mercoledì 12 ottobre 2016

Costa, Vincenzo, Fenomenologia dell'educazione e della formazione

Brescia, La Scuola 2015, pp. 297, Euro 19,50, ISBN 978-88-350-4033-0

Recensione di Diego D’Angelo – 21/09/2015

Vi sono temi d'indagine che, pur essendo storicamente centrali per la riflessione filosofica, hanno trovato relativamente poca attenzione in ambito puramente fenomenologico. Questo non significa, però, che il metodo fenomenologico – eventualmente nella versione ermeneutica o decostruttiva – non li possa affrontare con profitto. Il libro di Vincenzo Costa lo dimostra brillantemente: il tema dell'educazione e della formazione può (e anzi, nell'intenzione dell'Autore, deve)


essere riletto alla luce del metodo fenomenologico, poiché solo così sarà possibile affrontarlo in una prospettiva genuinamente umana. 
Cosa si intenda qui per una pedagogia fenomenologica è presto detto. Nel richiamo costante all'esperienza vissuta e non a teorie tradizionali o meno sta la forza dell'impianto che il lavoro di Costa propone. Avviandosi ad una vera e propria decostruzione della tradizione pedagogica (cfr. p. 6) il testo si propone di delineare alcune linee guida, alcuni orizzonti all'interno dei quali pensare poi la prassi scolastica ed educativa in genere. Non si tratta dunque, come messo strategicamente in chiaro fin dall'inizio del libro, di propagandare una riforma della scuola (proporre la quale oggi come oggi, a fronte delle continue proposte catastrofiche avanzate, e spesso malamente attuate, dai vari Governi, rischierebbe di parere una minaccia), ma di rivoluzionare la formazione stessa, cioè rivoluzionare i presupposti di pensiero sulla base dei quali la formazione è stata finora concepita.
Ciò non significa però che l'indagine filosofica qui discussa parta, a sua volta, da una necessità di ordine teoretico, cioè da una supposta insufficienza di pensiero nella formazione. Tutt'altro, al centro stanno esigenze esperienziali: gli attuali sistemi formativi mortificano e distruggono l'innata creatività e curiosità dei bambini, e «la scuola oramai serve a prepararsi agli esami, e non alla vita» (p. 13). Centrale è, in altre parole, l'esperienza diffusa (se non comune a tutti) di un certo iato tra la cultura scolastica e la vita personale, laddove questa constatazione non vuol essere sfogo di un disinteresse generalizzato per il sapere, ma la pretesa di riattivare il senso originario della cultura a fronte di una tradizionalizzazione che questo senso originario lo ha spesso occultato (cfr. p. 276).
Una questione fondamentale da porre all'idea di ripensare fenomenologicamente la pedagogia è necessariamente legata al problema di quale sia il sapere da trasmettere, nonché di giustificare anche in senso epistemologico il presupposto “progresso” o miglioramento del discente che sarebbe lo scopo di ogni processo educativo. Qual è il punto di partenza? Si può forse parlare di un'ignoranza totale, cioè tale da farci pensare all'allievo come una tavoletta di cera su cui imprimere dei contenuti? E qual è il punto di arrivo? 
Queste problematiche, invero assolutamente centrali, sono affrontate dal libro di Costa con radicalità e chiarezza, ma la loro articolazione è dispersa nelle pagine del libro, cosicché potrebbe giovare al lettore (anche non specialista di fenomenologia, a cui questo libro è sicuramente in parte rivolto) restituirne qui alcune idee centrali, tralasciando dunque necessariamente moltissimi altri argomenti o spunti comunque rilevanti. 
Il punto di partenza non è il non-sapere assoluto, ma il discente (sia esso bambino, adolescente, o adulto) che vive in un proprio “mondo” nel senso genuinamente fenomenologico del termine – cioè in un sistema di rimandi significativi intrecciati a doppio filo con la vita in atto. Il discente è già immerso in una precomprensione di ciò che lo circonda, in una certa situazione emotiva che è il movimento stesso della vita vissuta e in cui il «movimento esistenziale della scuola» deve inserirsi (p. 145). L'orizzonte dell'educando deve essere centrale in ogni lezione (p. 259), e ciò per non ricadere nell'idea degli studenti come tavolette di cera. Solo nell'incontro tra l'orizzonte di senso del maestro e quello dell'allievo diventa possibile il dialogo, qui inteso come unica modalità autentica della formazione, che non è né un “plasmare” (p. 69) le menti né una “trasmissione come ripetizione” (p. 272) di nozioni.
La questione seguente è, una volta compresa la complessità irriducibile (dovuta alla irriducibile differenza d'orizzonti) propria del punto di partenza, cosa l'educazione propriamente faccia o debba fare. Se non si può trattare, come pensava Dilthey, degli adulti che cercano di plasmare i giovani a loro immagine e somiglianza (cfr. p. 263), la formazione consisterà soprattutto – heideggerianamente – nell'insegnare all'esistenza ad uscire dal “si” della chiacchiera quotidiana, cioè ad evitare di comportarsi così “perché si fa così”, ma a domandare attivamente circa il senso delle proprie pratiche di vita, di lavoro e così via. Nel far vedere altre possibilità, cioè nell'aprire queste stesse possibilità, l'educazione porta (e-duca) il discente in un nuovo orizzonte e in-segna, cioè inscrive in nuovo contesto e «usa il segno per indicare e alludere al possibile» (p. 268).
