad Attis-Adone. Nella prospettiva cristiana, afferma Girard, la vittima sacra non è accettata in quanto vittima, come accadeva nelle antiche religioni, ma se ne denuncia l’uccisione come un delitto esecrabile. Tale apologia del punto di vista cristiano può suggerire un atteggiamento militante da parte dell’autore. Mentre paradossalmente il cattolico Girard dimostra di essere spesso più scientifico dello strutturalista laico Lévi-Strauss, in quanto porta avanti una sorprendente tesi neo-positivista o “sociologista”, secondo cui le diverse mitologie non sarebbero del tutto narrazioni fantastiche né sovrastrutture mitopoietiche di una metafisica allo stato originario, ma momenti fortemente ritualizzati di violenza collettiva eseguita ai danni di un capro espiatorio, in seguito trasformato in uno spirito o in una divinità. Questa interpretazione del mito è estremamente riduttiva, perché impedisce di cogliere quell’affinità tra l’ambito mitologico e quello religioso-metafisico a ragione riconosciuta da Levi-Strauss e sulla sua scorta dai vari esponenti dell’antropologia contemporanea. Il mitologico non deriva solo dalla trasfigurazione di fatti realmente accaduti, intervenendo fattori di altro genere, collegati appunti all’esigenza di creatività del pensiero umano oppure al tentativo di spiegazioni razionali, al quale in passato si rispondeva ricorrendo a racconti di tipo onirico-fiabesco.
In ogni caso, e per altre motivazioni, Girard non è affatto un positivista. Anche se sostiene che il fatto di assumere un determinato credo non può e non deve in alcun modo influire sull’elaborazione di determinate teorie, nel leggere La voce inascoltata della realtà è impossibile non rilevare il background scopertamente (e profondamente) metafisico che trapela dalle brillanti intuizioni di questo poliedrico pensatore-scrittore, schieratosi con coraggio ma a tratti in maniera piuttosto riduttiva e unilaterale contro quel differenzialismo neo-nietzscheano che domina la scena attuale. Come espresso significativamente nel nono e ultimo capitolo, Innovazione e ripetizione, della società postmoderna Girard stigmatizza anche la frenesia del nuovo a tutti i costi, la volontà distruttiva di fare piazza pulita con la tradizione, la quale volontà metterebbe in pericolo i fondamenti del pensiero e della conoscenza, a scapito della ripetizione e del desiderio mimetico che costituirebbe la molla del comportamento umana. La psicologia girardiana si basa sul ribaltamento del carattere sostanzialmente negativo attribuito da Freud agli elementi imitativi, per esempio nel caso della coazione a ripetere, dal padre della psicanalisi collegata con l’istinto di morte, o Thànatos, più che con l’Eros, o istinto sessuale, istinto che nel contesto freudiano comprende pure gli aspetti pulsionali-vitali della psiche umana. La teoria mimetica di Girard è un paradigma operativo che egli applica ai vari ambiti del sapere, e che gli serve per fornire un esauriente schema ermeneutico capace di rendere ragione dei fenomeni del mito, della religione e della letteratura. Alla base di tutta questa teoria vi è la convinzione che l’uomo imiti più di quanto normalmente si pensi, e che la sua condotta sia ispirata non al proposito di differenziarsi rispetto al gruppo etnico o sociale di appartenenza, ma proprio di conformarsi a esso.
Se si vuole trovare un filo conduttore de La voce inascoltata della realtà, è per l’appunto la teoria mimetica, che riscontriamo sia nei primi due capitoli, dedicati esplicitamente all’antropologia strutturale di Lévi-Strauss, che nei successivi, riguardanti alcuni grandi protagonisti del Novecento filosofico e letterario, come Nietzsche e Dostojevskij, i personaggi evangelici, difesi dall’accusa ad esempio di antisemitismo. Alla base di questa teoria a metà strada tra antropologia e psicologia c’è il concetto della natura mimetica del desiderio. L’uomo è fondamentalmente un imitatore, che assorbe i comportamenti, le categorie mentali e gli umori di chi gli sta accanto. Ovviamente l’imitazione di cui parla Girard non è una semplice scopiazzatura, una supina reiterazione degli atti e delle idee dei nostri modelli, amici, familiari o punti di riferimento ideale, bensì rappresenta un fenomeno eminentemente creativo. Ciò emerge nel già citato capitolo che conclude il libro, Innovazione e ripetizione: qui la creatività pertiene più esattamente alla ripetizione che non all’innovazione, giudicata negativamente a causa del suo carattere innaturale, di artificio. Queste osservazioni sono svolte per la prima volta nel primo grande capolavoro girardiano, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), in cui, invece di porre in evidenza l’originalità dei principali romanzieri, ne enfatizza al contrario gli elementi comuni, correlati alle dinamiche imitative del desiderio mimetico che costituisce la prima regola, per quanto implicita, del codice di comportamento umano, quella voce inascoltata che richiede di essere riconosciuta e decifrata, per poter così proiettare una diversa e più limpida immagine della realtà.

