giovedì 30 aprile 2009

Saba, Wilson , Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna,

Macerata, Quodlibet, 2008, pp. 132 ISBN 978-88-7462-233-7

Recensione di Giuseppe Pulina

È notevole il numero di quanti considerano il teatro delle crudeltà di Antonin Artaud l’espressione da palcoscenico più vicina alla vita. Questa considerazione viene data in un certo senso come acquisita da Wilson Saba, giovane e acuto studioso dell’opera artaudiana, di cui si è proposto di approfondire la conoscenza di uno dei versanti meno noti. Saba, che più di un lettore ricorderà come l’autore di un’opera prima (Sole baleno) selezionata tra i romanzi finalisti del premio Strega 2007, dichiara e mantiene fermo per tutte le pagine del suo saggio il proposito di condurre un “viaggio nell’esoterismo artaudiano” (p. 97). Le questioni che questo itinerario apre e solleva hanno una chiara matrice filosofica, entrando senza remore nel tema artaudiano per eccellenza: quello del rapporto tra vita e teatro. Tema che chiama in causa non la relazione tra il mondo e la sua rappresentazione, ma tra l’uomo e l’attore, e che esige una risoluzione estrema e audace. In Théâtre et la peste (1934), lo stesso Artaud scrisse: «Il problema che ora si pone è di sapere se nel nostro mondo che decade, che si avvia senza accorgersene al suicidio, sarà possibile trovare un gruppo di uomini capaci di imporre questo concetto superiore del teatro, che restituirà a tutti noi l’equivalente magico e naturale dei dogmi in cui abbiamo cessato di credere» (p. 39).
Attraverso il teatro artaudiano si entra in una concezione del mondo ricca di valenze filosofiche. Ne sono in un certo senso garanzia le tanti fonti di natura filosofica che hanno alimentato l’opera di Antonin Artaud e che l’autore del saggio attentamente sonda e richiama. Il proposito dichiarato è quello di ricostruire la trama e le diramazioni di un progetto, che dire solo culturale non si può, del quale Artaud fu teorico e interprete principale. Annota, infatti, Wilson Saba come in tutta la produzione artaudiana ci sia «un disegno nascosto (che potremmo definire “nervoso”, fisiologico), teso a raccogliere e a riaccorpare tutto: esso è presente in quello scontro tra la Siria e la Roma di Eliogabalo che si ripete nel contrasto tra l’Oriente e l’Occidente contemporanei; ma non solo» (pp. 98-99). Basterebbe, in effetti, riprendere in mano (cosa che Saba necessariamente e diligentemente fa) Eliogabalo o l’anarchico incoronato per cogliere l’attualità dell’opera di Artaud, che sviluppa con originalità il tema del conflitto tra la civiltà occidentale e il mondo orientale, per poi chiedersi quali altri mondi non pienamente compatibili con il nostro debbano rientrare sotto la categoria di “mondo orientale”, la quale, come si sa, aveva per Hegel un valore funzionale al riconoscimento del primato dell’occidentalità.
Letto ed esaminato da una grande schiera di filosofi (tra i tanti, Blanchot, Derrida, Deleuze e Foucault, Todorov), Artaud è la cifra di un percorso speculativo che dall’astrazione della teoria si è trasferito nella concretezza di un piano esistenziale realmente vissuto. L’opera d’arte è per Artaud (e in ciò non vi si può leggere alcuna concessione ad una visione dell’esistenza puramente estetizzante) la stessa vita. E la vita si fa spazio speculativo, vissuto sperimentabile. «Tutta la sua opera è un’opera filosofica sul pensiero, sul senso del pensiero; e la sua è un’analisi combattuta perché, non potendo fare a meno di pensare (come essere vivente), si accorge che il pensiero è un cancro che chiude le cose e le costringe in passaggi morti (i linguaggi); che il pensiero separa (dal corpo) e sabota l’azione» (p. 99).
Giustamente Saba mette in guardia il lettore dalle insidie che la lettura e l’interpretazione dell’opera artaudiana implicano. E questo è il versante che l’autore del saggio ha scelto di privilegiare, fornendo così un contributo importante alla scoperta di un Artaud poco conosciuto, spesso ridotto a formule che sanno di clichè manualistico. «L’esoterismo artaudiano – avverte, infatti, il nostro autore – è paradossalmente un “essoterismo dell’esoterismo”, una ricerca di diffusione del sacro e dell’energia che trova nel mezzo teatrale – un mezzo di contatto “particolare”, che coinvolge globalmente (carnalmente, intellettualmente e spiritualmente) lo spettatore – il tramite ideale e concreto per raggiungere l’umanità tutta con l’efficacia simbolica» (p. 38). È il proposito guida dei grandi neofiti che hanno un piano di riscatto e s’ingegnano per farlo avanzare, cercando con cura di preservarne la purezza. È, se si vuole, la costante che attraversa e connota tutte le teorie puramente rivoluzionarie.

Indice

Considerazioni introduttive (di Paolo Terni)
Introduzione
Prima parte – Oriente e Occidente. Cultura moderna e tradizione
1. La segretezza: virtù esoterica, problema letterario, problema letterario 2. L’incomunicabilità: Artaud nemico della chiusura 3. Temi e spunti sul linguaggio di una cultura “scissa”: la parola ad Artaud 4. Il linguaggio di Artaud: lo scarto letterario 5. Focalizzazione: il punto di vista della scienza 6. Scrittura e oralità, società autentiche e società in autentiche 7. L’infanzia del linguaggio e il linguaggio dell’infanzia 8. Il lato oscuro dei doppi e la poesia 9. Teatro e tempio
Seconda parte – Lo spirito malato. La droga. Le incarnazioni
1. Lo spirito 2. L’incarnazione 3. Direttive di analisi 4. Il viaggio in Messico (La Ferita, i Tarahumara, la droga) 5. Eliogabalo: pratica di un’astrazione 6. Metafisica, essoterismo e utopia in Eliogabalo: affinità con le scienze massoniche, alchemiche e l’arte dell’attore
Conclusioni. Parabole ed elementi di sviluppo
1. Microcosmo e macrocosmo 2. La ferita
Appendice
Ringraziamenti
Bibliografia


L'autore

Nato in Sardegna, Wilson Saba si è laureato alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna. Vive, da anni, a Roma. Ha lavorato per il cinema e si è fatto conoscere per alcuni romanzi di successo (Sole € baleno, romanzo d’esordio selezionato per il Premio Strega, e Giorni migliori). Quello su Antonin Artaud è il suo primo saggio critico.

martedì 28 aprile 2009

Paganini, Gianni, Introduzione alle filosofie clandestine.

Bari, Editori Laterza, 2008, pp. 181, Euro 12,00, ISBN 978-88-420-8754-0

Recensione di Gennaro De Falco – 28/04/2009

Storia della filosofia

Questo intenso lavoro di Gianni Paganini illustra un genere di comunicazione filosofica molto particolare che a molti potrebbe risultare sconosciuto: il manoscritto clandestino.
La fioritura di tale genere risale all’età moderna e prosegue sino agli anni trenta del Settecento: sono illustrate nel testo, che richiede certamente una conoscenza ancorché non approfondita dei filosofi più importanti di quel periodo, alcune delle opere caratterizzanti questo singolare approccio alla filosofia.
L’esigenza di una filosofia clandestina nasce dai timori di persecuzione legati ad un’epoca in cui non era consentita la libertà d’espressione, tant’è che alcuni studiosi esprimono la convinzione che vi sia la necessità di “leggere tra le righe” (p. 3) anche alcune opere fondamentali del pensiero moderno in quanto esse nasconderebbero “un insegnamento esoterico sotto il velo di una forma essoterica” (p. 3).
L’anominato del genere clandestino permette all’autore di esprimere, senza alcun artifizio, le sue posizioni proteggendolo nel contempo da eventuali ostilità da parte della Chiesa o della nobiltà.
L’opera clandestina presenta uno stile di composizione articolato in collage che alterna alle considerazioni dell’autore opportune citazioni di testi antichi, atti a suffragare le tesi esposte, talvolta con il rischio di manipolare la stessa fonte citata.
Uno dei temi ricorrenti in questi manoscritti è quello della religione: è così, ad esempio, per il Theophrastus redivivus (pp. 8-25) nel quale, tra l’altro, viene esaminata l’origine delle opinioni teologiche. È la ragione umana ad averle escogitate dando ad esse una specificazione politica, così ponendo a freno la libertà di comportamento di ogni individuo insita nello stato di natura.
La religione pertanto è strumento di potere e di governo dei più forti, i sacerdoti contribuendo a tale inganno. In questa situazione, che per l’autore del Theophrastus risulta irreversibile, il filosofo non può far altro che fingere di credere a tale inganno, coltivando in segreto la perfezione coincidente con “il ritrovamento della norma naturale” (p.15).
Già emerge nel manoscritto citato l’esigenza di contrapporre ai dogmi dei culti la religione naturale: nel Colloquium Heptaplomeres (pp. 25-39), attribuito al giureconsulto Jean Bodin, il fine perseguito è proprio quello di dimostrare l’ideale inclusivo della religione naturale contrapposto all’esclusività degli altri culti. Tale compito, nella finzione della narrazione filosofica, è affidata a sette personaggi le cui posizioni si confutano a vicenda.
Benché i dialoghi portino alla deduzione che i culti siano finzioni intolleranti a tutto ciò che è diverso, il fine ultimo dell’opera, certamente più pragmatico, è quello di dimostrare l’utilità di “una coesistenza pacifica tra religioni che conservino ciascuna per sé i propri contenuti, mantenendosi contigue ma separate” (p. 31).
Paganini prosegue il suo contributo ponendo l’attenzione sul mutamento nelle prospettive filosofiche della letteratura clandestina nella metà del Seicento, quando cominciarono a circolare le dottrine cartesiane e post-cartesiane.
Tra i manoscritti che risentono di tali influssi è analizzato il Doutes sur la religion proposés a Mrs les docteurs en Sorbonne nel quale ritorna ad essere trattato il rapporto tra uomo e religione. Se da un lato si tende ad evidenziare come la predicazione di coloro che sono definiti “legislatori religiosi” – quali Gesù e Maometto – non può da sola essere sufficiente a dimostrare la verità della religione, dall’altro emerge la convinzione dell’esistenza di un mondo eterno dove però non vi è l’intervento di alcun dio.
Ancora, vi è un’altra opera, dal titolo La Religion du Chrétien conduit par la Raison Eternelle, che tende a descrivere un sistema di religione naturale totalmente disgiunto da ogni culto: in essa è interessante il fine di dimostrare che “virtù e vizio sono rispettivamente ricompensa e punizione a se stessi, già in questa vita” (p. 63), con ciò volendo confutare le religioni fondate sulla punizione divina che condanna l’uomo vizioso nel momento del trapasso dalla vita alla morte.
Tra gli autori che influenzano questa nuova fase della letteratura clandestina sono da annoverare Hobbes e Spinoza: le loro tesi, incompatibili con la dottrina cristiana, sono talvolta riutilizzate in modo originale come nel caso dell’Esprit de Monsieur Benoît de Spinosa dove si afferma l’impossibilità che i precetti cristiani siano praticati da persone comuni (p. 83), ad eccezione di coloro che furono i primi discepoli di Gesù del quale, inoltre, viene messo in evidenza il minor successo rispetto ad altri profeti come Maometto.
Della lezione di Spinoza risente anche un’altra opera che si colloca oltre gli inizi del Settecento: nel Symbolum, infatti, si tenta di definire il bene ed il male senza cadere nella trappola della religione, tant’è che anche le parole di Cristo sono equiparate ad un “semplice messaggio etico” (p. 90).
Un altro filosofo, Malebranche, sempre agli inizi del Settecento, influenza la letteratura clandestina: le sue teorie, come capitato a Cartesio e Spinoza, sono rielaborate in un potente razionalismo anticristiano (p. 112).
Su questa scia, lo sviluppo della letteratura clandestina arriva sino alla negazione dell’esistenza di Dio: è ciò che avviene in un’opera datata tra il 1720 e il 1730 dal titolo Lettre de Thrasybule à Leucippe. L’analisi della Lettre si focalizza sull’uomo e sul rapporto che esso ha con la conoscenza: infatti, quando questi si perde “nello spazio delle finzioni immaginarie” (p. 135) rischia di distaccarsi dall’esperienza reale, la quale non consente di giungere ad una causa disgiunta dai suoi effetti. Per questo motivo è impossibile che esista una causa universale, la quale risulta il solo frutto dell’immaginazione dell’uomo e della sua esigenza di porre un termine ad un’analisi che, diversamente, non avrebbe mai fine.
Pertanto, l’unica chiave di lettura da applicare alla causalità è offerta, secondo l’autore della Lettre, dalla teoria empiristica delle idee, secondo la quale “ogni causa si presenta volta a volta come la causa di un effetto o come l’effetto di un’altra causa” (p. 137), senza che debba arrestarsi questa sequenza, potenzialmente infinita.
Sempre sulla scia della negazione di un essere supremo si colloca anche il Mémoire attribuito a Jean Meslier, curato di un piccolo paese, per il quale, essendo tutte le cose non “altro che diverse modificazioni dell’essere” (p. 143), non può esistere un creatore.
Il Mémoire si colora anche di connotati politici in quanto condanna i privilegi della nobiltà e del clero che vivono a danno di intere popolazioni lasciate nella miseria e nell’ignoranza, tant’è che la proprietà privata è attaccata come un abuso che dovrebbe lasciar spazio ad una sorta di comunismo in cui i componenti di un gruppo - sia esso villaggio, parocchia o città - possano godere dei beni allo stesso modo.
Le ultime pagine del testo (pp. 149-167) pongono l’attenzione sul valore e sull’importanza della letteratura clandestina che, per alcuni critici, va ben oltre il Settecento.
Di certo le radici della filosofia clandestina possono essere individuate prima ancora del Seicento, nella cultura rinascimentale ed umanista nella quale già erano presenti i sintomi dell’incredulità nei confronti di determinati sistemi precostituiti.
Il grande tributo da riconoscere agli autori delle opere clandestine – molti dei quali sono stati individuati, grazie ad attenti studi, molti decenni dopo la realizzazione e la messa in circolo delle loro opere – è la capacità di proporre, e finanche rielaborare, dottrine filosofiche pervase da una originalità critica tendente a distruggere credenze radicate nei secoli e di cui, difficilmente, sarebbe stato possibile offrire un’altra chiave di lettura.

