giovedì 31 gennaio 2008

Marconi, Diego, Per la verità. Relativismo e filosofia.

Einaudi, Torino, 2007, pp. 172, € 10,00, ISBN 9788806100071.

Recensione di Antonio Allegra – 31/01/2008

Filosofia analitica, Filosofia teoretica (gnoseologia)

Il libro di Diego Marconi mostra efficacemente l’esigenza diffusa di una netta affermazione realista e antirelativista, espressa recentemente anche, ad esempio, dal volume di Paul Boghossian, Paura di conoscere (Roma 2006), con cui presenta qualche affinità. Pur senza facili ottimismi di tipo razionalista, Marconi mostra le criticità del modello genericamente relativista diffuso, a vari livelli, da alcune raffinate elaborazioni teoriche fino al senso comune e cerca di indicare in che modo ed entro quali limiti sia possibile affermare uno spazio di discorso che non rinunci all’idea di verità (si tratta, come dovrebbe essere ovvio, di un passo cruciale ai fini della possibilità stessa del lavoro filosofico).

Il testo è chiaro e presenta una fitta, ma scorrevole, serie di argomentazioni; cerco in quanto segue di individuarne le principali. È anzitutto opportuno distinguere tra verità e giustificazione: “Una proposizione può essere vera anche se non ne abbiamo e non ne avremo mai una giustificazione. ‘Giustificato’ e ‘vero’ non sono sinonimi; anzi, una ragione per cui possediamo il concetto di verità è precisamente perché ci serve a distinguere tra il modo in cui le cose stanno e il modo in cui pensiamo che stiano” (p. 151). In questo modo diventa possibile comprendere che la relatività e la contestualità (indubbie) della giustificazione non implicano in alcun senso la relatività della verità: in realtà, quando osserviamo che una proposizione anche solidamente giustificata potrebbe venire confutata, quello che intendiamo è precisamente che essa potrebbe non essere vera. La confusione tra verità e giustificazione produce i suoi danni in varie forme: determina la sovrapposizione tra conoscenza e certezza, e dunque ha come conseguenza la “drammatizzazione della verità”, ovvero la caratteristica enfatizzazione di alcuni ovvi ed ineliminabili limiti epistemici. Marconi tiene piuttosto a ribadire che, pur se possiamo senza dubbio essere in errore, ciò non indica che di fatto si sia in errore. Per lo più, nelle nostre modeste valutazioni quotidiane non siamo affatto in errore: in generale ci sono molte ottime ragioni per ritenere, fino a prova contraria, che le nostre credenze siano vere.
Davidson ha sostenuto notoriamente che la nozione stessa di schema concettuale, intesa in maniera radicale, va abbandonata; ma in realtà, anche mantenendo tale nozione è possibile mostrare i limiti del relativismo. Pur se la domanda, ad esempio, sul rapporto tra sale e cloruro di sodio è effettivamente possibile solo nel nostro schema concettuale, ciò è ben lungi dall’indicare che la risposta a tale domanda, una volta che essa è formulata, possa dipendere, in qualche modo, dallo schema concettuale in questione. Il richiamo alla transconcettualità è uno degli strumenti cruciali adoperati da Marconi: “Il sale non era cloruro di sodio prima della creazione della chimica? E allora che cos’era […] qual era la composizione delle sue molecole? O non era composto da molecole?” (p. 64). Occorre, in altre parole, distinguere tra condizioni di verità di una proposizione e accessibilità di tali condizioni di verità. Tale accessibilità in effetti è in generale limitata: la formula frequente per cui qualcosa è vero per x ma non per y va compresa nel senso che y non possiede le risorse concettuali per accedere alla verità dell’asserto in questione. Dunque, sembra di capire che ancora una volta lo spazio della verità non coincida con quello della giustificazione, proprio nel senso che ciò che è vero può non essere accessibile alle nostre risorse epistemiche.
Sovrapporre verità e giustificazione implica non solo di contrarre pericolosamente lo spazio del vero; ne deriva anche la tendenza a identificare la verità come ciò che una batteria anche divergente di “giustificazioni”, di vario genere e natura e qualità, può produrre (diventa opportuno, in questo contesto, virgolettare le “giustificazioni”, per i motivi che sono stati espressi paradigmaticamente da McDowell). Marconi nota la fragilità di una “scelta che non è considerata l’esito di un processo deliberativo più o meno razionale” (p. 101). Un’opaca batteria di “circostanze oggettive” determinerebbe, al di là di qualunque rapporto con la verità, le scelte minime così come quelle cruciali dell’individuo: dalle tendenze calcistiche alle credenze epistemiche fondamentali. Come anche altri hanno osservato, in questo caso si “giunge a riconoscere e rispettare i valori altrui solo al prezzo di distruggere la loro natura di valori, e insieme, anche la natura di valori dei propri valori” (p. 117). Problemi simili si verificano, come è noto, anche e soprattutto in relazione a giudizi su questioni squisitamente etiche (cfr. ad es. p. 130). Come osserva giustamente Marconi, assunta rigorosamente tale posizione non è possibile determinare un nucleo di valori fondamentali irrinunciabili, e una “nuvola” di comportamenti forse riprovevoli ma sui quali la discussione potrebbe, per vari motivi, essere ammissibile: in realtà, dal punto di vista della motivazione totalmente “interna” (come cause, e non giustificazioni né tanto meno ragioni) diviene impossibile operare tale distinzione.
Al contrario, riuscire a riconoscere alcuni valori è possibile nella misura in cui sono integrati “in una discussione in cui quei valori vengono messi a confronto con altri”. L’astensionismo relativista è intimamente perdente perché i valori “esigono di essere messi a confronto” (p. 137), in una maniera in cui è del tutto normale che si possano riconoscere le ragioni che sottostanno tanto ai valori propri che altrui.
In realtà, la diffidenza nei confronti della pretesa di verità è anche più radicale. Ci viene detto che “dobbiamo diffidare comunque di quelle che si presentano come affermazioni vere, perché in realtà sono sempre costruzioni interpretative che hanno lo scopo di manipolarci” (p. 139). Ora, prendere davvero sul serio la pratica della diffidenza è complicato e quasi sicuramente contraddittorio: “La nostra vita quotidiana dipende da una miriade di informazioni che ci vengono fornite da altri. Familiari, colleghi di lavoro, passanti, e inoltre libri, giornali e siti Internet ci comunicano ogni giorno informazioni dalla cui attendibilità dipende l’efficacia delle nostre azioni, e, in alcuni casi, la nostra stessa sopravvivenza” (ivi). Opportunamente qui Marconi ricorda le note tesi di Paul Grice, che osservò il ricco tessuto della fiducia reciproca che segna, e rende possibile, i nostri scambi conversazionali (si badi: non è solo che noi pensiamo che i nostri interlocutori siano sinceri, ma anche che siano veridici). Egualmente utile avrebbe potuto essere, ad esempio, un riferimento alle tesi epistemologiche di Michael Polanyi, che hanno insuperabilmente mostrato la natura fiduciaria dello stesso lavoro della scienza: esso è un’impresa post-critica, dice Polanyi, ove la pretesa di tipo kantiano di una criticità totale deve essere radicalmente ridimensionata. Nella stessa direzione vanno, infine, le rinomate osservazioni di Donald Davidson sul principio di carità. Se è vero che questi meccanismi epistemici scattano anzitutto nelle nostre pratiche comunicative quotidiane e forse meno nei tentativi teorici “alti”, non è chiaro perché le banali oggettività comunicate nelle nostre quotidiane conversazioni (“il caffé l’ho pagato 90 centesimi” oppure “ho fame”) debbano contare meno, ai fini di un’analisi dell’essenza della verità, delle tesi della metafisica.
Mi pare che Marconi, en passant, tocchi un nervo scoperto dell’atteggiamento che cerca di mettere in discussione, quanto nota in esso una paradossale dimensione “infantile”. Sembra infatti che il relativismo si nutra anche di una scelta volontaristica affine a quella del bambino che afferma con forza il proprio punto di vista rivendicando di prescindere dal principio di realtà. In Nietzsche questo snodo psicologico è pressoché dichiarato: Dio è morto anzi viene ucciso, anzitutto perché noi si sia di conseguenza più liberi. Se la verità è oggetto di convenzione, essa non ci impegna – non molto, almeno. Il visibilio della liberazione del soggetto dalla pesantezza della verità è uno dei principali motivi psicologici (e propagandistici) di Nietzsche.
Condivisibile, infine, la proposta di una sorta di “ragionevole attenzione” argomentativa: “Si tratterà di vedere caso per caso, come sempre, se le giustificazioni proposte sono accettabili […] non ci sono bacchette magiche che esonerino dalla fatica dell’argomentazione: non ne è esonerato chi mette avanti una presunta verità etica, e non ne è esonerato nemmeno chi nega che sia tale. Nel dibattito pubblico non si accredita una tesi presentandola come oggetto di fede, né la si scredita in nome della laicità” (p. 146). Da un punto di vista metodologico, ne segue che ogni argomentazione va presa al proprio valore facciale, con totale indifferenza alle (eventuali) motivazioni più o meno nascoste o derivazioni fideistiche che abbiano indotto a metterla in campo: “Se uno sostiene che le norme sui cani dovrebbero essere più restrittive citando statistiche sulle persone aggredite dai cani e sugli incidenti causati dai cani, il fatto che lui personalmente abbia terrore dei cani è irrilevante” (p. 147).
Come già osservato, il pregio maggiore del libro è la sua chiarezza e perspicuità. Marconi non perde mai di vista il punto argomentativo e la tesi complessiva, secondo un’eccellente abitudine analitica non sempre frequente nella produzione filosofica italiana. Per quanto il testo non sia uno studio tecnico sul tema in oggetto (quali sono diffusi precisamente nella letteratura analitica cui si è fatto appena cenno), rappresenta tuttavia un’ottima introduzione ad esso.

Indice

Introduzione
I. Verità
II. Relativismi
III. La paura della verità
Appendice. Due ragioni per distinguere “vero” e “giustificato”
Bibliografia


L'autore

Diego Marconi insegna Filosofia del Linguaggio e Filosofia della Scienza all’Università di Torino. I suoi libri più recenti si occupano di linguaggio, mente e cognizione (La competenza lessicale, Laterza 1999; Filosofia e scienza cognitiva, Laterza 2001).

mercoledì 23 gennaio 2008

Stewart, Matthew, Il cortigiano e l'eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno.

