mercoledì 26 ottobre 2005

Bauman Zigmunt, Vite di scarto.

Trad. it. di Marina Astrologo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 173, € 15,00, ISBN 88-420-7275-3.
[Ed. or.: Wasted lives. Modernity and its outcasts, Polity Press, Cambridge 2003]

Recensione di Laura Menatti – 26/10/2005

Sociologia (globalizzazione), Filosofia politica (Stato)

Zigmunt Bauman, nel saggio Vite di scarto, mette in evidenza un dato interessante che, nelle trattazioni sociologiche sul tema della globalizzazione, è passato spesso in secondo piano: la fine dello Stato.

Prima di soffermarmi sull’analisi del sociologo polacco vorrei evidenziare l’antecedente teorico a cui la tematica della “fine dello Stato” deve ricondurre: la riflessione del giurista tedesco Carl Schmitt. Sono ben consapevole delle divergenze teoriche che intercorrono fra i due pensatori, dello scarto temporale che li separa e della diversità politica che ne fa due opposte figure di intellettuali del Novecento. Analizzare un pensatore significa, tuttavia, esulare talvolta dal contesto di adesione politica in cui lo stesso è immerso.

Schmitt è stato tra i preveggenti analisti di una forza sradicante: la tecnica. Una forza nichilistica, desertificante che si esplica nell’idea di un nomos a-nomico e omologante, e nella inevitabile affermazione di una globalizzazione incombente e di un imperialismo emergente attuato nelle azioni politiche-militari degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Dopo la Seconda guerra mondiale, finita da molto l’adesione al nazionalsocialismo, deluso dagli esiti tragici di un pensiero escludente e terribile, Schmitt vedrà ben chiara la possibile configurazione della politica europea. L’eurocentrismo dello Jus publicum Europaeum è ormai in declino, così come la forma che di questo diritto ne è più rappresentativa: lo Stato-nazione. Schmitt osserva l’imminente fine della forma prettamente storica dello Stato, creazione del formalismo e del razionalismo occidentale, sussistente per quattro secoli a partire dalla modernità europea.

Schmitt prefigura, invece, la tendenza ad affermarsi di una forza, destinale e unificatrice, quella che da molti pensatori è stata definita una violenta “reductio ad unum” che cancella ogni molteplicità, ogni differenza e ogni varietà pluriversa di pensieri e popoli. Il giurista tedesco analizza con mirabile preveggenza l’affermazione di un modello politico e teorico, un pensiero unico che astrae da ogni forma diversificata. A questi temi di diritto internazionale dedica nel 1950 Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum Europaeum”. Nell’età moderna il diritto pubblico europeo, diritto terraneo che ha determinato la forma (chiusa) dello Stato-nazione, è sulla inevitabile via del tramonto, tanto più per il fatto che ha il suo riferimento nella terra in opposizione al mare. Nell’affermazione dell’impero marittimo inglese sta il primo germe del decadimento di questa forma di Stato, si assiste alla trasformazione del diritto tra gli Stati in diritto privato internazionale, diritto commerciale, prodromo della forma, ormai conclamata ai nostri giorni, della globalizzazione.

Bauman ha variamente analizzato il concetto di globalizzazione nelle sfaccettature e nelle crepe dell’anima che si producono nel cittadino immerso nell’assordante magma globale (o glomus, come direbbe Jean-Luc Nancy) sradicato e deterritorializzato. Per Bauman, le politiche neoliberiste hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale e per la crisi dell’identità del cittadino contemporaneo.

Il modello del libero mercato, modello dominante la società postmoderna biodegradabile, come l’aveva definita in un saggio del 1999, La società dell’incertezza, e che ora chiama la società liquido-moderna, è luogo di produzione di rifiuti e di esseri umani di scarto. I rifiuti contemporanei sono persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, sono gli esuli, i richiedenti asilo e i rifugiati della contemporaneità. La modernità, in quanto progettazione delle forme della comunità umana, è luogo scarti umani, quelli che mal si adattano al modello progettato.

Bauman parla di comunità come cosciente e consapevole luogo di progettazione di modelli di ordine, legislativo, politico ed economico. Coloro che ne sono esclusi, e tuttavia in quanto tali rendono possibile tale ordine, sono paragonabili all’homo sacer di cui parla Giorgio Agamben. L’homo sacer è colui che nell’antico diritto romano era posto al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina. La vita di un homo sacer era priva di valore sia umano che divino: “Traducendo tutto ciò in termini laici e contemporanei, potremmo dire che nella sua versione attuale, l’homo sacer non è né definito da un insieme di leggi positive, né è portatore di diritti umani che precedono le norme di legge” (p. 41).

Proseguendo la lettura di Agamben, Bauman arriva ad affermare che lo Stato si definisce e si confina proprio per la sua facoltà di escludere gli homines sacri. Lo spazio politico della sovranità sarebbe stato costruito attraverso l’eccezione e l’esclusione di tali categorie di uomini. Il pensatore aggiunge in maniera incisiva: “Homo sacer è la principale categoria di rifiuti umani creati nel corso della moderna produzione di spazi sovrani ordinati (obbedienti alle leggi, governati da norme)” (p. 42).

Lo Stato nazionale è cresciuto, per Bauman, sulle macerie degli scarti umani, allorquando popoli di uno Stato escludano popoli senza Stato (esuli, richiedenti asilo); sul binomio di opposizione e di esclusione si è costruita l’identità statale, secondo una coincidenza tra identità di un popolo e confini dello Stato nazione, entro cui questo stesso popolo cresce e sviluppa la propria coesione escludente.

Oggi, tale monopolio dello Stato rimane incontestato; è, infatti, la singola entità statale, che nella pratica, valicando la teoria dei trattati internazionali in materia di scarti umani, legifera sull’accoglimento e sull’esclusione degli esuli. È ancora lo Stato che si definisce attraverso la chiusura o l’apertura dei propri confini: “Quel monopolio resta incontestato ancor oggi, malgrado si accumulino gli indizi della natura fittizia delle pretese dello Stato alla sovranità” (ibid.). Lo Stato contemporaneo rivendica ancora la pretesa del diritto di esenzione, nella convinzione di poter salvaguardare la propria progettualità e la propria esistenza agli occhi del cittadino. Tale pretesa è tuttavia fittizia, perché il panorama globale fa emergere un altro inquietante scenario: lo Stato si trova impossibilitato a garantire le sicurezze economiche e lavorative dei cittadini. Bauman inizia il suo testo parlando della depressione come uno dei malesseri più diffusi tra i giovani, tra le cause della quale vi sono l’incertezza lavorativa e la precarietà dell’esistenza che gli uomini e le donne contemporanei devono quotidianamente riprogettare a breve termine.

Lo Stato, come tutore del cittadino, inteso nel senso di protezione welfaristica della persona, è venuto meno in seguito all’affermarsi, nell’ordine della globalizzazione, di politiche economiche liberistiche. Ciò che legittimava lo Stato, ovvero il suo ruolo di difesa economica del cittadino, viene a cadere nell’era della contemporaneità globalizzata. La legittimità statale, se non può più fondarsi sulla definizione di criteri protezionistici economici a lungo termine, deve trovare altre basi di auto-legittimazione.

Lo Stato del welfare (con precipuo riferimento all’Europa) è ormai surclassato. L’ultimo - opinabile per Bauman - tentativo di auto-legittimazione dell’entità statale è la famigerata questione della sicurezza, inserita con ancor maggior fervore nell’agenda dei politici contemporanei, con tutti gli effetti mediatici e simbolici del caso, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 e agli altri attentati avvenuti sul suolo europeo.

Oggi il potere politico cerca una pur debole legittimazione attraverso la tematica della sicurezza. L’immigrazione, gli esuli, gli scarti umani rientrano nel gioco delle paure tautologiche su cui la discussione mediatica fa leva: “I governi, spogliati di gran parte delle loro capacità e prerogative sovrane dalle forze di globalizzazione che non sono in grado di contrastare – e meno ancora di controllare – non possono far altro che scegliere con cura i bersagli che sono presumibilmente in grado di contrastare e contro cui possono sparare le loro salve retoriche” (p. 72). Gli scarti umani della nostra contemporaneità costituiscono un bersaglio facile su cui scaricare le ansie e i timori di una collettività precaria. Lo Stato, nell’ultimo esausto tentativo di darsi una definizione, raccoglie tali ansie e le arruola tra gli obbiettivi primari per riaffermare un’autorità erosa ed indebolita.

Si delinea, di contro alla territorialità statale, uno spazio extraterritoriale, una zona di libera politica che sfugge al controllo delle leggi nazionali, come uno dei principali effetti della globalizzazione e delle sue ripercussioni a livello economico e legale. Le stesse decisioni politiche determinanti vengono prese, come sottolineava Rorty, da una classe politico-economica supernazionale, mentre sono assenti una comunità politica globale o spazi politici globali. Lo spazio extraterritoriale è una zona di nessun potere, apparentemente, dove lo Stato nella sua definizione classica non ha alcuna ingerenza e dove dominano, invece, i poteri forti della globalizzazione. Ciò che rimane di apparente competenza dello Stato-nazione è la questione della sicurezza, poiché è avvenuta la trasformazione da Stato sociale a Stato penale, che ha al primo posto tra i suoi obiettivi la criminalizzazione degli scarti della società e il loro inserimento in una questione di sicurezza. È uno Stato nazione, quello contemporaneo, preoccupato delle proprie sicurezze, a cui tuttavia sfuggono di mano sia le questioni economiche, perché sono ormai sopranazionali, sia quelle militari, in quanto la stessa guerra, più o meno mascherata dietro interventi democratici, è deregolamentata dagli effetti della globalizzazione.

In sintesi, lo Stato ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche, ha scelto una politica di sicurezza come fulcro di una strategia mirante a recuperare l’autorità perduta e l’impronta protettiva agli occhi del cittadino. Ha inoltre acconsentito a progettare e creare nuovi luoghi sicuri per lo smaltimento dei rifiuti umani (banlieues, nuovi ghetti, campi per immigrati) diventando, afferma Bauman con un’espressione molto forte, uno “Stato caserma” (p. 106), uno Stato che protegge gli interessi dei grandi gruppi industriali moderni e intensifica la militarizzazione e la repressione sul fronte interno. Il tutto nel tentativo di costruire una sovranità che rimane, comunque, apparente e labile.

Indice

Introduzione
1. In principio fu il progetto. Ovvero i rifiuti della costruzione di ordine
2. Loro sono troppi? Ovvero i rifiuti del progresso economico
3. A ciascun rifiuto la sua discarica. Ovvero i rifiuti della globalizzazione
4. Cultura de rifiuti
Note

L'autore
Zygmunt Bauman, sociologo polacco è professore emerito di sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia. In italiano ha pubblicato Modernità ed olocausto (Bologna 1992), Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita (Bologna 1995), Le sfide dell’etica (Milano 1996), Il disagio della post-modernità (Milano 2002), Voglia di comunità (Bari 2004), Amore Liquido (Bari 2004), Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (Bari 2005), Intervista sull’identità (Bari 2005), La società sotto assedio (Bari 2005) e Modernità liquida (Bari 2005).

martedì 25 ottobre 2005

La svolta pratica in filosofia vol. 2. Dalla filosofia pratica alla pratica filosofica [Discipline filosofiche, I/2005], a cura di Roberto Frega e Roberto Brigati.

Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 306, € 18,00.