Indice

Premessa
I. Le origini della filosofia clandestina
1. Scrittura e persecuzione
2. Il Theophrastus redivivus e il paradigma della saggezza clandestina
3. La denuncia degli apologisti
4. Il deismo clandestino
5. La letteratura libertina fra autocensura e clandestinità
II Tra Seicento e Settecento
Libertinismo, naturalismo e deismo: legge di natura, stato di natura e religione naturale
Religione naturale e spinozimo clandestino
Spinozismo e libertinismo: L’Esprit de Spinosa
III Scettici clandestini
Tra Pirrone e Spinoza: i modi della scepsi clandestina
Tra Pascal e Bayle: L’Art de ne rien croire
IV Essere deista o ateo all’inizio dei Lumi
Il deismo dopo Malebranche: Robert Challe
La teologia eretica del Traité de l’infini crèè
Du Marsais e l’Examen de la religion
La critica della causa universale: Nicolas Fréret
La metafisica atea dell’essere in generale: Jean Meslier
V L’eredità della stagione clandestina
1. Letteratura clandestina e Radical Enlightenment
2. I Philosophes e i clandestini
3. Ateismo critico e atesimo dogmatico
Bibliografia
Indice dei manoscritti


L'autore

Gianni Paganini è Professore Ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università del Piemonte Orientale. Il suo principale ambito di ricerca è la storia della filosofia moderna. In particolare, si è interessato della filosofia di Pierre Bayle, a cui ha dedicato un libro (Analisi della fede e critica della ragione nella filosofia di Pierre Bayle, Firenze 1980), della cultura filosofica libertina e clandestina tra Seicento e Settecento (si vedano l’edizione prima e critica del manoscritto clandestino Theophrastus redivivus, Firenze 1981-82 e il volume La philosophie clandestine à l’âge classique, Paris 2005). Altre opere: Scepsi moderna. Interpretazioni dello scetticismo da Charron a Hume, Cosenza 1991, pp. 528; Introduzione alle filosofie clandestine, Roma-Bari 2008, pp. 182; Skepsis. Le débat des modernes sur le scepticisme, Paris 2008, pp. 448.

Jedlowski, Paolo, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa, Merlini, Fabio, L'efficienza insignificante. Saggio sul disorientamento,

Jedlowski, Paolo, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa, 
Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 124, ISBN 978-88-339-1961-4.

Merlini, Fabio, L'efficienza insignificante. Saggio sul disorientamento, 
Bari, Dedalo, 2009, pp. 155, ISBN 978-88-220-5377-0

Recensione di: Francesca Rigotti 28-04-2009

sociologia della narrazione, spaesamento, memoria, vissuto, esperienza, tempo, globalizzazione, informazione, disorientamento.

Unifico in un'unica recensione due testi diversi e simili: di impostazione sociologica il primo, Il racconto come dimora, di Paolo Jedlowski; filosofica il secondo, L'efficienza insignificante, di Fabio Merlini. Centrato sulla perdita di senso e sullo smarrimento il secondo; sullo spaesamento ma poi anche sulla narrazione come recupero di senso, il primo, se proprio vogliamo andare a caccia di differenze. Eppure è come se fossero stati scritti uno per l'altro, uno dietro l'altro, uno di fianco all'altro; è come se la fune che li tiene insieme, non saldamente però, ma in maniera molle, slabbrata, fosse per entrambi un certo richiamo ai francofortesi, soprattutto a Walter Benjamin e soprattutto al Benjamin non citato dell'infanzia berlinese, dove il movimento di estraneità emerge nella certezza della presenza. Certo, di Benjamin ci sono anche gli scritti Sul concetto di storia e su Parigi capitale, poi ci sono i Minima moralia di Adorno, c'è Simmel e ci sono gli altri, ma è il Benjamin delle mele al forno e del cestino da lavoro che aleggia sulle pagine che leggiamo.
Nel decostruire e ricostruire il loro programma, gli autori si distribuiscono le parti del tutto inconsapevolmente. La pars destruens al più giovane, come è giusto che sia; a Fabio Merlini dunque, svizzero ticinese, filosofo della storia; la pars construens a chi gode di maggior esperienza, a Paolo Jedlowski dunque, sociologo della vita quotidiana e della narrazione, che con l'Università della Svizzera italiana a Lugano porta avanti una significativa collaborazione.
Merlini sottolinea la condizione esistenziale di orfani che affligge noi abitanti del mondo della tecnica e della scienza, delle macchine, degli automi. Orfani o quantunque persone che vivono una vita, se non offesa, sicuramente disorientata, in cui i modelli ereditati dalla tradizione confliggono con le nuove configurazioni identitarie –a rischio, liquide, flessibili, nella terminologia dei nuovi santoni del pensiero – con le nuove pratiche lavorative, le nuove forme di consumo, le nuove – attenzione – narrazioni di sé. Orfani e disorientati viviamo l'emergere e l'imporsi di nuove modalità che danno corso al mondo e allo stesso tempo da questo mondo percepiamo l'estraneità. Da cui il titolo del saggio, L'efficienza insignificante, che definisce «il paradosso di una situazione dove la performanza dei mezzi induce comportamenti...che non comunicano al soggetto alcuna prospettiva destinale» (p. 11). Se la società di ieri poteva ancora articolare narrativamente – ancora questo termine – progetti di vita e modalità relazionali, oggi questo non sembra più possibile. Le cifre della nostra epoca, assevera Merlini, sono quelle della contingenza, del decentramento e della provvisorietà, che ci impediscono il riconoscimento di una ragion d'essere duratura delle cose nonché la coesione del vissuto in un racconto, a causa del carattere incompiuto e disperso di quello.
Con la sua pars destruens Merlini ci lascia insomma sulle macerie di vissuti incapaci di farsi ricapitolare e poi svolgere in una narrazione lineare e cumulativa, spiegandoci insieme che oggi l'idea di racconto è divenuta estremamente problematica, dal momento che la capacità delle società moderne di raccontare le proprie storie è stata largamente erosa dal tempo dell'istantaneità che ha sostituito il tempo della successione, proiettandoci sulla rete che comprime il tempo in un eterno presente.
Su una scena di spaesamenti, se non proprio di disorientamento, ci conduce anche Jedlowski, con la sua prosa ricca e accattivante quanto quella di Merlini è asciutta e dal gusto un po' amaro. Una scena dove si svolge il suo esercizio di filosofia della narrativa che parla di noi, del nostro mondo di persone che a vario titolo conoscono l'esperienza dello spaesamento: migranti, emigranti e immigranti, rifugiati, esuli, espatriati, nomadi, pendolari fra città e mondi diversi. E lo fa ispirandosi a un film tedesco, Heimat, serie di undici episodi che racconta la storia di una famiglia in Germania tra il 1919 e il 1982, pur senza fare di questo film, e dei molti altri citati, il protagonista indiscusso della vicenda. Protagonista ne è piuttosto un soggetto molto più astratto ovvero il rapporto tra esperienza e narrazione, così centrale alla teoria di Benjamin, il cui pensiero emerge qui a tutto tondo. Jedlowski non si limita a registrare frammentazione, disorientamento o estraneità del nostro vissuto, bensì presenta la possibilità di riconsiderare l'esperienza attraverso il racconto, ed è per questo che quella di Jedlowski rappresenta la pars construens della coppia da me formata mettendo insieme i due libri. La modernità è caratterizzata da mutamento incessante, ci ripete Jedlowski aggiungendo la sua voce al coretto che già ben conosciamo: il soggetto moderno è nomade e spaesato, le sue identità sono fluide e incerte. E allora?
E allora, siamo sicuri che si tratti di una condizione avvertita soltanto dall'uomo globalizzato? Come spiegare allora quel sentimento di incessante mutamento e di perenne trasformazione delle cose che avvertiva, a me sembra ben più profondamente di noi, il mondo antico, e che sta alla base di una mentalità espressa in tante opere dell'antichità? Si pensi a uno dei libri più letti e citati della letteratura occidentale, le Metamorfosi di Ovidio: che cos'è quell'esercizio di narrazione in versi che racconta ogni trasformazione – tra l'altro in modo ossessivo e senza soluzione di continuità, come se interrompere la storia fosse un atto gravissimo che impedirebbe l'attacco consecutivo – se non il tentativo estremo di controllare e contenere le trasformazioni e i cambiamenti dando loro senso, senso inteso spazialmente in quanto direzione, senso di marcia? Si pensi all'idea del moto non come mero cambiamento di posizione bensì come trasformazione in generale, come metamorfosi vera e propria, sottesa alla fisica aristotelica ispiratrice di Ovidio. Che ci sia forse, oggi, da parte nostra, un ritorno, una riscoperta, un riconoscimento della condizione che la fisica moderna ci aveva fatto dimenticare con l'espulsione da essa compiuta della dimensione del mutamento dal movimento dei corpi? Un punto è un punto in qualunque posizione dello spazio e del tempo esso si trovi, ma le persone non sono punti, né lo sono le piante e gli animali. Le persone si trasformano muovendosi nel tempo e nello spazio, si spaesano, si disorientano, si spaurano, come ci spiegano Merlini e Jedlowski. E allora la narrazione esorcizza in qualche modo, o almeno si prova a farlo, dalla trasformazione e dal mutamento incessanti, dalla polverizzazione sconnessa, dalla frantumazione scoordinata, in un processo in cui modernità e antichità si ritrovano e si abbracciano per trovare conforto.