Trad. It. di Francesco e Marta C. Sircana. Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 326, € 25,00, ISBN 9788807104268.
[Ed. Or.: The Courtier and the Heretic. Leibniz, Spinoza and the Fate of God in the Modern World, Yale University Press, 2006]

Recensione di Francesca Rigotti - 23/01/2008

Storia della filosofia (moderna)

Parlando a una trasmissione culturale radiofonica della Svizzera italiana, Rete 2, ho definito questo «il più bel libro di filosofia del 2007». Ovviamente non ho letto tutti i libri di filosofia usciti nel 2007, una quantità che nessun essere umano potrebbe né leggere ne tantomeno capire, per quanto esperto di cose filosofiche. Soprattutto dopo che l'istituzionalizzazione della disciplina e l'intervento della filosofia analitica hanno cercato di professionalizzare la filosofia osservandola secondo il modello di una cultura per esperti, al punto che questa ha elaborato un linguaggio tecnico che nessuno capisce al di fuori della ristretta cerchia degli accoliti (e hanno contribuito alla retorica della «ricerca filosofica» e dei «progetti di ricerca filosofici», la quale suggerisce che ci sono problemi da risolvere e che esistono chiari criteri di progresso, e che il progresso consiste nel risolvere i problemi che definiscono la disciplina). L'idea che alla filosofia spetti risolvere problemi conduce all'errore di credere che ci sia un canone ben definito e chiaramente visibile di problemi che la filosofia ha da risolvere. Opinione che ho scoperto con piacere di condividere con lo stesso Stewart, come si legge dal seguente passo di un intervista fattagli nel 2006 e reperibile sul sito Gene Expression 
Are there genuine philosophical problems? If so, are exact solutions ever possible for these problems?
«No. And no. The notion that there is a fixed list of philosophical problems waiting to be solved - "free will," the "mind-body problem," etc. - is a product of the institutionalization of philosophy. It happened in the middle ages, and it has happened over the past two centuries with the rise of the modern university system. Once philosophy becomes institutionalized in that way, it ceases to be genuine philosophy, in my humble view, and just becomes a sophisticated form of rhetoric for advancing a particular mix of ideological, sectarian, and institutional agendas. Genuine philosophy isn't so difficult to spot, even in the labyrinth of institutional philosophy. It is a set of tools, an attitude, a commitment to the search for truth, and a project aimed at emancipation from fear and superstition. Just like Epicurus said» .
Il mio giudizio radiofonico su questo libro, per tornare a bomba, non è quantitativamente fondato, lo è soltanto qualitativamente. Oltre a ciò l'autore è poco conosciuto né riferibile a una corrente o a una scuola, e la quarta di copertina ben poco ci dice. Immaginiamo dalla lettura che sia statunitense, perché scrive come un romanziere statunitense, e non sbagliamo.
Il cortigiano e l'eretico è un libro che parla di Leibniz e Spinoza ma non nel solito modo che conosciamo, tipo: vita e opere di Spinoza oppure: il problema dell'armonia prestabilita negli scritti di Leibniz. E' invece uno studio che mette di fronte due persone prima che due filosofi, con i loro problemi e i loro tentativi di risolverli. Anzi con il loro problema che è ancora il nostro (e non il problema della filosofia che viene risolto una volta per tutte, tant'è che siamo ancora qui a porci il problema come se lo ponevano Leibniz e Spinoza), ovvero quello del destino di Dio nel mondo, Leibniz e Spinoza nel loro e noi nel nostro. Entrambi i filosofi vissero nel momento di passaggio dall'ordine teocratico dell'età medievale all'ordine laico della modernità, agli inizi di quella fase che possiamo chiamare la secolarizzazione. Essi non inventarono tale mondo ma se lo trovarono davanti e lo osservarono bene.
L'eretico, Spinoza, propose una concezione di Dio adatta all'universo della scienza moderna regolato da leggi naturali senza finalità né progetto e per questo fu considerato eretico e pure scomunicato, tanto più che sosteneva un progetto di governo laico, liberale e democratico. Il cortigiano, Leibniz, così chiamato perché sempre alla ricerca di una corte principesca che lo mantenesse, presenta invece una risposta conservatrice alla modernità, che osserviamo ancora nel mondo contemporaneo allorché vediamo l'uomo il quale, incapace di accettare la perdita della propria centralità nell'universo, va in cerca di significati nascosti dell'esistenza, immagina misteri trascendentali, disegni intelligenti e principi antropici, che è quel che faceva Leibniz. Questo spiega con eleganza e perspicacia Matthew Stewart e si può essere o no d'accordo con lui, ma in ogni caso si può prendere posizione perché si capisce bene non soltanto quel che i filosofi volevano dire ma anche e soprattutto che cosa volevano e perché.

Indice

1. L'Aja, novembre 1676
2. Bento
3. Gottfried
4. Una vita della mente
5. L'avvocato di Dio
6. L'eroe del popolo
7. I molteplici volti di Leibniz
8. Amici di amici
9. Leibniz innamorato
10. Una filosofia segreta della totalità delle cose
11. Verso Spinoza
12. Punto di contatto
13. Sopravvivere a Spinoza
14. L'antidoto allo spinozismo
15. Una presenza ossessiva
16. Il ritorno del rimosso
17. La fine di Leibniz
18. Conclusioni
Note
Nota sulle fonti
Bibliografia
Ringraziamenti
Indice analitico


L'autore

Matthew Stewart ha studiato filosofia all'Università di Oxford. Vive a New York.

martedì 22 gennaio 2008

Morin, Edgar, L’anno I dell’era ecologica.

Roma, Armando, 2007, pp. 126, € 10,00, ISBN 9788860812896.

Recensione di Enzo Ferrara - 22/01/2008

Ecologia, Epistemologia

Negli ultimi cinquanta anni la tecnologia ha portato (ai fortunati, almeno, che possono goderne) enormi benefici, ma anche problemi ambientali e sociali di dimensioni mondiali, che le politiche tradizionali non sono più in grado di gestire. In passato i tentativi di controllo per delega e la sottostima sistematica dei rischi tecnologici si sono risolti, in non pochi casi, in conseguenze funeste per l’ambiente e la salute della collettività. Indagare il rischio legato all’uso delle tecnologie della società moderna è ormai una sfida continua, che non si può rifiutare e che, senza un dialogo aperto a tutte le parti coinvolte, degenera in conflitti sociali. I temi ambientali (inquinamento, variazioni climatiche, sfruttamento delle risorse energetiche) sono sempre più problemi aperti. Occorre però aggiungere che con l’evoluzione delle tecnologie il divario fra sapere predittivo e potere dell’azione tecnologica si è approfondito in modo generale, rendendo urgente un aggiornamento dei paradigmi della scienza, a vantaggio di una maggiore consapevolezza metodologica e di un avvicinamento a riflessioni di etica e scienze umane. Il discorso può allargarsi ben oltre i temi ambientali (per esempio a guerre, economia, migrazioni), ma questi restano nella maggior parte il nocciolo della questione.
Edgar Morin, 86 anni vissuti tra guerra, impegno politico e pensiero ecologico, contro l’ideologia di uno sviluppo votato al “sempre più”, affronta il tema con la pubblicazione di “L’anno I dell’era ecologica” (Armando Editore, 2007), una raccolta di saggi che percorrono 35 anni d’attività, dal 1972 ad oggi, dedicati al ripensamento della condizione umana dentro le contraddizioni del paradigma cartesiano. Un "paradigma di semplificazione", - afferma Morin - che concepisce il mondo in unità separate, con il soggetto disgiunto dall’oggetto, lo spazio dal tempo, il pensiero dalle emozioni, e tuttavia ripreso dai tanti fautori del progresso industriale che ha modellato la nostra civiltà e, insieme, il declino ecologico contemporaneo, fino alla sconfitta della natura e a un suicidio, da diverse parti preconizzato, del genere umano.
Anche se oggi si pone con forza nel mondo della conoscenza  un nuovo modo di vedere, un nuovo paradigma che si vorrebbe definire “globale”, “olistico”, per superare il principio di separazione sancito dal paradigma cartesiano, è quest’ultimo il modello ancora in auge, utilitarista e fortemente anti-ecologico. La visione globale del mondo porterebbe a concepire la realtà come una rete di sistemi che si relazionano continuamente. Assistiamo, invece, in virtù del vecchio paradigma, all’allontanamento dell’osservatore dall’osservazione, della politica dalla polis e dai cittadini, della scienza dai problemi reali delle persone, della medicina dal malato e dalla salute. è anche in virtù di questo genere di processo che la politica, e quanto le è associabile, assume oggi “globalmente” i connotati del nemico.
Bisogna reagire, afferma Morin, ma non si tratta solo di arginare le catastrofi, di escogitare tecnologie meno inquinanti o sopperire all’esaurimento del petrolio ricorrendo all’energia solare. è necessaria una metamorfosi del nostro modo di pensare: svelare l’artificiosa frontiera che isola l’uomo dal mondo è una delle chiavi per uscire dalla crisi, cercando capacità rigeneratrici laddove esse si nascondono, come nelle voci inascoltate di intellettuali, artisti, poeti.
Il primo saggio, “L’anno I dell’era ecologica”, pubblicato nel 1972 su “Le nouvel observateur”, dà il nome alla raccolta e delinea il senso di quelli che allora erano termini misconosciuti (ecologia, ecosistema, biocenosi). Nel testo, inoltre, già si fa spazio l’idea di infrangere l’incomunicabilità tra le diverse scienze naturali e umanistiche e le arti. L’ecologia è l’insieme di studi e conoscenze sulla situazione del pianeta e sulle cause del suo degrado; l’ecologismo, riguarda le ideologie molteplici alla base dei movimenti ambientalisti, prevalentemente nel solco del pensiero utopistico di derivazione marxista-anticapitalista, sovente anche antindustrialista. Ma sarebbe riduttivo identificare l’ecologismo solo attraverso queste definizioni, esso è continuamente alla ricerca di schemi nuovi, nell’ambito di un paradigma unificante capace di realizzare un rapporto “nuovo” tra l’uomo e la natura. Secondo Morin, il compito dell’intellettuale è liberare l’intelligenza umana dall’iper-specializzazione delle tecno-scienze che accumulano nozioni particolaristiche perdendo la visione globale, in questo senso egli coglie l’aspetto unificante, per altri versi perfino totalizzante, dell’ecologismo.
I saggi successivi, “Il pensiero ecologizzato” (Le Monde Diplomatique, 1989) e “Il pianeta in pericolo” (Nouvel Observateur, 1990), ribadiscono gli stessi temi e ammonimenti: l’idea di Gaia, la Terra come un essere vivente, l’aspetto meta-nazionale e planetario del problema ecologico, ma alla luce degli aggiornamenti di una ben più dolorosa consapevolezza, l’inquinamento chimico, la riduzione dell’ozono nella stratosfera, Bhopal, Chernobyl, … è interessante notare quanto la visione olistica dell’ecologia abbia in comune con le visioni del mondo pan-animiste delle popolazioni primitive e come sia stata da queste ispirata nelle sue prime origini, più o meno fortemente.
Nel seguito due testi, “Energia, ecologia, sociologia” (2003), un contributo al dibattito nazionale francese sull’energia, e “Oltre lo sviluppo e la globalizzazione” (2002), tratto da un discorso tenuto a Palazzo Nuovo, Firenze, ridiscutono la situazione mettendo in discussione il paradigma dello sviluppo tecno-industriale e facendo riferimento per la gestione delle risorse al contesto europeo e ai grandi vertici mondiali sull’ambiente (Rio, Johannesburg, Kyoto, … ). L’uomo è un sistema aperto – si sostiene - che vive una condizione paradossale di cui sembra non voler rendersi conto: è autonomo, distinto dalla natura, ma la sua autonomia si nutre della dipendenza dall’ecosistema che lo contiene. L’uomo e il suo mondo si alimentano di energia, che consente lo sviluppo tecnologico, ma anche di conoscenze e di principi organizzativi mutuati dall’ambiente esterno, grazie ai quali egli affina la sua cultura e afferma la sua posizione privilegiata. Eppure, la dipendenza dell’uomo dall’ecosistema è stato a lungo proprio il grande tema rimosso dell’Occidente, che nonostante tutto continua ad immaginarsi lanciato alla conquista della natura come un Cortes, un Pizarro o un Gengis Khan dello sviluppo.
A favorire la disinvoltura di questo agire vanno aggiunte considerazioni sulla visione moderna di matrice positivista che ancora preconizza un’era all’apice delle magnifiche sorti e progressive, nella quale è il livello del progresso scientifico e tecnologico che rende evidenti i dati della realtà e, di conseguenza, automatiche e lapalissiane le scelte etiche. Per queste ragioni, scienza e tecnologia vanno fortemente sollecitate, oggi più che mai, a individuare i propri limiti e a dar conto dell’incertezza da cui sono attraversate. Questo è necessario anche perché nel passato recente, e purtroppo anche oggi, si vede che la risposta più frequente ai cortocircuiti e alla messa in luce delle contraddizioni della modernità è quella del fascismo - inteso non come categoria storica, ma come disposizione dello spirito - e del suo riflusso autoritario. Una più profonda e capillare diffusione di sguardi aperti e disincantati e l’adozione di una pedagogia olistica sono forse gli unici reali antidoti al positivismo spontaneo che, ancora in ottima salute, svende le sue immediate ma superficiali chiavi interpretative della realtà.
Due saggi, infine, “L’imperativo ecologico”, un dialogo fra Morin e il giornalista Nicolas Hulot, e “I tre principi di speranza nella disperazione”, entrambi del 2007, spostano il discorso sul futuro, anche alla luce di tutti i fallimenti pratici e speculativi del pensiero ecologico degli ultimi trent’anni. La nuova situazione richiede la messa a punto di strumenti concettuali nuovi, idonei ad affrontare, fra ambiente, tecnica ed etica, i problemi congiunturali emergenti ma mantenuti in un limbo di semi oscurità della conoscenza (si pensi al problema enorme dei rifiuti, agli OGM, alle nano-tecnologie), per fare invece luce sulle condizioni di rischio, incertezza o ignoranza che si prospettano con le applicazioni moderne della scienza, per una più prudente ed equilibrata progettazione del futuro. In gioco c’è molto più del destino di discutibili applicazioni tecnologiche: siamo chiamati a un dibattito che mette in discussione le convenzionali idee di scienza, di progresso e dalle scelte che saranno fatte dipenderà la società del prossimo futuro.
Tre ragioni almeno, suggerisce Morin, offrono motivo di speranza: il principio dell’improbabilità innanzitutto, dell’inaspettato (della serendipità forse) che nel passato ha permesso di rivoltare il corso della storia, come per l’inverno russo con Hitler e Napoleone, perché probabile e improbabile assumono contorni fluidi nel pieno della crisi; oppure il ricorso a potenzialità umane ancora non espresse, o meglio inibite dalla cosiddetta civilizzazione, che per manifestarsi hanno bisogno di un innesco, un’eruzione, come nel 1789 in Francia; la possibilità di metamorfosi, infine, una trasformazione in un sistema più ricco, più complesso verso una società-mondo che non si può definire né ragionevolmente concepire prima della sua comparsa. Morin cita il poeta Friedrich Hölderlin: “La dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
Gli studi sui rischi della tecnologia nell’età industriale stanno portando l’etica e le democrazie ad occuparsi delle questioni scientifiche mettendone in discussione il concetto di oggettività che pure, secondo molti, dovrebbe essere l’unico criterio di riferimento. Insegnare in un’ottica di etica ecologica oggi non vuol dire selezionare il campo visivo di chi si educa, ma eliminare gli impedimenti alla vista, non significa suggerire la scelta più giusta, ma creare le condizioni per quella più consapevole. Per questo occorre urgentemente che le visioni proposte siano molteplici ed è prioritaria l’integrazione dei problemi di ambiente, scienza e democrazia in uno scenario comune, per individuare soluzioni non di tipo solo reattivo, con interventi specialistici e terapeutici che puntano al controllo della situazione, ma davvero capaci di intercettare e svelare apertamente le cause più profonde della crisi. Quando esorta ad un risveglio, Morin pensa anche a questo genere di contaminazione come primo passo, doloroso ma necessario, per la rigenerazione della coscienza ecologica nella collettività contemporanea.