Recensore Moreno Montanari – 25/10/2005

Pratica filosofica

“Abbiamo bisogno che la filosofia ci mostri la strada per ritornare all’esperienza ordinaria, per renderla un oggetto di interesse e di piacere e non di disprezzo e fuga”. Questa citazione di Nussbaum (La fragilità del bene), posta in epigrafe alle Considerazioni preliminari sulla pratica filosofica o sulla filosofia come pratica, con le quali Roberto Frega apre questo interessante e ricco numero della Rivista di Discipline filosofiche (XV I 2005) sulla filosofia pratica e la pratica filosofica, può effettivamente intendersi come l’affermazione programmatica del libro: sondare attraverso quali modalità, per quali finalità e con quali effetti, sia possibile far uscire la filosofia da quelle che Nietzsche definiva “le stanze polverose dei dotti” accademici all’interno delle quali, prosegue idealmente Frega, “gli ideali di una cultura filosofica orientata a coltivare e migliorare le persone e ad appagare il piacere intellettuale lascia il posto alla risoluzione professionale di problemi tecnici di natura specialistica” (p. 135) tradendo quella sua componente che, in senso estremamente ampio, il filosofo americano Cavel definisce “terapeutica”, e che possiamo più sobriamente considerare come finalizzata a formare e non semplicemente a informare. Ma questa possibile accezione della filosofia, che trova probabilmente oggi nella consulenza filosofica una delle sue principali attuazioni, non è che una delle possibili accezioni della pratica filosofica che questo libro analizza, cercando di offrire un ampio quadro di riferimento delle diverse forme di filosofia “pratica” e operando necessari distinguo tra filosofia pratica, filosofia popolare, filosofia applicata e pratica filosofica. Se dunque non sarà questo il libro che permetterà di farsi un’idea precisa sul fenomeno della pratica filosofica intesa come consulenza filosofica – l’unico ad occuparsene, ma meno dettagliatamente che altrove, è Neri Pollastri - i temi affrontanti al suo interno costituiscono non di meno un arcipelago di interessanti spunti di riflessione utili anche a chi intenda muoversi nell’analisi di questa specifica disciplina. In particolare la relazione maestro-apprendista (José Daniel Cabrera Cruz, Miguel Francisco Crespo Avarado), l’influsso che la filosofia può esercitare nella formazione dell’uomo e il ruolo che potrebbe ricoprire nella nostra cultura (Roberta De Monticelli), il rapporto tra razionalità del sentimento e affettività della ragione (Neri Pollastri), l’analisi dei limiti dell’approccio teoretico e pratico della psicoanalisi freudiana ai problemi esistenziali e l’analisi di nuovi e meno riduttivi paradigmi filosofici (Paola Teresa Grassi), la critica del puro intellettualismo socratico al quale, spesso troppo acriticamente, le principali correnti di pratica filosofica si rifanno (Roberto Brigati), la necessità di riformulare i fondamenti epistemologici, troppo spesso altrove non sufficientemente esplicitati, della filosofia al fine di una sua coerente applicazione pratica e della formulazione di una pratica filosofica realmente tale (Alessandro Volpone) e la necessità di rivedere non solamente il senso della filosofia ma la figura dei filosofi al fine di rispondere alla domanda di filosofia in senso diffuso e non specialistico e se si vuole fare della filosofia una pratica immanente ancorata all’ordinarietà della vita quotidiana (Roberto Frega), costituiscono tutti temi di riflessione imprescindibili per un buon approccio alla consulenza filosofica. Allo stesso modo, il rapporto pratico-ricorsivo che si dà tra conoscenza filosofica e prassi esistenziale in diversi autori di riferimento (Jeanne Hersch per Francesca De Vecchi e Carlo Sini per Stefania Contesini, la scuola filosofica di Kiev per Yuriy Myelkov) e l’analisi dei differenti modelli di cooperazione e coordinamento delle pratiche sociali in aula e delle modalità che producono una collettività, al di là delle dichiarazioni d’intenti e delle teorie di riferimento (Barbara Olszewska), costituiscono prospettive interessanti per comprendere come, pur restando apparentemente teoretica la problematicizzazione filosofica, sia in fin dei conti sempre in pratica in quanto “nella costruzione e risoluzione di un problema filosofico il soggetto in realtà decide di se stesso” (Fratesca De vecchi, p. 243) e  “l’istruzione migliore della filosofia non è l’apprendimento dei suoi contenuti, ma la presa d’atto delle sue pratiche”, insomma: “La filosofia s’impara solo facendola” (Carlo Sini cit. da Stefania Contesini, p. 65).

In nessun caso il ritorno della filosofia all’ordinario è inteso come la banalizzazione delle funzioni e del linguaggio della filosofia, come invece spesso è accaduto a chi ha inteso muoversi in questa direzione. Negli articoli di questo libro l’ordinario diventa, o torna ad essere, il luogo di un’interrogazione filosofica capace di creare “una forma di sospensione […] nella quale abitudini, routine, presupposti impliciti e pregiudizi sono sospesi per essere indagati criticamente ed eventualmente modificati”, un sapere riflessivo che invita “a prendere posizione sulle proprie prese di posizione” (Frega, pp. 15-16).

Se uno dei principali meriti del libro è dunque quello di ricordare le differenti specificità di  filosofia pratica e pratica filosofica, in un periodo in cui le due espressioni rischiano di essere confuse o appiattite in un unico senso, un altro è dato dalla modalità rigorosa, per riferimenti, lessico, indagini, con la quale i differenti temi sono stati trattati offrendo, in particolare, la formulazione di diversi possibili paradigmi di riferimento per muoversi all’interno del vasto orizzonte di queste discipline distinte ma non separate. Il libro rinuncia infatti a ridurre il fenomeno della filosofia pratica a una formulazione generica, magari di facile fruibilità ma di scarsa utilità e corrispondenza alla realtà, affrontando la complessità del tema da prospettive differenti per approcci, riferimenti epistemologici, finalità e interessi, offrendo così un lavoro nel complesso sostanzialmente inedito seppur su di un argomento assai dibattuto.

Indice

R. Frega, Considerazioni preliminari sulla pratica filosofica o sulla filosofia come pratica
A. Volpone, Dell’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica
Stefania Contesini, Una lettura delle pratiche filosofiche a partire dal concetto di “pratica”in Carlo Sini. Le pratiche filosofiche e il conosci te stesso
N. Pollastri, Razionalità del sentimento e affettività della ragione. Appunti sulle condizioni di possibilità della consulenza filosofica
P. T. Grassi, Un passo filosofico oltre Freud
R. Frega, Antiprofessionalismo e filosofia dell’ordinario
J. D. Cabrera Cruz, M. F. Crespo Alvarado, Il senso delle pratiche e la relazione maestro-apprendista oggi
R. Brigati, L’invenzione dell’intellettualismo: tornando alla fallacia socratica
F. De  Vecchi,  Jeanne hersch: duplicità della filosofia e filosofia come pratica
Yuri Myelkov, Filosofia della pratica e visione realistico-concreta del mondo
Barbara Olszewska, Sincronizzazione delle attività e produzione di collettivo

giovedì 20 ottobre 2005

Carchia, Gianni - D’Angelo, Paolo (a cura di ), Dizionario di Estetica.

Roma-Bari, Laterza (Manuali), 2005, pp. 337, € 25,00, ISBN 8842058297.

Recensione di Fabio Fraccaroli – 20/10/2005

Estetica

Roland Barthes amava ricordare il senso di vertigine che si può provare sfogliando un dizionario. Una parola spiegata da altre parole che rimandano a parole che a sua volta si riferiscono ad altre parole ancora. Sublime vertigine dell’apprendere. Di fatto qualcosa di simile si può verificare anche sfogliando l’utile Dizionario d’estetica curato da Gianni Carchia, Paolo D’Angelo con la collaborazione di Stefano Catucci, Flavio Cuniberto, Tonino Griffero, Stefano Velotti. Anche qui, ovviamente, i concetti, i lemmi le categorie che arricchiscono la speculazione estetica sono primi passi per avvicinarsi a tutte le idee, i problemi, i dibattiti che hanno formato tale disciplina filosofica.
Volendo simulare questa labirintica sensazione usando le definizioni offerte nel dizionario, propriamente dovremmo dire che questo testo è anzitutto “interessante”. Tale aggettivo, infatti, incominciando “ad assumere un preciso rilievo estetico nel pensiero francese del primo settecento”(p. 161), ci viene ricordato, identifica ogni oggetto la cui ‘energia estetica’ superi quella del soggetto al quale è destinato. L’interesse è in altre parole uno stimolo in grado di produrre un momentaneo appagamento. Ma, una volta appagato, il bisogno estetico richiederà uno stimolo maggiore del precedente, alimentando un processo di natura patologica” (p. 161). Non appagati, e senza entrare nei meriti di come l’interessante sia “per Kierkegaard una categoria limite, ai confini dell’estetica e dell’etica” (p. 162), corriamo verso un altro lemma.
“Schlegel contrappone l’interessante alla categoria estetica per eccellenza, ossia al bello: se infatti il bello è oggettivo, universale, classico, l’interesse è l’individuale, il caratteristico, il sentimentale” (p.161); così per capire cosa anima la nostra smaniosa curiosità non al bello, a ciò che ci appaga ma a ciò che ci disturba c’inquieta, al brutto dovremmo guardare per trovare un perché, dei chiarimenti, riguardo la nostra insoddisfazione che è estetica. Cavalcando la vertigine che un testo fatto di definizioni ci procura, seguendo il filo delle associazioni e dei termini, consultiamo un altra voce: “Brutto ( ingl. ugly; fr. laid; ted. das Hässliche )” (p. 45).
Il Brutto a cui si richiama, in un certo senso anche l’inappagato piacere dell’interesse che ci guida persino nella lettura di un dizionario, va inteso non come “disvalore estetico, la mancata riuscita artistica” (p. 45) ma nella sua seconda più ampia accezione: “È un’esperienza frequente quella per cui le opere d’arte possono presentarci non soltanto contenuti o situazioni gradevoli, piacevoli, conciliate, ma anche contenuti e immagini sgradevoli, urtanti, dissonanti, e persino al di fuori della produzione artistica si può avere il fascino di elementi perturbanti, irritanti o disarmonici. […] il brutto in senso extra-artistico non viene più definito sulla base della sua opposizione al ‘bello’ come sinonimo di valore estetico, ma in opposizione a un concetto di bellezza come gradevolezza sensibile, rispetto di certi canoni” (p. 45)
Il brutto come supplemento antitetico del bello può produrre qualcosa di articolato che merita la nostra attenzione.
Il brutto, combinandosi ad esempio con l’esperienza inappagata dell’interesse, detronizza il carattere conciliante della bellezza, apre le nostre capacità percettive verso la varietà delle categorie estetiche che non hanno come fine la sola eufonica bellezza. L’estetica, è anche questo uno dei temi che caratterizza le definizioni presentate, diventa vera e propria disciplina filosofica quando complicandosi pluralizza il bello e storicizzando l’arte propone svariate categorie con cui giudicare le nostre esperienze sensoriali e culturali.
L’estetica, vien da pensare, non nasce con il solare Platone dei Dialoghi, ma con il cavilloso Aristotele della Poetica.
Comunque sia andata la storia dalla Grecia delle polis fino ai giorni nostri, nulla meglio di un vocabolario potrebbe convincere a perdersi fra le molte categorie estetiche e i loro plurisemantici significati, per pensare esteticamente.
“Categorie estetiche (ingl. aesthetic properties ;fr. catégories esthétiques; ted. aesthetische Kategorien). In senso ristretto, si intendono per categorie estetiche i predicati del giudizio estetico, ossia le nozioni di sublime, tragico, comico, pittoresco, grottesco, ecc. Perché diventi possibile parlare di categorie estetiche è necessario che il valore estetico non venga identificato in modo esclusivo nella bellezza, cioè si ritenga che le nozioni di sublime, brutto, ecc. non connotino semplicemente la mancanza di valore, bensì ambiti specifici dell’ esteticità di natura diversa dal bello, bisognosi di essere indagati e definiti accanto ad esso” (p. 54).
“Per evitare una dilatazione eccessiva del termine categorie estetiche sembra opportuno non ampliare la nozione fino a ricomprendervi tutti i concetti estetici, […] come per esempio caratterizzazioni di tipo storico (classico, romantico, ecc.) […]. Se così si facesse l’insieme delle categorie estetiche coinciderebbe col lessico dell’estetica, mentre sembra più fruttuoso indicare con categorie estetiche i predicati qualificativi e descrittivi, che riformulano e precisano la percezione del valore estetico”(p. 54).
Ben comprendendo l’importanza di queste precisazioni terminologiche, senza poterci interrogare sulla reale possibilità di tale esclusione, bisognerà a questo punto chiedersi cosa si possa intendere con il termine estetica filosoficamente parlando .
In altre parole è giusto domandarsi: c’è estetica solo fin tanto che ci si appropria di categorie, di concetti valutativi per definire e apprezzare l’arte come ogni altra esperienza nel nostro mondo, o di fatto l’estetica la si può anche interpretare proprio per mettere in crisi il formarsi di specifici concetti che adoperiamo per valutare ciò che percepiamo?
In questo senso, nelle definizioni che rinviandosi fra loro offrono un visione generale sul cosa si debba intendere per estetica in questo Dizionario, emerge il primo carattere della disciplina, quale abilità di misurare, apprezzare l’arte e/o le esperienze extra-artistiche.
Ci pare invece che nel lavoro curato da Carchia e D’angelo, poco si sia messo in luce l’altro aspetto che rende problematico il ragionar estetico, l’ambito che indaga in modo quasi fenomenologico-descrittivo la percezione, il sentire (sensoriale) comune.
Già nella definizione stessa di estetica poco si è scelto di sottolineare quello che potremmo chiamare il passaggio dalla facoltà alla disciplina, passaggio che sancisce due possibili ambiti dello speculare di questa attività filosofica. Se come si è detto esiste una disciplina del filosofare che guarda all’arte, al come capirla e distinguerla da altre piacevoli-dispiacevoli esperienze (quotidiane o eccezionali), non va dimenticato che come facoltà l’estetica era stata voluta, già in Kant, come luogo della sensazione, aisthesis appunto, con tutti gli ancor vivi problemi che la definizione di tale processo comporta.