Indice

Introduzione
Violenza e rappresentazione nel testo mitico
Differenziazione e reciprocità in Lévi-Strauss e nella critica contemporanea
Il superuomo nel sottosuolo
Dioniso contro il Crocifisso
La questione dell’antisemitismo nei Vangeli
Il desiderio mimetico nel sottosuolo
La peste nella letteratura e nel mito
Un pericoloso equilibrio
Innovazione e ripetizione
Postfazione. La flebile voce della vittima di Giuseppe Fornari
Indice dei nomi


L'autore

Renè Girard è nato ad Avignone nel 1923. Dopo aver studiato all'Ecole des Chartres, dove ottiene il titolo di archivista-paleografo nel 1947, in seguito si trasferisce negli Stati Uniti conseguendo nel 1950 il dottorato in Storia presso l’Indiana University. Ha insegnato lingue romanze, francese e letteratura comparata in diverse università americane. Tra le sue opere principali, ricordiamo Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), La violenza e il sacro (1972), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983).

domenica 11 marzo 2007

Altavilla, Costanza, Fisica e filosofia in Werner Heisenberg.

Napoli, Guida, 2006, pp. 368, € 23,00, ISBN 8860423910.

Recensione di Ivo Silvestro - 11/3/2007

Filosofia della scienza (fisica)

I rapporti tra scienza e filosofia sono spesso burrascosi. Molte volte gli scienziati non hanno compreso le specificità del discorso dei filosofi e viceversa. Si pensi, ad esempio alla nota polemica tra Thomas Hobbes e Robert Boyle a proposito dell’esistenza del vuoto, oppure all’ostilità riservata al testo di Henri Bergson Durata e simultaneità (Milano, Raffaello Cortina, 2004) dedicato alla teoria della relatività di Einstein, ostilità che convinse l’autore a non ripubblicare più l'opera.

Werner Heisenberg costituisce, in questo contesto, una felice eccezione: il fisico tedesco ha acutamente affrontato i problemi concettuali nati dalle scoperte della meccanica quantistica, giungendo a conclusioni interessanti e sviluppando una originale visione della natura per molti versi anticipatrice del pensiero complesso di Edgar Morin.

Al centro della riflessione di Heisenberg vi è, ovviamente, la nuova concezione del mondo nata dalle scoperte della meccanica quantistica. Max Planck, per venire a capo di alcuni problemi di termodinamica, avanzò l'ipotesi che gli scambi di energia avvengano unicamente per piccole quantità discontinue, i quanti: dei pacchetti di energia che non è possibile dividere ulteriormente. Si tratta di una innovazione non da poco: sino a quel momento i processi fisici erano considerati continui e graduali. Planck aveva scoperto che Leibniz si era sbagliato: "natura facit saltus" (p. 24).

L'abbandono della continuità in favore dei quanti ha come conseguenza che la fisica microscopica segue leggi radicalmente diverse da quelle della fisica macroscopica. È impossibile descrivere una particella subatomica ricorrendo ai concetti che siamo soliti impiegare per la descrizione di oggetti macroscopici. In poche parole l'atomo non è concepibile come un sistema solare in miniatura. Persino la distinzione tra materia ed energia, a livello subatomico, viene meno.

Un altro aspetto molto importante è l'impossibilità, a livello microscopico, di separare il soggetto osservatore e l'oggetto osservato: il soggetto è parte integrante del sistema osservato, ogni osservazione influenza in maniera non prevedibile il tutto. È importante evidenziare come anche la fisica classica riconosca una influenza dell'osservazione: un ricercatore sa bene che, ad esempio, il termometro raffredderà o riscalderà il corpo del quale vuole conoscere la temperatura. Questa influenza è tuttavia il più delle volte trascurabile e, in ogni caso, il fisico classico può determinare l'entità della variazione.

La novità della fisica quantistica non risiede dunque nella consapevolezza di questa influenza, ma nell’impossibilità di controllarla: non è possibile determinare la grandezza delle perturbazioni dovute all’osservazione. Il principio di indeterminazione, scoperto proprio da Heisenberg nel 1927, stabilisce appunto l'impossibilità teorica di determinare con precisione la posizione e il momento (velocità) di una particella: l'osservazione di una delle due grandezze necessariamente influenzerà il valore dell'altra (p. 60 e ss.).

Questa circostanza rende necessaria una profonda revisione, se non l'abbandono, del determinismo e della causalità. La conoscenza sarà pertanto di tipo statistico: non è possibile sapere se un evento è accaduto o meno, ma si può determinare unicamente la probabilità di questo evento (p. 71).

Mettere in discussione la causalità e il determinismo, ossia i due principi che più o meno esplicitamente sono stati al centro della fisica dell'ottocento, è, per alcuni scienziati che potremmo definire "conservatori", una operazione illegittima. I più noti di questi conservatori furono sicuramente Albert Einstein e, almeno fino al 1927, lo stesso Planck, i quali cercarono di «mantenere la causalità rigorosa all’interno di un contesto scientifico che si andava, in quegli anni, via via sempre più modificando, rendendo anacronistiche le loro posizioni» (p. 87).

L'atteggiamento di Heisenberg fu, da parte sua, quello di un rivoluzionario suo malgrado: «[Heisenberg] era un fisico con una mentalità ancora classica i cui sforzi erano interamente concentrati sul tentativo di ricondurre le ambiguità della teoria dei quanti entro presupposti ortodossi» (p. 56). Questa operazione si rivela tuttavia impossibile: le nuove teorie sono valide e pertanto occorre accettare il nuovo quadro concettuale da esse imposto, per quanto ciò sia difficile.

