martedì 25 luglio 2006

Adami, Stefano, L’Incontro e l’Altro. Linguaggio, culture, educazione.

Pisa, Ets, 2006, pp. 142, € 13,00.

Recensione di Chiara Pastorini – 25/07/2006

Antropologia, Ermeneutica

«Sarebbe bello, Agatone, se la conoscenza scorresse tra di noi come l’acqua che passa dalla coppa più piena alla più vuota attraverso un filo di lana». Tratta dal Simposio di Platone, è questa la prima citazione che si legge sulla copertina del libro di Stefano Adami e che ben introduce i contenuti dell’opera. Sollecitato dalla questione socratica, l’autore si propone di indagare le modalità attraverso le quali la conoscenza passa tra gli uomini e tra le culture, facendo del rapporto con l’Altro il cardine di questo processo. Non concentrandosi specificamente sulle caratteristiche dei fenomeni di immigrazione, l’analisi di Adami cerca piuttosto di analizzare le condizioni di possibilità che consentono di poter parlare di incontro con l’Altro. In particolare, l’autore ci invita ad interpretare questo “evento” nei termini delle condizioni semiotiche, proponendo una serie di riflessioni che dalla dimensione linguistica dell’ultimo Wittgenstein abbracciano le prospettive dell’ermeneutica filosofica e dell’antropologia interpretativa. È questo invito ad una disamina dei fondamenti teorico-critici che stanno alla base delle dinamiche interculturali, e più in generale di quelle del rapporto Io-Altro, a costituire il vero merito di Adami.

L’invito alla riflessione critica, d’altra parte, mette in dubbio l’intera gamma delle certezze sulle quali si basano gli approcci più superficiali alla questione: contro l’ingenuità di alcune prospettive, emerge, qui, la consapevolezza dell’impossibilità di incontrare e conoscere l’Altro prescindendo dal condizionamento profondo del linguaggio e delle lingue, forme che strutturano la nostra espressione e la nostra comunicazione quotidiane. D’altro canto, è l’esigenza stessa di conoscenza che, attraverso il linguaggio, modifica e dà forma a qualsiasi approccio con l’Altro e al metodo della ricerca. In questo senso, la conoscenza si trasforma in un percorso non facile in cui l’interazione reciproca con gli usi linguistici conduce a scoprire le ragioni della propria e dell’altrui identità.

Se nella prima parte il libro si concentra maggiormente su un’operazione di riflessione critica nei confronti di una trasmissione della conoscenza e del sapere linguisticamente condizionata, nella seconda parte si assiste ad un’analisi di modelli concreti degli scenari teorici discussi in precedenza, e a proposte di operazioni gnoseologiche e didattiche ‘aperte’ da prendere eventualmente in considerazione anche in realtà diverse da quelle di origine.

Complessivamente, il percorso attraverso il quale Adami articola il suo lavoro è composto di cinque capitoli, preceduti dalla presentazione di Massimo Vedovelli e da una breve introduzione dell’autore in cui vengono accennati gli intenti dell’opera.

Nel primo capitolo Adami si concentra sulla modernità occidentale (rappresentata perlopiù dalla cultura “euro-americana”) sottolineandone le implicite assunzioni di superiorità delle proprie forme di vita e dei propri sistemi culturali e linguistici. Attraverso una legittimazione di sé, realizzata attraverso un procedimento di calcolo razionale, la modernità sembra affermarsi, come già nell’interpretazione di Nietzsche e di Heidegger, attraverso lo strumento della tecnica. Questa si presenta come l’estrema realizzazione di una cultura edificata su un pre-giudizio e, quindi, intrinsecamente già orientata e impositiva. In questa prospettiva, i moderni mezzi informatici e le scienze del computer si manifestano  come il compimento della forte tendenza della metafisica occidentale alla smaterializzazione dell’Altro e della realtà, al loro dissolvimento e svuotamento che sanciscono il predominio della mente sulla natura. Ma, d’altra parte, è paradossalmente proprio il timore del vuoto e dell’annullamento di sé, che, secondo Adami, caratterizza il pensiero moderno. Nel rapporto con l’Altro questa paura di perdersi porta il soggetto a reagire assimilando l’alterità alla propria cultura di appartenenza, relegando una cultura altra, nella migliore delle ipotesi, ad una sorta di fase primordiale dell’umanità.

È proprio la nozione di ‘pre-giudizio’, alla base del pensiero occidentale moderno, che viene indagata nel secondo capitolo. Il pre-giudizio si presenta come una serie di categorie maturate lentamente (più o meno consapevolmente) nel soggetto e che costituiscono l’orizzonte in cui avviene l’incontro con l’Altro, predeterminandolo. In accordo con Pier Paolo Pasolini, anche Adami sostiene che sia l’ambito scolastico il luogo in cui queste strutture categoriali si solidificano. Scuola ed educazione rappresentano i luoghi di sedimentazione di certezze che fanno della cultura che caratterizzano la sola in cui sia permesso un riconoscimento identitario, trasformandola nel «migliore dei mondi possibili» (cfr. p. 49). In altre parole, scuola ed educazione si presentano come i garanti del nostro riconoscimento e del riconoscimento altrui impedendo in questo modo la perdita e l’annullamento del proprio sentimento identitario. Ma, sottolinea l’autore, in un sistema educativo così concepito, al dialogo e allo scambio con l’Altro si sostituisce piuttosto l’inserimento dell’Altro nel nostro sistema di certezze e forme di vita, favorendo invece che un’apertura all’Altro un incontro già orientato e finalizzato.

Come ribadito nel terzo capitolo del libro, le strutture educative della società occidentale (e il linguaggio attraverso cui vengono veicolate) si manifestano, dunque, da una parte, come un’istituzionalizzazione forte della centralità della cultura che le ha lentamente pensate e prodotte, e dall’altra parte, come il luogo di diffusione acritica organizzata e capillare di questa stessa cultura.

Ma, alla luce di questo scenario, qual è la soluzione? Rifiutata la possibile chiusura delle scuole, Adami propone un ripensamento profondo delle strutture educative che, rendendo meno rigidi categorie e fondamenti, e riducendo il carico di teoria, faccia delle scuole il luogo di apertura, di discussione e di incontro vero con l’Altro. È questo ideale orientativo che allontana anche le negative conseguenze relativistiche di un paradigma basato sull’incommensurabilità delle culture tra loro.

Negli ultimi due capitoli, l’autore analizza alcuni modelli concreti degli scenari teorici discussi finora, proponendoli come esperienze didattiche ‘aperte’ da prendere eventualmente in considerazione anche nella società euro-americana. E la non-conclusione di Adami si può riassumere così: soltanto in un sistema educativo che tenga conto, da una parte, dell’individuo nella sua interezza (integrando le componenti mentali-cognitive con quelle naturali-biologiche), e, dall’altra parte, della società nella sua molteplicità di razze, culture e visioni del mondo è possibile la conoscenza nel senso più pieno del termine, cioè come prodotto dell’incontro e dell’apertura all’Altro.

Indice

Presentazione di Massimo Vedovelli
Introduzione
Descrivere e comprendere
Il Pre-giudizio
Nel concreto
Per una educazione multiculturale
Per non concludere
Bibliografia

L’autore

Stefano Adami, insegnante con esperienza di docenza all’estero, è collaboratore della Encyclopedia of Italian Literary Studies alla Princeton University. Si occupa prevalentemente dell’italiano all’interno dell’opera lirica e di questioni relative ai fondamenti e alla diffusione della conoscenza, con particolare attenzione agli aspetti linguistici e letterari.

Ortega y Gasset, José, Idea del teatro.

Milano, Medusa, 2006, pp. 124, € 14,00, ISBN 88-7698-041-5.