Indice

Prefazione

Dizionario d’estetica
Elenco dei titoli citati in forma abbreviata
Indice dei lemmi

I curatori

Gianni Carchia, (1947-2000) fu professore di estetica a Viterbo, presso l'Università della Tuscia, poi all'Università di Roma III. Esordì nel 1979 con Orfismo e tragedía. Il mito trasfigurato (Celuc), cui seguirono: Estetica ed erotica, Saggio sull'immaginazione, Celuc, 1981, La legittimazione dell'arte Studi sull’intelligibile estetico, Guida, 1982, Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano 1983, Retorica del sublime, Laterza, 1990, Arte e bellezza. Saggio sull'estetica della pittura, il Mulino 1995; La favola dell'essere. Commento al Sofista, Qodlibet, 1997, L'estetica antica, Laterza, 1999; Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Bulzoni, 2000.

Paolo D’Angelo (Firenze, 1956) è docente di Estetica all’Università di Roma Tre. Tra le sue publicazioni: L' estetica di Bendetto Croce, Laterza, 1982, L' estetica italiana del Novecento, Laterza, 1997, L' estetica del Romanticismo, Il Mulino, 1997, Estetica della natura, Laterza, 2001, Estetica (con Elio Franzini , Gabriele Scaramuzza ), Cortina, 2002, Estetismo, Il Mulino, 2003, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, 2005.

sabato 15 ottobre 2005

Varzi, Achille, Ontologia.

Roma-Bari, Laterza (Biblioteca Essenziale), 2005, pp. 178, € 10,00, ISBN 88-420-7623.

Recensione di Roberto Ciuni - 15/10/2005

Filosofia teoretica (ontologia)

Ontologia di Achille Varzi offre una vasta e articolata panoramica sui principali problemi del dibattito ontologico contemporaneo, spaziando dal problema della distinzione fra ontologia e metafisica a quello dei rapporti fra considerazioni linguistiche e considerazioni ontologiche (problemi, questi, prettamente metodologici), dal problema dello statuto delle proprietà o degli eventi a quello delle entità fittizie (più strettamente contenutistici). Proprio in tal modo il volume riesce contemporaneamente a introdurre ai problemi e a fornire una visione d’insieme su un campo d’indagine che negli ultimi quindici anni è stato ripreso in considerazione, e che si è rapidamente diramato in settori specializzati, senza talvolta riuscire a fornire, di sé, l’immagine di una disciplina unitaria. Il libro è così diviso: all’Introduzione seguono due capitoli metodologici e un capitolo sui temi di ricerca, più esteso dei due precedenti. Segue un’appendice con suggerimenti per ulteriori letture (introduttive e specifiche) e una bibliografia che ha il pregio di essere il più possibile ricca ed esauriente (impresa ardua, data la quantità di volumi pubblicati sui temi ontologici).

Il volume è aperto da un problema d’obbligo: i rapporti fra metafisica e ontologia. In questo argomento Varzi dà ampio spazio a quella che, notoriamente, è la sua posizione: la ricerca ontologica è preliminare a quella metafisica, dato che scopo della prima è stabilire cosa c’è, mentre scopo della seconda è stabilire cosa è ciò che c’è. Dopo avere presentato questo approccio, cui si atterrà in linea di massima per tutto il libro, Varzi dedica alcuni paragrafi a concezioni alternative o anche fortemente divergenti. In quest’ultimo caso, è interessante il confronto con quelle posizioni deflazioniste secondo le quali non vi è alcun interesse filosofico nell’individuazione di cosa c’è (piuttosto è interessante chiarire le nostre pratiche linguistiche o cognitive su ciò che assumiamo ci sia). Vengono anche discusse quelle teorie non deflazioniste secondo le quali è dubbia soltanto l’idea che si possa dire che cosa c’è senza al contempo specificarne almeno un certo numero di proprietà fondamentali. Si capirà già fin d’ora che, nonostante il capitolo sui temi di ricerca occupi più di metà del testo, ai problemi di natura metodologica viene dedicata particolare attenzione, con una esposizione sufficientemente completa. Questa scelta è, a nostro avviso, molto felice: dati i pregiudizi e le ostilità che permangono nei confronti dell’ontologia (perlomeno in Italia), infatti, è opportuno che un volume introduttivo esordisca discutendo a fondo gli argomenti adoperati da chi sostiene che i problemi ontologici non siano che pseudoproblemi. È esattamente ciò che Varzi fa. Un esempio estremamente significativo di tale impostazione è l’esauriente disamina delle concezioni per cui i problemi ontologici sono, in ultima analisi, problemi linguistici. È la nota posizione per cui l’analisi degli enti è secondaria rispetto all’analisi del linguaggio, o in qualche modo dipendente da essa. Ora, questa concezione può trovare applicazione in diverse strategie, talvolta distanti fra loro, e Varzi ha il merito di prendere in considerazione tutte le più importanti fra di esse, e di introdurre il lettore alle obiezioni standard. Citiamo qui soltanto un caso: la critica alla strategia della parafrasi. La strategia della parafrasi – di ascendenza russelliana – suggerisce di rimpiazzare, in un enunciato, i termini denotanti entità “dubbie” (ad es. eventi o universali) con termini che denotano entità non problematiche (ad es. particolari). L’obiezione standard, riportata da Varzi, suggerisce però che le parafrasi sono simmetriche (ovvero valgono nei due sensi), e che, di conseguenza, affermare che i termini per certe entità vanno parafrasati comporta avere prima preso una decisione su quali entità sono dubbie e quali non lo sono. E questa è palesemente una decisione di natura ontologica, non linguistica. Inoltre, Varzi evidenzia che fare ricorso a tale strategia può condurre a non conservare la validità delle inferenze: se “C’è un taglio diagonale su questa tela” implica “C’è un taglio su questa tela”, la traduzione del primo “Questa tela è tagliata in diagonale” non implica logicamente la traduzione del secondo “Questa tela è tagliata”; la validità dell’inferenza viene restaurata solo se si aggiunge un postulato di significato che consente di derivare “x è tagliato” da “x è tagliato in diagonale” (pp. 36-38) e quindi, nel caso della parafrasi, essa non è puramente logica. Un altro pregio dei due capitoli metodologici è l’esposizione della distinzione fra la concezione prescrittiva e la concezione descrittiva dell’ontologia – che in una certa misura accompagna la distinzione fra chi ritiene di dover prendere le mosse dal linguaggio e chi ritiene che l’ontologia abbia perlomeno una certa autonomia rispetto all’analisi linguistica. Varzi ha anzitutto il merito di mostrare la varietà di strategie che l’ontologo prescrittivo può approntare davanti alla domanda “Cosa esiste?” (p. 45), le ragioni di merito che la concezione descrittiva ha e l’intreccio – tutt’altro che lineare – fra le due concezioni citate e l’atteggiamento deflazionista o massimalista nei confronti dell’ontologia. Per quanto riguarda la parte “metodologica” del libro, va aggiunta un’altra considerazione: il volume introduce i due principali modi di intendere l’ontologia formale (ovvero la teoria del “semplice qualcosa”, p. 26): come algebra e come logica. Questo costituisce un altro pregio del volume, dato che questi due approcci sono, al giorno d’oggi, i più rappresentativi. Da un lato, abbiamo infatti la tradizione di coloro che tendono a considerare logica e ontologia come due momenti di un’unica scienza “di ciò che è” (p. 30), e che si differenziano comunque dai deflazionisti per la presenza di uno specifico interesse ontologico; dall’altro vi è chi, insistendo sulla distinzione di compiti e di statuto fra logica formale e ontologia formale, ritiene che l’algebra o la mereotopologia siano gli strumenti formali più adatti a trattare i problemi ontologici. Inoltre, Varzi fa notare come vi siano non pochi argomenti – la teoria dell’identità, la teoria della dipendenza, la mereologia – contesi fra le due discipline. Questo è molto importante, perché, proprio in certi settori, aspetti logici e aspetti ontologici sono strettamente legati l’uno con l’altro, e ciò rende difficile tracciare di fatto un confine netto fra le due discipline. Bisogna però rilevare che, nel trattare l’approccio algebrico, si dà non poco spazio anche a trattazioni che algebriche non sono (almeno dal punto di vista strettamente tecnico) mentre non si menzionano alcuni specifici approcci (ad esempio, quello di Casari), che danno invece molta attenzione a una rielaborazione algebrica dei problemi ontologici. Un pregio è comunque quello di ricordare la concezione dell’ontologia come “teoria del possibile in quanto possibile”, dovuta a Wolff e, in qualche modo minoritaria. Per quel che riguarda i temi di ricerca, a ciascuno di essi è dedicato uno spazio piuttosto breve se confrontato con quello dedicato ai problemi metodologici. Ciò è però dovuto all’elevato numero di problemi ontologici specifici, e la soluzione adottata da Varzi risulta forse la migliore per un volume introduttivo. Molto esauriente appare la parte dedicata al problema dello statuto ontologico delle proprietà. In essa vengono introdotte le tre teorie principali: realismo, nominalismo e particolarismo, e ad ognuna di esse viene dedicato un paragrafo comprendente il nucleo essenziale della teoria, alcune obiezioni, e le repliche (struttura che caratterizza gran parte del volume). In particolare, viene sottolineata la principale difficoltà cui va incontro la teoria realista (che comunque risulta come la più convincente): è problematico fare corrispondere una effettiva proprietà a un predicato (sarebbe ad esempio implausibile far corrispondere una proprietà a ciascun predicato disgiuntivo; si pensi anche ai problemi causati dal predicato “eterologico”). Per quel che riguarda il nominalismo, il volume ha il pregio di spaziare tra le teorie di questo secolo che sono già diventate classiche (Carnap e Sellars), e di considerare con grande attenzione le teorie più recenti, sorte da un rinnovato interesse per la posizione per cui le proprietà non esistono. È particolarmente interessante la segnalazione di quelle teorie nominaliste che si basano su una relazione di somiglianza fra tokens di predicati (considerati come types linguistici). Fra gli altri problemi segnalati, quello della dipendenza spicca soprattutto perché accenna tanto agli approcci mereologici quanto a quelli modali, facendo riferimento in quest’ultimo caso alle pubblicazioni più recenti. Altri argomenti sono introdotti e discussi. Fra di essi: lo statuto di azioni ed eventi, con un esauriente confronto fra teorie riduzioniste e teorie introduzioniste; le relazioni d’“identità” e di “parte di” (pp. 118-123); lo statuto delle entità sociali e quello delle entità indeterminate.

Riguardo al volume nel suo complesso, particolarmente indovinata è la strategia espositiva scelta dall’autore: in relazione a ciascun problema trattato, vengono introdotte le teorie che si sono imposte nel dibattito, seguite a loro volta dalle obiezioni classiche e, nella maggior parte dei casi, da alcune repliche. Ciò fa del libro anche un’utile guida agli argomenti e alle obiezioni standard del dibattito ontologico, rendendolo molto diverso dal ruolo di mero catalogo di teorie. L’esposizione dei problemi risulta chiara e perspicuo, senza per questo trascurare (come si è detto) l’aspetto argomentativo. Un’ultima nota va riservata alla bibliografia: è compilata con un ottimo criterio. Laddove, nel testo del libro, si è approfondito di più, viene offerto un ventaglio di volumi e articoli utili per chi intende affrontare i problemi a un livello, se non avanzato, almeno superiore a quello introduttivo. Per gli argomenti meno approfonditi si danno invece i riferimenti necessari per potersi introdurre ai problemi. In generale, ognuna delle diverse posizioni riceve un adeguato spazio. Una simile bibliografia si presenta quindi anche come un utile strumento per chi vuole raccogliere informazioni su testi di ontologia, senza volere per questo essere indirizzato soltanto su introduzioni generali, o, al contrario, soltanto su articoli o monografie specialistici.