Indice

Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d'Europa

Prefazione
Il racconto come dimora
Spaesamenti
La narrazione è un'interazione
Comunità narrative
Heimat: un'esperienza mediata
Una storia del quotidiano
Sfera pubblica, esperienza e comunità narrative
Il cinema e l'Olocausto
Memorie d'Europa
Intrecci
Inesperienza?
Il paese natale
La narrativa come dimora
Altrove, verso casa
Note
Elenco dei film citati
L'efficienza insignificante. Saggio sul disorientamento
Introduzione

Estranei a se stessi
Capitolo primo
Avere, non avere tempo.
Una lettura della cultura della comunicazione
e dell'informazione
Tempi della cultura
Post-moderno disincantato
Nietzsche capovolto
La vita offesa
Identità
Per una cultura
Capitolo secondo
Smemorata
Motivi di un
Discontinuità e smemoratezza
Cura temporale di sé e
Per una storia
La storia
Crisi della memoria
Capitolo terzo
Dell'utopia
Spazio e tempo
Utopia versus storia, utopia come storia
Critica e accelerazione della storia
Il tempo come spazio dell'utopia
Capitolo quarto
Il divenire spaziale del tempo.
Imposture dell'innovazione
La Storia della rivoluzione
L'epoca dell'emancipazione
Rivoluzione e detemporalizzazione della Storia
Progresso/regresso. Le velocità della Storia
Presentificazione del tempo
Capitolo quinto
Attendere invano.
Una rilettura delle Tesi di Walter Benjamin
Il presente e l'indifferenza temporale
Il presente e l'appuntamento con la storia
Abbandonati dal tempo
Capitolo sesto
Mercificazione della vita e vitalità delle merci.
Su un'inversione di ruoli
Il disincanto incantato
La sospensione del presente
Merce e moda
L'incessante «renovatio»
Mezzi come fini, individui come mezzi
Capitolo settimo
Equivoci della mondializzazione
La fine del cosmopolitismo
La domanda
Scena del mondo e poteri
Alterità e altrove sotto il regime della produzione
Pareti sottili, porte a tenuta stagna
Kant dismesso


Gli autori

Paolo Jedlowski, dopo aver insegnato all'Università «L'Orientale» di Napoli, è attualmente professore ordinario di Sociologia presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università della Calabria. Tra i suoi libri più recenti: Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2000; Memoria, esperienza e diversità, Franco Angeli, Milano 2002; Fogli nella valigia. Sociologia e cultura, il Mulino, Bologna 2003; Sociologia della vita quotidiana, con Carmen Leccardi, il Mulino, Bologna 2003; Un giorno dopo l'altro. La vita quotidiana fra esperienza e routine, il Mulino, Bologna 2005. Per il teatro ha scritto Smemoraz, messo in scena dal teatro dell'Angolo di Torino.

Fabio Merlini è direttore responsabile dell'Istituto Universitario Federale per la Formazione professionale nella Svizzera italiana e insegna Filosofia della morale all'Università dell'Insubria a Varese. Dal 1996 al 2000 ha co-diretto, presso gli Archivi Husserl dell'Ecole Normale Supérieure, il Groupe de Recherche sur l'Ontologie de l'Histoire, i cui lavori seminariali sono stati pubblicati in tre volumi a Parigi. Tra le sue pubblicazioni recenti: Mercificazione della vita e vitalità delle merci (Roma 2006); Tecnologie, identità, tempo (Milano 2006); Un immaginario reinventato (Milano 2005) La comunicazione interrotta. Etica e politica nel tempo della rete (Bari 2004).

Links

http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Jedlowski
http://de.wikipedia.org/wiki/Heimat_(Reitz)

giovedì 23 aprile 2009

Basso, Luca, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx.

Roma, Carocci, 2008, pp. 238, € 28,50, ISBN 9788843046751.

Recensione di Adele Patriarchi – 23/04/09

Filosofia politica

Come esplicitato all’inizio dell’Introduzione, il testo di Luca Basso prende le mosse dalla convinzione che “la questione della realizzazione individuale giochi un ruolo centrale” nel pensiero di Marx, tanto da potere additare come un “vecchio luogo comune” la tendenza a interpretare la riflessione marxiana “in modo organicistico, e quindi all’insegna dell’idea del dominio della società sull’individuo” (p. 9). Per questa ragione, il titolo del libro contiene la nozione di “singolarità” che, pur essendo parzialmente estranea al vocabolario di Marx, secondo l’autore appare capace di interagire con il “dispositivo marxiano”, facendo emergere da esso il tema della realizzazione individuale. La nozione di singolarità viene declinata nel suo “configurarsi come “transindividualità” termine indicante il continuo, mobile scambio che si instaura fra l’“individuale” e il “collettivo”” (p. 15).
All’inizio del primo capitolo, intitolato Il problema dell’individualità, la riflessione di Basso parte dall’analisi dell’Ideologia tedesca, in cui l’indagine sull’individualità viene declinata in relazione alla nozione di Bestimmung. I bestimmte Individuen, gli individui determinati, “sono influenzati” sia “dalle circostanze all’interno delle quali si muovono” che “dalla presenza degli altri individui” (p. 37). Le “circostanze” sopra indicate fanno riferimento all’”attività produttiva” e “al contesto sociale e politico” in cui si trovano collocati gli individui che, al contempo, influenzano e sono influenzati dall’ambiente economico, sociale e politico in cui vivono. Essendo collocato all’interno di condizioni storicamente determinate, l’individuo non può che presentarsi come “strutturalmente contingente e singolare” (p. 37). L’autore sottolinea come tale posizione non costituisca un’”invariante” nel percorso marxiano ma sia un punto d'approdo di tale rilevanza, da rendere possibile additare nell’Ideologia tedesca un testo di “frattura” rispetto alle opere precedenti (p. 38). Basso intraprende quindi un’analisi dell’evoluzione intellettuale di Marx a partire dalla Critica del diritto statuale hegeliano (1843), in cui emerge come nozione centrale quella di Gattungswesen, di uomo come ente generico. L’elaborazione di tale concetto non implica tuttavia l’adesione a una visione organicistica nella quale l’individuo sia sussunto alla comunità; piuttosto esso nasce in vista del superamento della distinzione tra società civile e stato - e, quindi, fra bourgeois e citoyen - che secondo Marx emergeva dai Lineamenti (pp. 52-56). Nella Questione ebraica (1844), bourgeois e citoyen “costituiscono, rispettivamente, l’uomo reale e l’uomo vero” in riferimento proprio alla nozione di Gattungswesen. L’uomo reale “è l’uomo nella sua immediata esistenza sensibile individuale”, mentre “l’uomo politico è soltanto l’uomo astratto, artificiale, l’uomo come persona allegorica, morale” (p. 58). Il primo è reale ma non è vero “essendo lontano dal Gattungswesen”; il secondo è vero perché vicino al Gattungswesen ma è anche astratto e generico. Negli scritti successivi, Marx finisce con il problematizzare la nozione di citoyen, pervenendo alla convinzione della “sostanziale dipendenza dello Stato dagli interessi del bourgeois” e ponendo come “centro prospettico” della propria riflessione la bürgerliche Gesellschaft, la “società civile-borghese” (p. 70). Una società, quest’ultima, caratterizzata dal bellum omnium contra omnes, dall’egoismo, dall’individualismo, dalla particolarità (p. 70). È partire dalla Sacra famiglia (1845) che il concetto di Gattungswesen viene depotenziato nei propri “segni distintivi”, perché esso viene “concepito non a partire da un’astratta comunità “io-tu”, bensì all’interno delle strutture della bürgerliche Gesellschaft, e quindi viene declinato politicamente” (p. 51). In quest’opera, l’immagine atomistica e individualista dell’uomo nella società comincia a essere problematizzata, sia perché Marx sottolinea l’impossibilità per l’uomo stesso “di prescindere dal proprio contesto sociale” a causa del proprio “interesse” (p. 81), sia perché comincia ad affacciarsi la nozione di classe: il “bellum omnium contra omnes non riguarda semplicemente individui, ma classi contrapposte” (p. 84). Pochi mesi dopo la pubblicazione della Sacra famiglia, Marx scrive le Tesi su Feuerbach, in cui la presa di distanza dalla filosofia feuerbachiana, assesta un colpo decisivo alla nozione di Gattungswesen. Poiché “l'essenza umana” viene concepita come “l’insieme dei rapporti sociali” (p. 86), la filosofia della prassi riesce a “vedere” la “società umana” o “l'umanità socializzata” (X tesi), al contrario del materialismo di Feuerbach che può arrivare, al massimo, a intuire i singoli individui nella società borghese, cioè ad avere una visione atomistica della società. La necessità di un’azione concreta volta alla trasformazione del mondo (XI tesi), e quindi l’abbandono di una “tematizzazione astratta, svincolata dalle condizioni materiali del suo darsi” (p. 18), prepara quindi il terreno per la nascita dell’Ideologia tedesca.