Questo notevole lavoro di revisione concettuale viene affrontato da Heisenberg proprio mettendosi in dialogo con alcuni importanti filosofi del passato, creando interessanti confronti tra le idee della filosofia e i fenomeni della fisica. A volte questo confronto risulta poco convincente, ad esempio quando il "tutto è fuoco" di Eraclito viene interpretato alla luce della già accennata natura energetica delle particelle elementari (p. 316 e ss.), oppure quando vengono riletti, in maniera suggestiva ma forzata, alcuni passi del Timeo di Platone (p. 320 e ss.).

Il più delle volte, tuttavia, Heisenberg riesce a cogliere aspetti molto interessanti. Uno di essi è sicuramente il ricupero del concetto aristotelico di potenza: «a supporto [del] ragionamento […] tendente ad evidenziare la necessità del passaggio dalla certezza alla probabilità, Heisenberg […] ha preso esplicitamente come punto di riferimento il concetto aristotelico di potenzialità o dynamis vedendo in questo ciò che , in un certo senso, può sostituire la causalità rigorosa su cui non è più possibile fare affidamento» (p. 145).

È con Kant che Heisenberg ha, sul tema della causalità, il confronto più diretto e impegnativo (p. 118 e ss.). Nella Critica della ragion pura la causalità è una delle categorie dell’intelletto (per la precisione, la seconda della relazione, cfr. KRV A128 B166), pertanto ogni conoscenza non può non coinvolgere il concetto di causa. Tuttavia, per la meccanica quantistica non è possibile, a livello subatomico, parlare di causa ed effetto: si è quindi tentati di abbandonare completamente l’impostazione kantiana dell’a priori.

Heisenberg è tuttavia cosciente che la legge di causalità è la condizione di possibilità della scienza, è il fondamento del metodo stesso della ricerca scientifica. E soprattutto comprende che la legge di causalità non può derivare dall’esperienza ma deve essere a priori. Semplicemente, non è un principio assoluto della conoscenza: la legge di causalità è limitata e relativa, la pura ragione non può pervenire a verità assolute (p. 125).

Se Heisenberg, in una qualche maniera, si impegna in un ricupero della filosofia di Kant, lo stesso non si può dire per quella di Cartesio (pagg. 324 e ss.). Il meccanicismo cartesiano viene infatti ricondotto al riduzionismo e, in generale, alla incomprensione della complessità del reale. Il dualismo tra res cogitans e res extensa viene letto da Heisenberg come l’apice della separazione, fittizia, tra soggetto e oggetto.

La critica ai cartesiani conduce alla parte più filosofica della riflessione di Heisenberg: la nuova visione della natura. Il modello della fisica classica, materialista, causale e determinista, è infatti inadeguato, in quanto incapace di rendere conto della effettiva complessità del reale. Per Heisenberg la natura è strutturata su più livelli, ognuno dei quali non è riducibile ai livelli precedenti. La comprensione dei fenomeni chimici non può essere ricondotta alla comprensione dei fenomeni fisici, il comportamento di un essere vivente non può essere ridotto alla sua chimica e lo stesso vale per gli altri ordini del reale che identifica Heisenberg: l’ambito spirituale, ossia il mondo della coscienza e dei simboli, e la religione. Si tratta di diversi ordini del reale, diverse modalità di cogliere connessioni tra fenomeni che la scienza classica, idealizzando una separazione tra forma e materia in realtà inesistente, non può comprendere, rifiutandosi di prendere atto del fatto che non si può parlare del mondo ‘in sé’, ma sempre e soltanto del mondo come lo si conosce (p. 196).

Heisenberg attua una saldatura tra scienza, arte e religione. Il richiamo a Goethe è esplicito: i vari ordini si sviluppano lungo una scala di crescente soggettività e decrescente oggettività, in una sorta di ascesa dall’oggettivo al soggettivo. È importante evidenziare come questo ordinamento vada interpretato orizzontalmente, con i vari ambiti autonomi e di pari dignità, e non verticalmente, nei termini di una rigida gerarchia verticale, quasi si trattasse di un riduzionismo al contrario, con lo spirito al posto della materia (n. 103, p. 214).

Nel contesto di questo ordinamento della realtà, Heisenberg avanza una critica all'evoluzionismo, che tenterebbe appunto di spiegare la vita mediante i concetti presi dagli altri livelli, non riconoscendo la specificità del vivente: «Prendere come punto di riferimento il principio di selezione darwiniano per spiegare e comprendere i processi vitali è, per Heisenberg, altrettanto riduttivo. Si tratterebbe, infatti, semplicemente di aggiungere il concetto di sviluppo storico ai concetti fisico-chimici» (p. 198).

Questa nuova visione del mondo richiede un nuovo linguaggio, che Heisenberg definisce dinamico in contrapposizione a quello statico tipico della scienza classica e esemplificato dall'antimetafisica neopositivista. Dove il linguaggio statico cerca materia che ubbidisce ad alcune leggi, il linguaggio dinamico coglie connessioni tra fenomeni (p. 252). L’antiriduzionismo di Heisenberg, la sua articolazione dei vari ambiti della realtà e la sua nuova visione del linguaggio costituiscono «un importante ponte di collegamento o anello di congiunzione tra la meccanica quantistica e l’epistemologia successiva» (p. 260) incentrata sul concetto di complessità e di rete della vita.