Indice

Introduzione
1. Che cos’è l’ontologia
2. Come si fa ontologia
3. Temi di ricerca
Cos’altro c’è da leggere
Bibliografia ragionata

L'autore

Achille Varzi (1958) è Associate Professor alla Columbia University di New York, dove insegna Logica e Metafisica. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo An Essay in Universal Semantics (Kluwer, 1999) e Parole, Oggetti, Eventi (Carocci, 2001). Con Roberto Casati è autore dei volumi HolesandOtherSuperficialities e PartsandPlaces (MIT Press, 1994 e 1999), il primo dei quali tradotto da Garzanti, 1996. Fra le curatele segnaliamo Events (Dartmouth, 1996), SpeakingofEvents (Oxford University Press, 2000) e Formal Ontology in Information System (IOS Press, 2004). È uno fra i maggiori e più noti ontologi e metafisici contemporanei. La sua ricerca ha abbracciato argomenti quali lo statuto ontologico degli eventi, l’applicazione della mereologia in metafisica, e il problema metodologico dei rapporti fra ontologia e metafisica, lo statuto ontologico di entità topologicamente ben caratterizzabili ma escluse dall’inventario ontologico del “senso comune”.

Links

Personal web page dell’autore: www.columbia.edu/~av72/

giovedì 13 ottobre 2005

Forti, Simona (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica.

Torino, Einaudi (Piccola Biblioteca Einaudi Filosofia), 2004, pp. 240, € 18,00, ISBN 88-06-16274-8.

Recensione di Raffaela Strina – 13/10/2005

Filosofia politica

Polifonica. Prendendo a prestito un termine del linguaggio musicale, così si potrebbe definire la raccolta di saggi che Simona Forti ha curato sul tema del totalitarismo, e non solo per la pluralità di voci a confronto, ma per la varietà di categorie, approcci analitici, obiettivi. Composti in epoche differenti (dagli anni ’40 ai giorni d’oggi), da autori appartenenti a indirizzi e con interessi diversi, i dieci saggi offrono una panoramica delle modulazioni “filosofiche” che il tema del totalitarismo ha subìto nel tempo, tracciando un percorso in evoluzione: dal totalitarismo come fenomeno politico situato in una precisa costellazione storica, al rinvenimento delle caratteristiche fondamentali di un evento che riplasma la nostra percezione del passato, al contempo influendo sui nostri orientamenti al futuro. Si tratta di un’indagine specificamente filosofica, che, a differenza dei tanti approcci storico–politici, è rivolta all’elaborazione di una categoria concettuale inserita in un orizzonte più ampio, rispetto alla particolarità dell’esperienza nazifascista e comunista, un orizzonte che spazia dall’etica all’antropologia, dall’epistemologia all’onotologia.

A un primo livello analitico risulta centrale il rapporto tra concreti regimi totalitari e istituzioni liberal–democratiche, nella cui insufficienza è in prima istanza rintracciata l’origine del totalitarismo. Edmund Aron nel 1944 identifica la peculiarità dei regimi totalitari nel fatto di rappresentare per un’umanità senza dei e senza miti, tanto incredula di fronte al messaggio religioso tradizionale quanto scettica nei confronti delle istituzioni umane, una forma di religione secolarizzata che promette una redenzione intramondana, realizzabile non in un aldilà futuro ma costruendo un’umanità rinnovata. L’avvento di tale deformata religione senza dio è il sintomo di una malattia che affonda le sue radici nella crisi di legittimazione dei principi politico–morali delle democrazie e nella conseguente stanchezza nei confronti dell’anonimato delle loro istituzioni.

A venticinque anni di distanza, Claude Lefort ricollegherà analogamente il fenomeno totalitario alle pecche della democrazia. La società tradizionale sino alla Rivoluzione francese si autorappresentava come un’unità organica identificantesi col corpo del re, immagine del corpo di Cristo. Con l’avvento della democrazia e la “distruzione” simbolica del corpo del re, si assiste alla frammentazione del corpo sociale nelle singole unità individuali, e al venir meno dell’identificazione di stato e società. La democrazia è, infatti, il regno del popolo sovrano, ma anche della “radicale indeterminatezza” (p. 122) di una società priva di corpo. Il totalitarismo risponde alla vertigine di fronte a tale frammentarietà, re–istituendo l’unità sociale perduta; ma il corpo sociale totalitario, campo di tensione tra una prospettiva organicistica (la società come Popolo Uno, identificato col partito e col suo leader) e meccanicista (la società come immenso automa, composto da microorganizzazioni che svolgono la funzione di ingranaggi per il funzionamento del tutto), ma comunque sempre razzista (l’identificazione del corpo avviene mediante la continua produzione, esclusione ed espulsione del “nemico”), risulta un capovolgimento deformato del corpo sociale–regale. L’autoreferenzialità di un sistema che non può guardare altro che a sé, al partito, al leader, rende assoluto quel potere che nella figura del re era ancora medium di un potere superiore.

In Foucault non si tratta più di confrontare democrazie liberali e regimi, bensì di inserire il totalitarismo nell’evoluzione moderna del potere. Tra fine ‘700 e ‘800 si affianca al modello classico di potere sovrano come diritto di vita e di morte sui sudditi, mediante un controllo disciplinare sul corpo individuale, una seconda modalità del potere, che prende in gestione la vita dell’uomo in quanto specie: si tratta del bio–potere, che regola scientificamente macrofenomeni biologici nella loro variazione statistica nel tempo (natalità, mortalità, malattie ecc.), concretizzandosi nel potere di far vivere o di lasciar morire. Questa sovrapposizione produce quella “società di normalizzazione” (p. 94) che racchiude in nuce la radice di ogni regime totalitario: l’espansione del potere a “tutta la superficie che si estende dall’organico al biologico, dal corpo alla popolazione” (ibid.). Il totalitarismo, come mostra l’esempio del nazismo, sviluppa al massimo sia la disciplina del corpo che il bio–potere regolatore; si arroga al massimo grado il diritto di vita e morte sul singolo e pretende di gestire biologicamente l’umanità. Ma tale sviluppo finisce col rivelare l’implicita tensione e la dialettica conflittuale tra i due principi: uno stato che si pone l’obiettivo di preservare la vita della specie risulta in contrasto con il diritto rivendicato di uccidere. Tale conflitto può essere risolto solo ricorrendo all’espediente ideologico razziale che, stabilendo una frattura gerarchizzante nel continuum biologico tra ciò che biologicamente è o non è adatto a vivere, rappresenta la condizione di coesistenza di bio–potere e sovranità. La gerarchia razziale giustifica la messa a morte del biologicamente inadatto (come epurazione perfezionatrice della razza), come di chiunque altro, perché anche l’eletto biologicamente dovrà provare la sua perfezione proprio nella supremazia bellica, in una guerra anzitutto razziale.

L’allargamento della prospettiva in Foucault comporta la correlazione tra totalitarismo ed evoluzione moderna del potere e al contempo un nuovo punto di vista sull’ideologia, ben più che semplice secolarizzazione della metafisica religiosa o instrumentumregni. La centralità dell’ideologia e la sua novità è sottolineata nelle pagine harendtiane, dove l’essenza del totalitarismo viene rintracciato nel nuovo principio legittimante che ne sta a fondamento: la legge di movimento universale della Natura (nazismo) o della Storia (comunismo), fine ultimo a cui va subordinato l’intero arco dell’esperire umano. Lo strumento attraverso cui tale principio può tradursi in realtà è il terrore che, sostituendosi alla legge, distrugge lo spazio degli individui comprimendoli in un’unità totale, al contempo eliminando i “nemici” che si frappongono allo scatenamento illimitato delle forze storico–naturali: la dicotomia amico–nemico, vittima–carnefice, astratta rispetto al singolo individuo e al suo comportamento, sarà il contrassegno del terrore totalitario. Ma perché possa affermarsi una forma di organizzazione politica incentrata sull’accettazione del processo universale storico–naturale da cui discende un’umanità divisa in vittime e carnefici occorre una preparazione ideologica, che educhi al nuovo supremo principio di legalità. L’ideologia non è un insieme di contenuti imposti alla coscienza, ma piuttosto una forma mentale che struttura i contenuti in modo da imporli alle coscienze, come realtà. L’ideologia è la logica di un’idea identificata con il corso effettivo degli eventi. Essa cerca di spiegare l’accadere mediante un processo deduttivo che da una singola premessa deriva tutta un’infinita serie di conseguenze, in modo assolutamente incontrovertibile e avulso dall’esperienza. È questa “tirannia della logicità” che asfissia l’autonomia e la capacità critica e innovativa del pensiero a costituire l’anima dell’ideologia, di cui la stessa tradizione filosofica è corresponsabile, che si tratti della logica deduttiva, che da Aristotele a Cartesio è posta a fondamento del ragionamento certo, o della triade hegeliana che finisce sempre per identificare reale e razionale.

La centralità che nell’analisi harendtiana assume l’ideologia schiude a una vera e propria “metafisica” del totalitarismo, radicata nell’orizzonte filosofico moderno; ma l’ideologia è un tema che rieccheggia nelle pagine dei vari autori, evidenziandone le implicazioni etiche, esistenziali, epistemologiche, addirittura ontologiche. Così secondo Kolakowski l’ideologia, sorta da una necessità politica di legittimazione, comporta una vera e propria rivoluzione epistemologica, consistente nella trasformazione radicale della menzogna in verità. Tale mistificazione può reggersi solo perché la distinzione classica tra vero e falso è abolita in nome dell’unico criterio di verità: la giusta causa politica. Il risultato di tale epistemologia è la “sterilizzazione mentale e morale della società” (p. 135), cioè la neutralizzazione di ogni potenziale dissidente, mediante l’addestramento delle coscienze al politically correct, la manipolazione della memoria e l’espropriazione dell’identità.

Proprio su tali conseguenze esistenziali s’incentra l’analisi critica di Havel, che mostra un volto meno familiare, ma non per questo meno terribile del totalitarismo: la situazione dei paesi dell’ex Unione Sovietica nel momento di stabilizzazione del regime. Qui l’esercizio del potere non si serve più dello sterminio e dei lager, ma si esercita mediante “strumenti di manipolazione talmente raffinati, complessi ed efficaci da non aver bisogno di assassini o assassinati” (p. 145). Si tratta essenzialmente del controllo e dell’organizzazione del tempo, non solo al livello storico della manipolazione della memoria collettiva, ma anche e soprattutto a livello individuale, nel senso della sottrazione all’individuo della possibilità di una propria “storia”, come campo di potenzialità e creatività. L’irripetibilità delle storie dei singoli individui viene annullata e viene attuata senza residui quella criminalizzazione della differenza, vera essenza del totalitario universo senza storia e senza storie.

Ma le enormi implicazioni del potere totalitario e dell’ideologia appaiono nelle elaborate pagine che Derrida dedica a delineare una storia della menzogna. Se può risultare abbastanza facile distinguere tra vero e falso, non lo è altrettanto definire le varie forme di pseudos, poiché l’ambito del non–vero comprende un ventaglio amplissimo di forme che vanno dall’errore all’autoinganno, dal travisamento alle mezze bugie di opportunità politica. La conclusione tratta è che “è impossibile, per ragioni strutturali, provare davvero che qualcuno ha mentito, anche se si riesce a provare che quel qualcuno non ha detto il vero” (p. 192). Da ciò ne consegue una concettualizzazione della menzogna come forma di relazione intenzionale, rivolta a un altro per indurlo a credere qualcosa. Ora è proprio tale intenzionalità a essere di difficile determinazione, certo a livello di semplice bugia (come si fa infatti a dimostrare non solo la non-verità di un’asserzione, ma l’intenzionalità con cui è prodotta tale non-verità?), ma soprattutto nel caso di una verità/falsità storica o politica, di un’ideologia, che pure rappresenta l’apoteosi del falso. Derrida propone di interpretare la menzogna totalitaria a partire dalla sua fondamentale performatività. Le bugie dei regimi totalitari, infatti, non si propongono soltanto di ingannare gli altri, ma di agire, riplasmando la realtà stessa, ridefinendone i confini. Il totalitarismo prima dunque di essere un regime politico è la forma di un pensiero che si fonda su “atti di violenza performativa” (p. 209). Il problema del totalitarismo raggiunge qui la dimensione più radicale, costringendo a fare i conti con  le conseguenze che la violenza performativa, affermatasi nella politica totalitaria ha prodotto nel mondo odierno, evolvendosi come potere mediatico dell’informazione di produrre verità agendo con le parole.