Indice

Prefazione all’edizione italiana (di Bianca Spadolini)
Introduzione
L’anno I dell’era ecologica (supplemento a “Le Nouvel Observateur”, 1972)
Il pensiero ecologizzato (“Le Monde Diplomatique”, 1989)
Il pianeta in pericolo (“Le Nouvel Observateur”, 1990)
Energia, ecologia, sociologia. Dalla politica dell’energia alla politica della civiltà (dibattito nazionale “ènergie 2003”)
Oltre lo sviluppo e la globalizzazione (Firenze, Palazzo Vecchio, 18 novembre 2002)
L’imperativo ecologico. Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot (a cura di Nicolas Truong, 2007)
I tre principi di speranza nella disperazione (gennaio 2007)


L'autore

Edgar Morin, filosofo e antropologo-sociologo, è nato a Parigi nel 1921, da genitori ebrei sefarditi. Nel 1941 interruppe gli studi per partecipare alla Resistenza, aderendo successivamente al Partito comunista francese, dal quale fu in seguito espulso. Dal 1950 al 1979 è stato ricercatore al C.N.R.S., dove si dedicò, tra l'altro, a indagini su fenomeni sociali come il divismo e i giovani e la cultura di massa, passando successivamente alla direzione del Centro di Studi Transdisciplinari in Sociologia e Antropologia Politica, associato con l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Nel 1967, fondò con Roland Barthes e Georges Friedmann la rivista "Communications", di cui è ancora co-direttore. Nel 1969 ebbe modo di conoscere la teoria dei sistemi che influenzò profondamente le sue successive ricerche nel campo dell'epistemologia. Ha dedicato gran parte della sua opera alla “riforma del pensiero”, manifestando la necessità di una nuova conoscenza che superi la separatezza dei saperi caratteristica della nostra epoca. Attualmente è presidente dell'Associazione per il Pensiero Complesso a Parigi e presidente dell'Agenzia Europea per la Cultura. Tra le sue numerosissime pubblicazioni, “Amore, poesia e saggezza” (1999), “I sette saperi necessari all'educazione del futuro” (2001), “Educare per l’era planetaria (con E. R. Ciurana, R. D. Motta, 2005), “Cultura e barbarie europee. Oltre la barbarie dello scontro di civiltà” (2006).

venerdì 18 gennaio 2008

Simonetti, Sergio, L’anima in San Tommaso d’Aquino.

Roma, Armando, 2007, pp. 282, € 25,00, ISBN 9788860811370.

Recensione di Martina Subacchi – 18/01/2008

Teologia, Storia della filosofia (medievale)

Lo scopo dell’opera è indagare la natura dell’anima umana, in un momento storico in cui – come osserva giustamente il Cardinale Saraiva Martins nella Prefazione – esegeti e teologi propongono una visione dell’uomo come un tutto unitario, riconducendo la distinzione anima/corpo a un’indebita influenza della filosofia greca. L’ambito all’interno del quale si svolge lo studio di Simonetti è la questione tomista della sostanza dell’anima, indagata in tutta la sua complessità: il tema de anima è affrontato infatti a partire dalle fonti del pensiero tomista (capitolo I), passando attraverso le Questioni Disputate (capitolo IV), per culminare nella Somma Teologica (capitolo V) e concludersi con l'analisi del Commentario al De Anima (capitolo VI).
Per mostrare che l’anima umana è immateriale, ossia di natura spirituale, San Tommaso parte dalla considerazione dell’intelletto: dal momento che questo svolge le proprie funzioni indipendentemente dal corpo, e niente agisce per se stesso se non sussiste per se stesso, è necessario che l’anima, chiamata anche mente o intelletto, sia un essere incorporeo e sussistente. È pur vero che la conoscenza intellettiva implica un qualche legame con la realtà sensibile, ma – ribatte l’Aquinate – le operazioni dell’anima usano il corpo non come strumento, bensì come oggetto.
Una volta accertata la sua natura spirituale, non bisogna pensare che l’anima sia una sostanza spirituale completa in se stessa; contrariamente a quanto crede Platone (che nel Fedone identifica l’essere dell’anima con l’essere dell’uomo e considera puramente accidentale l’unione dell’anima col corpo), l’anima è un’essenza completa solo se è unita al corpo. Esistono infatti alcune operazioni umane (come il temere, l’adirarsi e il sentire) che non derivano né dalla sola anima né dal solo corpo, ma dall’unione di entrambi; e se l’anima può conseguire la perfezione sostanziale (per completare la specie umana) e la perfezione accidentale (la conoscenza intellettiva attraverso i sensi) solo se è unita alla materia corporea e agli organi di senso, bisogna concludere che l’anima e il corpo formano una cosa sola e non sono diversi quanto all’essere.
San Tommaso inoltre distingue la persona dalla natura umana: la persona è il soggetto che agisce concretamente, mentre la natura è ciò che permette alla persona di agire; ciò che caratterizza la personalità o la sostanzialità della persona è la sussistenza, mentre l’attività intellettuale e volitiva appartiene alla natura o essenza spirituale. La persona perciò è il sussistere di una individualità umana nella sua concretezza, mentre la natura è ciò per cui una persona è un essere umano e la natura individuale è ciò per cui una persona possiede proprietà e accidenti in modo unico e irripetibile.
In sintesi: la persona sussiste in una natura e, per attuare la persona, la natura deve essere sussistente e spirituale; per essere un esistente concreto, e non rimanere a livello di definizione astratta, la natura umana deve sussistere in una sostanza, diventando sostanza prima. Dal momento che il soggetto sussistente è il supposito, la persona umana può essere definita anche «supposito di natura razionale». Essendo pura forma, l’anima non è l’essere come Dio, ma ha l’essere; non è puro essere, ma è un esser-questo, limitato e causato; eppure possiede l’essere in modo così immediato e diretto da trasmetterlo al corpo. Per questo San Tommaso definisce l’anima spirituale «la forma sostanziale del corpo» (Summa, I, 76, 1).
Pur essendo legato alla vita sensitiva del corpo, l’uomo è dotato di facoltà sue proprie, l’intelletto e la volontà, che lo separano dalla vita sensitiva rendendolo «capace di infinito». Dall’anima infatti promanano gli atti spirituali attraverso i quali l’uomo scopre l’esistenza di un Essere trascendente e sussistente: in quanto forma pura, l’anima può entrare in relazione con l’Assoluto, elevandosi a Lui con la volontà in modo reale e con l’intelletto in modo intenzionale. L’anima inoltre sussiste in modo autonomo rispetto alla materia e questo le permette di conoscere, oltre alle realtà sensibili, gli oggetti immateriali, cogliendone le essenze astratte e universali (conoscenza razionale).
La persona umana dunque è sostanza sussistente ed essenza spirituale dotata di intelletto e volontà; in quanto sussistente, è un ente concretamente esistente, unico nella sua individualità, ma se ogni essenza individuale è unica, tale non è la specie umana, comune ad ogni persona. E se è vero che l’uomo, in virtù della sua dimensione corporale, è accostabile agli enti infraumani, tuttavia il principio di individuazione umano non è dato, come in questi, dalla materia, ma dall’anima. Infine, dal fatto che l’anima è forma razionale del corpo e la forma perfeziona la materia relativamente non solo all’essere ma anche all’agire, deriva che l’anima razionale è unica e svolge anche le funzioni dell’anima vegetativa e dell’anima sensitiva, in modo che l’uomo sia «corpo, corpo animato e anima razionale» (De Anima, 1, 9).
In conclusione, nella filosofia contemporanea il dualismo corpo/anima ha portato alla nascita di due monismi: da un lato l’antropologia studia l’uomo limitatamente all’ambito esperienziale, considerandone l’agire, la vita di relazione e l’evoluzione indipendentemente dall’essere; dall’altro il falso spiritualismo riconosce sì la componente spirituale dell’uomo (anima, ragione, pensiero, coscienza), ma in quanto pura astrazione. La filosofia di San Tommaso, al contrario, propone una “antropologia soprannaturale” fondata sulla nozione di anima forma sostanziale del corpo, perciò sull’unione armonica di entrambe le componenti umane. Il testo di Simonetti, riprendendo tale insegnamento, offre numerosi spunti di riflessione al lettore che non si accontenti di una visione materiale o puramente razionale dell’uomo, ma intenda riscoprirne la dimensione trascendente, senza correre il rischio di cadere in un falso misticismo.
Riconosciamo perciò all’opera in esame i seguenti meriti: innanzitutto l’attualità del tema, che, in ordine alla costituzione dell’uomo, è in grado di fornire possibili risposte alle questioni di bioetica, sempre più pressanti all’interno della cultura occidentale; l’aver riproposto al lettore contemporaneo il pensiero di San Tommaso e i principi della sua metafisica, presupposto di ogni rigorosa costruzione del sapere; la ricchezza delle fonti e dei testi consultati (Aristotele, ma anche Sartre, Hillmann e Cullmann); la profondità dell’analisi, nonché la sistematicità espositiva.