Il saggio di Costanza Altavilla è una ottima esposizione del pensiero di Werner Heisenberg, nella quale si avverte, purtroppo, la mancanza di un approccio maggiormente critico verso le riflessioni dello scienziato e filosofo tedesco, del quale si espone il pensiero senza realmente discuterlo. Per meglio affrontare la poliedricità dei temi trattati, l'autrice ha diviso il testo in tre sezioni, dedicate rispettivamente alla scienza, all'epistemologia e alla filosofia. Nonostante la separazione tra questi ambiti non sia sempre chiara, Costanza Altavilla riesce così a costruire un percorso espositivo lineare e unitario.

La parte dedicata alla meccanica quantistica rende con efficacia i problemi concettuali e il contesto storico, risultando purtroppo carente nell'esposizione degli aspetti più scientifici: per quanto il saggio non voglia essere una introduzione alla fisica dei quanti, un discorso più dettagliato non avrebbe nuociuto.

La seconda sezione, dedicata all'epistemologia, è la parte meglio riuscita del saggio. Costanza Altavilla identifica i nodi concettuali della nuova epistemologia imposta dalle scoperte scientifiche, evidenziando differenze e similitudini con i lavori di Ernst Mach, che già aveva messo in discussione la presunta indipendenza dal soggetto della conoscenza scientifica, e quelli di Boltzman, che formulò alcune leggi di tipo statistico per i gas.

L’ultima parte del saggio, dedicata agli aspetti più filosofici della riflessione di Heisenberg, è quella dove si avverte maggiormente la già lamentata mancanza di un approccio critico. I vari aspetti della nuova concezione heisenberghiana della natura vengono comunque presentati con competenza ed efficacia, senza nascondere, ma neppure denunciare, le ingenuità di alcune riflessioni del fisico tedesco.

Indice

Nota
Introduzione
Parte prima - Il contesto storico:
I. Dalla struttura atomica di Bohr al principio di indeterminazione
Parte seconda - L’epistemologia:
I. Il concetto di causa
II. L’interazione soggetto-oggetto
Parte terza - Le riflessioni filosofiche:
I. L’ordinamento della realtà
II. Uomo e natura
III. Heisenberg “storico della filosofia”


L'autrice

Costanza Altavilla (Messina 1974) è dottore di ricerca in Metodologie della FIlosofie e attualmente titolare di una borsa post-dottorato presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Messina. La sua ricerca ha sempre riguardato la filosofia dei fisici contemporanei con particolare attenzione alla figura di Werner Heisenberg al quale ha dedicato i suoi studi durante gli anni di dottorato. Ha pubblicato, in volumi collettivi e in Atti accademici, lavori, oltre che su Heisenberg, anche su Pauli, Bohr e Einstein. Ha curato, insieme a Giuseppe Gembillo, il volume collettivo Werner Heisenberg scienziato e filosofo, Messina 2002.

sabato 10 marzo 2007

Giacomini, Bruna - Chemotti, Saveria (a cura di), Donne in filosofia. Percorsi della riflessione femminile contemporanea.

Padova, Il Poligrafo, 2005, pp. 174, € 17,00, ISBN 8871154304.

Recensione di Micaela Latini - 10/03/2007

Filosofia politica (genere)