Nel secondo capitolo, intitolato Al di là della dicotomia “privato” - “sociale”, l’autore ritorna, dopo l’excursus concettuale svolto nella prima parte del libro, ad analizzare l’Ideologia tedesca, sottolineando come il progetto di esaminare la bürgerliche Gesellschaft trovi alimento negli eventi politici contingenti, tra i quali spiccano il fenomeno del cartismo e la rivolta dei tessitori slesiani del 1844. Non a caso, fa notare l’autore, l’espressione “partito comunista” compare per la prima volta proprio nell’Ideologia tedesca “a testimonianza del fatto che il tentativo di dare vita ad un’organizzazione della classe operaia si afferma con sempre maggiore forza negli anni indicati” (p. 96). Con il passaggio da “una visione incentrata sull’“uomo” ad una fondata sugli “individui determinati” (p. 99), la bürgerliche Gesellschaft non è più immaginata come insieme atomistico di individui irrelati fra loro, ma come un insieme di individui determinati sia dalle proprie relazioni reciproche che dal grado di sviluppo delle forze produttive (p. 96). Il mutamento indicato implica sia l’affermazione del “carattere non naturale ma sociale della produzione”, sia il “rifiuto dell’idea del dominio assoluto [degli individui determinati] sulle condizioni e sulle circostanze esistenti” (p. 99). Infatti, la società civile/borghese si caratterizza sia per l’applicazione della “divisione del lavoro”, che per l’utilizzo del denaro come strumento di “quantificazione” dell’uomo e dei rapporti sociali (p. 103). Emerge, da questo contesto discorsivo, il “carattere ambivalente” del capitalismo, nel quale l’uomo viene “sussunto” sotto il potere oggettivo della divisione del lavoro e, contemporaneamente, proprio in forza del suo assoggettarsi all’oggettività e all’astrazione, l’individuo può entrare in contatto con gli altri uomini e, quindi, essere sociale. Per dare conto di tale ambivalenza, viene introdotta da Marx la distinzione tra “comunità apparente” (scheinbare Gemeinschaft) e “comunità reale” (wirkliche Gemeinschaft): la prima caratterizza gli “individui come membri di una classe”, la seconda gli “individui come individui” (p. 19). Nella scheinbare Gemeinschaft la soggettività umana viene “stritolata”, perché l’individuo viene assoggettato al meccanismo di produzione, viene sussunto sotto un potere astratto e oggettivo (pp. 19, 110). Nel contempo, grazie alla nozione di wirkliche Gemeinschaft diventa possibile cogliere la “valenza dirompente del capitalismo”, cioè il fatto che “prima del capitalismo, risultava inconcepibile l’idea stessa della realizzazione individuale” (p. 131). Nella società borghese convivono, quindi, sia l’individualismo che la tendenza organicista a sussumere il singolo sotto un potere astratto e oggettivo.
La riflessione sulla nozione di classe marca il passaggio dall’Ideologia Tedesca al Manifesto, nel quale si sottolinea costantemente come la società borghese non possa essere pensata solo come composta da individui ma anche da classi in conflitto fra loro; gli uomini, nella società borghese, non si relazionano fra loro in quanto individui ma in quanto membri di un classe (p. 137). Poiché la “classe” si dispiega sul terreno della pratica, tale concetto si manifesta come nozione “politica”: quando gli individui conducono una lotta contro un’altra classe essi si costituiscono, a propria volta, come classe (p. 21). Così, al variare delle condizioni storiche oggettive, varia la composizione di classe, che non è data una volta per tutte ma dipende dalle condizioni storiche concrete che fanno della “cooperazione” fra singoli individui “un movimento politicamente significativo” (p. 141). In Marx, quindi, vi è il “rifiuto di ogni visione sostanzialistica del proletariato, sia in senso ontologico […] sia in senso sociologico” (p. 21). Nel 1848 sembrava essersi sviluppata una situazione storica nella quale fosse possibile un’azione rivoluzionaria, frutto degli operai stessi, una “sollevazione generale in Europa all’interno della quale la Germania avrebbe giocato un ruolo decisivo” (p. 145). Obiettivo del movimento, in relazione alla fase contingente, è la messa in crisi delle relazioni di proprietà istituite dalla borghesia, della relazione di dominio che ne scaturisce (p. 143), in favore di un’”associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti” (p. 144). Tale frattura non comporta l’abbandono di nozioni apparentemente legate alla società borghese, come quelle di giustizia, libertà e uguaglianza, ma una “trasvalutazione” di tali principi nella prospettiva di una società senza classi (p. 150).
Nel terzo capitolo del libro, intitolato Nesso sociale e indifferenza, l’autore prende le mosse dal fallimento dei movimenti rivoluzionari del 1848 e dall’ascesa del bonapartismo, per fare emergere come “il carattere problematico dell’idea di una rivoluzione mondiale” costringa Marx a una profonda “riarticolazione” della propria analisi politica. Da un lato, il fenomeno del bonapartismo - e del nazionalismo in generale - induce il filosofo a ripensare l’immagine dello stato come “comitato d’affari della borghesia” (p. 24); dall’altro, il 1857 è l’”anno in cui si verificò la prima crisi mondiale di sovrapproduzione, con le potenzialità rivoluzionarie di cui risultava carica” (p. 155). Marx, allora, rivolge progressivamente sempre maggiore attenzione all’analisi dell’economia politica, giungendo alla composizione dei Grundrisse. Punto di partenza dell’opera è il “riferimento al modo di produzione capitalistico e ai meccanismi determinati che lo sottendono” (p. 157). Rispetto alla questione del rapporto fra individuo e comunità, “il capitale opera distruttivamente, attua una rivoluzione permanente” rispetto alle società precedenti ed esercita un’”enorme influenza civilizzatrice” perché crea “un livello sociale rispetto a cui tutti quelli precedenti si presentano semplicemente come sviluppi locali dell'umanità e come idolatria della natura” (p. 159). Il capitalismo, cioè, corrode quel legame inscindibile che esisteva nelle strutture sociali precedenti fra l’uomo e la comunità politica di appartenenza, “creando” l’”individuo” (p. 164); al contempo, esso distrugge i valori presenti nelle comunità precedenti, creandone di nuovi: il mercato, infatti, è dominato da quello specifico valore che è il “valore di scambio”, la cui quantificabilità è assicurata attraverso l’utilizzo di quello strumento di “misura” che è il denaro. Nei Grundrisse, a differenza delle opere precedentemente analizzate e della Questione ebraica in particolare, la società è vista come “somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro” (p. 176). Tali relazioni non hanno carattere irenico, ma sono conflittuali, si configurano “come rapporti di dominio, sulla base di un’asimmetria tra le forze esistenti” (p. 176). Si inserisce in questo contesto discorsivo la critica alla nozione di individuo concepita nel pensiero liberale, nel quale un “uomo naturale, assolutamente isolato e indipendente” viene posto a fondamento dell’economia e dello stato politico (p. 177). Osservando la circolazione delle merci in modo “superficiale”, si può mettere in rilievo l’uguaglianza e la libertà con la quale due individui entrano reciprocamente in contatto per la soddisfazione dei propri bisogni (p. 180). E, tuttavia, scendendo “dalla superficie della sfera della circolazione alla profondità della sfera della produzione”, si vede come “libertà e uguaglianza” si trasformino “nel loro contrario, in illibertà e disuguaglianza” a causa della dinamica del valore di scambio. L’operaio e il capitalista sono uno di fronte all’altro in una condizione di asimmetria, perché il primo aliena il proprio lavoro ricevendo “come prezzo […] il valore di questa alienazione”. La società risulta così ““spezzata” in due parti non componibili e, inoltre, non omologhe l’una rispetto all’altra” (p. 182). Poiché nella società capitalistica la libertà individuale è intrecciata con la sussunzione dell’individuo stesso a un potere astratto e oggettivo, “non risulta possibile mantenere l’uno eliminando, allo stesso tempo, l’altro” (pp. 190-191). Diventa allora chiaro che “solo una frattura “pratica” con lo “stato di cose presente” può fare “saltare” la compenetrazione in questione” (p. 192).
Dall’analisi effettuata da Basso dei Grundrisse, emerge come il sistema capitalistico si caratterizzi, a differenza delle forme che l’hanno preceduto, per l’esistenza di un’ampia rete di relazioni sociali di “mutua e generale dipendenza”. Una socialità, questa, che non viene concepita irenicamente ma che viene indagata nei suoi aspetti conflittuali. A ciò va aggiunto che gli individui che entrano in relazione fra loro sono “reciprocamente indifferenti”, per cui “il rapporto sociale presenta come sua altra “faccia” l’isolamento individuale” (p. 29). D’altro canto, afferma Basso, per potersi “isolare” bisogna possedere un certo grado di indipendenza, bisogna essere “individui”. Tant’è che Marx, nella Einleitung afferma: “L’uomo è nel senso più letterale uno zoon politikon, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi” (p. 30).
Dal punto di vista metodologico, è apprezzabile la capacità dell’autore di contestualizzare il percorso intellettuale di Marx rispetto alle condizioni politiche contingenti, nel solco della tradizione del marxismo italiano. Ciò consente di approcciarsi in maniera attendibile al pensiero marxiano, evitando di interpretare la prima parte della produzione di Marx attraverso l’utilizzo di categorie elaborate in tempi successivi e in contesti profondamente diversi. Inoltre, Basso, coniugando tale tendenza contestualizzante con una riflessione sulla nozione di singolarità, approfondita nel dibattito francese, riesce anche a evitare di contrapporre in maniera irresolubile l’”umanesimo” del primo Marx alla “scientificità” del secondo. L’esito è la messa in discussione del luogo comune sulla tendenza organicista del pensiero marxiano e, quindi, della sua vocazione a porre in secondo piano il problema della realizzazione individuale rispetto all’obiettivo del benessere collettivo. Al contempo, l’autore perviene all’intento di decostruire la lettura in termini liberali del pensiero di Marx, interpretazione emersa, in particolare, nel cosiddetto “marxismo analitico”, che faceva apparire il filosofo come un “individualista metodologico”.
Un testo, questo di Basso, complesso – perché chiede come prerequisito la conoscenza di molta parte della produzione marxiana – e di cui si consiglia la lettura.