Indice

Prefazione del Cardinale José Saraiva Martins
Introduzione
Capitolo I. Le fonti
Capitolo II. La natura dell’uomo: anima e corpo
Capitolo III. La sostanza
Capitolo IV. San Tommaso d’Aquino e l’anima nelle Questioni Disputate
Capitolo V. La Summa
Capitolo VI. Il Commentario al De Anima
Conclusione
Bibliografia


L'autore

Sergio Simonetti ha conseguito la laurea in Storia Medievale all’Università degli Studi di Genova e la licenza in Teologia Tomista alla Pontificia Università Angelicum, presso la quale è attualmente dottorando.

Accarino, Bruno (a cura di), Confini in disordine. Le trasformazioni dello spazio.

Roma, manifestolibri, 2007, pp. 175, € 19,00, ISBN 9788872854938.

Recensione di Luigi Marfè – 18/1/2008

Filosofia politica

È una doppia confusione quella cui fa riferimento il titolo di questo volume a cura di Bruno Accarino, Confini in disordine. Da un lato, infatti, indica la disconnessione del concetto di confine, che – in un mondo come quello post-coloniale – è reso sempre più labile e provvisorio dall’incremento esponenziale dei flussi migratori, fino a smaterializzarsi. Dall’altro, sottolinea il corrispettivo sovvertimento dell’identità dell’individuo che, assieme a uno spazio condiviso di valori e di diritti, ha perso ogni criterio oggettivo per definire il proprio status di cittadino. È per questo che, nell’introduzione, Accarino esordisce ricordando il romanzo Das Schloβ di Franz Kafka, il cui protagonista cerca di farsi assumere come agrimensore in un paese in cui le demarcazioni tra i poderi sono già state tracciate. In negativo, l’allegoria di Kafka rappresenta infatti l’importanza della misurazione dello spazio nel definire la personalità degli uomini che lo abitano.
Confini in disordine raccoglie quattro saggi che descrivono alcuni aspetti della trasformazione dello spazio nell’epoca della globalizzazione. Il libro si concentra sia sulle premesse filosofiche che ne hanno accompagnato l’avvento che sulle questioni direttamente geopolitiche. Contro teorie come quelle di Zygmunt Baumann, Accarino pone l’accento sulla spatial turn che negli ultimi anni ha spinto il dibattito critico di discipline molto diverse – antropologia, urban studies, semiotica, storia dell’arte – a riflettere su come la definizione di una civiltà dipenda dalla propria imago mundi. È in questa volontà di dominare il territorio (Herrschaft) attraverso la misurazione che l’uomo rivela la vera natura del proprio rapporto con lo spazio. Le rappresentazioni dei luoghi non sono del resto mai fini a se stesse. Come aveva già notato Georg Simmel, infatti, in quanto demarcazione di confini, ogni discorso sul territorio si configura come agire politico basato sull’appropriazione e, talvolta, sulla violenza. Sulla scorta delle tesi di Gilles Deleuze e Felix Guattari, Confini in disordine invita allora a ri-territorializzare lo spazio come piano del discorso politico, nell’ottica di una filosofia che permetta di capire che cosa significhi orientarsi nel pensiero.
Nel primo saggio – ‘Tabula costituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica – Accarino sottolinea come la concezione tradizionale di confine sia messa in crisi da un insieme di cause che ha finito per deregolamentare lo spazio. L’integrazione finanziaria globale, il tramonto della sovranità, la porosità delle frontiere, le ondate migratorie, la crisi degli Stati-nazione, il sovvertimento di logiche oppositive come quella tra centro e periferia hanno disconnesso per sempre il carattere costituente della demarcazione dei confini. Si è spenta quella capacità di scatenare l’immaginario che, alla fine del secolo scorso, le zone bianche delle carte geografiche ancora sapevano scatenare, come dimostra il piccolo Marlow in Heart of Darkness di Joseph Conrad, indicando sul mappamondo il suo destino africano: “when I grow up, I will go there.” Da orizzonte critico diverso, studiosi come Michel Foucault e Hans Blumenberg hanno notato inoltre come ai pericoli di questa progressiva omogeneizzazione vada aggiunto un difetto che ha caratterizzato da sempre le rappresentazioni dello spazio. Mi riferisco all’inversione ontologica tra il mondo scritto e quello non scritto, per cui l’indagine diretta dei luoghi è mediata dalle loro rappresentazioni precedenti, così da impedire ogni svelamento di senso. In un mondo come quello di oggi, la categoria in cui iscrivere il concetto di confine è quindi quella della liminarità, dal momento che si tratta di frontiere mobili, frattali, marginali. Al di là degli omaggi alle virtù rizomatiche del mondo in rete, resta però da capire se, in un futuro più o meno prossimo, le forzature nomo-poietiche della conoscenza cartografica cederanno o meno a un nuovo ordine iconico che riconfiguri in maniera inedita l’intero spettro della rappresentazione dello spazio.
Nel secondo saggio – La seconda ecumene. A partire da Eric Voegelin – Antonietta Brillante verifica quali, secondo le teorie di Eric Voegelin, siano le coincidenze e quali le disparità tra le figure dell’ecumene greca e l’orizzonte universalistico della cultura occidentale moderna. Per la filosofia greca, l’ecumene implica una concezione dello spazio geografico che rimanda a una ricerca dell’ordine del cosmo. Si declina quindi sia come apertura a una trascendenza espressa attraverso i simboli del mito, della filosofia e della rivelazione, sia come chiusura connessa con il disorientamento di fronte alla verità dell’esistenza. Se il riconoscimento del fondamento trascendente dell’essere comporta la ricerca del significato dell’esistenza umana in un beyond, l’esperienza dell’ordine del cosmo – il beginning – non può però essere cancellata. Fin dai tempi di Alessandro Magno, infatti, chi ha provato a spostare il beyond nel mondo terreno si è scontrato con la vanità di ogni conquista, scoprendo l’esperienza di un confine da varcare in chiave escatologica. In questo senso, l’orizzonte è la traduzione in termini geografico-spaziali della verità dell’esistenza che Voegelin chiama in-between: lo spazio di apertura critica che consente di dotare di senso l’esistenza individuale, sociale e storica.
Nel terzo saggio – La rima e lo spazio (‘Reim und Raum’). Carl Schmitt fra poeti e scrittori – Nicola Casanova sonda le componenti letterarie della riflessione sullo spazio di Carl Schmitt. Appassionato di poesia, il giurista tedesco ha infatti analizzato con grande acume critico opere come Hamlet di William Shakespeare, Moby Dick di Herman Melville o I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Tra i contemporanei, la sua simpatia va all’amico poeta Theodor Däubler, mentre non sono risparmiati strali a Thomas Mann, accusato di pensare soprattutto al suo personaggio pubblico di scrittore. Attraverso la letteratura, Schmitt scopre il rapporto meta-linguistico che si instaura tra la parola (Wort) e il luogo (Ort) e che sarà alla base delle sue teorie comprese ne Il nomos della terra. In questo libro, egli riflette infatti sui rapporti fra la spazialità, la politica e il diritto delle genti interpretando la rima poetica come forma ordinativa del reale: un principio di ordine – retorico e non ontologico – di difesa da un caos che incombe e va trattenuto. Casanova sostiene che il modello di Schmitt vada cercato nella Scienza Nuova di Giambattista Vico, poiché sono entrambi autori avversi al giusnaturalismo e al contrattualismo e sviluppano un pensiero che descrive l’origine storico-concreta del diritto non dal punto di vista dell’individuo, ma da quello dei popoli. In questo senso, Schmitt si inserisce in maniera originale nel discorso politico novecentesco di matrice cristiana – da Konrad Weiss a Léon Bloy – scommettendo in chiave magica sul confine (Grenze) come strumento di organizzazione e di controllo dello spazio politico.
Nell’ultimo saggio – Dinamiche dello spazio politico nella comunità mondiale –, Gregor Fitzi riflette sulla doppia natura dell’agire politico, che chiama in causa sia la dimensione oggettiva delle scienze sociali che quella soggettiva dell’etica. Riprendendo Max Weber, Fitzi descrive la comunità politica attraverso la lotta dei gruppi sociali (Verbände) per il monopolio del potere sul territorio. Dopo aver constatato – sulla scorta di Hannah Arendt – la crisi in cui versano oggi gli stati nazionali, la sua analisi smaschera le ingenuità di chi, come Niklas Luhman, scommette nella capacità dei processi della globalizzazione di costruire una società mondiale omogenea., D’accordo con Laurant Carroué, Fitzi invita piuttosto a usare il concetto asistemico di mondializzazione, nel senso della molteplicità di livelli (local, national, global) in cui si articola lo spazio politico. In questonuovo paradigma, il compito più urgente appare quello di ri-configurare i confini della sfera pubblica del cittadino e di quella privata dell’individuo, nell’ottica di una nuova etica della responsabilità.
Non è quindi una filosofia dello spazio sistematica e totalizzante l’obiettivo a cui mira Confini in disordine. Descrivendo la progressiva de-territorializzazione del concetto di confine degli ultimi anni, Accarino sottolinea infatti come in essa sia implicita anche una possibile ri-territorializzazione. In quanto esperienza di soglia, i confini sono infatti ancora riti di passaggio, che concorrono a definire l’identità di chi li attraversa. È il caso dei migranti, i cui viaggi sono odissee contemporanee che ripropongono il gioco etimologico del tedesco tra il viaggiare (fahren) e l’esperienza vissuta (Erfahrung). Viaggiare significa scoprire qualcosa, scriveva del resto già il poeta tedesco Heinrich Heine, che era dentro di noi e che non sapevamo ci fosse.

Indice

Bruno Accarino, Introduzione: l’entropia del confine

Bruno Accarino, ‘Tabula costituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica

Antonietta Brillante, La seconda ecumene. A partire da Eric Voegelin

Nicola Casanova, La rima e lo spazio (‘Reim und Raum’). Carl Schmitt fra poeti e scrittori

Gregor Fitzi, Dinamiche dello spazio politico nella comunità mondiale


Il curatore

Bruno Accarino è professore di Filosofia della Storia presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Tra i suoi ultimi scritti, sono da ricordare Rappresentanza (il Mulino, 1999), Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg (Mimesis, 2002), Le frontiere del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità moderna (Mimesis, 2005). Ha curato l’edizione italiana de I limiti della comunità (Laterza, 2001) e di Potere e natura umana (manifestolibri, 2006) di Helmuth Plessner.

lunedì 14 gennaio 2008

Baudrillard, Jean, L’Illusione dell’immortalità.