Recensione di Luigi Marfé - 25/07/2006

Estetica

In una delle tante locande delQuijote (II, XXVI), Cervantes mette il suo hidalgo davanti a uno spettacolo di burattini. A esservi rappresentata è l’impresa del cavaliere francese Gaifero, che si mette in viaggio verso Saragozza per liberare dai mori la sposa Melisendra. Quando vede il compagno di cavalleria pericolosamente circondato dai nemici, tuttavia, don Quijote s’immedesima a tal punto nel racconto che sale sul palco per dargli man forte e devasta la scena a forza di fendenti e manrovesci. Se i momenti del romanzo in cui Cervantes mescola verità e finzione sono numerosi, la confusione di livelli di realtà viene qui a descrivere la dialettica di ruoli che s’instaura nell’esperienza estetica del teatro. L’atmosfera in cui è calato lo spettatore è infatti quella dellasuspension of disbelief. Non diversamente dal cavaliere mancego, l’immaginazione di chi si siede a teatro si stacca dal mondo reale, per vagare in un universo che è assieme lucido e stralunato: la vita è sogno, ha scritto Calderόn de la Barca.

Nella traduzione attenta di Andrea Fantini e con la limpida prefazione di Francesca Falchi,Idea del teatro ripropone al lettore italiano il testo della conferenza omonima che José Ortega y Gasset lesse il 13 aprile 1946 a Lisbona e il 4 maggio successivo a Madrid. Il volume è impreziosito inoltre da due importanti testi in appendice: mentre nel primo Ortega indaga sull’origine delle maschere nel teatro greco, l’altro è un’acuta riflessione, purtroppo incompiuta, sul tempo che passa. Il punto di partenza del filosofo spagnolo è la constatazione dello stato rovinoso in cui versa il teatro contemporaneo. La conferenza è letta all’indomani della conclusione della seconda guerra mondiale; nel conflitto, Ortega non vede però la causa, ma l’effetto di una crisi che aveva già descritto nella Rebelión de las masas (1930). La storia del teatro sembra coagularsi intorno a momenti di splendore inatteso, circoscritti nel tempo e nello spazio: l’Atene del V secolo di Eschilo, Sofocle ed Euripide, l’Inghilterra di Shakespeare e Ben Johnson, il Siglo de oro di Lope de Vega e Calderόn, la Francia del Re Sole con Corneille e Racine, la Venezia di Goldoni e la Germania di Goethe e Schiller. Per uscire dall’impasse, Ortega insiste sulla stessa soluzione che aveva già proposto per la crisi del romanzo nelle Ideas sobre la novela (1925). Ciò che più gli sta a cuore è la continuità con il canone del passato. La scommessa è che non ci siano altri bagagli da portare verso il futuro, se non i tesori della tradizione: “Continuare non significa ancorarsi al passato e neppure al presente significa muoversi, andare oltre, innovare, ma rinunciando al salto e al partire dal nulla; prima di tutto affondare i piedi nel passato, poi decollare dal presente, e pari passu, un piede dopo l’altro, mettersi in marcia, camminare, avanzare” (p. 16).

Contro le ripartizioni della retorica classica, secondo cui la letteratura si distingue nei tre grandi generi dell’epica, della lirica e del dramma, Ortega rivendica con forza la peculiarità anti-letteraria del teatro. Diversamente dagli altri tipi di scrittura, le sceneggiature non sono fatte per essere lette, ma recitate. Mentre un libro colpisce il lettore solo attraverso le sue parole, uno spettacolo teatrale affastella nella mente di chi lo guarda le sensazioni visive più rapide e molteplici. A contare di più nella visione di Ortega è il riconoscimento del teatro come fantasia solidificata. Il carattere di differenza dell’esperienza scenica rispetto alle altri arti riposa infatti nella concretezza con cui il suo discorso simbolico prende vita attraverso i gesti degli attori. In questa capacità del teatro di costituirsi come universo finzionato in sé conchiuso, per cui lo spettatore è nello stesso tempo davanti all’attrice e davanti all’eroina che questa impersona, c’è per Ortega un sapore magico straordinario. Rap-presentare significa che la presenza dell’attore serve non per presentare se stesso, ma un altro essere. Come il monte Tabor, ogni teatro, per umile che sia, è sempre un luogo dove si compiono trasformazioni. Il processo di metaforizzazione col quale l’attore entra nel suo personaggio consiste nella riduzione di due realtà a un’unica irrealtà. L’effetto è quello di una tregua dalle urgenze della vita che trascina verso un ultramondo parallelo al mondo del quotidiano. In questo senso, il teatro svolge quella funzione di divertissement che già gli avevano riconosciuto i moralisti del XVII secolo. Invece di condannarne l’inutilità, tuttavia, Ortega ne loda con accenti baudelairiani il carattere di divino espediente, che permette di sfuggire alla noia e concede allo spettatore un momento di felicità. Andare a teatro significa lasciarsi avvolgere dall’universo allestito sulla scena e uscire così dalla propria stessa vita: “L’essenza del teatro sta nell’uscire di casa e andarvi – andare nell’irreale” (p. 57).
Se l’arte è comunicazione di esistenza, il teatro ne è l’esempio più fulgido e brillante, dal momento che ha natura dialogica ed eleva la polifonia a legge del suo universo. Come viene formulando negli stessi anni Michail Bachtin a proposito della letteratura carnevalesca, Ortega riflette sul ruolo della farsa nell’estetica del teatro, che reclama il diritto all’equivoco ed esprime il suo punto di vista ironico e multiforme sul reale attraverso la dimensione di sospesa leggerezza del gioco. Il rapporto tra l’attore e lo spettatore è così quello tra il farsante e il farsato; la passività dello spettatore è però riscattata dalla natura stessa della farsa, che chiama chi guarda a entrare a far parte del proprio ultramondo. “Anche il pubblico, dunque, è farsante, esce dal suo essere abituale per andarsene in un essere eccezionale e immaginario, e partecipa a un mondo che non esiste, a un ultramondo; e in questo senso non solo la scena, ma anche la sala e il teatro divengono fantasticheria, ultravita” (pp. 66-67).
La prima delle due appendici è dedicata al tema delle Maschere nel teatro greco. Più di Nietzsche, il modello cui si rifà Ortega è l’antropologia di Lucien Lévi-Bruhl; dal filosofo tedesco deriva però il riconoscimento dello stretto rapporto tra il teatro e il culto di Dioniso. Divinità trascendente capace di annichilire l’uomo e convincerlo ad abbandonarsi a sé, Dioniso è il simbolo di un’esperienza che è insieme culto, orgia, arte e divertimento. La natura più autentica del teatro è per Ortega ancora una volta la farsa, che esprime la verità contraddittoria della con-fusione: un pensiero sincretico in cui tutto si tiene in una totalità organica, complessa e sfaccettata.
Partendo dall’etimologia di O Século, la rivista che gli ha commissionato la conferenza, la seconda appendice svolge invece una riflessione sul tempo. Dal momento che è creatore del nuovo, il tempo è per sua stessa natura generoso: dalla stanza delle infinite possibilità, istante dopo istante il futuro diventa presente, offrendosi unico e irripetibile alla vita degli uomini. La chiave esistenziale del discorso non impedisce però a Ortega di polemizzare con Heidegger. Contro gli accenti melodrammatici del vivere-per-la-morte, il discorso cade sull’importanza pratica di cogliere l’attimo e il filosofo spagnolo indugia così sul rapporto tra il corpo e le antiche unità di misura del tempo. L’invito su cui si chiude il testo è infatti di resistere alla tirannia del tempo che passa, scommettendo ironicamente su una sua misurazione accurata: “poiché abbiamo le ore contate, siamo costretti a contarle” (p. 119).
Secondo Ortega, che aveva già sviluppato il tema nelle Meditaciones del Quijote (1914), il peccato del cavaliere di Cervantes nell’episodio citato in precedenza è proprio quello di salire in scena e porre fine alla rappresentazione. Il teatro e il mondo reale sono universi alternativi e completi, susseguenti da logiche diverse che ciascuno si dà da sé, e non vanno quindi confusi o giustapposti. Nondimeno, l’opposizione ontologica tra realtà e finzione va ribaltata in chiave funzionale: i due universi restano infatti complementari l’uno all’altro, come orizzonte di comprensione reciproco. Ortega rammenta come la lezione più autentica dell’ultimo Platone sia nel gioco di parole che lega la cultura (paideía) al gioco (paidía): se è dalla vita che prende la materia delle sue storie, d’altra parte il teatro si offre a essa come strumento di conoscenza. Chi non sospende almeno talvolta la serietà della vita e ha smesso di credere nella fantasia del teatro, dimentica la verità più profonda dell’ironia, secondo cui il mondo è più vasto e contraddittorio di ogni certezza precostituita. Nei Diapsalmata, Kierkegaard racconta che una volta in un circo scoppiò un incendio. Il buffone fu incaricato di avvisare il pubblico, ma la gente credette che fosse una pagliacciata e tutti morirono nel rogo.