Indice

Introduzione. Individuo e singolarità
1. Il problema dell’individualità
2. Al di là della dicotomia “privato” - “sociale”
3. Nesso sociale e indifferenza
Opere di Marx e Engels con siglario
Bibliografia


L'autore

Luca Basso è ricercatore di Filosofia politica presso l’Università di Padova.. Ha studiato nelle Università di Padova, Berlino e Pisa e ha svolto numerosi soggiorni scientifici in Germania. Fra le sue pubblicazioni: Individuo e comunità nella filosofia politica di G. W. Leibniz (Rubbettino, 2005).

martedì 21 aprile 2009

Derrida, Jacques, Marx& Sons. Politica, spettralità, decostruzione.

Milano, Mimesis, 2008, pp. 295, € 18,00, ISBN 978-88-8483-638-0.
[Ed. or.: M. Sprinker (ed.), Ghostly Demarcation. A Symposium on Jacques Derrida’s Spectres of Marx, Verso, London-New York 1999].

Recensione di Francesco Tampoia – 21/04/2009

Filosofia politica

Il volume, come da titolo nell’edizione originale del 1999, riporta gli interventi al simposio e le risposte di Derrida in margine al libro Spectres de Marx del 1993.
Il primo saggio, “Il sorriso dello spettro”, è di Antonio Negri il quale si chiede se il progetto di decostruzione derridiana possa essere marxista o avere in qualche modo a che fare con il marxismo. Marx ha usato spesso la figura dello spettro; nella sua opera abbiamo una sarabanda di spettri, basti pensare alla scrittura in chiave spettrale dell’Ideologia tedesca. Ma che fare, oggi, degli spettri marxiani? Marx, mentre parlava di spettri, un secolo e mezzo fa, mentre decostruiva il Capitale, invitava, allo stesso tempo, a spazzar via i fantasmi e il capitalismo, invitava i soggetti produttivi a entrare nella scena della non-spettralità. In Spettri di Marx Derrida esorta a ripensare Marx e suggerisce che “bisogna assumere l’eredità del marxismo, assumere quel che è più vivo, cioè, paradossalmente, quel che continua a mettere ancora in cantiere la questione della vita, dello spirito e dello spettrale, la-vie-la-mort al di là dell’opposizione tra la vita e la morte. Bisogna riaffermare questa eredità, trasformandola anche radicalmente, se sarà necessario” (Spettri di Marx, Raffaello Cortina, 1994 p. 73). Ma Negri risponde che l’invito di Derrida non è sufficiente, che nella trasformazione (decostruttiva) di Marx Derrida resta prigioniero della medesima ontologia che critica. Il gioco decostruttivo spinge Derrida verso una sorta di misticismo, di chiusura e di addomesticamento, mentre la lotta tra gli spettri del marxismo e gli spettri del capitalismo non è finita. Per rispondere costruttivamente alle rinnovate forme della disciplina del capitale e dello sfruttamento del lavoro immateriale è necessario fare appello alla nuova forza sociale dell’intellettualità di massa, “la decostruzione insiste – senza agganciare la pratica oppure sfuggendone dopo aver identificato il discrimine possibile della giustizia – verso solitari orizzonti trascendentali… Peccato, perché Spettri di Marx rappresenta una formidabile introduzione a una nuova pratica” (p. 21). Peccato che Derrida abbia sorvolato su un certo spettro di Marx, quello della XI tesi su Feuerbach: “i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo in modi diversi, si tratta ora di trasformarlo”.
Al breve saggio di Pierre Macherey segue “La lettera rubata di Marx” di Fredric Jameson. Jameson ricorda che, nel suo iter intellettuale, da una prima vocazione filosofica Derrida si è incamminato in direzione di una più letteraria, ultima fase di ricerca, ma non ha attenuato il suo interesse per la politica europea e mondiale. Il volume Spettri di Marx ruota sulla nuova accattivante figura: “la nuova figura, o meglio il nuovo concetto figurato, di spirito o di spettro, è di genere diverso rispetto alle figure che proliferavano nei primi testi di Derrida” (p. 38). Spesso si ha l’impressione che Derrida privilegi il confronto e la narrazione dei testi filosofici più che l’argomentare, l’interpretazione più che la ferrea logica del linguaggio scientifico, la teoresi più che la prassi. Tanto che viene da chiedersi: è possibile vedere in Spettri di Marx il tentativo derridiano di sintonizzare il marxismo come prassi alla luce della decostruzione? Dalla metà del secolo scorso fino agli anni settanta sono state proposte differenti filosofie marxiste, diversi innesti tra marxismo e esistenzialismo, fenomenologia e marxismo, etc… Tentativi falliti secondo Derrida, tentativi che si sono risolti in ontologia, clamoroso l’esempio del diamat. La spettralità, invece, è qualcosa di nuovo, qualcosa che sfida il buon senso, si pone al di qua e al di là di ogni ontologismo, al di sopra o al di sotto di ogni banale binarismo, non implica l’esistenza degli spiriti, “ afferma solo, se si può pensare che parli, che il presente vivente è meno autosufficiente di quanto vuol far credere; che faremmo meglio a non contare sulla sua densità e solidità, poiché in circostanze eccezionali esse ci potrebbero tradire” (p. 47).
A questo punto, in Spettri di Marx, Derrida sposta l’indagine sul tema della religione in Marx, e argomenta che l’attacco marxiano alla religione è un gesto di sovversione politica, vale soprattutto come sovversione politica. Jameson condivide la tesi derridiana e aggiunge che Marx ha compreso che la modernità, nel momento in cui si illude di aver chiuso ogni discorso del sacro, segue inconsciamente il feticcio delle merci, ha compreso “che il tentativo di conquistare e di realizzare la concretezza tramite l’espulsione degli spettri conduce solamente alla costruzione di un’entità ancora più immaginaria che viene scambiata con il mio ‘Io’” (p. 68). In cuor suo avrebbe voluto liberarsi dei fantasmi, ha pensato che fosse auspicabile farlo, ma ha avuto dubbi e sospetti, e ha assunto una posizione essenzialmente critica nei confronti della modernità.
Collegato al tema della religione è quello della promessa di un a-venire, tema comune sia a Marx sia a Derrida. Derrida esordisce dicendo che ogni forma di utopismo, messianismo etc. contiene in nuce una spinta rivoluzionaria, e, allo stesso tempo, un senso di impossibilità e di speranze infrante, sensazione che si ritrova anche in Benjamin. Ma proprio qui risiede la fecondità della figura chiave dello spettrale: gli spettri ci sono sempre, bisogna parlare con gli spettri, anche se non esistono, anche se non sono più, anche se non sono ancora.
Warren Montag nel saggio “Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida” parte dalla constatazione che il libro di Derrida significa che Marx non è del tutto morto, anche se, oggi, si registra una diffusa credenza che il mercato e lo stato capitalista rappresentino il vero e unico modello economico e sociale di esistenza. Certo lo spirito di Marx, invocato da Derrida, è molto diverso da quello ricorrente nella letteratura pro o contro Marx, “è lo stesso spirito che rompe gli argini teoretici del Capitale, che si versa ai suoi margini e alle sue note, che parla con oscura ironia della discrepanza tra le nobili finzioni che hanno accompagnato l’ascesa del capitalismo i suoi pomposi cataloghi dei diritti umani” (pp. 80-81). Derrida è consapevole di ereditare questo difficile lascito in un’epoca in cui la discrepanza tra la retorica trionfalistica del liberalismo (economico e politico) e la realtà del mondo che esso domina è la più grande mai vista, è consapevole, allo stesso tempo, che la spettralità nel marxismo rappresenta la sua potenza, il suo essere né presente né assente, né vivo né morto, né attuale né inattuale, né reale né immaginario. Non intende difendere Marx a tutti i costi, vuole cercare di esserne degno erede, cosa non semplice, visto che gli spiriti di Marx sono tanti, visto il collasso dei regimi comunisti nel XX secolo.
Per Terry Eagleton, “Marxismo senza marxismo”, la decostruzione derridiana è stata sin dal principio un progetto politico, ma ambiguo, a due facce, l’una prudentemente riformista l’altra estaticamente di ultra-sinistra. In sede di analisi critica Derrida è dalla parte del marxismo, in sede propositiva non è disponibile ad accogliere le positività storica del marxismo, e si atteggia, piuttosto, come l’ultimo post-strutturalista, che non è interessato a un socialismo effettivo.
Aijaz Ahmad all’inizio del suo “Riconciliare Derrida” si chiede che tipo di testo sia Spettri di Marx. È un testo performativo, letterario, o altro? Indugia poi sul celebre colloquio di Amleto con il Fantasma del padre morto, e afferma che Derrida ha sperato che il collasso del materialismo storico coincidesse almeno con il trionfo filosofico e accademico della decostruzione. Dopo aver criticato la destra, Derrida, sempre secondo Ahmad, passa a criticare la sinistra e tutte le forze organizzate che si sono ispirate a Marx, e discute, infine, il concetto di promessa nella forma messianico-escatologica. Sembra si sia ispirato al tentativo di Benjamin di riconciliare il marxismo con il misticismo ebraico, in realtà ci propone la ri-scrittura delle riflessioni sull’Angelo della storia, “ma privata della collocazione di Benjamin all’interno del misticismo ebraico (questa è forse la ragione della sua necessità di separare il ‘messianico’ dal messianismo; tutto ciò che resta del tormento di Benjamin è il linguaggio, il gioco retorico di un’emancipazione allo stesso tempo secolare e messianica …. È un sollievo […] che il messianismo di Derrida affermi di essere libero da ogni determinazione metafisico-religiosa” (p. 119-20). Verso la fine del suo intervento, Ahmad conclude polemicamente: “che cosa ce ne facciamo, infine, di questo atto di riconciliazione tra il marxismo e la decostruzione, che presuppone l’abbandono di tutte le categorie familiari al marxismo politico, e che caratterizza questa conciliazione non solo su basi, per loro stessa ammissione, messianiche, ma anche colme di un potente immaginario religioso, benché Derrida affermi ripetutamente che il ‘messianico’ non è religioso?” (p.124).
Tom Lewis in “La politica dell’hantologie” fa ampio riferimento ai saggi di Ahmad e Jameson e nota, schematizzando, che gli obiettivi principali di Derrida sono: il ripudio del materialismo storico, la rinuncia alla rivoluzione sociale. Derrida ripudia il materialismo storico perché esso ha avuto in sé una forte spinta ontologizzante (Lenin) che ha aperto la strada a Stalin; non accetta la rivoluzione sociale perché essa inevitabilmente porta alla soppressione dell’individuo. Il suo ideale di società prende la forma di una Nuova Internazionale “appena pubblica […] senza coordinazione, senza partito, senza patria, senza comunità internazionale […] senza con-cittadinanza, senza appartenenza comune a una classe” (Spettri di Marx, p. 48).
In “Lingua amissa” Werner Hamacher approfondisce il concetto di messianico senza messianismo che, diverso dal fenomeno religioso come pare lo abbia inteso Marx (sovrastruttura), deriva dalla stessa struttura della merce. Una innovativa analisi della merce, supportata dalle idee guida della lettura derridiana di Marx, “deve essere un’analisi della sua spettralità – vale a dire contemporaneamente un’analisi della fenomenicità della merce e di ciò che eccede questa fenomenicità, della sua spettralità e parafenomenicità” (pp. 192-193). Gli scambi e le trasformazioni possono essere effettuati solo con il medium della lingua merce, ossia della merce denaro; ma la lingua merce è mistificante e feticizzante, è “un fantasma perché non è in grado di esprimere l’esser-prodotti dei prodotti, ma solo la loro forma stabile, non la storicità dei prodotti, ma solo la loro perpetua oggettività, non la singolarità delle attività, ma solo la loro funzione astratta” (pp. 201-202). Derrida ha scoperto nello spettrale qualcosa di passato, ma provocato da qualcosa a venire, da qualcosa di prominente, ma sempre già in arretrato, qualcosa che reclama i propri diritti qui e ora. Anche se lo spettro si presenta/non presenta con fattezze più teoretiche che pratiche riesce a tenere in piedi la messianicità. La promessa (il messianico) è come una fessura del tempo, e “il marxismo è storicamente la prima promessa che ha affermato l’universalità illimitata della libertà e della giustizia, la prima e l’unica non influenzata da razzismi, nazionalismi, culti o ideologie di classe, ma che al contrario ha promesso un mondo comune a tutti e a ognuno il suo mondo” (p. 237).
L’ultimo capitolo del volume riporta la replica di Derrida agli interlocutori del Simposio.
Derrida ricorda che, ancora una volta, è in gioco il rapporto politica/filosofia, la questione del politico e del filosofico in relazione a Marx, la fenomenicità del politico, la filosofia come onto-teologia. Rivolto a Terry Eagleton, forse ultimo campione del marxismo novecentesco, Derrida significativamente ricorda i disastri del marxismo in Russia e altrove, afferma che la sua posizione si esplicita in due tempi, de-politicizzazione e ri-politicizzazione, giudica con vivacità, a volte con durezza le tesi di Ahmad. Hamacher ha posto giustamente in rilievo il posto della religione in Marx, Ahmad, invece, non coglie affatto questo riferimento e si ostina a credere che la questione religiosa sia definitivamente chiusa e risolta. Nel sostenere a più riprese di non aver mai inteso abbandonare un certo suo engagement politico, Derrida propugna l’ideale di una Nuova Internazionale, non tanto astratta e utopica come può apparire. La Nuova Internazionale deve muoversi giorno dopo giorno secondo le circostanze, deve essere soggetta a ogni istante a una nuova valutazione delle urgenze delle implicazioni strutturali, innanzi tutto dalle situazioni singolari, deve essere immune da calcolabilità assoluta, “è a questa condizione, alla condizione costituita da questa ingiunzione, che c’è – se c’è – azione, decisione, responsabilità politica: ri-politicizzazione” (p. 269).
Marx & Sons si chiude con un aside rivolto al compagno di letture spinoziane Antonio Negri. Derrida con un sorriso chiede a Negri un compromesso: accettare tutti e due l’ontologia come una password, un termine convenzionale che consenta di parlare insieme un linguaggio criptato alla maniera dei marrani. Potremmo, in filosofica compagnia tra marxisti-marrani, comportarci come se parlassimo ancora la lingua della metafisica o della ontologia ben sapendo che non ne resta più nulla. Perché la scelta del marrano? Semplicemente per il fatto che Derrida più volte si è presentato, in passi autobiografici, come un Marrano. E, del resto, chi può dire che Marx stesso, liberato dall’ontologia, non fosse un Marrano? Gli stessi figli di Karl forse non lo sapevano o non lo sanno, e nemmeno le sue figlie. Potremmo, allora, cercare di imparare a vivere in giustizia a partire dagli spettri, senza cadere in una sorta di patria ontologica della spettralità. Perché in una qualsivoglia unica patria ontologica, lui J. Derrida non se la sente assolutamente di vivere.

Indice

Nota dei traduttori
Antonio Negri, Il sorriso dello spettro
Pierre Macherey, Marx dematerializzato, o lo spirito di Derrida
Frederic Jameson, La lettera rubata di Marx
Warren Montag, Spiriti armati e disarmati: Spettri di Marx di Derrida
Terry Eagleton, Marxismo senza marxismo
Aijaz Ahmad, Riconciliare Derrida. Spettri di Marx e la politica decostruttiva
Rastko Močnik, Dopo la caduta. Le nebbie sul “18 Brumaio” delle primavere dell’est
Tom Lewis, La politica dell’hantologie in Spettri di Marx di Jacques Derrida
Werner Hamacher, Lingua amissa. Il messianismo della lingua-merce e Spettri di Marx
Jacques Derrida, Marx& Sons


L'autore

Jacques Derrida (1930-2004), filosofo e critico letterario di origine ebraica, noto come il fondatore del decostruzionismo, è riconosciuto come uno dei massimi filosofi del nostro tempo. Numerosa e molto varia la sua produzione saggistica. Tra le sue opere più note: La scrittura e la differenza, Della grammatologia, La voce e il fenomeno, Margini della filosofia, Glas, Dello spirito. Heidegger e la questione, Politiche dell’amicizia, Aporie, Oggi l’Europa. L’altro capo, Spettri di Marx, Quale domani.