Roma, Armando Editore, 2007, pp. 92, Euro 15,00 ISBN 8883584694

Recensione di Gennaro De Falco - 14/01/2008

Sociologia, modernità, globalizzazione

Il libro proposto da Armando Editore conferma la grande capacità di analisi, mista a provocazione sarcastica e distruttiva, del grande sociologo francese Jean Baudrillard, scomparso a Parigi il 6 marzo 2007.
Il testo affronta grandi tematiche apparse all’orizzonte dell’umanità negli ultimi anni e su cui, ovviamente, il dibattito è ancora aperto e contraddittorio.
Nel primo capitolo Baudrillard affronta la delicata questione della clonazione, strettamente legata, secondo la sua opinione, al desiderio e alla speranza dell’immortalità. Questo desiderio – che muove ingenti risorse richiamando l’opera di importanti scienziati – cattura l’attenzione della generalità degli uomini intenti a perseguire acriticamente tale illusione.
Il sociologo francese è convinto che l’intento dell’immortalità, perseguito attraverso la clonazione, rappresenti un’involuzione per l’uomo, e non certo una evoluzione: “ciecamente sogniamo di superare la morte attraverso l’immortalità anche se da sempre l’immortalità ha rappresentato la peggiore delle condanne, il destino più terrificante.” (p. 22)
La liberazione dalla morte implica anche la liberazione dal sesso che, avendo ormai esaurito la sua prima fase rivoluzionaria, consistita nella dissociazione dell’attività sessuale dall’atto procreativo grazie alla pillola anticoncezionale, entra in una fase nuova dove esso non rappresenta più l’unico e necessario modello riproduttivo (p. 25 e sg.); sul sesso pertanto non incombe più il compito di preservare il genere umano dall’estinzione: gli scienziati e i loro cloni hanno liquidato questa funzione.
Ipotizzando dunque una vita perpetua, Baudrillard giunge alla conclusione che la morte “un tempo funzione vitale, potrebbe così diventare un lusso, un diversivo” (p. 27), aprendo così le porte ad un nuovo mercato molto redditizio: quello della cyber-morte.
L’altro inquietante interrogativo che viene posto riguarda la specie umana: essa sopravviverebbe all’immortalità? L’autore è netto e sarcastico nell’affermare che l’immortalità, mettendo fine alla selezione naturale, comporta la fine di ogni specie vivente, compresa quella umana.
L’arroganza dell’uomo nel cercare di superare la morte non comporterà l’avvento del superuomo auspicato da Nietzche, bensì aprirà la strada “al sub-umano, a qualcosa che non è oltre ma sotto la dimensione dell’umano.”(p. 34)
Anche in un mondo dominato dal clone, dalla ripetizione dell’originale, Baudrillard intravede una via di fuga per sottrarsi “dall’inferno dell’identico” (p. 38): la cultura, intesa come mezzo per preservare la propria individualità, offre questo scampo, a riconferma di chi ha sempre visto in essa, e nei valori che sottende, un elemento di differenziazione e di singolarità.
Nel secondo capitolo lo studioso affronta le questioni legate all’arrivo del nuovo millennio: è bene avvertire, infatti, che queste pagine sono state scritte nel maggio del 1999.
Baudrillard, mantenendo fede alla sua fama di provocatore, mostra la convinzione che il nuovo millennio non avrà luogo perché l’umanità è senza futuro: “il nostro millenarismo […] è un millenarismo senza futuro” (p. 48), caratterizzato non da una visione progressiva delle cose, ma da un conto alla rovescia, rappresentato emblematicamente dal grande orologio posto al Centre Beabourg di Parigi in attesa dell’anno 2000.
Non vi è nell’uomo una visione del tempo futuro, ciò decretando una fine dietro cui vi è una realtà dove gli slanci sono scomparsi, dove regna un appiattimento che rende inutile ogni emozione dell’uomo, dove si avverte solo la necessità di “chiudere, chiudere. Ci sono i saldi di fine secolo.” (p. 55)
La perdita della storia ha comportato anche la perdita dell’utopia come ideale: Baudrillard si spinge addirittura oltre annunciando che “non possediamo più obbiettivi in cui non credere. Perché è di vitale importanza – forse ancor più che vitale – avere cose in cui non credere.” (p. 60)
Quest’ultima affermazione apre uno squarcio di luce per interpretare questi anni del nuovo millennio plasmati da una crescente e totale omologazione dei modelli di vita: non si può non credere al modello consumistico; non si può non credere alla necessità di un’economia globale come unico mezzo in grado di diffondere la ricchezza ovunque; non si può non credere alla ricchezza come valore universale; non si può non credere alla necessità della libertà come modello politico da esportare ovunque, a costo del sacrificio di vite umane.
Ma in fondo chi è diventato l’uomo a cui non è lasciato neppure il tempo di vagliare, criticare, accettare o rifiutare gli eventi della storia? Purtroppo è vero che “l’evento prodotto dall’informazione non possiede più di per sé un valore storico.” (p. 62)
Baudrillard descrive una situazione patafisica, intesa come una dimensione in cui ogni cosa ha superato il limite delle leggi della fisica e della metafisica, e dove “la tecnologia sta diventando lo strumento ironico di un mondo che immaginiamo nostro solo per trasformarlo e dominarlo.” (p. 65)
Il terzo capitolo prosegue sempre all’insegna dell’analisi che porta alla morte del reale. L’autore introduce il concetto di sterminio dove non c’è più alcuna realtà. Paradossalmente, però, questo sterminio nasce proprio dall’eccesso di realtà: ci sono troppe cose che compongono la realtà, e l’uomo non ha il tempo e non trova la volontà di trattenerle e comprenderle nel loro autentico significato.
L’impossibilità di conservare la memoria della realtà è un tema caro a tanti studiosi: come ha scritto anche Bauman – con cui si trova d’accordo anche Anthony Giddens –, la società globale tende subito a dimenticare perché ha bisogno costantemente di nuove cose.
Non avere più il tempo di conservare memoria delle cose significa anche rinunciare alla ricerca della verità e al linguaggio simbolico e poetico per esprimerla: “con il codice binario e la sua decodifica, la dimensione simbolica del linguaggio è andata perduta” (p. 80). Il linguaggio perde il suo tempo – quello delle descrizioni e delle riflessioni – per diventare spoglio e scarno, per essere immediato come il mondo di internet e della televisione dove regna l’azione, il non pensiero.
Le ultime pagine sono dedicate a quello che Baudrillard ritiene il grande errore della scienza: essa non ha mai ritenuto possibile che, una volta scoperte le cose, potesse scattare un meccanismo di reversibilità per cui “le cose ci scoprono nello stesso tempo in cui noi scopriamo loro.” (p. 85)
Oggi l’oggetto non si lascia scoprire passivamente, la sua immobilità è finita; esso reagisce cercando di mantenere intatto il suo segreto.
Lo stesso meccanismo di reazione può mettere in crisi i sistemi che potrebbero essere distrutti proprio dalla loro stessa sistematicità; e ciò non solo vale per i sistemi scientifici, ma anche per quelli politici, economici e sociali.
Non è certo un caso che si senta continuamente parlare di crisi dei partiti, di mancanza di rappresentatività delle organizzazioni politiche; non è un caso che i sindacati ormai raccolgano meno consensi rispetto al passato e che, soprattutto, seguendo un sistema basato su una forzata concertazione che snatura le loro origini di forza di classe, rischiano di implodere.
Il desiderio illimitato dell’uomo di scomporre ogni cosa, la sua fallacia di essere perfetto e di compiere ogni impresa deve trovare un limite: non è possibile un’iperbole illimitata, e certamente non è auspicabile.
In tal senso può essere letta l’affermazione conclusiva di Baudrillard che considera la “tecnologia come delusione, […] illusione definitiva.” (p. 91)

Indice

Prefazione

Capitolo primo
La soluzione finale:
clonare al di là dell’umano

Capitolo secondo
Il nuovo millennio,
ovvero le attese per l’anno 2000

Capitolo terzo
Sconfiggere la realtà


L'autore

Jean Baudrillard (1929-2007) è stato definito “il profeta della modernità”. È stato autore di numerose opere tra cui, tradotta nelle edizioni di Armando Editore, Parole chiave. L’oggetto, il valore, la seduzione, l’osceno, la trasparenza del male, il virtuale, il caos, la fine, il destino, il pensiero (2002).

Bibliografia

Bauman, Zygmunt, Globalization. The Human Consequences, Cambridge, Polity Press, 1998. Traduzione di Oliviero Pesce: Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone Roma-Bari, Editori Laterza, 2001.
Giddens, Anthony, The Consequences of Modernity. Cambridge, Polity Press, 1990. Traduzione di Marco Guani: Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo. Bologna, il Mulino, 1994.

domenica 13 gennaio 2008

Vizzardelli, Silvia, Filosofia della musica.


Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 195, € 18,00, ISBN 9788842083719.

Recensione di Clara Mandolini - 13/1/2008

Estetica (filosofia della musica)