Parlare di una filosofia femminile o di una filosofia delle donne non è affatto una scelta scontata o pacifica. A partire da questa connessione, infatti, vi sono strade che portano direttamente a un’operazione tesa a ricostruire alcuni snodi teoretici della riflessione filosofica femminile per poi giustapporli al tracciato tradizionale, e ve ne sono altre che, collocandosi sulla soglia, cercano di gettar luce sull’altra metà di un intero che le donne non hanno contribuito a formare.
Sono queste due derive che il volume Donne in filosofia. Percorsi della riflessione femminile contemporanea, curato da Bruna Giacomini e da Saveria Chemotti, vuole scongiurare. Entrambi i percorsi affondano infatti le loro radici in un medesimo terreno, ossia – come Bruna Giacomini spiega nella “Introduzione” - nella convinzione infondata che sia possibile «pensare alla filosofia delle donne come a una delle molte filosofie che affollano la scena contemporanea oppure come all’altra filosofia o alla filosofia dell’altro» (p. 20). Vi è però anche un altro rischio, ossia quello di incappare nella pretesa di produrre, una volta che la riflessione femminile si sia sottratta a una prospettiva subalterna, un nuovo ordine del pensiero, quasi si trattasse di gettar via la scala dopo esservi saliti, per dirla con Wittgenstein.
È questa una posizione teorica ben lontana dallo spirito che anima questo libro. La posta in gioco non è qui quella di rifiutare la tradizione filosofica, ma piuttosto quella di osservarla in controluce, calandosi all’interno delle crepe e dei margini del pensiero, e dipanando un filo che sempre e inevitabilmente resta intrecciato a quello della speculazione classica. Si tratta insomma di mettere in questione e interrogare fino in fondo l’orizzonte sul quale si muove il pensiero tout court, seguendolo nel suo bighellonare, e facendo affiorare una trama nascosta di “somiglianze di famiglia” ad esso sottesa. È infatti il viatico migliore per restituire voce e visibilità a quel fantasma che si aggira tra i sentieri della filosofia. Insomma si tratta di riflettere su quello che le donne hanno pensato, a dispetto e in virtù della loro assenza dalla tradizione filosofica, perché proprio questa presenza assente appare oggi come un nodo difficilmente eludibile della riflessione überhaupt.
Sin qui abbiamo seguito le sollecitazioni di Bruna Giacomini, nella sua introduzione al volume Donne in filosofia. A inaugurare la prima parte del libro “Sentire l’altro, sentire con l’altro” è Wanda Tommasi con il saggio dal titolo “Un amore che stravolge”. Questo è il sentimento che restituisce la cifra delle riflessioni di Weil e di Hillesun: un confrontarsi con i pensatori della tradizione in un abbraccio coraggioso che mette a repentaglio sia la propria singolarità sia l’identità dell’altro. Mutuando un’immagine della Arendt, Wanda Tommasi assimila questo tipo di Philo-sophia a uno strappo alla tradizione che estrae gli autori dagli abissi del mare, come fossero coralli e perle. In nome di questo amore dirompente e a partire dalla differenza femminile si aprono conflitti altri rispetto alla mappa disegnata dalla contemporaneità. Sono quelle contraddizioni che, utilizzando una espressione blochiana, Laura Boella ha definito come propri di una Ungleichzeitigkeit, rimarcandone la valenza eccentrica rispetto al sistema tradizionalmente inteso. La consapevolezza di tale eccedenza, quasi fosse un invisibile che dà senso al visibile, ha spinto molte pensatrici a riflettere su Dio. E qui Wanda Tommasi passa la parola a Calapaj Burlini, che dedica il suo contributo alla scrittura mistica femminile, e soprattutto esplora, calandosi su un terreno complesso e insidioso, gli scritti di alcune mistiche italiane dal Medioevo all’età moderna (dalle più note Caterina da Siena e Teresa d’Avila a Domenica da Paradiso, Camilla Battista Varano, Gemma Galgani, Margherita Da Cortona, Maria Maddalena de’Pazzi, Brigida Morello, Veronica Giuliani). Lo sforzo di Barbara Scapolo invece si rivolge al pensiero di Marìa Zambrano, sottolineando la capacità della sua parola di “produrre senso” per noi. Qui “senso” deve essere inteso anche nella sua accezione di “sentire”, come suggerisce il titolo scelto per il suo saggio: Intorno al “sentire illuminante” di Marìa Zambrano. Il “sentire illuminante” – come sottolinea la Scapolo - non è assimilabile a un concetto, ma piuttosto a un esercizio di ascolto, come una meditazione volta a riconquistare il sentire originario delle cose, la loro risonanza (così Adriana Cavarero).
La seconda sezione del volume (La cittadinanza in questione. Il modello del diritto e l’orizzonte delle relazioni) indaga il versante storico e filosofico-politico della riflessione femminile. Al centro del contributo di Diana Sartori è il rapporto del soggetto-donna con la tradizione del diritto. Prendendo le mosse da alcuni noti passi delle Tre ghinee della Woolf, che sottolineano il senso di spaesamento provato dalle donne nei confronti delle istituzioni di potere e cultura, la Sartori riflette sui meccanismi di riconoscimento e sui loro limiti. Il punto è che, nell’unirsi al corteo dei loro fratelli e compagni, le figlie di uomini colti, non devono perdere di vista la loro grande maestra, che risponde al nome di libertà da fittizi legami di fedeltà. Sono proprio le ricerche portate avanti dalla Sartori che offrono l’incipit all’analisi di Liviana Gazzetta, volta a suggerire spunti per una ricostruzione articolata della storia del primo movimento politico delle donne. È questa infatti una operazione teoretica a suo parere necessaria per ricollocare nella adeguata cornice il dibattito sui temi del diritto e della ricerca in genere. La riflessione di Elena Pulcini, si impernia su tre argomenti-chiave strettamente connessi tra loro: la questione del soggetto moderno, da intendersi come “soggetto contaminato”, il tema del desiderio, e il concetto del potere. Proprio riflettendo su questa costellazione tematica, sulla scia di Spinoza, la Pulcini affronta la figura dell’altro. Se la potenza è quel tipo di potere che contempla da un lato l’aspirazione a realizzare le proprie passioni e dall’altro il rispetto dei desideri dell’altro, allora il limite alla spirale del desiderio è offerto dalla volontà di prendersi cura dell’altro.
La terza e ultima parte – Di ciò che non si può dire si può raccontare – affronta la sfera letteraria e poetica. Il primo contributo, che porta la firma di Saveria Chemotti, si rivolge all’opera di Dacia Maraini. La ricerca della Maraini elegge come suo terreno privilegiato di esplorazione l’ambito dell’immaginario femminile per una ragione ben precisa, la convinzione che «la donna può trarre potere proprio dalla propria emarginazione, se interpretata come spazio indipendente, separato dal sistema simbolico androcentrico» (p. 133). Di qui la volontà di esprimere il non detto, di raccontare l’indicibile, nella consapevolezza che è in gioco una differente visione del mondo. In questo contesto è esemplare la storia di Marìanna Ucrìa nella Lunga vita di Marìanna Ucrìa. La sua mancanza di voce (anzi la sua perdita della voce) è il contrassegno dell’impossibilità d’intervento per modificare la realtà. La questione di una fisionomia del pensiero femminile viene ripresa da Francesca Rigotti, che si domanda come sia possibile misurare il grado di “femminilità” della filosofia, se neanche ci è dato uno strumento “ in grado di etichettare i testi filosofici, distinguendoli ad esempio da alcuni testi letterari che sono pervasi di dimensione filosofica. Non sussiste, allora un percorso di filosofia sensu strictu, piuttosto un “pensiero ballozzolante”, parente stretto di quello che la Zambrano ha chiamato il “pendolo sapiente”. È questa una suggestione metaforica che la Rigotti riprende dalla filosofia di Rosi Braidotti, il cui pendolo, a differenza di quello di Michelstaedter, non pende e non di-pende dal filo che lo regge, ma oscilla come quello del bungee jumper (p. 168).