Links

http://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Derrida (pagina della Wikipedia italiana dedicata a Jacques Derrida)

lunedì 20 aprile 2009

Geymonat, Ludovico, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale

Bollati Boringhieri (Universale 573), Torino 2008, pp. XV + 360, € 25 [ISBN 978-88-339-1947-8]

Recensione di Maurizio Brignoli – 20/04/2009

Filosofia della scienza, Storia della scienza

Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, frutto delle lezioni che Geymonat tenne fra il 1946 e il 1949 a Torino per il corso di Storia delle matematiche, si apre con un richiamo, che caratterizzerà l’opera futura di Geymonat, alla necessità di tenere sempre presente “il problema dei rapporti fra evoluzione delle speculazioni filosofiche ed evoluzione delle dottrine scientifiche; tra sviluppo della scienza e della tecnica in genere e sviluppo delle ricerche matematiche” (p. 9).
Il pitagorismo ha posto le basi per spiegare il significato infinitesimale della scoperta dei numeri irrazionali. La dimostrazione dell’incommensurabilità del lato con la diagonale del quadrato mina radicalmente l’idea che ogni segmento sia costituito da un numero finito di punti ed esprimibile quindi con numeri interi. I paradossi di Zenone, iniziatore con Parmenide della critica filosofica della scienza, superano l’illusione pitagorica che le figure continue possano ottenersi con l’accostamento di enti reali discontinui aprendo così la via al metodo di esaustione e al calcolo integrale. Fra i progenitori dell’analisi infinitesimale vi è anche Anassagora per il quale la materia è infinitamente estesa e divisibile.
L’esigenza di assoluta chiarezza introdotta da Platone costituisce un trapasso rivoluzionario: mentre nella concezione pitagorica le figure geometriche sono costituite da punti monade dotati di un’esistenza effettiva ed effettivamente raggiungibile, per Platone questi elementi ultimi costituiscono qualcosa su cui non si può ragionare con rigore. Bisogna restringere la ricerca a quelle che sono le precise proprietà delle figure prima e durante l’opera di suddivisione e non a ciò che si pensa di raggiungere alla fine. Chi darà salda fondazione al nuovo ragionamento è Eudosso che col metodo di esaustione, surrogato del calcolo integrale, elimina ogni riferimento ai pretesi elementi ultimi. Nonostante i grandi risultati raggiunti da Archimede si fondino sul procedimento di esaustione, in una lettera ad Eratostene, ignota fino al 1906, Archimede descrive un procedimento analogo a quello che sarà adottato dagli analisti del Seicento, in cui emerge una vera e propria anticipazione del calcolo integrale.
La fisica del Seicento apre la via alla trattazione matematica dei fenomeni naturali e il calcolo differenziale e integrale origina un nuovo dominio della matematica sempre più autonomo rispetto ad algebra e geometria. Kepler è il primo ad abbandonare il metodo per esaustione e a sostituirlo con ragionamenti diretti su infiniti e infinitesimi mentre è la scuola di Galileo a fornire, soprattutto con Cavalieri, un aspetto generale e unitario ai nuovi metodi. Considerato che Galileo aveva una chiara nozione del principio di inversione e che Torricelli riprende e sviluppa la dimostrazione galileiana che lo spazio è l’integrale della velocità, si può dire che l’analisi infinitesimale sia già nata in Italia, per quanto di parto prematuro, prima di Newton e Leibniz.
L’invenzione della geometria analitica da parte di Cartesio e Fermat favorisce ulteriormente la ricerca e verso il 1650-60 un metodo infinitesimale è di fatto costituito. Quello che manca, oltre un’uniformità di simboli, è un superiore livello di scienza e filosofia capace di garantire uniformità e generalità ai metodi di calcolo e solidità razionale ai concetti di infinito e infinitesimo.
In Newton le ricerche analitiche e meccaniche si sviluppano e progrediscono insieme convalidandosi a vicenda e anche se nei Principia non parla, prudente di fronte alle diffidenze dell’ambiente scientifico, di flussioni e fluenti ciò non toglie che il carattere infinitesimale costituisca la sostanza della meccanica newtoniana. Il calcolo infinitesimale non è una prole sine matre creata. Nella contesa fra Leibniz e Newton i problemi trattati sono gli stessi risolti dai matematici precedenti e d’altra parte la formula dei postulati su cui poggia il nuovo calcolo rimarrà insufficiente fino all’ottocento. Si può escludere qualsiasi ipotesi di plagio: un’analisi logico-filosofica del processo inventivo mostra come nell’inglese l’invenzione sia dettata da preoccupazioni tecniche mentre nel tedesco scaturisca da considerazioni filosofiche. Secondo Leibniz per raggiungere l’oggettività bisogna risolvere i concetti scientifici in verità prime puramente logiche. È l’esigenza di una caratteristica universale che ha spinto Leibniz a inventare i simboli differenziali e se si limita la novità alla parte formale del calcolo Leibniz sopravanza sicuramente Newton.
Nella prima metà dell’Ottocento l’avvio della revisione critica dell’analisi infinitesimale porta Bolzano, con considerazioni logico-filosofiche, a distinguere chiaramente il campo in cui il termine “infinito” denota solo un limite da quello in cui denota un tipo particolare di grandezza. Alla fine del secolo, dai lavori di Riemann, emergerà l’esistenza di funzioni continue che non hanno derivata; è una svolta decisiva e l’analisi si afferma come disciplina autonoma indipendente dall’intuizione geometrica.
L’esigenza di rigore che caratterizza la seconda metà dell’ottocento dà vita a due fasi: il processo di aritmetizzazione iniziato da Weierstrass e concluso da Peano con un simbolismo logico, col quale è possibile in via teorica tradurre tutta la matematica in simboli, e il processo di logicizzazione di Frege e Russell. Weierstrass e Peano, secondo Frege, si sono accontentati di riportare tutti i concetti aritmetici al concetto base di numero naturale, ma non hanno cercato una spiegazione logica di questo concetto. Bisogna ricondurre il tutto ad una scienza più generale dell’aritmetica: la logica. La definizione di numero naturale ideata da Frege e perfezionata da Russell condurrà al concetto di insieme che, introdotto per definire i numeri naturali, farà scoprire, con Cantor, la categoria ancora più ampia e difficile dei numeri transfiniti.
Qui l’esposizione storica viene da Geymonat interrotta con un approfondimento critico (capitoli 13-22) della teoria dei numeri e della teoria del continuo quali fondamenti dell’analisi moderna. Negli ultimi decenni del XIX secolo si cerca di ampliare il concetto di numero naturale nel campo dell’infinito. Sorgono però delle antinomie trasferibili dalla teoria degli insiemi alla teoria dei concetti e la soluzione di Russell, ovvero che un concetto non può mai fungere da predicato in una proposizione il cui soggetto sia di tipo eguale o maggiore del concetto stesso, permette importanti progressi, ma non si può certo dire abbia svelato la “natura assoluta” della logica. È una convinzione metafisica, cui del resto si ispira tutto l’indirizzo logicista, che crede di aver trovato la base della scienza dei numeri riducendo l’aritmetica alla logica. Non si può “fondare l’aritmetica” come se questa si elevasse su un gruppo di verità assolute ed eterne quando invece è un puro e semplice calcolo proveniente da convenzioni. Resta il fatto che la scoperta delle “antinomie logiche” ha mostrato come possa “non esistere l’insieme” quando “esistono gli individui” di tale preteso insieme.
Coi numeri reali si esce dal campo del numerabile per entrare nel “campo del continuo”. La struttura del continuo può essere intesa a partire non dai punti ma dal continuo stesso, i pretesi “punti indivisibili” sono segni divisori tra un segmento e l’altro e non elementi costituivi del continuo. Già Leibniz aveva sostenuto, avendo ben chiaro il carattere matematico del problema del continuo da non confondere col problema fisico della composizione della materia, che i punti matematici non fossero “parti dello spazio”. Mentre Dedekind e Cantor danno l’impressione di voler prima definire i singoli numeri reali per mezzo di considerazioni sui numeri razionali e di voler poi costruire con essi il continuo, Brouwer parte dal continuo come intuizione primitiva che non necessita di spiegazioni e presenta i singoli numeri reali come “estratti” dal continuo.
Un ulteriore sviluppo nell’analisi della struttura logica degli insiemi infiniti riguarda il problema, risolvibile con alternative convenzioni, del significato della loro esistenza. All’inizio i matematici ammisero come verità evidente che “l’esistenza di un insieme trascina con sé l’esistenza di tutti gli elementi che lo costituiscono”; nel momento però in cui ci si riferisce a insiemi come l’insieme dei numeri reali il presupposto che non sia concepibile l’esistenza della “riunione” senza che esistano gli oggetti riuniti viene a cadere.
I concetti moderni di misura e integrale chiudono lo sviluppo storico tracciato da Geymonat e mettono in luce gli stretti rapporti fra teoria degli insiemi e della misura evitando di considerare la prima come separata dalla matematica classica. Se è possibile impostare il problema dell’integrazione in forma nuova ciò è dovuto alla teoria degli insiemi infiniti che costituisce la più grande rivoluzione matematica dopo l’invenzione del calcolo differenziale e integrale. Con ciò Geymonat ribadisce anche in conclusione l’impegno metodologico “di dare – secondo i preziosi suggerimenti di Enriques – una «visione dinamica» della scienza” (p. 325).
Quest’opera è particolarmente rilevante in quanto costituisce il primo confronto di Geymonat con la dimensione storica – ponendo così le premesse per il superamento della sua formazione neopositivista – in cui emerge il precetto metodologico, che accompagnerà tutta l’evoluzione geymonatiana, della continua attenzione all’effettualità storica. Si può considerare la presente Storia come prima espressione di quella capacità di Geymonat di collegare gli aspetti scientifici allo sviluppo storico della disciplina specifica che viene a sua volta inserita nel più vasto sistema della storia del pensiero.

Indice

Introduzione di Gabriele Lolli
Le origini dell’analisi infinitesimale nel periodo greco (1. Sguardo generale alla storia della matematica greca; 2. Pitagora e Zenone; 3. Anassagora, Democrito, Eudosso; 4. Archimede)
Primi sviluppi dell’analisi infinitesimale nell’era moderna (5. Nuovi caratteri della ricerca matematica nei secoli XVI e XVII; 6. La scuola di Galileo; 7. Gli analisti francesi; 8. Gli analisti inglesi. Newton; 9. Leibniz e i suoi continuatori)
La vittoria dell’esigenza del rigore (10. Dalla matematica del Settecento alla matematica dell’Ottocento; 11. Sviluppo dell’esigenza critica negli analisti della prima metà dell’Ottocento; 12. Sviluppo dell’esigenza critica negli analisti della seconda metà dell’Ottocento; 13. I numeri naturali; 14. I numeri cardinali; 15. I numeri ordinali; 16. Gli alef; 17. Le antinomie logiche; 18. I numeri reali; 19. Continuo atomistico e continuo geometrico; 20. La potenza del continuo; 21. L’esistenza degli insiemi e il postulato di Zermelo; 22. Buon ordinamento e ipotesi del continuo; 23. Il problema della misura degli insiemi lineari; 24. Il problema dell’integrazione).


L'autore

Ludovico Geymonat (1908-1991), laureatosi in filosofia e matematica, dopo la partecipazione alla lotta partigiana, è titolare a Milano nel 1956 della prima cattedra di Filosofia della scienza in Italia. Fra le sue opere principali: Galileo Galilei (Einaudi, Torino 1957), Filosofia e filosofia della scienza (Feltrinelli, Milano 1960), Storia del pensiero filosofico e scientifico (Garzanti, Milano 1970-76), Attualità del materialismo dialettico (Editori Riuniti, Roma 1974), Scienza e realismo (Feltrinelli, Milano 1977), Riflessioni critiche su Kuhn e Popper (Dedalo, Bari 1983), Lineamenti di filosofia della scienza (Mondadori, Milano 1986), Del marxismo (Bertani, Verona 1987).

Links

Su Geymonat:
http://filosofico.net/geymonat.htm
http://geocities.com/prc_pinerolo/geymonat.htm
http://www.kelebekler.com/occ/geymonat01.htm
Sulla storia della matematica:
http://digilander.libero.it/freemate/STORIA/STORIA%20DELLA%20MATEMATICA.htm
http://www.na.iac.cnr.it/even/main.htm#Indice

domenica 19 aprile 2009

Nicla Vassallo (a cura di), Donna m'apparve,

Codice Edizioni, Torino 2009, pp. 168, € 18,00 , ISBN 978-88-7578-125-5.