Indice

Prefazione di Francesca Falchi
Idea del teatro. Un accenno
Appendice I. Maschere
Appendice II. O Século
Note


L'autore

José Ortega y Gasset (1883-1955) è saggista e filosofo spagnolo, docente di metafisica all’Università di Madrid dal 1910. Nella sua filosofia ha sviluppato una sintesi di pensiero e azione, dando notevole importanza al vitalismo. Tra le sue numerose opere si ricordano: Meditazioni del Chisciotte (1914), Lo spettatore (1916-1934), La disumanizzazione dell’arte (1925), Idee sul romanzo (1925), Che cos’è filosofia (1928-29), La ribellione delle masse (1930), Goethe. Un ritratto dall’interno (1932).

martedì 18 luglio 2006

Caponera, Marco, La sparizione del reale. Lettura critica del linguaggio dei mass media.

Roma, Le Nubi, 2005, pp. 96, € 10.00, ISBN 88-89616-06-7.

Recensione di Carlotta Vianello – 18/07/2006

Sociologia

Il testo di Caponera affronta un tema più che mai attuale, imprescindibile per chiunque oggi operi nel pensiero: i cambiamenti che le nuove tecnologie e il linguaggio dei mass media hanno prodotto sull’esistenza dell’essere umano e sul suo modo di autocomprendersi. Attraverso una lettura critica, dichiarata esplicitamente fin da principio, del modo di comunicare dei nuovi media, l’autore tenta di palesare come il sistema informativo globale contemporaneo sia una forma perversa e per certi aspetti disumanizzante di costruzione del consenso e annullamento di alternative concettuali. Il potere persuasivo e invasivo dei media investe, così, necessariamente un significato socio-politico, che dovrebbe accostare una generale riflessione di natura più strettamente filosofica, ontologica, e che tuttavia rimane impensata: da comprendere perché la filosofia contemporanea dedichi così poca attenzione alla “dimensione comunicativa nella sua espressione tecnologica”.
Nella prima parte del testo si analizzano le differenti forme di comunicazione globale che i media attuano e l’illusorietà, prodotta dalla “retorica incantatoria” nella trasmissione dei messaggi, di avere sempre a disposizione una massa d’informazioni e nozioni un tempo inarrivabili ai più. Tale abbaglio è connaturato a un processo di massificazione dell’individuo, indispensabile all’attuazione di una globalizzazione radicale. La costruzione della notizia implica una distanza dalla realtà, un distacco che è peculiare a ogni forma di rappresentazione mediatica: in epoca contemporanea avviene così una sorta di virtualizzazione dell’esistenza umana, che preclude alla possibilità di esperire direttamente il reale. Tale elemento è poi intimamente connesso al controllo sociale; si assiste nella società globale – che l’autore ridefinisce società integrata, seguendo Guy Debord – a un necessario appiattimento di opinioni, modi d’essere e di autocomprensione dell’uomo. L’interpretazione del reale della rappresentazione mediatica finisce così per essere l’elemento principe della propaganda e del potere dominante.
Tuttavia ci sembra che nel testo in questione, così come nella corrente “ecosofica” a cui Marco Caponera si dichiara debitore, il fenomeno della rappresentazione che sottende a ogni riproduzione di qualsiasi media non venga pienamente affrontato ontologicamente. L’autore comprende che ogni informazione riguarda primariamente l’uomo e a esso si rivolge in qualsiasi caso, ma non tratta esplicitamente la correlazione che sussiste fra la tematica dell’apparire e della rappresentazione, tratti fondamentali dell’esistere umano, e la sfera comunicativa del moderno sistema informativo. Il meccanismo di sostituzione che la raffigurazione mediatica opera nei confronti del reale è supportato dai nuovi mezzi di comunicazione, ma la sua tematizzazione non si esaurisce in essi. Quando l’autore afferma che “in apparenza l’informazione vuol sembrare la realtà, di fatto non ne è che una lettura sbiadita” (p. 16), il contesto a cui fa riferimento è ancora una volta quello socio-politico, deducendo infatti che queste tecniche di comunicazione portano a un condizionamento dell’individuo dalla quale difficilmente si tornerà indietro. L’informazione mediatica essendo una produzione, una trasposizione soggettiva del reale, è paragonata poi alla creazione artistica; poiché in essa accade una trasformazione dell’evento in oggetto della notizia. In questo senso, è evidente che ogni trasmissione della notizia da parte di un medium a un fruitore non può e non deve offrire l’evento così come esso è, proprio per la sua stessa natura di intermediario. Tale forma di manipolazione non è frutto di casuali ideologie malvagie e insensate, ma sottende a una precisa forma di organizzazione primariamente attivata da interessi economici. Esempio lampante è la televisione. Nel linguaggio televisivo, ma oramai non più solo in esso, il contenuto editoriale è il terreno su cui affrontare battaglie d’ascolti mosse dalle reti per autorizzare gli investimenti di sponsor sempre più importanti e potenti; a ciò è connessa l’esigenza di spettacolarizzare la notizia per attrarre un pubblico sempre più numeroso.
L’autore, accompagnato dalle teorie di Guy Debord, ravvisa nella spinta mediatica a consumare una trasformazione del mondo in luogo di spettacolo e una conseguente privazione del luogo del suo senso primariamente abitativo, umano. Le città e le campagne diventano luoghi merce privi di carattere fisico: l’ontico cede il passo alla costruzione tecnologica che, utilizzando il meccanismo della sostituzione del reale, crea fantasmagoriche comunità globali in cui l’unica vera forma di compartecipazione alla collettività è il potenziale potere d’acquisto. Nemmeno internet, media in cui inizialmente si poteva riconoscere una potenziale strumento di diffusione democratica della conoscenza, si sottrae da questo generale processo di esasperato solipsismo e pseudo-informazione. Ciò che Caponera chiama appunto “solipsismo interattivo”, oltre alle evidenti conseguenze socio-politiche, comporta una mancanza di coscienza e di etica nei confronti del mondo, inteso sia come insieme di individui che come globo terrestre.
Attraverso queste considerazioni l’autore passa alla parte costruens, la seconda del testo, dove propone delle possibilità di vita e di pensiero distanti dalla finzione ontologica operata dai mass media, dalla “sparizione della realtà”. La teoria del dissenso deve testardamente tentare percorsi d’alterità: è con quest’urgenza del pensiero che l’autore, accompagnato da Le tre ecologie di Félix Guattari, individua nei tre registri ecologici ambiente, rapporti sociali e soggettività umana delle alternative che, lungi dal proporre obiettivi ultimi facilmente praticabili e identificabili, sono possibilità da percorrere quotidianamente. Più che discipline, cioè, delle pratiche di riconquista della propria singolarità. Un esercizio, difficile poiché anticonformista e apparentemente isolato, che implica una progressiva presa di distanza dalla mercificazione e dall’economico, una urgenza a cui tutti noi non possiamo sottrarci.

Indice

Introduzione

Prima serie
Il linguaggio: vuota retorica di potere La retorica incantatoria
Il linguaggio burocratizzato
Semiosfera e costruttivismo mediatico
Lo spettacolare e il post spettacolare
Internet dopo McLuhan
Silenzio telematico e solipsismo interattivo
Contro l’ontologia digitale

Seconda serie
Vis à vis
Processi di soggettivazione
Le tre ecologie
Conclusioni (provvisorie)
Bibliografia


L'autore

Marco Caponera (1974) è laureato in filosofia presso l’università di Roma Tor Vergata, presso cui svolge attività didattica per la cattedra di Filosofia del linguaggio. È autore di numerosi saggi filosofici e sui mass media. Nel 2000 ha pubblicato, per la casa editrice Malatempora di Roma, il testo Transgenico NO.

mercoledì 12 luglio 2006

Lombardo, Giovanni, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica.

Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 146, € 18,00, ISBN 88-7462-144-2.