Indice

Introduzione di Simona Forti
Raymond Aron L’avvenire delle religioni secolari
Jan Patočka L’ideologia e la vita nell’idea 
Hannah Arendt Ideologia e terrore
Emmanuel Lévinas Il senza nome
Michel Foucault Bio-potere e totalitarismo
Claude Lefort L’immagine del corpo e il totalitarismo 
Leszek Kolakowski Il totalitarismo e la virtù della menzogna 
Václav Havel Storie e totalitarismo 
Reiner Schürmann Le condizioni del male
Jacques Derrida Storia della menzogna: prolegomeni 
Jean-Luc Nancy Tutto è politico?

La curatrice

Simona Forti, docente di Storia della filosofia politica all’Università del Piemonte Orientale, si occupa di filosofia politica contemporanea con particolare riferimento all’opera di Hannah Arendt e al dibattito contemporaneo sulla bio–politica e il bio–potere. Fa parte del Comitato di redazione di “Filosofia politica” e collabora a numerose riviste tra cui “Teoria politica”, “Il Mulino”, “L’Indice dei libri”, “MicroMega”, “Iride”. È nel comitato di redazione della rivista internazionale “Arendt’s Newsletter”. Tra le sue recenti pubblicazioni, Il totalitarismo (Roma-Bari 2001). Ha curato e introdotto i due volumi Archivio Arendt 1 e Archivio Arendt 2 (Milano 2001 e 2003).

Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, a cura di Marcello Musto.

Roma, Manifestolibri, 2005, pp. 389, € 30,00, ISBN 88-7285-384-2.

Recensione di Carla Maria Fabiani – 13/10/2005

Filosofia politica (socialismo)

Il volume raccoglie le relazioni presentate alla Conferenza Internazionale Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, svoltasi a Napoli dal 1° al 3 aprile del 2004. I contributi dei diversi e illustri autori, nazionali e internazionali, hanno innanzitutto l’obiettivo di risvegliare l’interesse per l’opera di Marx, offrendo una sede di confronto alle più recenti interpretazioni dei suoi scritti e illustrare la ripresa della pubblicazione della Marx Engels Gesamtausgabe (MEGA2). Insieme a ciò, restituire alla ricerca contemporanea un autore – misconosciuto, volgarizzato, soprattutto poco letto anche dai marxisti – da considerare ormai un classico; tuttavia, prova ne è lo spessore tematico e critico degli interventi qui raccolti, non un classico asettico.
In altri termini, l’opera di Marx appare, pur nella sua imponente raccolta di scritti (la maggior parte pubblicati postumi), fondamentalmente incompiuta.
Sistemare l’opera di Marx, oggi, vuol dire innanzitutto interpretarne la lettera del testo (e quindi fare un lavoro filologico attento a distinguere, per esempio, in Das Kapital, ciò che è di Marx e ciò che è di Engels), vuol dire contestualizzare non solo il suo pensiero, ma proprio i suoi scritti, uno ad uno, sganciandolo così, definitivamente, da un’epoca, quella del socialismo reale, che, oltre a essere passata, in effetti non sembra proprio appartenergli; non aiutandoci nemmeno a capire la complessità teorica del suo pensiero.
Ma esiste un pensiero di Marx? Per questo autore, più che per altri, bisogna affermare – questo è l’indirizzo di ricerca inaugurato da questa raccolta – che il suo pensiero è inchiodato, per così dire, al testo scritto.
Leggere Marx, oggi, vuol dire perciò affrontare con pazienza i suoi testi, senza pretendere di ricavarne un sistema compiuto, una linea di sviluppo predeterminata (comprese le rotture epistemologiche del suo percorso; Marx giovane/Marx maturo; Marx comunista/Marx critico dell’economia, ecc.), o addirittura una Weltanschauung, un’indicazione per il futuro dell’umanità; piuttosto, dobbiamo riconoscergli il lavoro di critica radicale del suo presente. Kritik, d’altronde, è il termine che ritorna più di frequente nei titoli dei suoi scritti.
Eppure, dicevamo, Marx non è un classico asettico: “Credere di poter relegare il patrimonio teorico e politico di Marx ad un passato che non avrebbe più niente da dire ai conflitti odierni, di circoscriverlo alla funzione di classico mummificato con un interesse inoffensivo per l’oggi o di rinchiuderlo in specialisti meramente speculativi, si rivelerebbe impresa errata al pari di quella che lo ha trasformato nella sfinge del grigio socialismo reale del Novecento.” (dall’Introduzione, p. 24).
La filologia, ancella insostituibile del lavoro del filosofo, qui prende in mano l’arma e, inaspettatamente, rovescia il campo: l’immersione nel testo di Marx non ci distoglie dalla nostra Gegenwart. Al contrario, la complessità del testo si adatta, quasi combaciando, alla complessità dell’età presente; sia per ciò che riguarda il giovane Marx, quello della critica a Hegel e poi dell’Ideologia tedesca, sia il Marx maturo, quello del Capitale, della critica dell’economia politica. Bisogna tuttavia fare attenzione a ciò: non si tratta dell’attribuzione di capacità profetiche all’autore, al suo pensiero o alle sue teorie. Qui si fa astrazione dalla soggettività dell’autore (la sua biografia, le sue intenzioni politiche, la sua personalità, ecc.) e si guarda esclusivamente all’oggetto, al testo scritto. È uno sforzo interpretativo e di lettura, una fatica del concetto, che, per es., con Aristotele viene quasi spontaneo esercitare. Con Marx, tutto questo finora non è accaduto (le ragioni potranno essere abbondantemente indagate, ma in altra sede).
Allora, vediamo meglio alcuni degli interventi, capaci, a nostro avviso, di gettare luce su questa sorta di insolito potere di adattamento del testo al contesto. Ne consideriamo solo due, a fronte di un totale di ben 24 saggi con note bibliografiche e riferimenti testuali all’opera marxiana.
Non prima, però, di aver richiamato l’attenzione del lettore allo stile modernissimo del linguaggio marxiano, citando un passo tratto dal Discorso per l’anniversario del «People’s Paper» 1856 (nel Prologo, a p. 11): «C’è un grande fatto caratteristico di questo nostro XIX secolo, un fatto che nessun partito osa negare. Da un lato sono nate forze industriali e scientifiche di cui nessuna epoca precedente della storia umana ebbe mai presentimento. Dall’altro esistono sintomi di decadenza che superano di gran lunga gli orrori registrati durante l’ultimo periodo dell’impero romano. Ai nostri giorni, ogni cosa appare gravida del suo contrario. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e rendere più fruttuoso il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Le nuove sorgenti della ricchezza sono trasformate, da uno strano e misterioso incantesimo, in sorgenti di miseria. [...] gli operai [...] sono l’invenzione dell’epoca moderna quanto lo sono le macchine stesse. Nei segni che confondono la classe media, l’aristocrazia ed i miseri profeti del regresso, riconosciamo il nostro vecchio amico Robin Goodfellow, la vecchia talpa che sa scavare la terra tanto rapidamente, il valoroso pioniere – la rivoluzione.»
Vediamo allora il tema della democrazia, come viene affrontato nelle pagine de Il Marx «democratico», di G. Cacciatore (pp. 145-160).
Nel 1843 il giovane Marx redige uno scritto di critica al diritto pubblico hegeliano. Commenta analiticamente i §§261-313 dei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) di Hegel. Lasciando qui da parte le pur rilevanti questioni teoretiche del confronto Marx/Hegel, che cosa emerge di rilevante dal punto di vista politico in questo scritto, secondo la lettura di Cacciatore?
Da una parte Marx riconosce allo Stato moderno hegeliano la funzione (insostituibile) di connettere gli interessi particolari espressi in sede di società civile, e di connetterli effettivamente restituendo ad essi un luogo di comune realizzazione, che è l’interesse universale o del popolo, tramite la rappresentanza cetuale nell’assemblea legislativa e l’Io voglio del monarca; dall’altra, però, di rendere tendenzialmente autonomo il momento dell’universale dal particolare (la figura del monarca ereditario in cui solo risiede il potere sovrano; oppure la premoderna rappresentanza cetuale). In altri termini, lo Stato moderno hegeliano soffrirebbe di astrazione, ossia, in ultima analisi, di mancata rappresentanza (oltreché concreta rappresentazione) della realtà che lo istituisce. «Ciò che tuttavia emerge dai testi finora esaminati è un riferimento indiretto all’idea di democrazia che appare, per così dire, in filigrana rispetto ad una generale visione dello Stato come luogo di composizione e universalizzazione degli interessi particolari della società civile. È solo a partire dalla Kritik des Hegelschen Staatsrechts […] che Marx affronta direttamente il problema della democrazia. […] In questi testi marxiani è possibile individuare quel concetto ampio e universale di democrazia che è stato utilizzato proprio in non pochi segmenti della filosofia e dell’ideologia politica della sinistra post-marxista in una dimensione critica nei confronti di alcuni esiti teorici e storici del comunismo […] Marx, quando individua nella democrazia una reale possibilità di fusione tra la forma e il contenuto della costituzione politica pone un problema che […] è apparso e appare ancora oggi il vero nucleo problematico della democrazia, cioè l’inaggirabile rapporto tra la forma regolativa e giuridica e i contenuti cosiddetti sostanziali di emancipazione sociale e di uguaglianza» (p. 147 e sgg.). “Rendere plausibile la democrazia”, è di questo che le pagine marxiane, seppure in filigrana, stanno parlando. La democrazia «ampia e universale, quella piena realizzazione dei diritti umani (politici e sociali) capace ogni volta di fissare regole e procedure condivise per l’edificazione di un nuovo “contratto sociale” di cittadinanza e di civiltà, di emancipazione e di uguaglianza» (p. 157). La critica all’astrattezza dello Stato moderno hegeliano raffigura perciò, evidentemente, la matrice teorica di ogni possibile critica ai limiti interni al modello democratico-formale. Compreso il nostro, of course.
Con La scienza del Capitale come «circolo del presupposto-posto». Un confronto con il decostruzionismo di R. Finelli (pp. 211-223), entriamo nelle pagine del Capitale di Marx, non considerandolo tuttavia un testo economicistico, ma di critica dell’epistemologia operante nelle maglie dell’economia politica classica del tempo e, ancor più, nelle maglie della filosofia dominante il nostro tempo. «Nell’ambito della filosofia continentale europea oggi svolge funzioni egemoniche il “decostruzionismo”, il quale, com’è noto, critica ogni narrazione che pretenda coerenza e sistematicità […] Appare evidente che gli studi e la ricerca su Marx non possono non confrontarsi con questo vertice egemonico di riduzione della realtà a linguaggio […] La mia esposizione è articolata in quattro tesi» (p. 211).
Nella prima tesi Finelli indaga la logica interna alla critica dell’economia politica in Das Kapital; la logica del presupposto-posto, di matrice hegeliana. Secondo tale logica, in sintesi, i processi di identificazione del soggetto con se stesso (il Geist, lo spirito), attraversano, contestualmente, un cammino duplice: di costruzione attraverso decostruzione del proprio Io. L’identità Io=Io è da porre come mero presupposto ossia da decostruire in quanto mero presupposto, attraverso una «pratica d’interiorizzazione, di un processo che dall’esterno va all’interno […]» (p. 212). L’identificazione di sé con sé presuppone l’identità (l’IO), ma, per così dire, solo virtualmente (in sé); l’effettiva identificazione avviene su di un piano pratico, in cui la prima identità (quella virtuale) può andare anche a fondo.
La seconda tesi di Finelli concerne la nozione di astrazione reale. «La mia tesi è cioè che il Capitale di Marx è costruito sul modello del passaggio hegeliano dall’in sé al per sé, del passaggio cioè di un’astrazione, come quella del lavoro astratto, dal piano di un’astrazione solo mentale […] ad un’astrazione, come sostiene Marx nell’Introduzione del ’57, “praticamente vera”; ad un’astrazione cioè che non attiene più all’ambito della logica o delle ipotesi investigative della conoscenza ma a quello assai diverso della prassi, ossia della concreta attività posta in essere dal processo lavorativo di ogni individuo in quanto erogatore di forza lavoro sussunta, non in modo formale ma in modo reale, sotto il capitale» (p. 213).
La terza tesi mostra la profonda differenza, nonostante la profonda analogia, che intercorre fra la logica hegeliana e quella marxiana. In sostanza, «L’astrazione intellettualistica di Hegel è dunque cosa assai diversa dall’astrazione pratico-lavorativa di Marx. […] per Marx la connessione tra mondo dell’astratto e mondo del concreto si realizza, proprio perché il vettore di quel movimento è la caratteristica di un lavoro, generalizzato e di massa, che produce oggetti, merci, servizi concreti proprio attraverso la sua natura paradossale di lavoro astratto» (p. 218). L’astratto hegeliano non riesce ad attraversare, come invece riesce in Marx, il piano della pura e trasparente teoresi, in cui rimane in sostanza imprigionato, nonostante la forza dialettica del negativo.
Infine, la quarta tesi si occupa direttamente del postmoderno come svuotamento del concreto. «Così il postmoderno va interpretato […] come inveramento del moderno, nel senso di costituire il tempo storico della piena diffusione, fino alla globalizzazione, di un’economia fondata sulla ricchezza astratta. […] La giusta definizione di Frederic Jameson del postmoderno come la “logica culturale del tardo capitalismo” va dunque integrata con la messa in verità della teoria marxiana dell’astrazione reale» (p. 222). Il lavoro astratto è inteso perciò come principio (presupposto) di un modo di produzione e riproduzione sociale che, solo alla fine del processo (posto), appare praticamente ‘destrutturato’ nella sua valenza qualitativa, svuotato di qualità, di relazione e di nessi intersoggettivi.
Allora, in conclusione, vediamo come la lettura dei testi di Marx possa, ancora oggi e forse proprio oggi, restituire un esempio pratico di libertà operante in campo filosofico: libertà di leggere e interpretare il testo in modo filologicamente corretto, senza che ciò impedisca ma anzi contribuisca a far emergere la complessità del contesto in cui il testo è inserito, insieme alla complessità del contesto in cui è a sua volta inserita la nostra impegnata e impegnativa lettura.