Il volume di Vizzardelli, attraverso un affascinante percorso di riflessione, ben articolato secondo riferimenti storico-filosofici e musicali e denso di questioni implicate, esprime una solida unità teorica, grazie alla continuità delle considerazioni e all’aderenza alla questione di base: l’essenza della musica.
Il problema si presenta da subito come oggetto di opposte interpretazioni secondo che sia considerato dal punto di vista “freddo” delle poetiche, cioè delle riflessioni teoriche del compositore, o da quello “caldo” del filosofo, come colui che anzitutto “ascolta”, anche tramite il proprio pensiero, la musica. Vizzardelli considera tale apparente alternativa proprio come utile punto di partenza, identificandovi il ricorrere di un’opposizione – o meglio di un’ambivalenza – di antiche origini. Si tratta di verificare se e a quali condizioni possano coesistere – perché, di fatto, così è – i due volti della musica: l’illuminazione dell’interiorità umana (del compositore o dell’ascoltatore: questo è invero solo secondario) e la capacità di far risuonare il mondo stesso, di manifestarne un carattere reale.
Se alternativamente su tale duplice “potenza” si è giocata la riflessione sull’essenza della musica, nondimeno l’ipotesi dell’autrice evidenzia la ragione effettiva dell’ambivalenza nella natura stessa dell’esperienza musicale cercando di sottrarla a un’ipertrofia unilaterale, cioè come affermazione di uno solo dei due caratteri. La soluzione del dilemma, emergente già dal primo capitolo, e in seguito sempre riconfermata e arricchita di specificazioni e nuovi livelli, consiste allora nella comprensione della stessa condizione, per così dire “trascendentale”, dell’esperienza musicale umana, tra contemplazione o elaborazione di un mondo e risonanza dell’anima. Non sarebbe musica un esperire del tutto autoreferente del proprio sé da parte del soggetto, né un’organizzazione sonora puramente teorica, priva di capacità di mozione psichica. Viene così in luce il punto sorgivo del duplice carattere della musica, riconoscibile nell’esperienza sensoriale e intellettuale radicata nella costituzione dell’umano: l’indicare e il muovere.
Chiave risolutiva è la nozione di conversione, guadagnata grazie a una concezione tensiva della musica e a un’antropologia vitale dinamica: attivando un intreccio mobile di piani di esperienza, il suono musicale appare un ponte d’interiorità ed esteriorità, il segno connettivo di un’avvenuta intercettazione soggettiva del mondo, o di un irrompere delle energie naturali nel gioco mobile dell’interiorità. Ma se una conversione si realizza sempre in una musica autentica (tale dunque proprio in quanto capace di muovere, di intercettare e coinvolgere le tensioni interiori tramite la sensibilità), allora deve darsi anche un isomorfismo, una corrispondenza originaria, tra i piani dell’anima e del mondo. L’isomorfismo è al tempo stesso la condizione per comprendere e giustificare, en philosophes, la realtà vissuta della musica, salvaguardandone la peculiarità senza imporle interpretazioni fuorvianti o solo descrittive, come quella espressionista o al contrario astrattamente tecnica. Il volume si articola, pertanto, enucleando e definendo le implicazioni e le condizioni di tale conversione di piani, le categorie principali e gli approdi filosofici connessi alla scoperta dell’originario piano di comunanza tra io e mondo.
Nei quattro capitoli che scandiscono le analisi condotte converge il precipitato di diverse concezioni estetico-musicali e di nuclei problematici rilevanti: la filosofia, il sentimento, la tecnica, le atmosfere. Nel primo capitolo è affrontata la questione della ragion d’essere e della giustificazione epistemologica dell’estetica musicale, da sempre alle prese con la difficile sistemazione dell’arte dei suoni nel novero delle arti: la filosofia della musica si legittima sulla base dell’esemplarità dell’esperienza estetica musicale. Infatti, se è vero che, secondo le parole di Ernest Bloch, la musica rappresenta un “cronico imbarazzo” per il pensiero, ciò è dovuto proprio al suo essere esempio di una corrispondenza fra intelligibile e sensibile profondamente destabilizzante per la filosofia. Si tratta di riuscire a dare forma a una filosofia della musica “che dalle poetiche vuole accogliere il monito a cedere un po’ di calore, a sottrarre pathos, a coniugare immediatezza e simulazione, intuizione e strategia, vividitas e concezione, pregnanza e secchezza, ingenuità e artificio, sentimento della vita e sentimento del suono” (p. 15), fonte e forma della musica. Vita e suono, sentimento e tecnica sono i due versanti implicati nella musica, che la filosofia deve poter comprendere nel loro corrispondersi.
Nell’opera di Schiller (Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, 1795) per la prima volta, a partire da una visione dinamica della verità, sono poste le basi per l’elaborazione di una concezione tensionale della musica, poi ripresa e precisata da Dewey, Leonard B. Meyer, Ernest Ansermet, e collegata anche a nuovi modelli di semiotica tensiva non linguistica. L’“identità di esperienza” che costituisce la musica, che non coincide né con l’evento sonoro singolo né con l’esclusivo carattere cognitivo dell’ascolto, va compresa a partire da un’identità organica situata in un campo di forze, salvaguardando “l’individualità della fonte intesa come avvenimento, senza mortificare l’apporto tensivo del soggetto, la sua attività di ascoltatore, la sua vigilanza, la sua memoria” (p. 26).
Il secondo capitolo del volume approfondisce la questione così maturata: comprendere la musica nel suo duplice carattere di intercettazione e tensione, di aderenza alla vita emotiva e di “realismo speculativo”. A ciò serve la rilettura delle pagine di Boezio, con cui l’autrice recupera il presupposto dell’esplicazione della solidarietà tra i due caratteri: “la musica mundana e humana rappresentano quell’elemento intelligibile che viene convertito grazie al numero nel sensibile” (p. 52). A una riunione dei versanti qualitativo (la percezione) e quantitativo (la musica come mathesis) lavora l’interpretazione della classificazione boeziana, per cui il calcolo è fattore di un passaggio dall’intelligibile al sensibile, dalla noesis all’aisthesis. Tale visione pensa la convertibilità dei piani senza cedere alla loro reciproca riduzione: l’idea di intercettazione di forze indica proprio, con la metafora della cattura, la simultanea possibilità del contatto del mondo e del salto dell’anima oltre di sé. Ma neanche durante la stagione rinascimentale di razionalizzazione dell’esperienza musicale, ad esempio in Gioseffo Zarlino (Le istituzioni harmoniche, 1558), e nei secoli successivi in Leibniz, Rameau, Diderot, è venuto meno il riferimento alla musica mundana, per cui “esprimere non significa più portare alla luce la storia intima dei nostri ‘io’ passati, significa piuttosto intercettare un tenor, captare uno sfondo mundano a partire da una contrazione soggettiva” (p. 60). L’espressività musicale si definisce allora come “capacità di agganciare sensibilmente e affettivamente un piano di oggettività codificabile razionalmente” (ivi), di convertire un atto soggettivo in un piano extrasoggettivo. L’idea di captazione di forze, come suggerisce all’autrice la lettura di Deleuze e Guattari (Mille piani, 1980), oltrepassa le nozioni di espressione e imitazione evidenziando un divenire-altro, non riproduzione ma “visibilizzazione” di una tecnica di mozione capace di “invocare” l’emozione.
Da qui l’autrice muove all’analisi di alcune concezioni del sentimento, maturate nell’ambito filosofico anglo-americano, come quella di Susanne Langer e Peter Kivy. Questi, opponendo alle teorie metaforica, empatica e sintomatica delle emozioni una teoria delle “emozioni musicali piene”, centrata sul valore di bellezza dell’oggetto intenzionale della musica, riporta il sentimento musicale alle caratteristiche del suono. L’empatia qualifica un’esperienza di rottura del piano di immanenza, “una polarizzazione soggettiva che rende possibile l’esperienza dell’altro da sé” (p. 90), una partecipazione “non proiettiva (a parte subiecti), ma garantita dall’intercettazione (a parte subiecti et objecti)” (p. 91). Tale interpretazione trova un’ulteriore conferma nelle teorie neuroscientifiche sulla simpatia: conoscenza e sentimento si fondano su un’originaria facultas fingendi, una simulazione fisico-motoria (embodied simulation). Elementi del rispecchiamento sono l’empatia e l’imitazione, cui si aggiunge il ritmo. Ricordando l’osservazione etimologica di Werner Jäger (Paideia. La formazione dell’uomo greco, 1934), secondo cui il termine ‘ritmo’ deriva non da rein (scorrere) ma da eryesthai (proteggere, fare da schermo), l’essenza del ritmo è rilevata non in un fluire continuo, ma in un flusso ostacolato, dunque in un vincolo, una disciplina dalla connotazione etica. Il fattore “strutturante” del ritmo evidenzia la necessità di un elemento intermediatore che sia capace di istituire l’intercettazione: piuttosto che essere rilevato nelle qualità dell’ascolto, esso emerge come schema, alternanza di contrazioni e distensioni. Il ritmo rivela così l’organizzazione di un meccanismo (una tecnica), “un’incidenza interna al supporto materiale” (p. 106), un “grado di automatismo e di ripetizione di strutture virtuali” (p. 110).
Il terzo capitolo del volume affronta così il ruolo della tecnica nell’esperienza musicale. Esclusa in quanto puramente apparente l’alternativa tra emozione e mathesis, cioè tra libero flusso del sentimento e progettualità tecnica, l’autrice affronta, in una rilettura della riflessione di Adorno, la questione della reciproca implicazione, da un lato, di una “cessione” al materiale – “l’adattamento alla rozza fisicità” dell’oggetto – e, dall’altro, della sua “catarsi nell’immagine estetica” (p. 123), con cui la capacità espressiva dello strumento è affermata insieme alla “fatalità” che sottomette il comporre all’evoluzione del proprio materiale. La forma prende così a “obbedire” alla materia; e proprio tale obbedienza svela la suprema libertà del compositore, la necessaria “malattia” che lo costringe a realizzare l’autenticità (in un contesto di massima espansione dell’industria culturale) proprio nella forma dell’alienazione. Come tentativo di fedeltà agli oneri emozionali e cognitivi, su cui si gioca forse proprio la continuità del valore culturale della musica, si presenta l’idea di atmosfera sonora di Iannis Xenakis, come modo di conversione di interno ed esterno, di condizioni psichiche e situazioni ambientali, piano dell’astrazione e della percezione, pur in una prospettiva di instabilità dell’evento sonoro e di mescolamento dei parametri classici.
L’ultimo capitolo del volume raccoglie il frutto delle riflessioni condotte con un approfondimento del concetto di atmosfera. Come aveva già notato Böhme, l’atmosfera, come spazio dotato di qualità oggettive e soggettive (quasi-oggettività), individua una sorta di “interregno” tra l’introversione, sfera dell’intimità, e l’estroversione, possibilità di un “espatrio” del soggetto da sé. Spazio quasi-oggettivo, né topos né spatium, né luogo senza metrica, né distanza misurabile in quanto omogenea, l’atmosfera è campo permeabile al sentire. Si definisce così la parentela di musica e architettura, non come modellamento di masse (in analogia alla scultura), ma come creazione e formazione di uno spazio aperto alla captazione di un significato soggettivo psichico. L’architettura manifesta sì il legame tra materia e forma, la ripetizione, la parentela col numero, la composizione, come rilevava Paul Valéry, ma si apre anche al dinamismo interiore: “la distanza è percepita a partire dal sentimento che noi abbiamo di noi stessi, dalla sensazione del nostro corpo che occupa e insieme costruisce uno spazio” (p. 168).
Nell’approccio suggerito, la musica non appare più allora solo come arte del tempo: pur implicando la dimensione temporale e mnemonica, essa si rivela dotata di una connotazione spaziale-atmosferica abitabile. Il lettore può trovare conferma, specie nello stadio finale dell’argomentazione, della fecondità teorica e poetica di una filosofia libera dal pregiudizio dell’esclusività mundana o interiore dell’esperienza musicale, a tutto vantaggio della scoperta delle solidarietà profonde che attraversano le arti, come anche della costituzione intimamente musicale della sensibilità.

Bibliografia

G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani (1980), Castelvecchi, Roma 2003.
W. Jäger, Paideia. La formazione dell’uomo greco (1934), trad. it. di L. Emery, A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1953.
F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1795), trad. it. di G. Pinna, Aesthetica Edizioni, Palermo 2005.
G. Zarlino, Le istituzioni harmoniche (1558), Venezia.

Indice

Premessa
Musica e filosofia
Musica e sentimento
Musica e tecnica
Musica e atmosfere
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autrice

Già occupatasi della poetica dell’ermetismo e della concezione della musica nel pensiero di Hegel, dal 2004 Silvia Vizzardelli insegna Estetica musicale e Filosofia della musica all’Università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni: L’esitazione del senso. La musica nel pensiero di Hegel (Bulzoni, Roma 2000); La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea (a cura di, Quodlibet, Macerata 2002); Battere il tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch (Quodlibet, Macerata 2003).

Links

(pubblicazioni dell’autrice)
(formazione e ambiti di ricerca)

mercoledì 9 gennaio 2008

Dworkin, Ronald, La democrazia possibile. Principi per un nuovo dibattito politico.

Trad. it. di Lucia Cornalba, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 164, € 18,00, ISBN 9788807104237.
[Ed. or.: Is Possible Democracy Here? Principles for a New Political Debate, Princeton University Press, Princeton 2006]