Recensione di Gualtiero Tacchini - 12/07/2006

Estetica (critica letteraria)

Il volume è una raccolta di tre scritti - due già apparsi in rivista, il terzo è ampliamento di una relazione presentata a un congresso - aventi in comune, come sottolinea l’autore nella Premessa, “l’idea della trasposizione, così come essa si manifesta in quelle enunciazioni teoriche della poetica antica che sembrano più prontamente raccordabili al pensiero critico moderno” (p. 7).

Un’antica metafora dell’intertestualità: la pietra di Eraclea mette in rilievo alcune premonizioni greche della moderna teoria dell’intertestualità. Queste premonizioni si riscontrano non solo in epoca alessandrina, ma anche agli inizi stessi della letteratura, in quei modi della produzione e della ricezione che sono propri degli aedi. Ricondurre alcune competenze dei poeti antichi all’odierna nozione dell’intertestualità non è arbitrario, a patto che si ricordi che si tratta sempre di “una competenza polifonica che se, da una parte, lasciava risuonare nella memoria del poeta l’intera tastiera espressiva della tradizione, dall’altra non approdava mai alla disseminazione del senso tipica degli attuali esercizi decostruttivisti” (p. 14). Infatti, autorevoli studiosi, soprattutto Giorgio Pasquali e Gian Biagio Conte, “hanno dimostrato che le tecniche dell’antica ‘arte allusiva’ miravano sempre ad impreziosire la filigrana formale del testo, mai a frantumarla nel pulviscolo in catturabile degli infiniti sensi possibili” (ibid.).

Ma un vero archetipo dell’intertestualità si trova proprio in quel passo platonico che tradizionalmente è stato visto come il modello dell’opposta concezione poetica, quella - consacrata poi dal Romanticismo - del poeta come genio solitario ispirato. Lombardo afferma che “l’impulso che la Musa infonde nel poeta e che questi, a sua volta, trasmette al suo uditorio viene paragonato alla dynamis della calamita (la pietra ‘che Euripide chiamò Magnete ma che i più chiamano pietra di Eraclea’, 533d), la quale ha facoltà di rendere magnetici gli anelli di ferro a cui si accosta […] nel caso della poesia si forma una catena di poeti ispirati che trasmettono gli uni agli altri l’energia creativa emanata dalla Musa” (pp. 21-22). Quindi, “sostituendo all’ipostasi mitica della Musa l’ipostasi culturale di una Letteratura intesa come il grande intertesto della memoria colta del lettore, e riconoscendo negli anelli della catena magnetica le varie fasi di una lunga tradizione letteraria […] si ottiene un’efficace rappresentazione simbolica delle coordinate teoriche dell’intertestualità” (p. 22).

Sulla stessa linea si muovono Longino, quando afferma l’agonismo con la tradizione come condizione necessaria per raggiungere il sublime, e, nel suo commento a Virgilio, Microbio, nonché Seneca quando dichiara “inventuris inventa non obstant” (cit. a p. 27), affermazione che comunque ricevette molte critiche sia antiche che attuali.

Il secondo capitolo, Un’agnizione classica in Montale: il simbolo del bivio, consta di un percorso teorico e della verifica di tale percorso su un testo del XX secolo. Partendo dalle teorie di Humboldt, l’autore arriva ad affermare che il fruitore di un testo letterario con i suoi atti decodificatori passa progressivamente da una semplice ricezione a una comprensione capace di assegnare al testo significati assenti al momento della produzione. Questa creatività non procede ex nihilo, ma “l’apporto produttivo del lettore ai sensi del testo implica un repertorio di dati preesistenti che sappiano riaccendere le risemantizzazioni della lettura” (p.57). Tali dati preesistenti vanno individuati nelle conoscenze fondamentali dell’uomo, che per Veselovskij sono riferiti a “un lessico di schemi e situazioni tipiche, alle quali la fantasia è abituata a rivolgersi per esprimere un determinato contenuto” (p.64). La letteratura, sempre secondo lo studioso russo, è una delle forme di attuazione storica di tali schemi e situazioni tipiche. La seconda parte mostra la vitalità di uno di questi schemi: l’immagine-simbolo del bivio ne I limoni di Montale, con due caratteristiche che da oltre due millenni sono rimaste costanti: “1) la cornice polemica in cui si iscrive la dichiarazione di un nuovo programma poetico; 2) il paradigma oppositivo facile vs difficile che presiede alla risoluzione stilistica della differenza tra le due vie” (p.66). Tali elementi si trovano in Callimaco, che “trasferisce il simbolo del bivio dall’originario ambito filosofico al piano delle querelles letterarie” (p.67) e offre un testo col quale il montaliano presenta fitti parallelismi formali. Ma, da Callimaco, la rete intertestuale si complica sia in senso “regressivo” (Esiodo) che in quello “progressivo” (Virgilio, Orazio e Dante, col quale l’immagine è notevolmente arricchita di significati). Questa escursione intertestuale ci mostra non solo la libertà interpretativa del lettore ma anche come la lettura sia orientata dalla cultura letteraria del lettore. Se due poeti distanti oltre due millenni possono affidare i medesimi contenuti alla stessa immagine del bivio è perché tale simbolo “appare, all’aurora della civiltà, in quel nucleo di simboli archetipici costituenti il repertorio figurale primario e germinativo della nostra tradizione letteraria” (p.77).

In Armonia e movimento nelle antiche teorie dello stile, si cercano anticipazioni classiche della teoria della Sprachbewegung. Già in Grecia è viva la visione del linguaggio come sistema in movimento e questo “investe il livello complesso dell’articolazione morfosintattica, ma anche il livello più semplice dei segni alfabetici e del loro aggregarsi in sillabe e in parole” (p.88). Quest’idea, che viene espressa compiutamente in Platone con l’analogia tra l’armonia verbale e l’armonia cosmica, nasce comunque già con gli atomisti, per i quali il rapporto tra gli atomi e le cose è identico a quello fra lettere e parole. Anche un altro aspetto della Sprachbewegung, la traduzione come atto creativo, con la conseguente esaltazione del momento della ricezione, si ritrova nella storia stessa di hermeneia, che significò dapprima “stile” e poi si riferì alla traduzione, il che implica il legame inscindibile tra le due realtà e l’idea di un movimento all’interno della forma medesima. Questo perché “quando si affida un certo pensiero al linguaggio ci si rende conto che quel pensiero può essere mediato in forme diverse: può cioè ‘muoversi’ lungo molteplici percorsi formali e può essere armonicamente composto entro differenti organismi testuali” (p. 93). Tali concetti si ritroveranno anche nei più antichi trattati di retorica: Longino sostiene che tra le cinque fonti del sublime la più importante è la costruzione di una synthesis eccezionale e che “la convergenza tra la musica e il sublime si realizza infatti al livello degli effetti della loro ricezione ovvero al livello delle reazioni che la loro forma espressiva provoca negli ascoltatori” (p.95).

Anticipazioni delle teorie moderne si ritrovano anche nella prassi della riscrittura metafrastica. La metafrasi, nata nell’ambito della sofistica, “consisteva nel dissolvere l’armonia compositiva ovvero la synthesis, la musica particolare, di un certo passo riscrivendolo in altra forma, sì da farne emergere, per comparazione, le caratteristiche linguistico-grammaticali e/o i pregi stilistici” (pp. 100-101). Essa ha dunque come campo privilegiato di applicazione proprio la synthesis, in quanto questa costituisce la cifra stilistica del testo e il principale tratto generatore del fascino del testo stesso. Nell’antichità la metafrasi fu oggetto di dispute che, non diversamente da quelle odierne riguardanti la traduzione, dividevano i sostenitori del primato del testo di partenza da quelli del primato del testo di arrivo, che rifiutavano come riduttiva la funzione esplicativa della metafrasi e ne rivendicavano il diritto di entrare in competizione con l’originale.

