venerdì 13 marzo 2015

Botti, Caterina, Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita quotidiana

Milano-Udine, Mimesis, 2014, pp. 209, euro 18, ISBN 8857524833

Recensione di Denise Celentano - 15/04/2013

Il libro di Caterina Botti intende indagare il contributo della riflessione femminista nella filosofia morale e nella bioetica, rielaborando alcune delle idee contenute in Madri cattive (C. Botti, Il Saggiatore, Milano 2007). Quel che interessa l’autrice è, fra l’altro, la costruzione di un paradigma teorico sviluppato sul solco del pensiero femminista che risulti interessante per la teoria morale e sia applicabile alle questioni della bioetica, superando i limiti di molti approcci attuali. La tesi fondamentale di Botti è che la riflessione femminista sia importante


in relazione alla teoria morale in virtù del ripensamento che essa ha inaugurato non solo della soggettività, ma «della stessa istanza etica» (p. 34).
Una prima considerazione sull’approccio di Botti riguarda la cura con cui evita di presentare la riflessione femminista come un blocco teorico omogeneo. Sin dal primo capitolo, presentando un quadro sintetico sulle prime inversioni di rotta all’impostazione radicalmente androcentrica, quando non misogina, propria della storia della filosofia, Botti rintraccia due tendenze, cui attribuisce una continuità rispetto ai filoni successivi del femminismo. Sono Mary Wollstonecraft e Olympe de Gouges le autrici che Botti considera significative nel caratterizzare le differenze tra il «femminismo emancipazionista», per l’uguaglianza e la parità dei diritti tra i sessi, e il «femminismo radicale» o della differenza (p. 27), inteso alla differenza tra i sessi. Sin dall’inizio cioè il femminismo si è articolato, da un lato, in rivendicazioni di tipo socio-economico, dall’altro, in istanze di ordine simbolico, caratterizzate dal riconoscimento dell’importanza delle relazioni tra donne, «opposte all’interlocuzione, anche critica, con il maschile» (p. 24).
Individuando queste due tendenze, tuttavia, non si propone una visione semplicemente dicotomica del femminismo. Per esempio, si osserva che, se inizialmente il femminismo radicale o della differenza ha assunto il genere femminile come categoria indistinta, successivamente si è articolato in modo da includere la pluralità delle identità finanche nell’ambito dello stesso soggetto. Ulteriori specificazioni concorrono ad arricchire il panorama della riflessione femminista moderna, fra l’altro in relazione al concetto di differenza: secondo alcune conta la differenza di genere, intesa come dimensione sociale e culturale, per altre è importante la differenza sessuale, ovvero «l’insieme inscindibile di biologico, immaginario e simbolico» (pp. 33-34); vi è poi chi, come Judith Butler, sostiene la messa in discussione di queste stesse opposizioni, per una radicale decostruzione delle categorie sesso/genere in vista di una riflessione positiva. Ciascun filone si è reso partecipe di un processo continuo di ridefinizione dei termini della riflessione e della pratica femminista: «non esiste un pensiero femminista», si legge nella quarta di copertina.
Il femminismo emancipazionista ha affrontato la questione dell’oppressione delle donne nei termini di una “questione di giustizia” definita con criteri esterni e preesistenti al femminismo stesso. Esso ritiene che applicando coerentemente i principi rivendicati dalle teorie della giustizia, la discriminazione delle donne sarebbe risolta (cfr. p. 37), nell’ambito di presupposti teorici che, secondo Botti, avvicinano l’emancipazionismo alla morale liberale: entrambi, infatti, postulano dei soggetti «identici, o comunque commensurabili, che identicamente si rispettano, lasciando le differenze nella sfera del privato di ciascuno» (p. 39). La tesi contraria a questa impostazione sostiene, dunque, la necessità di ridefinire l’apparato categoriale che resta sostanzialmente accettato dal femminismo emancipazionista, vale a dire le idee di donna, uomo, soggetto e moralità (cfr. p. 40). È quanto propone il femminismo della differenza, che consente di criticare ogni caratterizzazione morale ispirata ai criteri di universalità e imparzialità in virtù dell’assunto che «la morale è adeguata solo se riesce a dar conto dei soggetti nella loro diversità» (p. 44). D’altro canto vi è chi ritiene il concetto di differenza sessuale come a sua volta potenzialmente oppressivo, da un lato perché ignora o sminuisce «altri assi di differenziazione» (p. 49), dall’altro in quanto sembra avanzare la pretesa di definire in modo esaustivo un individuo a partire dalle sue appartenenze o identità (cfr. p. 50).