Indice

Presentazione
Sulle tracce di un fantasma di M. Musto
I SEZIONE. MEGA2 : LA NUOVA EDIZIONE STORICO-CRITICA DELLE OPERE COMPLETE DI MARX ED ENGELS
Classico tra i classici. Basi filologico-editoriali, struttura e ultimi sviluppi della marx-engels-gesamtausgabe (mega), di M. Neuhaus
La ricerca su marx in giappone e l’attivita’ del gruppo di lavoro della mega di sendai  di M. Sylvers
Marx e il marxismo nella prima sinistra italiana di G.M. Bravo
II SEZIONE. CRITICA DELLA FILOSOFIA E CRITICA DELLA POLITICA NEL GIOVANE MARX
Marx e il materialismo di M. Cingoli
Die Fastnachtszeit der Philosophie: il Marx della dissertazione di laurea di P. Thomas
Il Marx «democratico» di G. Cacciatore
Marx a Parigi: la critica del 1844 di M. Musto
La politica dei comunisti nei primi scritti di Karl Marx: tra governo repubblicano e dittatura di classe di G. Borrelli
Marx e la critica della politica di S. Kouvelakis
III SEZIONE. IL CAPITALE:LA CRITICA INCOMPIUTA
La scienza del capitale come «circolo del presupposto-posto». Un confronto con il decostruzionismo di R. Finelli
Una transustanziazione si aggira…l’ideale sostanza introversa e l’ideale forma estroversa del valore nel Capitale di G. Reuten
Il capitale di Marx e la logica di Hegel di C. J. Arthur
Marx dopo Hegel. Il capitale come totalita’ e la centralita’ della produzione di R. Bellofiore
Hegel, Schelling e il plusvalore di E. Dussel
La ricostruzione metastrutturale del Capitale di J. Bidet
Sul processo di apprendimento di Marx. Dai Grundrisse alla traduzione francese del libro primo del Capitaledi F. W. Haug
IV SEZIONE. UN OGGI PER MARX
Rinnovamento dell’economia politica: dove Marx resta insostituibile di M.R. Krakte
Perché la proposta del comunismo della finitudine? di A. Tosel
Il comunismo della finitudine e la traduzione come paradigma etico-politico di D. Jervolino
Marxismo, globalizzazione e bilancio storico del socialismo di D. Losurdo
I contorni del marxismo anglosassone di A. Callinicos
Lo stato attuale della ricerca su Marx in Cina di W. Xiaoping

Il curatore

M. Musto, il curatore del libro, è dottorando di ricerca in Filosofia e Politica presso l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.

Links

Lettere di Marx sull’Archivio Internet dei marxisti http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/index-lettere.htm

Rivista elettronica su temi marxiani http://www.intermarx.com/home.htm

mercoledì 12 ottobre 2005

Moroncini, Bruno, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone.

Napoli, Cronopio, 2005, pp. 170, € 14,00, ISBN 88-89446-02-1.

Recensione di Stefano Monetti - 12/10/2005

Filosofia teoretica, Storia della filosofia (antica, strutturalismo, decostruzionismo), Psicoanalisi (Lacan)

Bruno Moroncini ha scritto saggi sui principali filosofi del Novecento. Anche questo Sull’amore, nel quale riprende uno dei suoi autori privilegiati, Jacques Lacan, è teoreticamente intenso e originale. Non ci si lasci ingannare dalla stratificazione semantica del titolo: un saggio sul commento psicoanalitico di un dialogo platonico sembrerebbe riservato a specialisti. Invece non è un aspetto secondario del libro di Moroncini quello di funzionare come introduzione a Lacan, un autore interessante quanto complesso. Le parti speculative del libro si alternano infatti a quelle maggiormente didattiche, nelle quali l’autore offre una presentazione chiara e sintetica, molto efficace, del pensiero lacaniano. Spiegare Lacan attraverso Platone, e leggere Platone con gli strumenti della psicoanalisi lacaniana: Sull’amore incrocia in modo estremamente fecondo queste due esigenze.
Consideriamo il capitolo “La metafora dell’amore”, in particolare le pagine da 28 a 31, che definiscono i rapporti tra amore, transfert e intersoggettività. Uno degli esiti di questa indagine è la questione dello statuto etico-epistemologico del mito nella psicoanalisi: il mito è un sapere illusorio destinato a essere soppiantato dall’avvento della ragione oppure l’espressione di un’esigenza umana autentica e altrimenti irriducibile? Soglia impensabile tra cultura e natura, l’universale mitico sembra preservare (come Lacan fa comprendere nel libro IV del suo seminario) il nucleo del sapere dell’inconscio. Ma se la psicoanalisi si propone come scienza, come può far riferimento a un mito? Il mito di Edipo, infatti, è uno dei referenti concettuali fondamentali del pensiero psicoanalitico. Nella Scienza nuova, Vico insegna che il mito è una possibilità di rappresentazione, di articolazione narrativa del vissuto di una civiltà o individuo. Il mito di Edipo esprime il desiderio proibito per eccellenza, quello del bambino per la madre. La psicoanalisi, come scienza, produce un discorso sul mito, cerca di renderne ragione. Render ragione del desiderio: ma allora che rapporto esiste tra passione amorosa e conoscenza filosofica, che cosa può insegnare il filosofo all’amante? Forse il Simposio contiene una risposta a questa domanda.
Alcibiade e Socrate sono due protagonisti del Simposio platonico. Il primo rappresenta l’homme du désir, l’amante mosso da un desiderio irrefrenabile, che farebbe di tutto pur di essere ricambiato dall’amato. Alcibiade sconquassa la linearità del dialogo platonico, la sua ideale armonia, che appena era colmata nel discorso di Diotima sull’amore, discorso riferito da Socrate. Quest’ultimo è il filosofo, il saggio e controllato pensatore che conosce l’illusorietà del desiderio e lo controlla, volgendolo alle essenze, al bello in sé. Socrate è filosofo ma anche psicoanalista, suggerisce Lacan: pur ammettendo di non sapere, è profondo conoscitore dell’amore. Socrate sa che il desiderio è fallace e inesauribile perché l’oggetto cui mira è un nulla: oggetto irrappresentabile e non individuabile, quello che Lacan chiama oggetto a. Moroncini chiarisce che l’oggetto a è un “oggetto vuoto senza concetto (leerer Gegenstand ohne Begriff), il nihil negativum, definito da Kant come l’oggetto di un concetto che contraddice se stesso e che, dunque, è nulla, è l’impossibile” (p. 58). Dunque, Alcibiade s’inganna inseguendo ossessivamente il fantasma del proprio desiderio? Ma il desiderio è l’espressione della condizione umana, quella del soggetto, che è sempre espropriato, alienato: prima ancora che nell’impeto del desiderare, nel suo essere un animale linguistico.
Il linguaggio permette al soggetto di esprimersi e contemporaneamente riduce il contenuto espresso nelle strettoie del significante. Nel desiderio e nel linguaggio il soggetto è come inserito in un meccanismo che lo sovrasta, in una serie di automatismi - psichici e semiologici – che non riesce a dominare pienamente. Un buon esempio in proposito è il film Quell’oscuro oggetto del desiderio, nel quale il protagonista sembra schiavo del proprio impeto desiderante, egli stesso oggetto del suo desiderio. Nel desiderio e nel linguaggio, tuttavia, il soggetto esiste: nella mancata coincidenza, nello slittamento tra volontà e appagamento trova lo spazio per sé, e infatti l’appagamento pieno significherebbe la sua morte. Desiderio e linguaggio non sono negatività irrecuperabili, ma parlare e desiderare sono la condizione del vivere, di un’esistenza non spenta nella contemplazione delle idee - anch’esse, peraltro, sono il prodotto di un soggetto, di un linguaggio e di un desiderio. Allora anche Alcibiade, l’homme du désir, ha qualcosa da insegnare a Socrate: la forza del desiderio è necessario alimento della vita, e qui Lacan lo segue: “Sii all’altezza del tuo desiderio”. L’etica suggerita dalla psicoanalisi, ma a questo punto rintracciabile anche nel Simposio, è quella di una misura del desiderio, secondo la quale non si desideri né troppo (follia dell’amante) né troppo poco (apatia del saggio). Linguaggio e desiderio rinviano l’uno all’altro, scambiandosi continuamente: il desiderio si differisce e si perpetua nel linguaggio, e il linguaggio è mosso dal desiderio (un libro eccellente su questa complicità è il celebre Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes). Viene in mente il poeta duecentesco Guido delle Colonne, che nella canzone Ancor che l’aigua suggerisce un’interessante metafora: il contatto ravvicinato tra acqua e fuoco può distruggere questi due elementi, l’acqua evaporerebbe e il fuoco si spegnerebbe. Il vaso permette all’acqua di riscaldarsi, e dunque consente un rapporto non distruttivo tra acqua e fuoco. Questo vaso è dunque un elemento mediatore: permette all’acqua di riscaldarsi (attiva il “fuoco” del desiderio) senza farla svanire nel vapore (non precipita il desiderio nella follia). Ma nella fluidità della psiche questa misura “oggettiva” non può esistere: occorre sempre riprodurre la giusta distanza, tramite una sorveglianza etica che manifesta la finitezza del soggetto.

Indice

La metafora dell’amore
L’oscuro oggetto del desiderio
La rivelazione del reale
Sociologia amorosa
La scienza degli erotica
Clownerie
Impasses
La “linguisteria” di Socrate
Ginecocrazia
Ménage à trois

L'autore

Bruno Moroncini insegna Antropologia Filosofica e Filosofie della città all’Università di Salerno. Tra i suoi scritti: Walter Benjamin e la moralità del moderno (Guida 1984), Il discorso e la cenere. Dieci variazioni sulla responsabilità filosofica (Guida 1988), Mondo e senso. Heidegger e Celan (Cronopio 1998), La lingua muta e altri saggi benjaminiani (Filema 2000), La comunità e l’invenzione (Cronopio 2001), Il sorriso di Antigone. Frammenti per una storia del tragico moderno (Shakespeare & Company 1982, 2° edizione riveduta e ampliata Filema 2004).

Allegra, Antonio, Dopo l’anima. Locke e la discussione sull’identità personale alle origini del pensiero moderno.

Roma, Studium (La Dialettica), 2005, pp. 232, € 21,00, ISBN 88-382-3966-5.