Recensione di Giuliano Manselli – 09/01/2008

Filosofia politica

Negli Stati Uniti, dove la vita politica somiglia sempre più a una guerra, è ancora possibile trovare una base comune per un corretto dibattito politico?
È questo il quesito fondamentale attorno cui Dworkin articola tutto il suo libro. La nazione americana sembra infatti spaccata in due, divisa fra due culture totalizzanti e incompatibili. Tuttavia per Dworkin questa teoria delle due culture onnicomprensive, quella rossa rappresentata dai repubblicani conservatori e quella blu rappresentata dai democratici progressisti, ormai luogo comune, è quantomeno esagerata. Si tratterebbe piuttosto di una riuscita invenzione politica che, anziché fornire una valida spiegazione circa la reale situazione del contesto politico statunitense, ne acuirebbe la contrapposizione finendo con l’impedire un libero e ragionevole confronto politico. Dworkin si pone quindi due obiettivi: innanzitutto trovare, malgrado l’opinione diffusa, principi comuni abbastanza solidi da rendere possibile e proficuo un dibattito politico serio. In secondo luogo, cercare di evidenziare la forza e l’attinenza di tali principi con i grandi problemi che dividono la nazione americana: i diritti umani, il ruolo della religione nella vita pubblica, la giustizia sociale, il carattere e il valore della democrazia.
Il testo si occupa così soprattutto della vita politica statunitense, ma i principi individuati da Dworkin, secondo lui patrimonio comune degli americani, sono condivisi da molte altre nazioni, e gli argomenti trattati trovano applicazione anche nell’arena internazionale, dovrebbero cioè avere valore per qualsiasi interpretazione matura della democrazia. Così pure la diagnosi sullo stato del dibattito pubblico americano e le conclusioni che, come ben sottolinea Mario Ricciardi nella prefazione all’edizione italiana, si possono estendere benissimo anche alla situazione politica italiana.
I principi comuni cui Dworkin intende riferirsi non sono principi specificatamente politici o etici, bensì filosofici. Essi identificano alcuni valori più astratti della situazione umana: il principio del valore intrinseco, per il quale ogni vita umana ha un suo particolare valore oggettivo, è importante in sé; e il principio della responsabilità personale, per il quale ogni persona è responsabile del successo della propria vita, responsabilità che include il giudicare e scegliere che tipo di vita condurre per realizzarsi. Insieme questi due principi costituiscono le condizioni di base della dignità umana. Una simile idea della dignità umana potrebbe essere condivisa da tutti gli americani di tutte le fedi politiche, in virtù della possibilità di articolare diverse interpretazioni, egualmente legittime, dei due principi. All’interno di questo terreno comune infatti, ciascuno potrebbe cercare di giustificare la sua interpretazione dei due principi sulla base del maggior numero di applicazioni possibili riconosciute pubblicamente come valide.
Così, dopo aver descritto nel capitolo I, dal titolo “Il terreno comune” i due principi della dignità umana, nel capitolo II, “Terrorismo e diritti umani”, Dworkin si misura col primo dei grandi problemi che hanno spaccato in due l’opinione pubblica americana. Dopo l’11 settembre 2001 infatti, gli americani appaiono divisi sulle modalità di acquisizione delle informazioni sui terroristi e i loro piani, e sull’estensione dei poteri da attribuire al governo nella gestione di questa emergenza. Secondo Dworkin la natura di tale dilemma è più morale che legale. Esso implica una scelta di tipo etico, anche a costo dei propri interessi. Il problema infatti è se le strategie politiche antiterroristiche violino o meno i diritti umani, perché, se così fosse, esse sarebbero indifendibili anche se formalmente legali e se garantissero più sicurezza.
Ma cosa si intende per diritti umani? Per Dworkin sono quei diritti che tutti gli esseri umani possiedono per il solo fatto di essere umani, che dovrebbero essere protetti dai trattati internazionali e che nessuna nazione dovrebbe poter violare, nemmeno per ragioni di sicurezza. Tali diritti si differenziano perciò dai diritti legali e politici, ed anche se una loro definizione precisa, universalmente condivisa, rimane controversa, essi comportano, secondo Dworkin, l’obbligo fondamentale di ogni governo al rispetto della dignità umana. Ciò, dal punto di vista pratico, avrebbe due conseguenze molto importanti. La prima, è la statuizione di diritti umani di base e cioè diritti concreti che pongano limiti alle azioni di ogni governo, vietando atti non giustificabili all’infuori dell’idea dell’eguale valore intrinseco della vita di ognuno, né di quella della responsabilità personale della propria esistenza. La seconda conseguenza è impedire a qualsiasi governo di agire nei confronti di chiunque in maniera da contraddire la sua stessa concezione di tali principi, espressa dalle sue leggi e pratiche, perché ciò comporterebbe una negazione del rispetto dell’umanità delle sue vittime. Per Dworkin i diritti costituzionali degli Stati Uniti e le relative interpretazioni espresse dai tribunali americani negli ultimi decenni sono ragionevolmente in grado di identificare e tutelare i diritti politici derivanti dai due principi della dignità umana e convertirli in diritti legali. Lo stesso si può dire dei documenti costituzionali e degli accordi internazionali vigenti in altre nazioni e organizzazioni internazionali, in parte mutuati dalla pratica costituzionale americana, e da cui oggi, per Dworkin, l’America potrebbe a sua volta trarre ispirazione. Attualmente infatti l’amministrazione Bush e i suoi sostenitori affermano che bisogna trovare un equilibrio fra diritti umani degli altri e diritto alla sicurezza dei cittadini americani di fronte al terrorismo. In altri termini, è possibile (giuridicamente giustificabile) ignorare i diritti di qualcuno sulla base della presunta minaccia di un grave pericolo. Ma per Dworkin anche di fronte a un grande pericolo come il terrorismo, il sacrificio del rispetto di se stessi è una forma di vigliaccheria particolarmente vergognosa, occorrerebbe invece recuperare la virtù del coraggio, perché, dimostrando disprezzo per la dignità umana a causa della paura, disprezziamo anche noi stessi. Inoltre, la politica antiterroristica di Bush, non solo viola i diritti umani, ma lo fa anche in malafede in quanto li viola in contraddizione col proprio diritto interno e con l’idea, profondamente radicata nello spirito americano, che sia meglio rilasciare un colpevole, per quanto pericoloso, piuttosto che condannare un innocente. Ma, si chiede Dworkin in definitiva, siamo così terrorizzati che l’onore non conta più nulla?
Nel capitolo III, “Religione e dignità”, Dworkin sottolinea come il conflitto che divide l’America nel dibattito su chiesa e stato riguardi il ruolo della religione nella vita pubblica e politica. Tutti gli americani concordano infatti sull’importantissimo principio secondo cui il governo deve essere tollerante nei confronti di tutte le fedi religiose pacifiche e anche di chi non ha nessuna fede. Essi però dissentono su questo punto: l’America deve essere una nazione religiosa tollerante, oppure una nazione laica che tollera la religione? I due modelli riflettono principi opposti di moralità politica su cui dovrebbe vertere un serio dibattito. In una società religiosa tollerante infatti, il riconoscimento della libertà di fede sarebbe un diritto sui generis, non discenderebbe da quello più generale di scegliere autonomamente sulle questioni etiche fondamentali come l’aborto, l’omosessualità, la ricerca sulle cellule staminali, o la possibilità di porre fine alle propria vita in caso di malattie terminali e di grandi sofferenze. Anzi, una società religiosa, seppur tollerante, potrebbe propendere per una concezione molto restrittiva di tale diritto, vietando tali pratiche per motivi esplicitamente religiosi. Una società laica tollerante invece non potrebbe accettare un’idea così restrittiva del fondamento della libertà religiosa. Per Dworkin quindi solo il modello laico tollerante rispetterebbe pienamente il secondo principio della dignità umana che attribuisce a ciascuno di noi la responsabilità di scegliere i propri valori etici, rifiutando qualsiasi imposizione.
Il tema affrontato da Dworkin nel capitolo IV, dal titolo “Tasse e legittimità”, è altrettanto controverso ma influisce in modo certamente più significativo sulla vita quotidiana dei cittadini. Dworkin sostiene che una teoria plausibile della legittimità politica di uno stato si basa sull’assunto che i suoi cittadini abbiano degli obblighi verso la comunità di cui fanno parte, come rispettarne le leggi, ma solo finché il governo mostri di rispettare la loro dignità umana: attribuisca cioè pari importanza e considerazione alla loro vita, e riconosca a ciascuno una piena responsabilità di scelta sulla propria esistenza. Di conseguenza uno stato che nella sua politica fiscale riveli disprezzo per i poveri, metterebbe a rischio la sua stessa legittimità. Ma quale politica fiscale dovrebbe allora adottare un governo che intenda riservare uguale trattamento a tutti i suoi cittadini? Tutto ciò che il governo di una grande comunità politica fa, influenza infatti le risorse di cui ogni cittadino dispone per affrontare le vicissitudini della vita. Uno stato non può perciò sottrarsi al dovere di riconoscere a tutti pari considerazione, né può venir meno alle proprie responsabilità nei confronti della situazione economica di alcuni cittadini.
Per Dworkin l’idea del laissez faire e dello small government, o stato minimo, ignora proprio questo punto. Tuttavia, egli è anche consapevole del fatto, che un governo che dimostri pari considerazione per tutti i suoi cittadini organizzandosi in modo che ognuno abbia le stesse risorse indipendentemente dalle scelte che ha fatto, non rispetterebbe il secondo principio della dignità umana, ossia quello della responsabilità personale. Qualsiasi concezione egualitaria che neghi tale principio, optando per una ridistribuzione delle ricchezze ex post, va quindi respinta. Dworkin propone così un tipo di uguaglianza ex ante, basata su una teoria fiscale, che garantisca ai cittadini pari opportunità di progettare liberamente la propria vita, corretta da un sistema di assicurazione ipotetica capace di limitare le disuguaglianze derivate dal libero mercato: per cui le tasse sono eque solo quando il gettito è pari almeno al minimo che delle persone ragionevoli avrebbero assicurato per provvedere a se stesse in una tale condizione di uguaglianza ex ante.
Nel capitolo V, “È possibile la democrazia?”, Dworkin si chiede infine se il sistema politico americano sia in grado di dare spazio ad un autentico dibattito. Secondo lui infatti la situazione politica attuale sarebbe talmente degradata da mettere in serio pericolo la democrazia e da minare la legittimità stessa dell’ordine politico. Anche se nessuno in America dubita che la democrazia sia l’unica forma legittima di governo, vi è, ancora una volta, una profonda spaccatura su come intenderla: per la visione maggioritaria la democrazia è il governo secondo la volontà della maggioranza, senza alcuna garanzia che le decisioni prese siano giuste; per la visione partecipativa le decisioni sono invece democratiche solo quando sono soddisfatte alcune condizioni che tutelano lo status e gli interessi di ogni cittadino, che deve partecipare al governo a pieno titolo come socio di un’impresa politica collettiva. Così se la prima rappresenta una concezione puramente procedurale della democrazia, indipendente da qualsiasi dimensione di moralità politica; la seconda fa invece riferimento, per Dworkin, a una teoria della partecipazione paritaria che si rifà alle idee di giustizia, uguaglianza e libertà, rappresentando così un ideale reale di democrazia. La scelta tra i due modelli è dunque una questione etica di fondamentale importanza, dalla cui risposta dipende la legittimità democratica stessa degli Stati Uniti. Per Dworkin infatti solo una democrazia partecipativa sarebbe in grado di rispettare i due principi della dignità umana da lui celebrati: dimostrando pari considerazione per la vita di tutti i suoi cittadini, non solo attraverso un suffragio su basi il più possibile ampie, ma anche inserendo certi diritti individuali nella costituzione per meglio tutelare tale rispetto per la vita di ognuno, anche contro le decisioni della maggioranza. I diritti costituzionali garantirebbero così, in accordo col principio della responsabilità personale, anche la libertà di ciascuno di fare le proprie scelte etiche.

Indice

Prefazione di Mario Ricciardi
Premessa
Il terreno comune
È possibile trovare una base comune di dibattito?
Il mio programma
Le due dimensioni della dignità umana
Il valore intrinseco di una vita umana
La responsabilità personale di una vita umana
Terreno comune e controversie
Terrorismo e diritti umani
Terrorismo, diritti e sicurezza
Cosa sono i diritti umani?
Violazioni dei diritti umani fondamentali
Violazioni in malafede
Sicurezza e onore
Religione e dignità
Politica e religione
Due modelli
Religione e stato
Il libero esercizio della religione
A che punto siamo?
Religione e liberalismo politico
Libertà religiosa: perché?
La struttura della libertà
Libertà e cultura
Alcuni esempi
Il giuramento di libertà e i simboli religiosi
Matrimonio
Tasse e legittimità
Più tasse più spese
Legittimità politica e pari considerazione
Laissez faire e “small government/meno governo”
Responsabilità personale
Uguaglianza ex post e ex ante
Immagini di giustizia
Assicurazione ipotetica
Legittimità e controargomenti
Il meccanismo dell’assicurazione
La sfida
È possibile la democrazia?
L’America è democratica?
Cos’è la democrazia?
Che valore ha la regola di maggioranza
La democrazia partecipativa a grandi linee
Che cosa possiamo fare?
Prima di tutto l’istruzione
Elezioni
La legge costituzionale e il comandante in capo
Conclusione.


L'autore

Ronald Dworkin, nato a Worcester (Massachussetts) nel 1931, ha studiato ad Harvard ed insegnato a Yale ed Oxford. Attualmente è professore di Diritto alla New York University e all’University College di Londra. Tra le sue opere: “Taking Rights Seriously” 1977 (“I diritti presi sul serio”); “Matters of Principles” 1985 (“Questioni di principio”); “Law’s Empire” 1986 (“L’impero del diritto”); “Life’s Dominion” 1993 (“Il dominio della vita: aborto, eutanasia e libertà individuale”); “I fondamenti del liberalismo” con S.Maffettone 1996; “Sovereign Virtue. The Theory and Practice of Equality” 2006 (“Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza”).

Links

Voce Ronald Dworkin sull’enciclopedia Wikipedia
Pagina personale di Dworkin sul sito della New York University
Varie recensioni su Dworkin dal sito SWIF

lunedì 7 gennaio 2008

Scribano, Salvatore, La cosa e la sua ombra. Meditazioni sui dialoghi teoretici di Platone.

Genova-Milano, Marietti, 2007, pp. 282, € 19,00, ISBN 9788821186974.