Indice

Premessa

I. UN’ANTICA METAFORA DELL’INTERTESTUALITÀ: LA PIETRA DI ERACLEA
Estetica della ricezione e poetica antica
Intertestualità omerica
Antichi esempi di lettura attiva
La metafora platonica del magnete
Il lettore sublime e l’aemulatio
L’influenza dei modelli e la lettura creativa

II. UN’AGNIZIONE CLASSICA IN MONTALE: IL SIMBOLO DEL BIVIO
La lettura creativa secondo Humboldt
Rappresentazione e significato
La poetica storica
Uso e interpretazione dei testi
Il simbolo del bivio in Montale
Il simbolo del bivio in Callimaco
Il simbolo del bivio in Esiodo
Altri antecedenti classici
Il modello dantesco
Attualità di un simbolo

III. ARMONIA E MOVIMENTO NELLE ANTICHE TEORIE DELLO STILE
Movimento del linguaggio e poetica della traduzione
La natura ritmica del linguaggio
I Greci e l’esperienza della traduzione
L’antica nozione di hermeneia
L’armonia compositiva del testo
Lo stile periodico e l’origine della prosa d’arte
Giudizio critico e tecniche metafrastiche
Metafrasi antiche e traduzioni moderne

L'autore

Giovanni Lombardo insegna Estetica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina. Tra le sue pubblicazioni: Hypsegoria. Studi sulla retorica del sublime (Modena 1988), Estetica della traduzione. Studi e prove (Roma 1989). Ha tradotto e commentato: Peudo-Longino, Il sublime (Palermo 1992) e Demetrio, Lo stile (Palermo 1999). Ha inoltre curato l’edizione italiana di W.J. Verdenius, I principi della critica letteraria greca (Modena 2003).

Vernaglione, Paolo, Il Sovrano. L’Altro. La Storia.

Roma, Manifestolibri, 2006, pp. 183, € 19,00, ISBN 88-7285-411-3

Recensione di Gennaro De Falco -12/07/2006

Filosofia teoretica

Diviso in tre capitoli che affrontano le tre voci che compongono il titolo, il testo di Paolo Vernaglione offre spunti di riflessione molto interessanti ed originali partendo da un profondo studio della letteratura scientifica in merito agli argomenti trattati.

Il primo capitolo affronta il problema dominante della nostra contemporaneità che è quello della globalizzazione in rapporto alla sovranità. L’autore passa in rassegna le teorie che diversi studiosi hanno elaborato in merito, partendo dall’assunto che “le tradizionali categorie con cui si intendono la politica e il suo fare servono sempre meno a definire quella nuova ‹‹cosa›› del potere nata con la globalizzazione”(p. 19). Tale fenomeno è inquadrato dal nostro autore in una situazione di costanti ed improvvise crisi economiche a cui si aggiungono le guerre esportate dai paesi occidentali – in primis gli Stati Uniti – in alcune parti del mondo.

Ripercorrendo a tappe fondamentali l’evoluzione del concetto di sovranità, Vernaglione passa dall’antichità alla modernità che “muta il paradigma della sovranità, rispetto al modo in cui è intesa in epoca antica, identificandone il soggetto nello stato, sia nella forma monarchica, sia in quella della nazione” (p. 27), Hobbes e Locke essendo indicati quali massimi sostenitori della sovranità come presupposto di ogni governo legittimo (pp. 28-32). Continuando la sua analisi, la rivoluzione francese è vista come il momento di passaggio da una sovranità autoreferenziale ad una sovranità popolare: ciò nonostante, il XIX secolo non sembra concretizzare le promesse della rivoluzione in quanto “l’attribuzione di potere allo stato in nome del popolo ha alla base una menzogna” (p. 39). Interprete per eccellenza, oltre l’apparenza, del disagio della classe proletaria nel XIX secolo è Marx: “L’opera di demistificazione dello stato e della politica non impedisce a Marx di riferirsi al proletariato quale classe sovrana, non solo nel territorio nazionale” (p. 39).

Se l’Europa del XIX secolo è dunque attraversata da una lotta di classe e da un’esigenza di tutela sociale dei ceti più deboli, non è questa la situazione negli Stati Uniti d’America dominati già allora dalla ricerca e massimizzazione del profitto: ciò comportò che nel vecchio Continente le misure sociali furono frutto dello Stato e della sua sovranità, mentre in America la costruzione di tali misure “fu in larga parte frutto di un’opera affidata ai singoli cittadini” (p. 44).

E’ interessante analizzare come la situazione delineata per gli Stati Uniti più di un secolo fa si ripeta oggi in Europa: se infatti la globalizzazione comporta un passaggio di poteri ad organismi finanziari e bancari internazionali – tale fatto coincidendo, secondo Vernaglione, “con la dissoluzione invece che con l’arricchimento e l’estensione dei diritti alla molteplicità dei gruppi sociali” (p. 60) e con la sussistenza della sovranità come mera forma – gli unici soggetti che possono combattere e contrastare il progressivo svuotamento dei diritti sono i cittadini stessi; solo la società civile infatti, superando i confini delle nazioni, può unirsi in una lotta solidale contro i mali della globalizzazione tra i quali l’autore analizza quello legato ad una situazione di guerra continua (pp. 64-75) dovuto al fatto che “solo l’emergenza di un’unica potenza è in grado di garantire sicurezza nel mondo” (p. 66).

Questo stato di belligeranza può essere combattuto soltanto da una “diplomazia dal basso, praticata […] da reti sociali, associazioni e Ong”, diplomazia evidentemente costituita da quella società civile di cui sopra si è detto: è doveroso qui citare come esempio di questa diplomazia Rachel Corrie e Thom Hurndall – a cui il libro è dedicato – entrambi morti nel tentativo di opporsi alla distruzione di un’abitazione palestinese.

Il secondo capitolo affronta il problema dell’alterità alla luce della globalizzazione e quindi del mondo contemporaneo: si avverte in queste pagine l’influenza che alcuni scritti di Zygmunt Bauman (a partire dal suo Globalization. The Human Consequences) hanno avuto su Vernaglione il quale infatti avverte che “non i barbari, bensì i clandestini occupano il territorio post-moderno” (p. 93), aggiungendo tra l’altro che “nei cosiddetti paesi di accoglienza i migranti di rado cambiano statuto e condizione sociale e non entrando nello spazio della cittadinanza sono già considerati pericolosi” ( pp. 93-94).

Dato il quadro di fondo, l’autore passa ad analizzare tale problema alla luce di quattro punti: 1) l’Altro e l’Unicità; 2) l’Altro e la relazione sociale; 3) la relazione Io-Tu; 4) la molteplicità dell’altro. Non mancano in queste pagine (pp. 97-117) spunti di riflessione molto interessanti e facilmente calabili nella realtà in cui attualmente si trova l’uomo globale, diffidente e impaurito nei confronti di tutto ciò che da lui è diverso: “Nell’accentuata separazione tra l’io e l’universo posta dalle tecnologie, il resto del mondo è considerato quale rimanenza, scarto” (p. 98).

La paura del singolo individuo purtroppo si riflette nella politica odierna: “In questi anni di crescente e indotto interesse per la sicurezza da parte dei governi, la difficoltà si è velocemente trasformata in paura, che si traduce in bisogno legale di confini, politiche di recinzione e espropriazione dei beni comuni” (p. 111).

Quello che sostiene l’autore e che fa parte di teorie proprie di una folta schiera di sociologi è facilmente verificabile: basta camminare nelle periferie delle grandi città italiane per capire in quale isolamento vivono gli immigrati ed in generale le persone più disagiate, quasi si trattasse di un mondo a sé nel quale si ha paura di entrare perché la sola presenza massiccia di persone di colore, magari vestite in modo diverso dal nostro, disturba. E questo ovviamente non succede solo in Italia: un viaggio a Parigi ed un giro nelle periferie di questa città mi ha fatto capire quanto siano emarginate certe fasce della popolazione che, proprio come dice l’autore del presente testo, sono rassegnate all’impossibilità di migliorare socialmente; l’osservatore attento nota tale rassegnazione già nei modi di fare, nell’abbandonarsi su una panchina o al tavolino di un bar (dove un qualsiasi occidentale bianco inorridirebbe a sedersi) aspettando e subendo il tempo, quasi che rivivessero certi quadri di degrado della Parigi del primo ‘900 che solo la genialità di un grande scrittore come Céline ha saputo rendere nel suo capolavoro Voyage au bout de la nuit.