Nota di Sarin Marchetti – 12/10/2005

Storia della filosofia (moderna), Filosofia teoretica (soggettività)

Del futuro non v’è certezza; ma che dire del passato? E del presente? Una delle convinzioni più radicate che ognuno di noi si porta dietro, senza la quale nessun pensiero ed nessuna azione sarebbe ascrivibile ed imputabile, è l’immagine della persistenza del se. Ma questo dato fondamentale, ciò che Kant chiama appercezione trascendentale originaria, si scontra con le possibili analisi di tipo riduzionistico che descrivono le persone come insiemi di stati mentali. Queste teorie rappresentano una contrapposizione forte alla tradizione di guisa sostanzialista, la quale assicurava la persistenza nel tempo (e, conseguentemente, i premi, le punizioni e la resurrezione) tramite l’infallibile riferimento ad un’anima. Se si mette in crisi questa visione dell’io ci si scontra con inevitabili questioni di carattere metafisico, caratterizzate da evidenti risvolti pratici; questo è il problema filosofico dell’identità personale. L’autore si schiera a favore della soluzione tradizionale (rivisitata), ma io credo ci sia una terza via che, lungi dall’abbracciare una (non)posizione relativista, consiste nell’accento sulla dimensione pratica del concetto d’identità personale (che in questo si distingue qualitativamente a livello criteriale dall’identità di oggetti, come lo stesso Locke aveva saggiamente osservato). Questa linea teorica, com’è certo noto, è quella perseguita da David Hume: credo che una lettura non parziale e riduttiva del Treatise possa rivalutarne il contenuto e la sintonia con le abituali percezioni che abbiamo del nostro io, alle quali non a caso diamo il nome di ‘senso d’identità’. 
Il libro di Antonio Allegra si propone di mostrare come la rinascita di posizioni neo-aristoteliche e neo-leibniziane (à la Wiggins) rispetto all’account dell’identità personale sia legittima non solo dall’esigenza di reintrodurre un substratum metafisico (che l’empirismo anglosassone aveva a fatica eliminato in favore di criteri relativi e disposizionali), ma anche dalla necessità di un recupero del lessico Aristotelico delle forme sostanziali e modi di queste, pena l’impossibilità di continuare a parlare di identità personale. Tale processo è illustrato a partire dalle sue origini greche fino agli sviluppi settecenteschi: la storia delle idee suggerirebbe che il “ritorno all’anima” sia una conclusione necessaria suggerita dall’insufficienza del quadro fornito da Locke, Hume e, successivamente, dalla main stream dei filosofi analitici contemporanei. Per queste ragioni il libro si presenta interessante sia per chi è interessato maggiormente a questioni di taglio storico, sia per chi ha esigenze più teoretiche.
Quello dell’identità personale è, secondo l’autore, un problema squisitamente metafisico che solo incidentalmente può esser trattato da una prospettiva meramente epistemica: infatti tale tema è storicamente legato con quelli del principium individuationis e dell’immortalità-reincarnazione dell’anima. Sembrerebbe inoltre che una risposta convincente alla  vexata queastio debba necessariamente passare per l’analisi sia della natura della sostanza, e della possibilità di parlare in termini di forma ed essenza; è infatti solo con Locke che il problema dell’identità personale acquista una sua autonomia concettuale, divenendo strutturalmente legato ai temi dell’imputabilità giuridica e del giudizio divino. L’autore accetta questo passaggio, denunciando però l’illegittimità dell’abbandono della metafisica. 
L’autore imposta il discorso in questo modo: c’è uno scontro tra i dati fenomenologici immediati che permettono la re-identificazione delle cose nel mondo (e di noi in quanto soggetti di tale operazione), e i problemi intrinseci all’identità diacronica; in altri termini lo scontro nasce dalla difficile armonizzazione tra il cambiamento delle parti e la stabilità del tutto. Dall’analisi delle posizioni degli Eraclitei, dei Sofisti e degli Stoici emerge chiaramente la distinzione fondamentale tra identità stretta o perfetta, ed identità ricca o filosofica (distinzione che sarà ripresa da Reid): il continuo rinnovarsi delle parti sembra impedire la re-identificazione del tutto, anche quando questi conserva le sue caratteristiche sostanziali (un classico della letteratura è il dilemma della nave di Teseo, ripreso ed ampliato da Hobbes). È fondamentale il contributo di Lucrezio, poiché secondo tale autore è la continuità della memoria a costituire il criterio d’identità, in quanto indice delle preoccupazioni verso i se futuri: in questa affermazione si intravedono alcuni elementi che saranno fatti propri dalle concezioni complesse dell’identità, sviluppate a partire dalle riflessioni Lockiane. In autori come Platone ed Aristotele, che rappresentano invece la tradizione essenzialista, è sempre la forma sostanziale a garantire l’identità: nel caso dell’identità personale è l’anima, con le sue caratteristiche di d’immaterialità, unità, indivisibilità e trascendenza, che costituisce il nocciolo duro della nostra persistenza nel tempo.
Il problema dell’identità personale è storicamente complementare a quello cristiano della resurrezione: come fa un corpo a risorgere se la materia di cui è composto transita in altri corpi tramite il normale ciclo vitale delle creature viventi? Le diverse risposte fornite a questa domanda sono preziose poiché passano necessariamente per l’analisi di cosa conta come persona e quali sono i suoi criteri di d’individuazione. Le posizioni di stampo sostanzialista (Aristotele, Tommaso) sostengono che l’identità del risorto va cercata nell’identità della forma piuttosto che nell’identità delle parti materiali; opposta è la soluzione di Hobbes il quale, muovendosi dalla prospettiva empiristica della negazione sostanziale e tenendo presenti i conseguenti problemi per il paradigma corpuscolare, descrive la persona divina in termini giuridici: la resurrezione della persona, data la materialità dell’anima, non può che esser legata ad un gesto soprannaturale, mentre la persona è individuata in relazione alla possibilità di ascrizione d’azioni (in termini di rappresentanza, come farà Locke), sottolineando in tal modo la definizione meramente nominale di tale concetto. L’identità così intesa resiste solo sul piano pragmatico-giuridico, venendo negata su quello sostanziale (interno), previo un gesto soprannaturale (esterno). L’importanza strategica della posizione Hobbesiana si riflette sul dibattito sei-settecentesco circa la composizione dei corpi: i corpuscolaristi (Boyle, Digby) contro gli antimaterialisti (Cudworth, Cartesio, Sherlock); ma entrambe le posizioni porterebbero alla conclusione necessaria secondo cui, non avendo la materia nessun principio di organizzazione che riesca a spiegare fenomeni complessi come la vita mentale e la self-unity (conditio sine qua non di pensiero ed azione), esisterebbe un qualcosa di attivo che ci permetterebbe di pensare ed agire come un’unità armonica: è la persistenza di tale forma sostanziale che assicura l’identità. Questi autori concordano però con l’idea Lockiana secondo cui, essendo tale dimensione epistemicamente inaccessibile alle limitate facoltà umane, l’identità sia in qualche modo legata alla stessa continuità di coscienza. Ancora una volta l’autore usa queste riflessioni per supportare la tesi secondo cui ci troviamo di fronte ad un vero e proprio ‘bisogno della forma (p. 56).
Cadendo ogni criterio d’identità stretta si aprono due strade: o abbracciare una posizione super-naturalistica, oppure ripararsi nel nominalismo. Sarà solo l’analisi Humeana a distaccarsi dalla tradizione, poiché Locke sembra stare ancora con un piede da una parte ed uno dall’altra. La sua posizione costituisce una pietra miliare delle riflessioni sull’argomento, tanto che ogni teoria successiva è a ragione categorizzata come neo-Lockiana o meno. Mi sembra fondamentale la confutazione del discorso cartesiano tramite l’appello ai concerns che abbiamo verso i nostri future selves, inspiegabili da una prospettiva dualista (vedi Noonan 2003, cap. 2). L’identità dipende dalla continuità della coscienza poiché solo in tal modo possiamo spiegare gli obblighi, le preoccupazioni e gli impegni che legano il nostro io di oggi con quello di ieri e con quello di domani. Come si vede chiaramente, sia il discorso sui criteri d’identità, sia quello sulla definizione di persona, si configura in una prospettiva pratica forense e morale: identity matters. Il criterio di identità non dipende dalla persistenza di alcuna sostanza (materiale o meno), poiché anche se fossi costituito della stessa sostanza che un tempo apparteneva a Corradino, ciò non mi renderebbe né interessato né responsabile per le sue azioni. Invece la continuità di coscienza spiega perché il fatto  di ricordare come mie certe azioni compiute in passato da un’altra persona mi faccia sentire responsabile per esse. È in questo framework che trova ragione l’affermazione Lockiana secondo cui ‘person is a forensic term, appropiatingappropriating actions and their merits, and so belongs only to intelligent agents capable of a law, and happiness and misery’. Lo stesso ordinamento giuridico sembra confermare questa ipotesi: se una persona affetta da doppia personalità compie un dato crimine al tempo t1, al tempo t2  essa non è punibile se non ricorda nulla di ciò che ha fatto precedentemente, anche se rimane la stessa persona fisica (the same man). Problemi sorgono poi sulla sull’effettiva sincerità del giudicato, ma questo è un’altra questione (a cui Locke risponde puntualmente chiamando in causa l’occhio onnipotente e giudicatore di Dio): almeno in linea di principio la punizione è assicurata dalla possibilità di fare altrimenti e dal riconoscimento delle passate azioni. 
Locke argomenta che, data la nostra ignoranza circa l’essenza reale delle cose, la nostra analisi dovrà svolgersi al livello di essenze nominali: per quello che concerne il discorso sull’identità personale questo significa abbandonare la pretesa di impostare il discorso in termini sostanzialistici per abbracciare un’analisi a livello psico-gnoseologico. Essendo l’identità un’idea di relazione, anche l’identità personale sarà definita in termini funzionali in relazione all’imputabilità giuridica (differenziandosi per questo in modo qualitativo sia dell’identità per i corpi fisici, sia da quella delle creature viventi; per questo stesso uomo  stessa persona). Locke abbraccia il presupposto cartesiano secondo cui i limiti del nostro io sono seganti dai confini coscienziali, ma si distanzia poi decisivamente dal pensatore francese in quanto tale premessa non agisce al livello della definizione di uomo, bensì a quello della dimensione di persona. Andando indietro dalla gnoseologia all’ontologia Locke afferma come essenziale per l’identità la continuità vitale: ‘l’insieme temporalmente esteso delle proprie affezioni così come da noi conosciuto’. I problemi del corpuscolarismo e del materialismo classico sono evitati parlando della persona in termini esclusivamente mentali, di d’ispirazione Cartesiana, scoperti da criteri epistemologici a parte subjecti. Essendo la persona definita in termini di capacità giuridica e capacità di provare piacere/dolore, il fatto indubitabile della preoccupazione che ognuno di noi ha per il proprio futuro rappresenta un indizio sulla costituzione della nostra identità. Locke si trova costretto tra due fuochi: da una parte c’è l’impossibilità di postulare l’identità nella persistenza dell’anima, di cui non sappiamo pressoché nulla; dall’altra troviamo l’instabilità della materia e la sua conseguente inadeguatezza nel costituire un criterio d’identità. 
L’unica finestra disponibile è quindi quella costituita dalla continuità di coscienza, la quale spiega egregiamente la caratteristica fondamentale del nostro senso d’identità: il fatto che questo ci motiva a preoccuparci per l’io di ieri (e le sue azioni), e quello di domani (e come si comporterà). Come scrive acutamente l’Autore ‘la coscienza è un atto riflessivo di second’ordine: essere cosciente di certe azioni significa condividere, come testimone, la conoscenza della loro occorrenza in un certo individuo, in quanto agente’ (p.93). In una certa prospettiva credo che sia proprio tale dinamicità pratica a costituire parte fondamentale della nostra identità diacronica. 
Le critiche dell’autore alla concezione Lockiana sono in sintonia con le classiche obiezioni avanzate nel settecento da Butler e Reid: come la conoscenza presuppone la verità, così la memoria presuppone la sostanza che fa la persona. È necessario un substratum forte che giustifichi le legittime evidenze che abbiamo della nostra identità, ma ogni confusione dell’evidenza con il fatto porta a conseguenze aporetiche (come mostra l’impossibile biografia dell’ufficiale). Infatti, essendo la memoria soggetta ad errori, non può costituire il nocciolo duro dell’identità personale: io sono lo stesso di ieri indipendentemente dal mio ricordalo o meno. Riconosco la forza di questa linea critica, anche se non la ritengo un’argomentazione decisiva contro la teoria Lockiana: infatti, anche se il mio aver fatto una certa azione prescinde dal mio ricordarla o meno, questo non vuol dire che dal punto vista pratico il mio averne coscienza sia ininfluente sulla concezione che ho del mio se, sul modo con cui mi confronti con il mio passato e sulle mie azioni future. Ritorna nuovamente predominante una certa concezione pratica del se.
Per superare queste difficoltà, il criterio della consciousness è stato via via ‘rinforzato’ dalle compagini neo-Lockiane (ad esempio Shoemaker (1984) e Grice (1941) hanno cercato di rafforzare il criterio della memoria per renderlo più adatto allo scopo), ma Allegra sostiene (con Wiggins) che ogni modificazione del principio psicologico porta ad un avvicinamento progressivo alle posizioni di guisa sostanzialista, poiché, ad esempio, la distinzione tra true memories e q-memories sembrerebbe già presupporre un criterio d’identità forte dato. Un’alternativa possibile non riconosciuta dall’autore, data l’implausibilità della posizione secondo cui è la consecutiveness tra stati mentali successivi ma distinti che costituisce l’identità, è quella di ripensare il canone ridefinendo l’identità personale ad un altro livello d’analisi: quello pratico-forense. 
La discussione sull’identità personale si è intrecciata inevitabilmente anche con quella sulla materialità dell’anima: la testimonianza più significativa è quella del dibattito tra Samuel Clarke ed Anthony Collins. La soluzione Lockiana fu accolta dal materialismo come un rimedio contro le difficoltà avanzate dai sostanzialisti, orientandolo in una prospettiva non-meccanicista, anche se l’esasperazione di tale processo porterà inevitabilmente all’abbandono di un certo concetto d’identità. Ma, mentre per l’autore questo processo è visto come un impoverimento teorico, secondo la mia opinione è solo la ridefinizione necessaria di un concetto essenzialmente pratico: la metafisica deve modellarsi sulle esigenze pratiche fondate su dati esperenziali evidenti che sarebbe ‘quite odd’ ignorare in favore di un ritorno alla tradizione, a volte legato a preconcetti non argomentabili ed intrinsecamente  legati ad influenze di carattere religioso. Alcune stesse espressioni di Clarke e di Priestley sono di importanza strategica per capire a fondo le perplessità circa un sostanzialismo che si andava sgretolando sotto i colpi erosivi dell’ascrittivismo: è infatti vero che alcune proprietà del tutto sono a volte emergenti rispetto alla mera somma di quelle delle parti, ma è anche vero che esse dipendono in gran parte dalla nostra ascrizione di significato dipendentemente dal loro ruolo funzionale (ad esempio, la proprietà dell’orologio di segnare, per mezzo dei propri meccanismi interni, una certa ora dipende da una nostra arbitraria attribuzione di significato ad una certa disposizione spaziale delle lancette). L’identità personale, presa in a strict and philosophical acceptation, è un concetto vuoto, ma questo non preclude il fatto che abbiamo concerns verso i nostri futuri io poichèpoiché, come suggerisce Cooper, sia io stesso sia gli altri attribuiranno una continuità causale con il ‘mio se’sé di ieri. Allegra riconosce questo cambiamento di obiettivi teorici, anche criticandolo come un impoverimento del concetto di identità; più in generale viene criticata come sterile la posizione empiristica, data la sua incapacità di spiegare il fatto fondamentale ed ineliminabile dell’identità: ma questo non è vero poiché tale concetto non viene deflazionato, bensì viene recuperato ad un livello di descrizione diverso (namely practical). 
Leibniz rappresenta una reazione al quadro teorico anti-tradizionale. Infatti l’autore tedesco condivide un quadro teorico di fondo simile a quello Aristotelico: il principio degli indiscernibili e nell’unità sostanziale. C’è comunque da notare che nello stesso Leibniz c’è una contrapposizione tra identità personale ed identità morale, anche se poi la prima (ontologicamente fondata) costituisce la conditio sine qua non della seconda; come sintetizza giustamente l’autore, nell’opera del grande Leibniz la ratio essendi è predominante sulla ratio cognoscendi. Tale mossa teorica è una conseguenza stretta della teoria Leibniziana delle monadi: viene a forza riaffermata l’esistenza di un’anima come principio d’identità ed organizzazione; appare allora netta l’opposizione frontale al nominalismo Lockiano.
L’autore presenta poi fedelmente la posizione di David Hume, ma in modo incompleto, ossia fermandosi solo all’analisi del primo libro del Treatise, accennando solo distrattamente alla concezione dell’io pratico (l’autore è in buona compagnia). Penelhum (1976) e Lecaldano (2002) propongono una lettura di più ampio respiro dell’opera Humeana, sottolineandonerilevandone la complessità e lo spessore teorico: ne risulta sia un’analisi del se ricca, sia la contrapposizione fra la complessità della descrizione del se teoretico con la semplicità del se passionale e morale. È si vero che la gnoseologia presentata nella prima parte del Trattato porta l’autore alle drammatiche conclusioni del primo libro e dei second thoughts, ma è anche vero che l’identità del se in quanto oggetto di passioni e sentimenti morali introduce sulla scena un io diverso da quello cercato tramite l’introspezione nel primo libro, la cui identità è una un’idea di relazione dettata da criteri si somiglianza convenzionali. È invece interessante la linea critica ripercorsa dall’autore che attacca la troppo povera gnoseologia humeana, la quale non riconosce quel minimo di trascendentalità (nel senso di unità) innegabile che rende sensato parlare senza aporie di io (vedi pagine 188-190). Ma proprio queste considerazioni dovrebbero portare ad abbraccirare le tesi Humeana secondo cui dovremmo dar peso alla dimensione pratica della genesi del sé. L’autore non accetta tale passaggio poiché dalla sua prospettiva appare deflazionista. 
Le conclusioni che l’autore delinea sono coerenti con le preferenze teoriche avanzate nel libro: solo una distinzione forte tra sostanza ed accidente permette ancora di parlare di identità in senso filosofico (stretto, forte), naturalmente applicandola alla sostanza. Le posizioni che negano il dato fenomenologicamente immediato della presenza introspettiva dell’io portano a conclusioni controintuitive: sarebbe infatti impossibile lo stesso interrogarsi su tali questioni se non ci fosse un centro di ragionamento che coordinasse temporalmente le mie azioni, in modo da render possibile la loro imputabilità non ad un corpo inteso come ammasso più o meno omogeneo di materia, ma ad una persona. Solo così si possono evitare le aporie del materialismo e della stessa dottrina Lockiana, che necessitano di una continua integrazione di d’elementi esterni per non risultare controintuitivi; elementi che provengono naturalmente dalla tradizione di stampo aristotelico-leibniziana, che troverà nel trascendentalismo kantiano la sua più interessante interpretazione. Sono allora  lodate le posizioni di Wiggins, Strawson e Nozick, poiché non diffidenti della metafisica come invece sono i loro colleghi analitici, da Russell e Wittgenstein a Parfit e Williams. L’autore sostiene a ragione che non bisogna confondere i criteri di identità con l’evidenza che abbiamo per essa, ma non sono d’accordo che questo sia una mossa determinantein favore della teoria sostanzialistica, poiché anche se questo passaggio consiste in un riconoscimento della primitività dell’io, questa semplicità è secondo me di carattere pratico, e non metafisico. Queste affermazioni sembrano portare acqua al mulino di Hume, poiché lo stesso filosofo scozzese sosteneva che il riconoscimento di un io stabile e persistente era possibile solo al livello passionale: è questo e proprio quello che mi sembra affermare Antonio Allegra (e con lui anche altri autori) quando dice che noi siamo intimamente connessi con la nostra immagine interiore, che questo non è nemmeno un fatto verificabile, bensì è qualcosa di più ultimo e fondamentale. D’altronde quello d’identità personale è un concetto, e come tutti i concetti la sua importanza pratica è molto rilevante: ad esempio cercare di capire cosa vuol dire essere la stessa persona nel tempo può gettar luce sul meccanismo motivazionale ad agire in un certo modo in situazioni di carattere morale (sono un esempio gli importanti libri di D. Parfit 1973, 1982, 1984, T. Nagel 1970, 1986, 1997 e B. Williams 1973, 1981, 1995; ma anche i meno noti ma non meno interessanti lavori di P. Chazan 1998, J. Whiting 1986, V. Haksar 1991 e J. Perry 2002). Questi lavori, tutti non a caso di d’ispirazione Humeana o Aristotelica, mi sembrano essere accomunati dall’accento sull'esistenza di un soggetto morale la cui identità è descritta sul piano pratico: questa mi sembra essere la giusta prospettiva da cui può essere trovata una soluzione prolifica al problema della connessione con i nostri later selves.
Per concludere, il lavoro di Antonio Allegra è sicuramente caratterizzato da molta attenzione sia alla gnoseologia Lockiana sia al contesto teorico con cui il pensatore inglese si doveva confrontare, cosa che invece è generalmente carente nella letteratura analitica contemporanea: viene giustamente sottolineata la differenza tra essenza nominale e reale, nodo cruciale per capire lo spessore del discorso lockiano. È doveroso confrontare le tesi presentate in questo lavoro con i libri di J. Mackie (1976), H. Noonan (2003), M. Di Francesco (1998) e M. Ayers (1991), testi che l’autore tiene continuamente presenti, anche divergendone in diversi punti; altro testo fondamentale nell’economia del libro, soprattutto per le affinità dialettiche, è quello di D. Wiggins (2001).