Vi è, inoltre, un’alternativa che considera insufficiente la moralità universalista sulla base della sua «cecità alla particolarità» (p. 53). È a questo proposito che l’autrice prende in considerazione l’etica della cura di Carol Gilligan: benché presenti diversi limiti, l’interesse che essa suscita consiste nell’aver ispirato «una diversa comprensione dell’essere umano in generale, e della soggettività morale, come interdipendente o relazionale» (p. 48). È questo l’approccio valorizzato e sviluppato da Botti, sia pure arricchito di nuovi elementi in senso critico-normativo. Un’alternativa «al nichilismo o al relativismo morale» (p. 54) deriva, allora, da quelle concezioni che sviluppano un discorso normativo, come nel caso di Judith Butler e Rosi Braidotti, le quali, in luogo di una morale intesa tradizionalmente come giudizio o norma sul comportamento, propongono un’etica della virtù capace di considerare, con l’etica della cura, anche una virtù della «trasformazione di sé» (p. 56) che muova dalla fiducia negli altri.
Nell’indagare più direttamente il rapporto tra la riflessione femminista e la bioetica, l’autrice osserva che anche in questo ambito il femminismo tiene conto della differenza sostanzialmente in due modi: o accettando le griglie categoriali tradizionali, nell’ambito di una «richiesta di giustizia e eguaglianza» (p. 61), o decostruendo queste stesse griglie, mettendo in discussione, fra l’altro, la nozione stessa di soggettività, «di soggettività morale e quindi la stessa concezione della morale». Nell’ambito del primo approccio, vi è un filone di autrici che analizza le ingiustizie nella cura della salute e nelle pratiche della biomedicina, con l’obiettivo di valutare la coerenza e la correttezza dell’applicazione dei concetti di uguaglianza e giustizia in rapporto alle esperienze delle donne, e non, sottolinea Botti, una critica di quegli stessi concetti. Tale approccio critica per esempio il trattamento spesso “paternalistico” che una donna subisce perché considerata «impaurita, instabile o irrazionale» nel parto come nelle questioni di fine vita (cfr. p. 67). Tuttavia, in primo luogo è discutibile rappresentare le donne come un’unica entità omogenea; in secondo luogo, assumerne «la comune oppressione» (p. 71) può rafforzare lo stereotipo del soggetto debole bisognoso di protezione; in terzo luogo, classificando come oppressive determinate esperienze si rischia di proporre una visione unilaterale di quanto è ritenuto tale (cfr. p. 71). Si propongono, dunque, forme di riflessione morale incentrate sulla capacità dell’agente «di riconoscere e prendere in carico i bisogni degli altri nella loro particolarità, nei singoli contesti» (p. 72), ripensando la soggettività come «incarnata, relazionale e differenziata» (p. 73), talora problematizzando lo stesso concetto di identità.
Questo secondo tipo di contributo ha riflettuto sul rapporto, asimmetrico, medico-paziente e sulle scelte riproduttive in un «generale richiamo alla cura per la relazione» (p. 76). Viene dunque riconosciuto un limite fondamentale nella discussione bioetica relativa alle scelte riproduttive, la quale non deve esaurirsi nel paradigma meramente contrappositivo fra l’autonomia della madre e i diritti del nascituro: questo approccio presuppone un individuo atomistico, «compiuto in sé» (p. 77), ignorando che «i soggetti si costituiscono e si mantengono nelle relazioni» (p. 77). Ciò conduce a una «riconcettualizzazione della morale stessa», che valorizzi l’attenzione e la responsabilità verso gli altri considerati nella loro particolarità e concretezza. Botti propone dunque un paradigma morale che sviluppi questi assunti recuperando l’etica della cura, con debite correzioni scaturite dal confronto con le critiche femministe.