Non poteva mancare quella che si potrebbe definire la cornice entro cui prende forma lo schizzo abbozzato dall’autore, vale a dire “la storia” – e le filosofie ad essa legate – che occupa infatti il terzo ed ultimo capitolo del libro. Partendo dal periodo in cui “la storia non era prerogativa umana, ed era considerata il modo con cui la natura componeva l’universo disfacendolo” (p. 129), Vernaglione analizza le tappe fondamentali della sua evoluzione nonché i filosofi e gli studiosi che hanno contribuito a tale evoluzione: così essa già cambia prospettiva nel momento in cui diventa una prerogativa dell’uomo quasi egli ne fosse l’artefice senza dunque essere più costretto a subirla (pp. 129-133).

Proseguendo, l’autore si ferma sul periodo dell’Umanesimo durante il quale la storia acquista – anche grazie a Machiavelli – un valore didascalico in quanto è “un modello predittivo” (p. 137) capace di prevedere il futuro valutando gli eventi del passato.

Vernaglione, non esimendosi dall’affrontare filosofi come Vico (pp. 139 sg.) ed Hegel (pp. 145 sg.), ritiene le due guerre mondiali una sorta di frattura irrimediabile nella concezione della storia. Egli infatti scrive: “ciò che si scopre dopo le due guerre mondiali è che la storia non è progressiva, né lineare, né surdeterminata da una struttura […]. Il piano della storia è fatto di eventualità e interpretazione, possibilità e autocoscienza […]” (p. 152). Queste ultime parole usate dall’autore si addicono bene all’attuale globalizzazione le cui origini, per molti studiosi tra cui Danilo Zolo, Antonio Baldassarre, Anthony Giddens, il già citato Zygmunt Bauman, sono da ricondurre appunto alla fine della seconda guerra mondiale.

Se quindi la storia ha perso la sua carica di progressismo e speranza nel miglioramento del futuro in concomitanza con l’indebolimento degli Stati e delle azioni sociali, l’autore offre come contraltare quella che lui definisce una proposta interpretativa (pp. 155-164) che si fonda sulla concezione messianica di Cristo, precisando però che tale figura messianica “non riguarda solo la storia del popolo eletto ma di qualsiasi popolo, che una volta ‹‹chiamato›› entra in una storia differente da quella secolare” (p. 157).

Questo soggetto messianico acquista dunque una funzione ed un ruolo capace di dare un corso diverso agli eventi in un periodo in cui “l’attesa di giustizia è ineludibile” (p. 163). Si profila dunque all’orizzonte l’azione e la forza di un soggetto mondiale il cui cómpito “riguarda la richiesta di diritti fondamentali: alla salute, al cibo, all’ambiente, al reddito, alla pace, alla cosa pubblica […]” (p. 163).

In questa trasformazione dove passato e futuro si annullano a favore di “un tempo ora”, il soggetto mondiale di cui parla Vernaglione dovrebbe avere la capacità e la forza di autorganizzarsi per far valere le proprie ragioni: in questo senso si ritornerebbe a quanto detto nel primo capitolo sul ruolo fondamentale dei cittadini e della società civile in generale – organizzata anche in ONG – per combattere le degenerazioni della globalizzazione, una volta accertata l’incapacità delle istituzioni e della legge a provvedere a tali incombenti bisogni (cfr. p. 164).

Indice

Introduzione
I. PERCHÈ LA SOVRANITÀ?
Sovranità e globalizzazione
La sovranità tramandata
Il futuro della sovranità senza futuro
Nessuno può battere Poliremo
Note
II. L’INESISTENZA DELL’ALTRO
Quale altro?
Trascendenza: primitivi e automi
Un altro al posto mio
Note
III. FILOSOFIE DELLA STORIA
Dalla natura alla storia
Dal passato al futuro
Messianesimo e filosofia della storia. Waltre Benjamin e Jacob Taubes. Una proposta
Note
BIBLIOGRAFIA


L'autore

Paolo Vernaglione, insegnante, ha pubblicato tra l’altro Il lavoro in epoca post-fordista, Kafka e la modernità, Europa e globalizzazione. Collabora al quotidiano ‹‹il manifesto››, al settimanale ‹‹Carta›› e al sito web italiano di filosofia (SWIF).

Bibliografia

Baldassarre, Antonio, Globalizzazione contro democrazia. Roma, editori Laterza, 2002.
Bauman, Zygmunt, Globalization. The Human Consequences. Cambridge, Polity press, 1998. Traduzione di Oliviero Pesce: Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone. Roma, Editori Laterza, 2001.
Céline, Louis-Ferdinand, Voyage au bout de la nuit, Paris, Editions Denoel et Steele, 1932. Traduzione italiana di Ernesto Ferrero: Viaggio al termine della notte. Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2002.
Giddens, Anthony, Runaway World: How Globalization is Reshaping our Lives, New York, Routledge, 1999. Traduzione di Rinaldo Falcioni: Il mondo che cambia : come la globalizzazione ridisegna la nostra vita. Bologna, il Mulino, 2000.

sabato 8 luglio 2006

Badiou, Alain, Il secolo.

Milano, Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 203, € 18,00, ISBN 88-07-10402-4.
[Ed. or.: Le siècle, Editions du Seuil, Parigi 2005]