Bibliografia

Chazan, P. 1998: The moral self (Routledge, London and New York)
Di Francesco, M. 1998: L’io e i suoi sé  (Raffaello Cortina Editore, Milano)
Grice, H.P. 1941: Personal identity (Mind, Vol. 50, october 1941, anche in Perry 1975)
Haksar, V. 1991: Indivisible selves and moral practice (Edinburgh University Press, Edinburgh)
Lecaldano, E. 2002: The passions, character and the self in Hume (Hume Studies, 28/2)
Mackie, J.L. 1976: Problems from Locke (Oxford Clarendon Press, Oxford)
Nagel, T. 1970: The possibility of altruism (Princeton University Press, Princeton)
Nagel, T. 1986: The view from nowhere (Oxford University Press, Oxford)
Nagel, T. 1997: The last word (Oxford University Press, Oxford)
Noonan, H.W. 2003: Personal identity 2ed. (Routledge, London)
Parfit, D. 1973: Moral principles and later selves (in A. Montefiore, Philosophy and Personal Relations,  London: Routledge and Kegan Paul 1973)
Parfit, D. 1982: Personal identity and rationality (Synthese, 53)
Parfit, D. 1984: Reason and persons (Oxford Clarendon Press, Oxford)
Penelhum, T. 1976: Self-identity and self-regard (in Rorty 1976: The Identities of Persons, University of California Press, Berkley) 
Perry, J. 2002: Identity, personal identity and the self (Hackett, Indianapolis)
Perry, J. ed. 1975: Personal identity (University of California Press, Berkley)
Rorty, A.R. ed. 1976: The Identities of Persons (University of California Press, Berkley)
Wiggins, D. 2001: Sameness and substance renewed (Cambridge University Press, Cambridge)
Shoemaker, S.-Swinburne, R. 1984: Personal identity (Blackwell, Oxford)
Whiting, J. 1986: Friends and future selves (The Philosophical Review, XVC/4)
Williams, B. 1973: Problems of the self (Cambridge University Press, Cambridge)
Williams, B. 1981: Moral luck (Oxford University Press, Oxford)

Indice

Prefazione. Soggetività, identità, metafisica
I. Morfologia e preistoria dell'identità
II. La carne impossibile. Il dibattito sulla risurrezione
III. La coscienza senza la sostanza. I problemi e le soluzione di Locke
IV. La coscienza in azione. La polemica Locke- Stillinfleet
V. Il rigoglio delle polemiche. I. Le obiezioni classiche
VI. Il rigoglio delle polemiche. II. Materialismo ed oltre
VII. L'anima ed il mulino. L'identità tra Leibniz e Hume
Conclusioni. L'anima dopo l'anima. Materiali per un bilancio teoretico
Bibliografia

Indice dei nomi

L'autore

Antonio Allegra è dottore di ricerca in filosofia e scienze umane e autore di studi ispirati da un progetto complessivo di indagine sulle forme di soggettività. Oltre a numerosi articoli ha scritto Identità e racconto. Forme di ricerca nel pensiero contemporaneo, ESI, Napoli 1999; Le trasformazioni della soggettività. Charles Taylor e la tradizione del moderno, AVE, Roma 2002. Sul piano storiografico si interessa soprattutto di filosofia e cultura del ‘600: ha curato con Carlo Vinti le Opere scelte di Federico Cesi, Effe, Perugia 2003, e attualmente è impegnato nella cura dell’edizione italiana di opere di Baltasar Graciàn. È titolare di assegno di ricerca nell’Università di Perugia, dove svolge attività presso la cattedra di Storia della filosofia contemporanea.