Recensione di Denise Celentano - 19 aprile 2009

Donne, stereotipi, sessismo, individualità, sesso, genere

Il libro rappresenta una risposta filosofica a più voci a stereotipi e modelli culturali che storicamente hanno espropriato le donne della loro soggettività, perpetrati attraverso il senso comune, i paradigmi scientifici e filosofici e il linguaggio stesso.
Partendo da tre prospettive tematiche (l’io, il rapporto con gli altri, il rapporto col mondo) il libro segue due esigenze teoriche di fondo: da una parte, la critica all'essenzialismo attraverso la promozione di un ‘pluralismo femminile’ rispettoso delle singole identità delle donne; dall'altra, il bisogno di sconfessare tutti quei clichés normativi che vorrebbero intrappolare le donne nella donna.
Diviso in sette capitoli scritti da autrici diverse, con un prologo e un epilogo di Nicla Vassallo, il testo si caratterizza per una struttura che rende giustizia ai concetti rivendicati: pluralismo e rispetto delle individualità.
Nella ricchezza degli spunti, è possibile rintracciare alcuni nuclei tematici essenziali..
Irrazionali. "Dato che in termini aristotelici a distinguere gli animali umani (ovvero gli esseri umani) dagli animali non umani è proprio la razionalità, ne segue banalmente e rischiosamente che, se sono irrazionali, le donne non sono esseri umani" (pag. 9): la rappresentazione sancita da Aristotele in campo filosofico sarà destinata a percorrere la storia della filosofia per i successivi millenni. La donna, emotiva, irretita nella natura, nella soggettività e nell’irrazionale, meriterebbe così un’estromissione dal sapere cui Vassallo attribuisce i caratteri della violenza: epistemologica, là dove le esclude come oggetti di conoscenza, epistemica, quando nega loro lo status di soggetti conoscenti (pag. 12).
Come osserva la curatrice nel Prologo, queste opinioni consolidate hanno la stessa consistenza filosofica di superstizioni e credenze, entrambe noti esempi di irrazionalità: curiosamente, la stessa caratteristica che si voleva attribuire alle donne. Ma “nel tentativo di rimediare, sarebbe erroneo rinunciare al concetto di razionalità” (pag. 8) che porterebbe di nuovo a un irretimento nell’irrazionale, dunque si rivela più proficuo mettere in discussione l’idea di razionalità che la storia della filosofia ci ha consegnato, liberandola dalla sua astrattezza. È quanto ciascun capitolo a suo modo si propone di fare, individuando nella necessità di riportare il pensiero alla concretezza un valido antidoto contro le persistenti rappresentazioni essenzialiste sulle donne.
Diffidenti verso tutto quanto non corrispondesse al loro modello di ragione, i filosofi hanno ricondotto l'empatia nella sfera dei sentimenti, fatta coincidere col femminile, sottodeterminandola indebitamente (mentre la razionalità, la cultura, la politica sarebbero appannaggio degli uomini). Al contrario, osserva Laura Boella, si tratta di un’idea "molto superficiale”(pag. 64): come mostra la fenomenologia, l’empatia “non è per definizione ‘buona’ (...) il suo esito può essere la prossimità, ma anche l'estraneità" (ivi), poiché "empatizzare non significa assimilare l'altro/a a sé o immedesimarsi in lui/lei, bensì attribuirgli/le un'esperienza autonoma e distinta" (pag. 54). Queste componenti liberano l’empatia dall'ambito del sentimento, rivelandone l’importanza non solo sul piano relazionale, ma anche sul piano cognitivo dell'autocoscienza, specie nell’accessibilità del diverso cui apre la possibilità con l'ausilio di quella capacità di superare i confini della percezione che è l'immaginazione, in uno "sperimentare se stessi al di là dei propri confini" (pag. 62), che è in definitiva il modo migliore per sottrarsi agli stereotipi e a rappresentazioni fuorvianti dell'altro, quindi anche della donna.
Natura. Il concetto di natura riveste un ruolo chiave nella riflessione critica delle autrici, consapevoli che l'operazione tradizionale di presentare come naturale ciò che ha una genesi culturale, porta a conferire i caratteri di ineluttabilità e necessità a dei modelli di donna che riconoscere come culturali renderebbe suscettibili di una messa in discussione. Parlare di natura, infatti, equivale a parlare di destino, della necessità irrevocabile che contraddistingue i fenomeni naturali dal mondo umano, morale, libero e aperto alla scelta, che pertiene all'uomo. Non a caso Francesca Rigotti conclude con un invito a pensare contro natura il suo capitolo sui rapporti tra maternità e filosofia. È infatti nel concetto di maternità che la parola ‘natura’ rivela un valore chiave: la natura in senso biologico, intesa come quell'insieme di caratteristiche fisiche che distinguono i sessi. La storia segnata dall'androcentrismo ha trasformato le caratteristiche riproduttive delle donne nelle loro caratteristiche essenziali, dando luogo a quella ingiustificabile equazione tra donna e madre che la distinzione tra “sesso” e “genere” introdotta dal femminismo ha contribuito a sfatare.
Madri: sul “partorire figli e idee”. È vero che "chi fa la scienza non fa figli" (pag. 122)? Come noto, l'alternativa ha sempre solo riguardato le donne, mai gli uomini. Ma, invita a pensare Rigotti, si tratta necessariamente di un aut-aut? Se la filosofia così come venne dipinta da Seneca o Platone, e come l’etimo della parola ‘astrazione’ suggerisce, è un'attività per uomini liberi da svolgersi in un tempo dilatato e senza interruzioni, al di sopra del ‘concreto’, come può conciliarsi con la cura di figli bisognosi di costanti attenzioni e completamente dipendenti? “Per fortuna la filosofia non corrisponde per natura o essenza a tale definizione"; "come non c'è una ‘natura umana’ e tanto meno una ‘natura della donna’, non c'è nemmeno una ‘natura della filosofia’, qualcosa che la filosofia sia ad aeterno e una volta per sempre" (pag. 43).
Muovendo dall'ipotesi di un parallelismo tra forme di vita e forme di conoscenza, Rigotti rintraccia nelle proposte teoriche di Sara Ruddick una linea interpretativa capace di fare della maternità uno ‘stile di pensiero’ adottabile anche da chi madre non è. L’amore e l’attenzione - intesa "come metodo di comprensione delle cose, da guardare appunto con intensità e attenzione finché non ne zampilli la luce" (pag. 38) - ne sarebbero i cardini, dal momento che l’esperienza (reale o immaginata) della maternità costituirebbe una fonte di particolari stimoli cognitivi; il rischio di una deriva essenzialista viene però scongiurato: “importante non è quello che le madri sono bensì quello che le madri fanno” (pag. 35).
Diversità. Come osserva Eva Cantarella nel primo capitolo, la storia ha costantemente rappresentato le donne in termini di diversità corporea, mentale, caratteriale, che ha fatto presto a tradursi in inferiorità ("la sola ragione che potevano possedere era la métis, l'intelligenza astuta, diversa e inferiore", (pag. 23)). Questa è stata rappresentata dalla mitologia greca ancor prima che i filosofi la consacrassero alla storia in forma teorica, rintracciando nella figura di Pandora non solo l’origine dell’infelicità umana ma anche l’inizio del genere femminile. In seguito, molti filosofi hanno accostato spregiativamente le donne al mondo animale, scorgendo in esse la sola funzione biologica della riproduzione sebbene mai dimentichi di attribuire all’uomo il ‘vero’ potere della generazione. L’effetto più immediato di ciò è stato, fra gli altri, quello del controllo della sessualità della donna all’interno di una polis che riflette nello spartiacque pubblico e privato le differenze tra uomini e donne, in quel contesto consegnate irrevocabilmente all’istituto del matrimonio e al rispetto della monogamia, in una subordinazione all'uomo ormai sancita dalla legge. Da allora, il concetto di diversità femminile conoscerà un primo riscatto solo col femminismo, quando “la teorizzazione della differenza non è stata più tradotta inesorabilmente in svalutazione del femminile” (pag. 23).
Relazioni. Costante nelle filosofie femministe è il tentativo di riscattare la corporeità e le relazioni umane dall'oblio di una storia della filosofia tradizionalmente votata all'astrattezza e al solipsismo del soggetto morale. È quanto discute nel quarto capitolo Claudia Mancina, proponendo una panoramica degli ultimi sviluppi della filosofia morale che hanno visto contrapporsi l'etica femminista alla teoria della giustizia rawlsiana intorno ai concetti di "esperienza, relazione, responsabilità, cura" (pag. 67). Pur condividendo col comunitarismo la critica all’atomismo del soggetto di Rawls, le analogie col femminismo non vanno oltre perché esso non comprende nel concetto di relazione i rapporti affettivi, che l’etica femminista ha mostrato essere così importanti nella costituzione del senso morale del singolo. In questo si evidenzia l'eredità della dicotomia tradizionale fra pubblico e privato che i comunitaristi omettono di criticare, e anzi confermano: essa ha portato per secoli a sottodeterminare l'ambito del privato, fatto di relazioni affettive e di cure ritenute meramente ‘naturali’, quasi che non rivestissero alcun ruolo nella genesi della moralità del soggetto. È dunque possibile rivalutare la corporeità da un punto di vista epistemologico e morale riconoscendo che "un corpo non è pura biologia, ma un campo di interazione di forze culturali e sociali" (pag. 72), ed è a partire da ciò che è possibile divincolare la procreazione dalla sua pretesa naturalità per riconoscervi la valenza morale e umana che invero possiede. Di qui la proposta di una ‘teoria relazionale dell'io’ (per certi versi analoga a quella proposta da Botti, 2007), critica verso l'astrattezza e l'individualismo nella filosofia, a favore di una moralità più situata, critica verso il concetto di "autonomia come indipendenza" (pag. 81). La riconosciuta valenza morale di quello che tradizionalmente veniva definito il ‘privato’ emerge in particolare nella questione dell'aborto: la donna, lungi dal rapportarsi al suo feto in nome di un'etica universalistica o di un qualche principio razionale, opera un autentico processo di ponderazione in relazione al suo contesto affettivo e personale, che sfocia in una scelta che ha tutte le caratteristiche della scelta morale.
Linguaggio e potere. Riflettere sul nesso tra linguaggio e potere maschile rappresenta un momento di ricognizione fondamentale per le femministe, che nelle loro analisi hanno svelato la falsa neutralità con cui le parole depositano le asimmetrie di genere. Quanto agli usi linguistici, Claudia Bianchi presenta criticamente le diverse posizioni che si sono distinte sul tema nell'ultimo secolo: il modello del deficit, per il quale le donne parlerebbero un linguaggio inferiore e deficitario rispetto a quello degli uomini; il modello del dominio, secondo cui il linguaggio è una manifestazione del potere patriarcale, tanto pervasivo da impedire l'articolazione di "immagini alternative del mondo" (pag. 91); il modello della differenza, che vede i due sessi caratterizzati da "aspettative discorsive diverse" (pag. 92), quindi da stili di conversazione diversi, quello femminile cooperativo e paritario, quello maschile gerarchico e competitivo; il modello dinamico, che rifiuta la facile opposizione tra identità maschile e identità femminile, e teorizza una intrinseca mutevolezza dell'identità di genere, pensando al linguaggio nella sua "dimensione performativa, di azione e non di semplice espressione" (pag. 94), in virtù del fatto che "il genere non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che facciamo" (pag. 94).
Soltanto un'integrazione tra i modelli può portare a ovviare ai limiti di ciascuno, come evidenzia l'autrice, che conclude: "gli stereotipi sono il punto di partenza di molti lavori su linguaggio e genere, anche di quelli che si propongono di refutarli" (pag. 98) tanto da realizzare una "sostanziale conferma degli stereotipi" (ivi); ne risulta significativamente che "enfatizzare le differenze può essere allora una reazione alla paura di vedere destabilizzate le identità di genere" (pagg. 98-99).
Donne e scienza. L'oggettività è quel requisito ritenuto indispensabile per praticare la scienza, teso ad espungere dalla ricerca qualsiasi elemento che potrebbe contaminarla, comportando una radicale omissione degli interessi, del contesto storico-culturale, dei valori morali, della propria soggettività per rapportarsi impersonalmente alla realtà. Per questo motivo, osserva Alessandra Tanesini, sembrerebbe quasi incompatibile col femminismo, portatore di interessi e valori particolari. Tuttavia è possibile sciogliere la contraddizione formulando un nuovo concetto di oggettività, consapevoli che il suo significato è cambiato nei secoli, quindi forse "è possibile pensare che il modo contemporaneo di concepire questa nozione non sia necessario" (pag. 104), di conseguenza anche le relative concezioni femministe potrebbero sostituire il modello vigente. Il femminismo, attraverso la figura di Haraway, ha visto nell’oggettività un'‘illusione’ capace di generare una pretesa "di onniscienza e infallibilità" tale da rendere "il soggetto cieco di fronte ai propri pregiudizi" (pag. 108), poiché la conoscenza è parziale - nel doppio senso di incompleta e non imparziale - e credere il contrario può portare a una falsa coscienza nello scienziato. Si apre allora la possibilità di ripensare l'oggettività, rivalutando i cosiddetti "vantaggi della parzialità" (pag. 112): riprendendo un'idea marxiana, si può sostenere che gli individui di classi sociali svantaggiate vedano meglio gli aspetti oppressivi del sistema e siano privilegiati dal punto di vista epistemologico rispetto alle classi avvantaggiate. Pur nell'imperfezione della proposta, resta importante avanzare dei modelli alternativi al modello dominante di oggettività che benché si presenti come "la forma suprema di neutralità è invece maschile" (pag. 112).
Sesso e genere. Prima di affrontare sul piano teoretico la questione del rapporto fra donne e scienza, le femministe vi si sono confrontate su un piano storico, focalizzando sui fattori che per secoli le hanno allontanate dai circoli scientifici costituiti da uomini che ne hanno sottovalutato o ostacolato le prestazioni, dando forma a una prassi fedele al luogo comune per cui le donne non sarebbero "brave in matematica". Sorge così un interrogativo: le donne in quanto donne fanno scienza in modo diverso dagli uomini? Per Garavaso, le basi concettuali che giustificherebbero tale "privilegio epistemico" (pag. 127) consisterebbero nella prospettiva essenzialista e nel determinismo biologico, entrambe insostenibili: in primo luogo, "nessuno è mai solo una donna o un uomo, ciascuno di noi vive molte identità" quindi l'essenzialismo, che pretende di spiegare le differenze presunte o reali tra i sessi, si rivela indebitamente semplificatorio, poiché, come afferma Vassallo nell'Epilogo, "ci costringe ad appellarci ad un'oscura entità, la donna, entro cui costringere a ogni costo le tante differenze tra donne e varietà di donne, per sconfessarle o addirittura cancellarle"(pag. 142); mentre il determinismo biologico, per il quale sarebbe il sesso a determinare nelle donne delle caratteristiche cognitive diverse, non riesce a spiegare le così tante ‘eccezioni’ di donne che hanno contribuito significativamente al progresso scientifico e culturale. Di qui la nozione di genere, per Garavaso "il prodotto più importante dell'elaborazione teorica femminista" (pag. 124) poiché vede "un processo di indottrinamento culturale" là dove la tradizione ha visto un determinismo biologico. Come suggerisce Vassallo, se si finisce col vedere nel sesso un fattore determinante nella definizione dei tratti cognitivi e comportamentali, "si finisce con il dover cedere anche alla tesi razzista secondo cui le razze sentono, pensano e conoscono in modo differente" (pag. 138), quindi alla tesi classista, alla tesi eterosessista e via dicendo."In fondo, la donna non è che pura apparenza, una finzione al servizio dell'androcentrismo (...), uno strumento normativo utile per costringere gli esseri umani a comportarsi in determinati modi, per legittimare determinate pratiche e delegittimarne altre" (pag. 142).