Non si ha dunque a che fare con un'impostazione teleologica della pedagogia, dove il fine è una certa quantità di sapere o l'adattamento-uniformazione alla società, al mercato del lavoro ecc., ma con una concezione che si potrebbe definire forse performativa, sicuramente “formalmente indicante” (cfr. p. 7). Le possibilità vanno aperte e dunque indicate, e proprio questa indessicalità performativa del “far vedere” si distacca da qualsiasi concezione della pedagogia come trasmissione mnemonica del sapere. Le possibilità diventano visibili però prima di tutto quando lo studente si stacca dal mondo occultante del “si” quotidiano, in cui l'unica possibilità è ciò che “si” pensa: l'in-scrizione in un orizzonte alternativo permette la riemersione della cura di sé in base ad un progetto autentico e personale, cioè che tenga conto di sé appunto come persona (cfr. p. 73) e non come “lavoratore”, “membro del gruppo” o qualunque altra “definizione” (cioè limitazione) di se stessi. Il sé personale giunge alla questione “cosa voglio fare di me”, cioè giunge a pensarsi in base al tempo come dimensione cardine del proprio essere e a curare se stesso in base ad un progetto voluto, cioè assumendo su di sé “ciò che il soggetto vuole diventare” (p. 81). Forse si trova qui il punto più debole dal punto di vista sistematico, in quanto il concetto di volontà non è discusso e tematizzato ma assunto come autoevidente, mentre risulta problematico descrivere una volontà come risultato dell'insegnamento stesso che conduce fuori dall'orizzonte del “Si” in cui “si” vuole unicamente uniformarsi e ricercare approvazione sociale. 
Chiarito il punto di partenza (la consapevolezza che il discente ha un proprio mondo e propri orizzonti) nonché – sebbene da un punto di vista puramente teoretico – il suo modus operandi (come apertura al possibile e “far vedere” possibilità attraverso la dislocazione in un orizzonte non inautentico), rimane la questione relativa al fine dell'educazione. Scartata l'ipotesi che essa debba servire puramente all'inserimento nel sistema economico-lavorativo (per quanto questo possa essere uno scopo secondario, o per quanto sia necessario crearne la possibilità generale, cfr. pp. 221), in quanto questo stesso sistema è il “Si” da cui l'insegnamento vuol fare uscire (cfr. pp. 216-217), Costa propone una concezione dell'educazione come “vita che cerca se stessa” (p. 218), e cioè imperniata sulla “persona come domandare” (p. 223). Si richiama qui dunque espressamente la Sorge heideggeriana: la persona è quell'ente per cui ne va del suo stesso essere, e cioè che è in grado di farsi domande su se stesso. Questa possibilità del domandare di se stessi è inquadrata come fine ultimo della formazione. A tal fine, a dover essere riattivata è la domanda sull'origine. Corrispondentemente, non sarà sensato presentare una miriade di contenuti tra loro separati, ma in gioco dovrà esserci il sapere nella sua unità, l'ordine sistematico dei contenuti (p. 229). Ecco dunque, dopo la filosofia della pedagogia, il ruolo pedagogico della filosofia: a presentare (e discutere) l'articolazione del sapere, cioè il posto delle singole discipline in relazione alla domanda su se stessi, dovrà essere la filosofia stessa (p. 234).
Seppure questa impostazione abbia rilevanti conseguenze dal punto di vista pratico (una netta riduzione della quantità di contenuti “trasmessi”, p. 270; l'impossibilità di presentare la filosofia come storia della filosofia, p. 234; la necessità di “far vedere” il problema da cui sorgono le teorie scientifiche, anziché presentarle come dati di fatto, p. 232), ci sembra sensato in questa sede insistere piuttosto sul fatto che a giovarsi dell'impostazione di Costa non è solo la pedagogia, ma anche la stessa ricerca fenomenologica. 
L'opera in questione non fornisce, infatti, solo indicazioni precise per una pedagogia fenomenologicamente fondata, ma dispiega in maniera inedita le possibilità concettuali e metodologiche della fenomenologia stessa, facendone vedere nuovi orizzonti di senso e nuove possibilità. L'autore si muove con pregnanza tra le impostazioni di Husserl e Heidegger – forse i due nomi più citati nel volume – raccogliendo impulsi da svariate altre fonti fenomenologiche, filosofiche, pedagogiche, sociologiche, antropologiche, letterarie e via dicendo. Da ciò scaturisce un'impostazione assolutamente originale, un intreccio proficuo di diversi autori che porta ad una summa sistematica pregnante che dispiega proprio qui, all'opera, tutta la propria potenza concettuale. A fronte di qualche ripetizione forse inevitabile, infatti, Fenomenologia dell'educazione e della formazione è, prima di tutto, un'opera di fenomenologia, un tentativo genuino (e dunque riuscito) di mettere in atto il metodo fenomenologico in un nuovo ambito d'indagine.


Indice

Introduzione
I. Un orizzonte di problemi
II. L'educazione della persona: cervello, cultura e storia
III. L'ontologia della formazione: aprire la persona ai suoi possibili
IV. L'educazione al reale e l'ingresso nel mondo
V. Le emozioni come condizioni della cura e dell'apprendimento
VI. Narratività, cura e formazione dell'esistenza
VII. La pedagogia sociale come cura dei legami
VIII. I fini dell'educazione: professionalizzazione, specialismi e formazione della persona
IX. La riconduzione all'esperienza e la comunicazione educativa
X. La trasmissione e il principio di riattivazione
Bibliografia
Indice dei nomi

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