L’etica della cura è definita dall’autrice come «quella concezione della morale in cui cruciale è la capacità o la virtù di essere solleciti nei confronti dei concreti bisogni degli altri, nella loro particolarità» (pp. 78-79). La critica a questo modello che Botti ritiene più interessante ai fini dell’articolazione di un diverso paradigma morale, consiste in quella «non trasparenza» degli individui con se stessi e quindi con gli altri, che l’autrice definisce «istanza dell’opacità» (p. 84). L’istanza della cura e quella dell’opacità possono così essere fruttuosamente indirizzate verso l’articolazione di un modello morale alternativo tanto all’intellettualismo quanto all’emotivismo, che attraverso l’immaginazione universalizza il contenuto morale radicato – come voleva Hume – nei sentimenti.
Tale modello si rivela fra l’altro interessante nella risposta ai problemi della bioetica che hanno coinvolto la riflessione femminista, come la questione dell’aborto. Essa può essere affrontata, in primo luogo, rifiutando l’ottica meramente oppositiva madre/feto in favore di una concezione morale relazionale di esso; in secondo luogo, riconoscendo che intorno alla questione si addensa un conflitto cruciale, quello fra i sessi nell’asimmetria del controllo riproduttivo: poiché «è proprio da questo maggiore potere femminile che dipendono, come ha affermato il pensiero femminista, le istanze di controllo della sessualità e della vita femminile che hanno caratterizzato il patriarcato» (p. 97). Botti osserva che il desiderio di partecipare alla scelta riproduttiva ha preso sistematicamente le forme di una delegittimazione morale della donna (cfr. p. 98): anche là dove viene riconosciuta la legittimità dell’aborto, comunque non si intacca l’idea di una «arbitrarietà o capricciosità» della scelta femminile, «sulla base della sua irrilevanza morale o facendola rientrare nella sfera di privatezza delle donne». Allora, occorre partire dalla consapevolezza dell’ineludibilità di questo conflitto, in favore di «una riflessione sulla morale che consenta di coniugare la libertà e l’autonomia femminile con la responsabilità e la competenza morale (e non con l’arbitrio o il capriccio)» (p. 99).
Per uscire dall’impasse contrappositiva – diritto alla vita dell’embrione o feto/libertà della donna, «intesi come separati e separabili» (p. 99) – fatta propria anche da chi argomenta a favore dell’aborto (per esempio i liberali), è dunque necessario partire da «una considerazione relazionale della condizione umana» (p. 109). Si tratta di concepire una nuova e diversa idea di autonomia, declinata nel senso di una responsabilità relazionale, nell’ambito della quale la donna si confronta con «i vincoli emotivi e sentimentali» in cui si trova nel momento della scelta. Riconoscere alle donne la loro «competenza morale» significa anche riconoscerne la «possibilità di scegliere più in generale del loro stesso destino, in una parola, la loro soggettività morale» (p. 117).
Libertà e responsabilità, dunque, si realizzano nell’idea di relazione. È questa la prospettiva che orienta l’autrice nel tentativo – realizzato nella seconda parte del libro – di dirimere anche le altre questioni bioetiche più attuali, nel costante confronto col femminismo: la procreazione medicalmente assistita, la questione dei neonati estremamente prematuri, il testamento biologico.
In conclusione, il testo si presenta non solo come un’articolata risposta a ogni tentativo di riduzione del femminismo a un’unica prospettiva – come suggerisce peraltro lo stesso plurale del titolo –, ma anche come un vivace percorso filosofico all’interno delle sue numerose sfumature teoriche e  delle sue possibilità. La riflessione femminista si rivela uno sguardo sul mondo e sul pensiero di cui possono giovarsi anche la teoria morale e la bioetica, a patto di mettere in discussione le proprie categorie di riferimento.


Indice

I Parte - Il pensiero femminista e la filosofia morale
Capitolo 1 - La filosofia, le donne e il femminismo
Capitolo 2 - Il contributo del pensiero femminista in etica
Capitolo 3 - Il contributo del pensiero femminista in bioetica

II Parte - Il pensiero femminista e le questioni della bioetica
Capitolo 4 - L’aborto
Capitolo 5 - La procreazione medicalmente assistita
Capitolo 6 - I neonati estremamente prematuri
Capitolo 7 - La fine della vita e il testamento biologico 

Nota al testo

Bibliografia

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