Recensione di Francesco Verde - 07/01/2008

Storia della filosofia (antica), Filosofia teoretica

Il volume di Salvatore Scribano si compone di quattro meditazioni su quattro dialoghi di Platone considerati “teoretici” dall’autore: il Teeteto, il Sofista, il Politico e il Parmenide. Le prime due meditazioni che si occupano del Teeteto e del Sofista sono più ampie e cospicue.
La prima meditazione è dedicata al Teeteto, un dialogo di centrale importanza nella filosofia di Platone che influenzerà tutte le filosofie di età ellenistica anche dal punto di vista terminologico, in cui il filosofo riflette dialetticamente sull’equazione proposta dall’interlocutore Teeteto: sensazione = conoscenza. L’intero dialogo tenta di ridurre il valore dell’equazione attribuendo alla aisthesis – identificata a partire da 152c con la phantasia – uno statuto assai lontano dall’identificarsi con la salda episteme. Scribano riflette sulle molteplici questioni proposte dal dialogo sottolineando come, ben prima di Kant, Platone abbia compreso che la vera conoscenza non possa esaustivamente esaurirsi nella mera sensazione. Quale misura o metron, si chiede Scribano, potrebbe offrire l’aisthesis (intesa come mutazione somatica) in tutta la sua cangiante e, si potrebbe aggiungere, costante mutevolezza? Le cose, in effetti, esistono perché sono pensate, in quanto solo nel pensiero esse sono; per questo motivo la sensazione ha un raggio di ampiezza senz’altro inferiore al possesso sicuro dell’episteme. Lo statuto della mente, secondo Scribano, è dunque particolarissimo: essa attinge la ousia della cosa pensando un pensiero, pensando in qualche modo se stessa, è pensiero di pensiero (p. 60) laddove il carattere a-prioristico della conoscenza è più che il logos il dia-logos, è il logos sempre in contatto – dia – con un “donde” cui attinge. Secondo l’autore, quindi, Platone riconosce un unico a-priori, il pensiero stesso che si attua come co-scienza incontrando le cose del mondo (p. 62). La ousia, pertanto, è tale solo se esiste una mente che la pensa; eppure l’oggetto del suo pensiero non può che essere se stessa se si ammette che la ousia è sempre pensata e affermata come idea (p. 79). La conoscenza appartiene, quindi, solo agli animali dotati di logos in grado di cogliere la ousia su cui può senz’altro declinarsi attuando il syn/ana-logizein. Come spiegare, allora, la possibilità dell’errore? Ben prima del Descartes della quarta delle Meditationes che si rifugia nella distinzione prima agostiniana poi scolastica malum privationis/malum negationis, Platone si pone la questione. Colui che pensa è in grado di produrre una falsa opinione in quanto, secondo Scribano, l’“è” attribuito nel pensare alla cosa pensata non corrisponde all’“è” della cosa pensata (p. 87); l’errore quindi si ingenera proprio perché la struttura del pensiero rimane nonostante tutto l’oggettiva coincidenza di due oggetti, il ti e l’eteron ti. L’atto di conoscenza rimane dunque fondamentalmente sintetico (synlogismos) e per questo perennemente dischiuso alla possibilità dell’errore; si tratta di un atto che come tale riconosce (affermandolo) to on non potendo far altro che riconoscerlo: nel medesimo atto di pensiero non è possibile il contemporaneo riconoscimento di to on come me on, tuttavia la possibilità del falso continua ad annidarsi perentoriamente nella sintesi che fonda essenzialmente la conoscenza. L’errore, sottolinea Scribano, è il fallimento dell’accordo fra il semeion e l’aisthesis di un ti (p. 97), fra il significato e la sensazione che assume un valore significativo solo nel semeion inciso, per usare la metafora platonica, nel kerinon ekmageion (191c), nella tavoletta cerata intesa, fuor di metafora, come luogo atto alla distinzione fra oggetto e senso. Il vero e il falso si caratterizzano, in ultima analisi, come appartenenti alla sfera del logos (così come lo sarà per Epicuro, probabile conoscitore del Teeteto platonico) in cui la verbalizzazione del logos pone accanto all’oggetto (reale o ideale che sia) qualcosa d’altro. Per Scribano, tuttavia, resta ben fermo che per Platone l’evento dell’atto di pensiero come visione dell’eidos rimanga costitutivamente inscindibile dall’avvento dell’essere delle cose legato per essenza alla loro pensabilità.
La seconda meditazione ha per oggetto il Sofista, ancora un dialogo centrale all’interno della produzione platonica; Scribano si sofferma a ragione sulla parte centrale del dialogo in cui Platone per confutare la “verità” del sofista dotato delle (quasi) invincibili “armi” fornite da Parmenide dovrà necessariamente attuare il celebre “parricidio”. La domanda del dialogo è, forse, la domanda della filosofia, la questione dell’essere; secondo l’esegesi di Scribano il pensiero dell’essere non può che ospitare in se stesso il suo contrario ma in due significati ben distinti. Da un lato, il pensiero dell’essere è quello del non essere o, come preferibilmente afferma Scribano, dell’essere meonico; il to einai è l’“è” di to on ma è l’einai a fornire l’essere al to on e questo accade solo quando l’einai trascende, celandosi e facendo da limite, to on. Dall’altro il pensiero dell’essere ospita il suo contrario considerando to me on come diversamente altro (eteron) da to on, il “suo” molteplice, i ta onta (p. 151). Dopo l’analisi delle riflessioni che Platone dedica agli “amici delle forme”, Scribano fa oggetto della sua meditazione i megista gene, i generi sommi, in particolare il genos dell’eteron. Il parricidio del venerando Parmenide (e con lui la confutazione del sofista) avviene rifiutando l’onni-potenza/presenza dell’identità; il principio di identità – pur rimanendo tale – lascia il posto alla contraddizione ma non ad una contraddizione intesa (quasi pre-hegelianamente) come negazione perentoria o come contraddizione solo formale: l’eteron di Platone non nega to on così come non lo contraddice ma solo lo con-dice (p. 172). La diversa alterità individuata da Platone non si colloca nella contraddizione totale ma dischiude la koinonia dell’essere (che Scribano non si limita a definire Gloria – p. 183); dicendo to on si dice pure to me on: l’alterità dell’eteron non si identifica con il principio di contraddizione ma con il principio di non contraddizione. Platone riconosce accanto all’identico – che ci tiene a non negare – il diverso: per riprendere il Teeteto, il pensiero per consolidarsi come tale esige la presenza di una eterotes che solo nella koinonia con l’identità non si riduce a mera e sterile contraddizione.
La terza breve meditazione ha come oggetto il Politico; Scribano si sofferma sulla metodologia dialettica platonica, sul diakrinein kata genos. La diairesis, la progressiva suddivisione di quei “concetti” che risulteranno caratterizzanti dell’uomo regale, inizia sempre da qualcosa che somigli all’oggetto ricercato: Scribano sottolinea che, di conseguenza, il processo conoscitivo sull’essenza di qualcosa può avere inizio solo se si pone necessariamente un’altra cosa: la molteplicità è sempre precedente l’essenza. Grazie al processo diairetico si giunge ad affermare come la ousia dell’uomo regale non è l’esercizio del potere ma egli è tale paradigmaticamente solo se in possesso di una techne e dunque l’episteme ad essa corrispondente.
L’ultima meditazione concerne uno dei dialoghi più articolarti e complessi dell’intera produzione filosofica di Platone, il Parmenide. L’oggetto dell’intero dialogo che porta il nome della “vittima” del Sofista, si incentra sull’ardua questione della definizione dell’uno rispetto ai molti. A ragione Scribano mette in luce come uno dei problemi centrali della filosofia di Platone consista nella comprensione del rapporto fra unità e molteplicità: la molteplicità può essere considerata una sorta di account costante che alimenta de iure la speculazione platonica sia come antagonista dell’unità sia come (benvoluta) alterità. Le cose esistono in virtù della loro methexis con l’eidos; la vera realtà ontologica di ciò che è può essere riscontrata solo al livello eidetico; lo on della cosa deriva da un livello di realtà sempre precedente e già stato: l’è della cosa deriva dallo stato che rappresenta la ragione – a detta di Scribano, per nulla esaustiva (p. 266) – del suo essere, il suo pensiero.
Tra le quattro meditazioni senza dubbio le prime due si distinguono per una più lucida profondità teoretica; un punto che, ad avviso di chi scrive, andrebbe maggiormente enfatizzato nella seconda meditazione dedicata al Sofista è il seguente. Senz’altro l’eteron rappresenta un megiston genos dell’essere così come è pensato da Platone; a ragione Scribano sottolinea come con l’essere si con-dice il diverso ma forse in questo punto va usata maggiore cautela. Non bisogna credere, infatti, che l’eteron del Sofista sia una declinazione interna dell’essere; l’eteron rimane pur sempre un megiston genos dell’essere. Se l’alterità di cui tratta il Sofista venisse compresa come intrinseca declinazione dell’essere, Platone avrebbe anticipato il pollachos legetai di Aristotele (ma già l’accento che Scribano pone sull’atto di conoscenza come pensiero di pensiero anticipa – almeno terminologicamente – il discorso aristotelico). Aristotele ha sostenuto che l’essere si dice in molti modi; il pollachos è ben comprensibile alla luce delle categorie. Aristotele affermando la multivocità dell’essere non fa altro che declinarlo intrinsecamente, per questo non necessita di alcun parricidio. L’avversione aristotelica per Parmenide e l’eleatismo più che a livello “ontologico” si dibatte sul campo fisico; i primi libri della Fisica, infatti, tentano di confutare tramite l’osservazione e la ragione fisica la nozione eleatica di physis priva di kinesis. Da questo punto di vista Aristotele accusa in un certo qual modo Platone di rimanere, nonostante l’efferato parricidio, eleatico e figlio legittimo di padre Parmenide; secondo Aristotele, Platone non è riuscito a concepire un essere variegato e declinato al suo interno ma è dovuto ricorrere all’eteron che in quanto “diverso” rimane pur sempre esterno all’essere. È vero che l’essere di Platone, in quanto koinonia di gene, si dice in più modi (come moto, quiete, identico, diverso) ma tali modi rimangono ad un livello di esteriore univocità che non è in grado di declinare l’essere dall’interno.
Nel complesso il volume di Scribano – nonostante la fastidiosa presenza di un quantitativo notevole di refusi – è un’opera importante che si distingue per professionalità, competenza argomentativa e capacità teoretica. Il fatto che il volume si presenti in un linguaggio complesso e articolato e i continui e necessari riferimenti in lingua greca presuppongono un lettore dotato di una buona conoscenza della filosofia e dei dialoghi in questione di Platone (oltre che del greco antico). Si tratta, ovviamente, di meditazioni, pertanto un lettore che intenda conoscere per la prima volta questi dialoghi non dovrebbe di certo avvicinarsi a questo volume: l’approccio dell’autore non è né didattico né storiografico ma genuinamente teoretico.
A Scribano va il merito di aver riportato al centro della grande editoria la filosofia di Platone meditando su alcuni dialoghi decisivi per il pensiero occidentale che a distanza di oltre due millenni, nonostante l’affastellarsi di continue esegesi, non smettono di essere oblativi di riflessione. D’altronde se la filosofia di Platone è il logos del mythos, parabola dell’ineffabile (p. 148), Scribano ha certamente contribuito a dare voce a ciò che non si può dire.

Indice

Prefazione
Come chi ha il mal di mare
La cosa e la sua ombra
Il tempo della vita umana
La parabola dell’esistente


L'autore

Salvatore Scribano (Ragusa 1948) ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università di Catania e la licenza in Teologia Dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana. Ordinato sacerdote nel 1981, ha esercitato il suo ministero presso il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani nel settore del dialogo con le chiese ortodosse slave, e dal 1992, rientrato in diocesi, a Catania.