Indice

Saveria Chemotti, Chiara Finesso Le scritture e le differenze. Perché una nuova collana
Bruna Giacomini, Saveria Chemotti, Presentazione
Bruna Giacomini, Introduzione
SENTIRE L’ALTRO, SENTIRE CON L’ALTRO
Wanda Tommasi, Philo-sophia: un amore che stravolge
Anna Maria Calapaj Burlini, Una presenza assente: appunti sulla scrittura mistica femminile
Barbara Scapolo, Intorno al “sentire illuminante” di Maria Zambiano
LA CITTADINANZA IN QUESTIONE: IL MODELLO DEL DIRITTO E L’ORIZZONTE DELLE RELAZIONI
Diana Sartori, …et dona ferentes. Le dichiarazioni dei diritti del 1789, un doppio dono
Elena Pulcini, Il soggetto contaminato. Le passioni per l’altro, fondamento della cura
Liviana Gazzetta, Della propensione etica nel femminismo. Spunti della storia del primo movimento politico delle donne
DI CIÒ DI CUI NON SI PUÒ DIRE, SI PUÒ RACCONTARE
Saveria Chemotti, Marianna Ucria: parole senza voce
Francesca Rigotti: Storia e metafora
Note sulle autrici
Indice dei nomi


L'autore

Saveria Chemotti insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Il “Limes” e la casa degli specchi, La nuova narrativa veneta (Padova, 1999), e La terra in tasca. Esperienze di scritture nel Veneto contemporaneo (Padova, 2003).

Bruna Giacomini insegna Storia della filosofia presso l’Università di Padova. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Pensare l’azione. Aspetti della riflessione contemporanea (Padova, 2000), Il problema della responsabilità (Padova, 2004), In cambio di nulla. Figure del dono (Padova 2006).

domenica 4 marzo 2007

Tundo Ferente, Laura, Moralità e storia. La costruzione della coscienza etica moderna.

Milano, Mondadori, 2005, pp. 265, € 23,00, ISBN 8842498653.