Recensione di Francesco Giacomantonio – 08/07/2006

L’interpretazione di una particolare epoca storica è un’attività intellettuale che può avere rilevanza dal punto di vista non solo storiografico, ma anche filosofico e politico. Il XX secolo è probabilmente l’epoca storica che, con maggiore interesse, suscita questa attività intellettuale, sia per la straordinaria densità e quantità di eventi che lo hanno contraddistinto, sia per la loro complessa articolazione. Indagare il significato di questo secolo così “difficile” è quanto cerca di fare il filosofo francese Badiou in questo testo. Egli, tuttavia, non si abbandona ad un’analisi puramente speculativa, ma fa derivare le sue considerazioni dall’uso di poemi, frammenti filosofici, pensieri politici, brani teatrali, tramite cui questo momento della storia ha pensato e rivelato se stesso. Badiou vede il XX secolo come il secolo dell’avvento di un’altra umanità, di un cambiamento radicale di ciò che è l’uomo, ed è in questo senso che esso rimane fedele alle straordinarie rotture mentali (teoria della relatività, psicoanalisi, filosofia del linguaggio, cinema, musica atonale, importanti evoluzioni stilistiche dei romanzi e della pittura, ecc.) dei suoi primi anni. Partendo da questi presupposti, il filosofo afferma innanzitutto che il XX secolo è vitalista: esso interroga la propria vitalità e spesso ne dubita. È il secolo non a caso della guerra, è il secolo “posto sotto il paradigma della guerra” (p. 47). Nel XX secolo la legge del mondo non è l’Uno o il Multiplo, ma il Due. Non è l’Uno perché quest’epoca ha scoperto che l’armonia non esiste; non è il Multiplo perché esso non cerca un equilibrio di potenze. Piuttosto è il Due, perché esso esclude sia la possibilità di una sottomissione unanime, sia di un equilibrio combinatorio. Badiou, riferendosi a Brecht, ritiene che questo secolo rifletta particolarmente sul nodo enigmatico della distruzione e dell’inizio.
Dopo queste prime suggestioni, il testo perviene nel sesto capitolo a sostenere la sua tesi cruciale. Il XX secolo non è stato affatto il momento delle ideologie, dell’immaginario e delle utopie, come una lunga tradizione di studi, interpretazioni e autori hanno suggerito; piuttosto la sua determinazione è la passione per il reale. Tale passione per reale si concretizza nella questione del nuovo, nell’uomo nuovo. Nel XX secolo, da una parte le definizione dell’uomo nuovo si radica in totalità mitiche quali la razza, la nazione, la terra, il sangue; dall’altra, l’uomo nuovo si declina contro tutti gli avvenimenti e tutti i predicati, in particolare famiglia, proprietà e stato nazione.
Un altro punto cruciale del secolo è la psicoanalisi, cui Badiou dedica un altro capitolo del testo, in cui si sottolinea l’importanza di come Freud abbia saputo arrivare al reale del sesso, piuttosto che al suo senso.
La traiettoria del XX secolo è però sintetizzata dall’autore in una particolare parola greca, anabasi. Questa parola, che Badiou considera in riferimento ai contributi dei poeti Leger (degli anni Venti) e Celan (degli anni Sessanta), indica “la libera invenzione di un’erranza che sarà stata un ritorno, un ritorno che prima dell’erranza non esisteva come strada di ritorno” (p. 98). Ma la traiettoria del secolo ha contribuito soprattutto a determinare la dimensione della soggettività, della teoria del soggetto. Opportunamente, il testo delinea la questione della soggettività nel XX secolo attraverso diversi angoli prospettici. Da un punto di vista filosofico il soggetto in quest’epoca “non è, ma avviene” (p. 115), è un evento. Da un punto di vista ideologico e politico il secolo afferma la libertà del soggetto; dal punto di vista temporale il secolo ha indotto nella soggettività un mito di agitazione e sterilità; dal punto di vista formale il secolo ha affermato nella soggettività l’importanza della sua manifestazione, del suo manifestarsi. Così il reale che viviamo per tutte queste considerazioni è discontinuo e nel XX secolo “si svolge la contraddizione propriamente dialettica tra formalizzazione e distruzione” (p. 125).
Come abbiamo accennato, Badiou vede nel vitalismo e nella passione per il reale, con tutte le implicazioni che ciò comporta, i tratti distintivi di questa fase della storia occidentale; queste condizioni influenzano anche la dimensione artistica, che il filosofo tratta particolarmente nel capitolo 11, in cui si afferma che l’arte del XX secolo si accentra sull’atto piuttosto che sull’opera, poiché l’atto essendo potenza intensa dell’inizio, non pensa che al presente. Ne deriva che proclami e manifesti- si ricordi l’importanza già citata riguardo il ruolo del manifestare!- sono per tutto il secolo l’attività essenziale delle avanguardie. Non a caso tutti gli artisti contemporanei sono stati costretti a interrogarsi sulla nozione stessa di opera. Riguardo a tali questioni sull’arte, una considerazione interessante che il libro propone riguarda il tema dell’infinito e del finito; Badioiu con acume nota che la vera essenza del finito non è il limite quanto piuttosto, come insegnato da Freud e Lacan, la coazione a ripetere. Per questo l’arte del XX secolo si interroga proprio sulle forme della ripetizione.
Il conflitto di pensiero del secolo diventa quindi, sintetizzando, quello trasformalizzazione e interpretazione.
Il filosofo francese conclude la sua lettura affrontando il tema, forse implicitamente sotteso a tutte le parti del libro, del “programma dell’uomo senza Dio” nel XX secolo. Vengono richiamate due importanti ipotesi su questo problema, formulate negli anni Sessanta. L’introduzione di Sartre alla Critica della ragion dialettica e il passaggio di Foucalt dedicato alla morte dell’uomo, ne Le parole e le cose. Sartre induce a vedere l’uomo come ciò che l’uomo deve inventare. Foucault sembra porsi in un antiumanesimo radicale: l’uomo non c’è più, scomparso dietro le discipline, i discorsi e i saperi. Badiou pensa che, attraverso le voci di Sartre e Foucault, il secolo si sia chiesto se l’uomo che deve venire debba essere una figura sovrumana o inumana. La fine del secolo sembra voler abolire questa discussione. E Badiou ritiene allora che il compito filosofico all’alba di questo nuovo secolo sia proprio evitare questa abolizione.
Utilizzando riferimenti e considerazioni spesso intelligenti e stimolanti, il testo pone in luce più di un’ipotesi su cui discutere. E per chi non volesse rinunciare a considerare il XX secolo come il “secolo delle ideologie a vantaggio” del “secolo con la passione per il reale”, si potrebbe sempre prospettare l’interpretazione che il XX secolo sia stato il momento che più di ogni altro ha cercato di rendere reali le sue ideologie.

Indice

Dedica
Questioni di metodo
La Bestia
Il non-riconciliato
Un mondo nuovo: sì, ma quando?
Passione del reale e montaggio della finzione
Uno si divide in due
Crisi di sesso
Anabasi
Sette variazioni
Crudeltà
Avanguardie
L’infinito
Sparizioni congiunte dell’Uomo e di Dio
Indice dei nomi e delle opere

L’autore

Alain Badiou, filosofo, dirige attualmente il Centro internazionale di studi di filosofia francese contemporanea, presso l’Ecole Normale Superiore. Tra i suoi testi si segnala L’Essere e l’evento(1995).

sabato 1 luglio 2006

Gurisatti, Giovanni, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione.

Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 546, € 28,00, ISBN 88-7462-142-6.