Indice

Prologo
Così fan tutte di Nicla Vassallo
L'io
Capitolo 1
Essere diverse di Eva Cantarella
Capitolo 2
Essere madri di Francesca Rigotti
L'io e l'altro
Capitolo 3
L'empatia di Laura Boella
Capitolo 4
Il bene di Claudia Mancina
Capitolo 5
La parola di Claudia Bianchi
L'io e il mondo esterno
Capitolo 6
Oggettività di Alessandra Tanesini
Capitolo 7
Scienza di Pieranna Garavaso
Epilogo
Donna m'apparve di Nicla Vassallo
Bibliografia
Le autrici
Indice dei nomi


La curatrice

Nicla Vassallo è attualmente professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Genova. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo Filosofia delle conoscenze (Codice edizioni, 2006), Filosofia delle donne (Laterza, 2007) e Knowledge, Language, and Interpretation (Ontos Verlag, 2008). Scrive regolarmente su Domenica, il supplemento culturale del quotidiano “Il Sole-24 Ore”.

martedì 14 aprile 2009

Bellet, Maurice, Vocazione e libertà.

Assisi (PG), Cittadella, 2008, pp. 240, € 22,00, ISBN 9788830809048.

Recensione di Paolo Calabrò – 14 aprile 2009
Filosofia della religione

L’ultimo libro di Maurice Bellet tradotto in italiano (l’originale francese ha più di quarant’anni) tratta del rapporto fra vocazione e libertà: come può l’uomo conservare la sua libertà di autodeterminazione della propria vita di fronte alla chiamata di un Dio onnipotente e assoluto? Non è forse il rifiuto di rispondere l’unica possibilità che resta all’uomo di conservare la propria libertà?
Bellet fa piazza pulita di pregiudizi e stereotipi sulla vocazione, spesso alimentati da una certa religione (cristiana) del ‘dovere’: non c’è nessuna concorrenza tra Dio e l’uomo, la vocazione autentica è semplicemente l’occasione che all’uomo viene offerta di ‘far fruttare’ nella maniera più piena i propri ‘talenti’. La vocazione non è sacrificio della propria libertà, ma educazione, scoperta delle proprie possibilità: ciò implica che è impossibile prescindere dalla propria personale condizione di partenza, in termini materiali, morali, psicologici, spirituali. La vocazione non è qualcosa di ‘mistico’ che rapisce il soggetto conducendolo a una conversione che lo snatura: nessuna conversione fa sorgere il suo contenuto dal nulla, tutto ciò che il soggetto è, va assunto interamente nella propria vocazione. Altrimenti l’esito non è altro che ‘menzogna oggettiva’, fare ‘come se’ si fosse qualcosa che, in realtà, non si è affatto.
Il tema dell’assunzione della propria condizione è ricorrente in Bellet: nelle opere successive egli parla della ‘traversata’ come del cammino di colui il quale, di fronte alle proprie difficoltà e anche alle proprie angosce più profonde, è capace di portarne il peso, nonostante tutto, senza negarle, senza cercare ottuse soluzioni di forza (come quella dell’uomo ossessionato dal sesso che, nello sforzo strenuo di sfuggire alla tentazione, non fa che pensarvi) o cadere nella disperazione (ad esempio, nell’avvilente autocompiacimento della propria perdizione).
Anche se Bellet, sacerdote, filosofo e psicanalista, utilizza il linguaggio del cristianesimo, il suo non è un libro di teologia, né la sua trattazione può ritenersi ‘confessionale’. In primo luogo perché, come ha fatto rilevare altrove, è impossibile evitare del tutto il confronto con il cristianesimo: anche solo come idea, infatti, ‘Dio’ si trova nel passato di ogni uomo occidentale (e non solo) e tutti – che lo vogliano o no – devono farci i conti; così come nessun uomo adulto può mai affermare di essersi liberato dell’eredità della propria infanzia, altrettanto nessuno può dichiararsi estraneo al passato della propria cultura, della propria civiltà. In secondo luogo, Bellet usa il linguaggio del cristianesimo in maniera ‘critica’, attenta ai limiti (e agli abusi) di certe interpretazioni tradizionali, al fine di depurare le parole e i concetti dalle croste accumulate dal tempo e dalle stratificazioni dottrinali per recuperarne, infine, il senso autentico, originario, più vicino – e perciò anche più utile – all’uomo e alla realtà.
Il discorso di Bellet riguarda il rapporto tra la vocazione e la libertà, ovvero riguarda la condizione dell’uomo che si trova a decidere dell’uso da fare della propria libertà di fronte al dato di fatto del proprio essere così com’egli è, e non altrimenti, di non poter essere Napoleone, non perché sia ‘troppo per lui’, ma perché egli è un’altra persona, quell’unica ed insovrapponibile che egli è. Rapporto, quello tra la vocazione e la libertà, che sta a monte della saggezza: il segreto della saggezza è infatti l’accettazione della realtà, come nella storiella zen dell’allievo e del maestro (l’allievo si recò dal maestro per chiedergli: “maestro, vuoi rivelarmi il senso ultimo della realtà?” “Sì”, rispose il maestro, che poi rimase in silenzio. Al che l’allievo insisté: “maestro, mi avevi detto che me l’avresti rivelato”. Il maestro rispose: “l’ho già fatto”).
L’inizio della saggezza sta nell’accettare la realtà: saggio è colui che sa incamminarsi su questa strada. In questo senso, la vocazione è la richiesta che la realtà fa all’uomo di partecipare alle cose, prima e al di là di ogni ambizione a trasformarle; mentre la libertà è la capacità dell’uomo di ‘prendere atto’ o di rifiutare lo stato di cose, pretendendole diverse da quello che sono. Questo vale per ogni essere umano: per chi riflette sulla possibilità di diventare prete come per chi sta andando incontro al matrimonio, per chi medita se accettare un nuovo lavoro e per chi è appena stato licenziato.
La vocazione non è dunque qualcosa che ha per forza a che fare con il ‘religioso’; in termini weberiani, la vocazione è quella inclinazione personale che il soggetto sente più o meno di avere in se stesso, in base alla quale può decidere se scegliere o meno la politica o la scienza (ad esempio) come professione. Il termine ‘vocazione’ designa, in un uomo, l’incontro e la sintesi di un desiderio e di una capacità: “è volere e potere un modo di vita, una professione, un destino: ad esempio, la professione di medico o di musicista” (p. XXXIX). Ecco che il ruolo dell’uomo, del singolo uomo (non l’uomo ‘in sé’, che non esiste, ma l’uomo così com’è, calato nello specifico contesto in cui si trova) diventa centrale: la sua azione è a tal punto importante che – se le cose non vengono fatte bene – la vocazione può anche fallire, l’obiettivo essere mancato, la vita umana trasformarsi in insuccesso. Dio (per tornare a parlarne da un punto di vista cristiano), pur onnipotente, non si sostituisce all’uomo: in questo sta la sensatezza della vita umana. Non basta la buona volontà, la sincerità dell’intenzione o la cosiddetta ‘purezza di cuore’ affinché ogni cosa vada al suo posto: “se [è vero che] Dio ha il diritto di fare miracoli liberamente, [d’altro canto] non ci ha mai promesso di porre rimedio sistematicamente alla debolezza della nostra azione; sarebbe anche, da parte sua, renderci un pessimo servizio. C’è una logica della preghiera fatta bene come della tavola piallata bene” (p. 198). Ciò coerentemente con la radicata convinzione di Bellet che tutto è rapporto di forze; non esiste una religione fatta di anime, preghiere e dottrine contrapposta a una prassi materiale e ‘mondana’: “non vi è nulla di interiore che non sia in qualche modo esteriore” (p. 55). Se l’uomo non riuscirà a trovare la sua propria unità, facendo in modo “che l’interno sia come l’esterno” (come recita il vangelo gnostico di Tommaso, § 27), è destinato a rimanere “disgregato, infelice” (p. 10n.).

Indice

Introduzione all’edizione italiana di Giuseppe Como e Enrico Parolari
Bibliografia essenziale
Prefazione all’edizione italiana
Presentazione
Introduzione
Prima parte. La scoperta
Capitolo primo. La differenziazione delle modalità
Capitolo secondo. L’unificazione delle modalità
Seconda parte. La crisi preliminare
Capitolo primo. Gli aspetti della crisi
Capitolo secondo. Il senso della crisi
Capitolo terzo. Il metodo della crisi
Capitolo quarto. L’aspetto sociale
Terza parte. L’elezione
Capitolo primo. La relazione tra senso e contenuto
Capitolo secondo. L’inserimento della vocazione nel tempo e il suo significato eterno
Capitolo terzo. Il riferimento del soggetto alla totalità, e la sua unità interiore
Capitolo quarto. La dualità della chiamata e della risposta e l’unità del soggetto e dell’assoluto
Quarta parte. Il compimento
Capitolo primo. Le esigenze dell’opera e l’accordo delle modalità
Capitolo secondo. La crisi del compimento
Capitolo terzo. L’ultimo passo
Conclusione


L'autore

Maurice Bellet (Parigi 1923), sacerdote cattolico, filosofo e psicanalista. È stato per vent’anni collaboratore della rivista dei gesuiti «Christus» (primo collaboratore non gesuita della rivista). Le sue opere sono tradotte in italiano, spagnolo, tedesco, olandese, inglese, portoghese, brasiliano e cinese.Tra le sue principali pubblicazioni in italiano: Il pensiero che ascolta, San Paolo, Milano 2006; Passare attraverso il fuoco, servitium, Gorle (BG) 2007; Invito, Messaggero, Padova 2004; AA.VV., Per una scienza dell’umano, l’Altrapagina, Città di Castello (PG) 2005.

Links

www.mauricebellet.it/it/ (sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano, contenente biografia, bibliografia in italiano e in francese, nonché brani dei suoi testi)
http://it.wikipedia.org/wiki/Maurice_Bellet (pagina della Wikipedia italiana dedicata a Maurice Bellet)