Recensione di Carla Maria Fabiani – 4/3/2007

Etica

Il testo di Laura Tundo Ferente che qui presentiamo si muove su due distinte e al contempo connesse dimensioni teoriche: quella propriamente filosofica, che rimanda all’esercizio della riflessione critica, che scava in profondità, tesa a far emergere i processi di formazione della coscienza etica moderna, e quella storica, che ricostruisce e prefigura scenari, che mantiene alto lo sguardo sull’orizzonte di una modernità solo apparentemente in declino. Ci si potrebbe chiedere perché attribuire così grande rilevanza alla coscienza; e perché declinarla nel suo aspetto etico; e poi perchè, soprattutto, moderno. L’intento è quello di rispondere innanzitutto ai “maestri del sospetto”. Marx, Nietzsche e Freud, presi insieme, delegittimano ogni pretesa filosofica di rintracciare nella modernità, una forma etica di coscienza, valida universalmente e stabile ontologicamente; ovvero una ragione autocosciente, conscia dei propri limiti e perciò capace di uscire da condizioni di minorità interna ed esterna (Kant e Hegel presi insieme). Contemporaneamente, sul piano della storia, l’autonomia di un soggetto che fa la propria storia (per es., le Carte dei popoli), viene duramente inficiata da dinamiche economicistiche non propriamente riconducibili a forme di autoconsapevolezza, autocontrollo, autonomia, libertà. Il nodo storico-filosofico intorno a cui ruota la riflessione di Laura Tundo è perciò costituito dalla crisi etica del soggetto moderno. L’Autrice propone una rilettura di tale crisi facendo però perno sulla valenza morale che, volenti o nolenti, contraddistingue il nostro agire. L’inconsistenza di un soggetto filosofico ridotto moralmente ai minimi termini non chiude certo la storia. Se con il sistema idealistico di stampo hegeliano la storia sembrava virtualmente interrotta verso l’alto dalla mente assoluta e autotrasparente del filosofo-soggetto ora, con una certa postmodernità, si lascerebbe intendere che la storia si chiuda verso il basso, esaurendosi via via la forma del soggettivo, cioè l’autocoscienza libera, individuata e universale al contempo.
E invece, suggerisce l’Autrice, eventualmente ciò che si esaurisce – verso l’alto o verso il basso – è la capacità del filosofo di fare storia o, il che è lo stesso, di interpretare criticamente la storia.
È innanzitutto una questione di metodo ciò che questo testo invita a prendere sul serio: l’esercizio filosofico puro non regge, non basta a se stesso, non può autonomizzarsi dal contesto, non vale se è autoreferenziale. Deve calarsi nella storia, prefigurando possibili svolte, cambi di paradigma, o anche solo rileggendo il passato, riconoscendo i limiti culturali entro cui la specificità del pensiero filosofico si muove. Il contesto in cui la filosofia opera non va espunto, pena la produzione di filosofie assai ingenue. Le ragioni di questa forte presa di posizione metodologica sono, a nostro avviso, da rintracciare nel contenuto stesso del testo: la costruzione della coscienza etica moderna costituisce un punto di non ritorno, con il quale la stessa ricerca filosofica deve misurarsi, in positivo o in negativo che sia. Leggiamo allora, senza pretese di completezza, solo alcuni passi del testo.
La modernità, la cultura e la storia moderna, hanno un incipit ben preciso che muove proprio dalla messa in risalto di aspetti umani tendenzialmente universali perché operanti e significativi innanzitutto sul piano della prassi: la dignità dell’uomo di un Pico della Mirandola (1484) è il segno di uno stacco epocale dalle riflessioni medioevali che restituisce in termini filosofici un’antropologia fondata sulla capacità umana di agire-progettare liberamente il proprio destino. L’accento cade sulla dimensione attiva, pratico-morale attribuita all’essere umano. Sul fronte teoretico, la filosofia dell’Umanesimo, con un Nicola da Cusa, pone le basi concettuali per quello che, in tutto il corso della modernità, sarà il metodo d’indagine conoscitiva attribuita specificamente all’uomo: conoscenza certo finita e limitata, perché distinta dalla conoscenza infinita propria del Dio trascendente, e però tendenzialmente infinita nel senso di inarrestabile: “Il nuovo asse intorno a cui ruota la discussione è ora l’uomo, le sue capacità-abilità, la sua operosità-fabbrilità, che comporta, per un verso, valorizzazione di sé e presa di coscienza delle proprie possibilità, e per altro verso esige libertà di movimento, scelta autonoma.” (p. 23).
La filosofia in età moderna, sembra suggerirci l’Autrice, nasce calata in contesti morali, pratici e perciò produttivi di forme etiche di coscienza. La coscienza non scende dall’alto, ma sorge dal basso, mischiata all’accidentalità, anche alla bruta empiria, al corpo, alla materia informe, alla natura, alle dinamiche socio-economiche; e tuttavia compito della riflessione filosofica dell’Umanesimo-Rinascimento sembra essere quello di rintracciare un comune denominatore universalmente valido, sebbene ambiguo e ambivalente, quale quello di uomo: “La duplice valenza, ovvero l’ambivalenza intrinseca dell’Umanesimo, si mostra dunque abbastanza chiaramente: da una parte l’illuminarsi di un principio universale, [...] dall’altra l’alienazione di quello stesso principio d’uomo in quello di individuo economicamente dotato, dotato cioè di virtù (fabbrilità) e di fortuna (ricchezza) [...].” (p. 29). L’avvento della borghesia sulla scena della storia occidentale – a far tempo dal Comune fino al governo del principe – crea le condizioni di possibilità per una dialettica filosofica (la coscienza etica moderna in corso di formazione) che acquisisce e pone principi etici in teoria universali, ma in pratica validi solo per alcuni.