Recensione di Rolando Ruggeri – 01/07/2006

Psicologia, fisiognomica

La fisiognomica, comunemente intesa, è la scienza o pseudoscienza che dai caratteri del volto umano ricava le caratteristiche di un individuo. È sufficiente rifarsi all'etimologia della parola, che letteralmente significa "scienza della natura", per accorgersi che lo spettro di azione della materia è molto più ampio. Il volto è un concetto che può applicarsi non solamente al viso dell'uomo, ma che può essere esteso a ogni sua produzione ed espressione. Gurisatti ci guida nel suo libro attraverso lo sviluppo di tutto il discorso fisiognomico, esamina le pieghe del volto umano e delle sue produzioni. Il suo dizionario non è una raccolta di voci sparse e autosufficienti, ma una guida chiara e completa al cammino che la fisiognomica ha compiuto nel corso dei secoli e dei millenni. È impossibile in questa sede produrre un sunto esauriente delle concezioni che sono presentate da Gurisatti, dunque ci si limiterà a coglierne l'indirizzo e a mostrare la strada che l'opera traccia. Se già in Aristotele è presente l'idea secondo la quale dalla forma esteriore di una cosa è possibile giudicarne e capirne la natura, sino a Lavater ancora non si ha una vera e propria fisiognomica del carattere individuale. Lavater libera l'interpretazione del volto e del corpo umano dalla tendenza tipizzante che, nell'antichità, forniva la chiave d’interpretazione dei fenomeni osservati; a uno sguardo che si rifà a un modello stabile e che, a seconda della somiglianza con questo o quel modello, interpreta ciò che gli si presenta davanti agli occhi, Lavater sostituisce una visione del volto quale unica, individualizzante e irripetibile finestra verso la comprensione del carattere dell'uomo. La complessità di un volto (e per converso di un carattere) non può certo stare nella combinazione dei quattro umori elementari, che la tipizzazione antica poneva ad atomi della vita interiore dell'uomo. L'uomo è un fascio di complessità, un insieme di forze che si scontrano e si armonizzano, in tensione o rilassamento, è una polarità irrisolta e irrisolvibile che va colta nella sua complessità, pena lo scadimento nel riduzionismo. Nell'uomo vive, ed è questo il principio cardine cui un’autentica fisiognomica si ispira, una tensione tra esterno e interno, e l'osservazione dell'uomo può dire molto di più sul suo carattere e sulla sua individualità di quanto egli stesso intende far trasparire dai suoi atti, dalle sue parole o dalle sue produzioni in genere. La capacità di cogliere l'essenza dell'uomo "nel suo corpo" è una facoltà quasi divinatoria (Lavater vede la fisiognomica come una sorta di Rivelazione, un’incarnazione continua nell'uomo dell'idea di Cristo), una peculiarità del genio, che però va forgiata ed educata (la Bildung dello sguardo è l'educazione alla vista attraverso la quale passa un vero fisionomo).
A una visione statica del volto però si oppone una visione dinamica dello stesso. Laddove Lavater esamina i tratti immobili di un viso, Lichtenberg si concentra su quei segni che rendono mutevole il volto umano e ne esprimono lo stato emotivo immediato; dal carattere si passa a un'attenzione sempre più marcata agli impulsi emotivi che l'uomo vive e supera ciclicamente. L'intento di Lichtenberg è in realtà quello di evitare un abuso "popolare" della fisiognomica, un decadimento della stessa a insieme di regole interpretative a uso folkloristico e pseudoscientifico. Già questa esigenza è presente in Lavater: l'enfasi sul concetto di Bildung quale formazione necessaria al vero fisionomo ha come scopo quello di non far pensare alla fisiognomica come a un prontuario interpretativo del volto umano. L'uomo di Lichtenberg non è l'uomo fisso e immutabile, ma l'uomo inserito nel tempo. La fisiognomica si allarga a comprendere la dimensione della temporalità, l'uomo nei suoi mutamenti contingenti, l'interpretazione si apre al mondo e la vediamo allontanarsi dall'uomo stesso (in quanto volto e corpo) per portare la propria attenzione a diversi tipi di espressione, che non sono meno indicativi e rappresentativi della vita interiore umana.
A poco a poco si aprono scenari interpretativi nuovi, la luce si sposta su altre produzioni umane, altre espressioni, ognuna portatrice del segno lasciato dal proprio autore. Il collegamento tra l'interpretazione del volto umano e una concezione più allargata di fisiognomica viene da Goethe e dalla sua morfologia; nel rapporto tra l'uomo e le cose c'è una in-differenza paritaria, uno scambio che non fa pendere l'ago della bilancia dall'una o dall'altra parte, si instaura tra soggetto e oggetto una sorta di empatia intuitiva che svela la trasparenza interno-esterno delle cose della natura. Il rapporto tra la natura e lo sguardo apre i confini del paradigma fisiognomico e Gurisatti guida il lettore alla scoperta dei segni che l'uomo lascia nelle sue espressioni, il portato umano che è nascosto nelle cose e che una Bildung del vedere può aiutare a svelare. Assieme agli "oggetti" che si accingono a essere esaminati o, meglio, colti dallo sguardo, si presentano una serie di nomi che hanno fatto la storia della fisiognomica. Schopenhauer, con la sua sovrapposizione del concetto di volontà e carattere (in cui volontà è intesa non come forza intenzionale ma come portato istintuale, irrazionale e rappresentativo dell'essenza ultima dell'uomo), è in tutti i sensi un fisionomo, anche se non è stato posto nella giusta luce da coloro che si sono interessati di espressioni significanti dopo di lui. La caratteriologia schopenahueriana non è una teoria nuova, ma un'organizzazione in termini più sistematici di ciò che già Lavater, Lichtenberg e Goethe avevano presentito e presentato nei loro scritti; Schopenhauer mostra d'essere perfettamente in linea con gli autori precedenti, affermando che "la fisiognomica è un mezzo essenziale per la conoscenza degli uomini, e il viso di un individuo dice cose più interessanti di quelle che dice la sua bocca" (p. 136). Non si esamina il con-tenuto ma l'espressione che lo accompagna, non è il concetto che può spiegare la persona ma è ciò che passa a lato del concetto, ciò che entra nell'espressione del concetto stesso e che sfugge al controllo razionale dell'individuo stesso.
Al di là dell'intenzione, al di fuori del controllo dell'uomo si esprime l'uomo stesso. Il portato più autentico dell'individuo si insinua in ogni parte di lui, è presente a sua insaputa nei tratti del volto, lascia traccia indelebile nei segni che la scrittura fissa su un foglio, si nasconde (ma non all'occhio del fisionomo), dietro la spontaneità di un gesto ma non sparisce anche laddove ci sia artificio nei movimenti. Il volto, però, nella società odierna sta svanendo (di questo è profeta Nietzsche), la maschera che l'uomo si mette per stare in società scardina dalla radice il paradigma fisiognomico e lo destituisce di ogni valore ermeneutico; una volta perduta la polarità vitale tra interno ed esterno, una volta che il carattere dell'uomo non si rispecchia più nel suo corpo e il corpo non è più espressione caratteriale ma pura uniformità sociale, la fisiognomica non ha più ragione d'essere, rimane intrappolata dietro la maschera dell'uomo e muore senza vedere la luce di uno sguardo (divinatorio o laico che sia) in grado di liberarla dalla sua prigione.
La seconda parte del libro è dedicata alle forme. Viene presentata la profonda Bildung fisiognomica del pittore che dipinge un personaggio dando spirito alla superficie del quadro e facendo ri-vivere il carattere personale e unico del soggetto ritratto. Il rischio però è in agguato, laddove il pittore entra quale elemento perturbante nella coppia polare di mimesi ed espressione del soggetto, laddove la sua idea sovrasta quella che il volto vorrebbe e dovrebbe dire del suo portatore, la fisiognomica perisce sotto i colpi di una volontaria e retorica rappresentazione.
Le forme si moltiplicano, l'uomo è produttivo, si rispecchia in ogni cosa che fa, ma se tutto diviene dissimulazione lo specchio si infrange. Dopo aver visto la fisiognomica permeare il ritratto umano (in cui il pennello crea ciò che il pittore sente della persona che sta dipingendo), la sua capacità di riprodurre emozioni attraverso l'uso del corpo e della voce (per questo motivo l'attore deve essere un buon fisionomo), la sua produzione artistica e la sua storia, occorre vedere quale destino la fisiognomica ha davanti a sé. L'anima non è necessariamente del singolo uomo ma può presentarsi quale spirito collettivo (di un gruppo, di una nazione), leggibile in diverse espressioni quali la scrittura, lo stile artistico e la storia. Proprio questa ha un ruolo centrale nell'applicazione del paradigma ermeneutico. La troviamo già valutata da Schopenhauer in modo perfettamente fisiognomico: "Come ogni individuo ha la sua fisionomia [...] così ogni epoca ha la propria fisionomia che non è meno caratteristica" (p. 381). La perdita del volto da parte degli uomini comporta inevitabilmente l'inutilizzabilità di ogni interpretazione e di ogni intuizione ermeneutica, lo smarrimento individuale del carattere dell'uomo non può che compromettere il carattere collettivo della società. Se non ci sono più volti da guardare, lo sguardo non può più essere formato, tutto si uniforma e la produzione dell'uomo risente di questa mancanza d'anima nelle sue espressioni. Il libro termina col presentare i frutti di questa perdita del volto, dalla produzione artistica dell'avanguardia, che tenta una ricomposizione del viso umano al di là della sua maschera. Punto emblematico della nostra società è la metropoli, ammasso senz'anima di uniformità, inespressività per eccellenza. La metropoli è segno dei nostri tempi, interpretabile ma deprimente, è il segno negativo dell'anima dell'uomo, l'anima collettiva che non si mostra, si chiude in se stessa. Il funzionalismo e il calcolo uccidono il carattere collettivo dell'uomo, la città mira a darsi una nuova personalità ma è una finzione, un compromesso che compromette la presenza di un'anima ma che non può produrla. Nel rispetto di questa promessa sta il futuro della fisiognomica, nel darsi dei significanti è il destino dell'interpretazione. Il volto dell'uomo è nascosto e diviene tanto più criptico nel momento in cui non è più possibile formare il proprio sguardo, è un circolo vizioso incatenante che porta a tentativi di ricreare fittiziamente un'anima che l'uomo non mostra più. Gli sforzi avanguardistici di scomposizione e ricomposizione del volto umano tentano di ri-creare il volto dell'uomo moderno, ma perdono necessariamente il rapporto tra volto e il suo portatore, investono il volto di un significato che il pittore stende sul quadro e che appiattisce la fisiognomica come colore sulla tela. Dal canto suo la metropoli rappresenta proprio l'irregimentazione e la massificazione dell'animo umano che perde la propria individualità (ciò che costituì, con Lavater, il vero decollo di una fisiognomica autentica) e si perde in una sfumatura di grigio che vela il significato ermeneutico di gesti, parole, espressioni individuali e collettive dell'uomo contemporaneo.

Indice

Prefazione
Introduzione. Il paradigma fisiognomico
Parte prima. Il volto
I Zoognomica
II Fisiognomica
III Patognomica
IV Morfologia
V Carattere
VI Gesto
VII Volto
VIII Maschera
Parte seconda. Le forme
IX Ritratto
X Caricatura
XI Attore
XII Parola
XIII Scrittura
XIV Opera
XV Storia
XVI Metropoli
Conclusione. Tramonto dell'espressione e crisi di un paradigma
Note
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autore

Giovanni Gurisatti svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Padova. Tra i suoi lavori ricordiamo l'edizione di J.C. Lavater - G.C. Lichtenberg, Lo specchio dell'anima. Pro e contro la fisiognomica (Il poligrafo, 1991) e Caratteriologia, metafisica e saggezza. Lettura fisiognomica di Schopenhauer (Il poligrafo, 2002). Ha curato e tradotto per Adelphi opere di Schopenhauer, Heidegger, Spengler, Schmitt.