Altro snodo centrale della modernità è costituito dal dibattito tra Sei e Settecento sul diritto naturale (pp. 48 e ss.): “La riflessione dei teorici inglesi, tedeschi e francesi del diritto naturale – Grozio, Althusius, Hobbes, Pufendorf, Thomasius, Locke – si lega strettamente agli stessi principi che abbiamo visto rivendicati con una rivoluzione.” (p. 51). La nascita di un principio etico-giuridico quale quello di diritto naturale soggettivo, è il segno di un capovolgimento di paradigma antropologico che vede l’uomo come soggetto razionale di per sé libero ed autonomo in campo innanzitutto pratico-morale. È questa libertà-razionalità attribuita per natura all’uomo – e poi a tutti gli uomini eguali per natura – che lo rende capace di prendere su di sé il peso della fondazione di Stati. E tuttavia, proprio sul piano della politica – dei rapporti di potere e di proprietà – sorge un conflitto spesso irredimibile fra il principio etico della libertà e quello dell’eguaglianza. Max Weber vede con chiarezza, secondo l’Autrice, la crisi del diritto naturale sia come crisi di legittimità dei principi che reggono l’ordinamento giuridico nel suo complesso, sia come crisi politica del diritto, derivante dallo “stabilirsi di una stretta relazione fra forma del potere, anche autoritario, [...] e forma del diritto.” (p. 67). La storia delle moderne rivoluzioni occidentali, compresa quella russa, racconta le alterne vicende del principio etico dell’eguaglianza. E qui Rousseau e Marx, insieme al socialismo utopico sono i protagonisti indiscussi.
Laura Tundo cita significamene una prolusione tenuta da Isaiah Berlin (Due concetti di libertà, Oxford 1958, trad. it. Feltrinelli, Milano 2000) nella quale viene messo in luce il fallimento del progetto sovietico, e la conseguente necessità di riportare in auge il concetto di libertà. Esso è legato indissolubilmente al soggetto: “Qual è l’origine dell’operatività del soggetto, ovvero: il soggetto ha al suo interno la sorgente del principio del proprio agire, oppure all’esterno?” (p. 125). In età contemporanea una delle risposte più note a questa domanda dirimente proviene dai teorici dell’etica pubblica: primo fra tutti da Jürgen Habermas, secondo il quale è con l’intersoggettività dell’agire comunicativo che si universalizza l’azione morale, in un contesto in cui ciò che emerge, anche in forma conflittuale, è il problema della convivenza fra visioni e posizioni morali, culturali, religiose assai diverse fra loro. E tuttavia ciò che si obietta al soggetto habermasiano è questa sua eccessiva inclinazione alla giuridificazione, il cui rischio è quello di restituire di sé la debole immagine – al dunque impraticabile sul piano politico – di “rapporti civili fra soggetti di diritto privato”(p. 142). Ma veniamo a noi, cioè a i nostri giorni: “Alla crisi dello Stato sovrano nazionale si affianca un forte interesse per la comunità, che è contestuale ma confliggente con la maturazione politico-pragmatica di una struttura dotata di autorità sopranazionale, come l’Unione europea, che coltiva l’ambizione di giungere a integrare i precedenti principi di sovranità, cittadinanza, democrazia a un livello post o sovranazionale. [...] E confligge, infine, con l’avanzare, [...] dell’idea di una progressiva unificazione dell’umanità, l’idea cosmopolitica, ben chiaramente distinta, tuttavia, dall’autocandidatura dell’unica superpotenza a potenza-guida, egemone sul piano planetario.” (p. 162) E ancor più distinta da un processo universalizzante-omologante delle differenze individuali, culturali. In questo ambito teorico e pratico si recupera sia un certo Hegel (con Taylor) sia un certo Aristotele (con Sen), entrambi però calati nelle vicende economico-politiche attuali, cioè nella cosiddetta globalizzazione o mondializzazione dell’economia capitalistica. Ciò che risulta inaccettabile è tuttavia l’imposizione violenta da parte dell’Occidente di processi universalizzanti a scapito di culture non-occidentali. La costruzione di una coscienza etica – quella moderna di cui abbiamo fino ad ora seguito il non facile cammino storico e storico-filosofico – sembra clamorosamente franare, venir meno su questo crudo dato di realtà: la guerra.
Eppure, secondo Laura Tundo, possiamo rintracciare forme ontologicamente stabili di coscienza etica, riconducibili al moderno, laddove individuiamo concettualmente pratiche di solidarietà. La fraternità-solidarietà è declinata qui in stretta analogia con il tema antropologico e teoreticissimo dell’origine: “In questo sta probabilmente la forma più pervasiva del co-essere, del Mit-sein, come carattere essenziale della stessa esistenza umana, di cui il pensiero occidentale, a partire almeno dalla sinistra hegeliana, ha riconosciuto l’importanza.” (p. 217). È qui che il testo si inoltra nella verticalità dell’umano (processi di identificazione di sé con sé), coniugandola felicemente con quella orizzontalità (co-essere) che strutturalmente, insieme alla prima, contraddistingue la natura dell’uomo. Da qui emergono categorie morali quali il dono o il riconoscimento, ancora in corso di formazione. Sembrerebbe allora che il moderno abbia raggiunto, sebbene tortuosamente, un esito buonista, ottimistico, aperto al futuro, a scenari storici e filosofici tendenzialmente non conflittuali ed eticamente consci. E tuttavia, proprio a conclusione del testo, l’Autrice riapre assai problematicamente il percorso etico della coscienza moderna. In effetti, col principio di responsabilità (Weber, Jonas e soprattutto Lévinas) ci si fa avanti un soggetto che, per dirla in breve, è responsabilmente asimmetrico, privo di reciprocità nel suo approssimarsi gratuitamente all’Altro. Quello che emerge è una forma paradossale di soggettività, che non parte da se stessa, ma sempre e solo dall’altro. Con tutte le dovute distinzioni del caso, saremmo tentati di recuperare il noto motto hegeliano: “Das Wahre ist das Ganze” (Fenomenologia dello spirito, [1807], trad. it. a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2000, p. 68). Qui Hegel è ancora una volta con Aristotele nel ritenere che la relazione viene prima dei termini.

Indice

Premessa
Agli albori della modernità. L’idea di dignità dell’uomo
Libertà autonomia autogoverno
Il tormentato percorso del principio di eguaglianza
Intermezzo: prime affermazioni storico-politiche
La declinazione contemporanea dei principi di libertà-giustizia-equità
Universalismo: valore e limite
La solidarietà
La responsabilità
Indice dei nomi


L'autrice

Laura Tundo Ferente insegna Storia della filosofia morale e Bioetica nella facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Lecce. Fra le sue pubblicazioni: L’utopia di Fourier (Dedalo Bari 1991) e Kant. Utopia e senso della storia (Dedalo Bari 1998). Ha curato le edizioni italiane di Mercier, L’anno 2440 (Dedalo Bari 1993); Kant, Per la pace perpetua (BUR Milano 2003) e il volume Etica e società di giustizia (Dedalo Bari 2001)

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