venerdì 20 novembre 2009

Levinas, Emmanuel, Trascendenza e intelligibilità.

trad. it. di Franco Camera Genova-Milano, Marietti, 2009, pp. 89, € 12, ISBN 9788821188183.
[Ed. or.: Transcendence et intelligibilité. Suivi d’un entretien, Labor et Fides, Genève 1984].

Recensione di Matteo Sozzi – 20/11/2009

Filosofia della religione

Il breve volume raccoglie una conferenza tenuta da Levinas nel 1983 all’Università di Ginevra e il contenuto di una conversazione seguita il giorno seguente dall’autore con il prof. Halpérin e altri interlocutori cattolici, protestanti ed ebrei. Conclude il libro una Postfazione di Franco Camera.

Questo testo appare un documento prezioso per chi si avvicina ad uno dei pensieri maggiormente rilevanti e a tratti anche provocatori del secolo passato. Si tratta infatti di due scritti, una conferenza e una conversazione, in cui l’autore affronta i temi centrali della sua riflessione con uno stile e un approccio che nascono dall’esposizione orale e che rendono la lettura nel complesso agevole, benché siano esplicitate le dense questioni di fondo della filosofia levinasiana.

Nella Conferenza, in particolare, Levinas si confronta direttamente con la concezione del sapere tipica dell’ontologia classica e della modernità da Cartesio a Kant ad Hegel e con la tradizione fenomenologica in particolare husserliana, per proporre all’interno dell’orizzonte di pensiero della modernità le tematiche che lo hanno reso celebre: l’alterità, la trascendenza, la possibilità di una intelligibilità per l’assoluto. Quale pensabilità è data per l’Altro da sé, mantenuto nella sua differenza, all’interno di una prospettiva filosofica che riduce i contenuti del pensiero ad immanenza? E’ sufficiente riconoscere kantianamente l’aporia insormontabile di un pensiero che voglia ricercare la Verità al di là del dato sensibile, oltre i limiti di ciò che può essere ridotto ad oggetto del sapere e accontentarsi della fine di ogni possibile metafisica? Chiaramente Levinas indica tracce per un pensiero della differenza, capace di apertura nei confronti di contenuti che superino le oggettivazioni della coscienza e l’adeguazione del pensiero al pensato. Conseguentemente il filosofo pone in discussione la stessa concezione del pensiero, che non può essere ridotto a visione, intenzione, volontà. In questa prospettiva, assumono valore e rilevanza i momenti in cui lo stesso pensiero moderno evidenzia i propri limiti: la pensabilità dell’incontro con l’altro in quanto tale, non oggettivato, l’idea di infinito, l’apertura innegabile del pensiero a ciò che lo trascende. Momento centrale di questa riflessione è la rivendicazione della decisività di una analisi fenomenologica e di una autentica ermeneutica priva di pregiudizi dell’incontro dell’uomo con l’altro da sé, salvaguardato nella sua differenza. La riflessione si mantiene rigorosamente filosofica: il problema è l’intelligibilità di questa trascendenza, differenza dal Medesimo, a partire dalle esperienze in cui essa viene sperimentata e non ridotta a mero oggetto della coscienza conoscente. Tra questi luoghi, primario è quello dell’etica in cui si dà concretezza alla relazione tra Me e l’Altro, mantenuto nell’originaria irriducibilità al soggetto dell’essere altro, e quello dell’incontro con l’Infinito, la trascendenza, cui si rinuncia di attribuire significati e valenze puramente immanenti nel rispetto della assolutezza.

Oggetto fondamentale della Conversazione è quindi proprio la possibilità del darsi all’idea del trascendente, senza ricondurlo a categorie immanenti, come quelle di oggetto, presenza o essere. La razionalità, infatti, per Levinas è legata all’apertura di un senso che non può essere ridotto unicamente alla sfera del sapere, che implica di per sé l’oggettivazione dell’altro, come testimonia la filosofia moderna. Ci sono, al contrario, esperienze che aprono al sensato al di là del sapere dell’io, primo tra tutti il rapporto etico con l’altro, l’incontro con il volto dell’altro, per usare una formulazione tipica di Levinas. In questa prospettiva viene ripresa la tradizione ebraica all’interno della quale la concezione dell’intelligibilità appare liberata dalle rigidità della logica formale e si offre ad una apertura all’ineffabile attraverso un linguaggio che spesso indica senza la presunzione di possedere il proprio contenuto. Levinas sembra offrire all’intelligibilità mete irraggiungibili nella misura in cui la razionalità voglia condurre ad oggetto immanente a sé, ma possibili a partire da un’ermeneutica delle esperienze in cui viene sperimentata la trascendenza dell’altro.

Attraverso la lettura di queste pagine il lettore viene così a essere introdotto all’interno della filosofia della differenza di Levinas e viene invitato a confrontarsi con le questioni che l’autore ha posto al pensiero nelle sue opere principali, certamente ben più impegnative della presente: la critica al pensiero della totalità, tipico dell’ontologia classica e del sapere moderno che riducono l’altro ad oggetto immanente alla propria indagine, l’appello etico che proviene dal volto dell’altro che obbliga ad un decentramento verso l’altro da sé, l’apertura al differente all’interno di relazioni di responsabilità, il recupero dell’ebraismo e dell’ermeneutica all’interno di questa indagine delle tracce dell’infinito nelle esperienze umane; in definitiva, la sfida filosofica per una affermazione di ambiti di significatività differente rispetto alle categorie oggettivanti della razionalità legata alla logica formale.

Indice

Prefazione
Trascendenza e intelligibilità
Note del curatore
Postfazione di Franco Camera
Bibliografia


L'autore

Emmanuel Levinas (1905-1995) è una delle figure di maggiore rilevanza della filosofia del Novecento. Nasce in Lituania da famiglia ebraica, circostanza che lo porterà ad una esperienza di prigionia sotto il regime nazista. Studia in Germania dove entra in contatto con Husserl e Heidegger e in Francia dove insegna presso diverse Università prima di essere chiamato alla Sorbona; conosce Sartre, Derrida, Marcel e tanti altri protagonisti del pensiero novecentesco. Vastissima la sua produzione filosofica, di cui fondamentali sono i testi divenuti celebri Totalità ed infinito e Altrimenti che essere o al di là dell'essenza e Nomi propri. Particolare, per il tema dell'ebraismo, è Quattro lettere talmudiche.

mercoledì 18 novembre 2009

Williams, Bernard, Il senso del passato. Scritti di storia della filosofia.

Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 430, € 45,00, ISBN 9788807104503.
[Ed. or.: The sense of past. Essays in the History of Philosophy, Princeton University Press, Princeton 2006, trad. it. di Cesare De Marchi]

Recensione di Simon Francesco Di Rupo – 18/11/2009

Storia della filosofia

Il testo in esame è una raccolta postuma di saggi scritti da Bernard Williams inerenti alla storia della filosofia. A dispetto di ciò che si possa presumere di un testo del genere, non ci si trova di fronte a un’elencazione manualistica dei passaggi chiave della storia del pensiero unanimemente riconosciuti, bensì innanzi a una sequenza di saggi in grado di testimoniare con precisione l’approccio di Bernard Williams alla storia della filosofia e, di conseguenza, alla filosofia stessa.
Il legame che lega l’una all’altra è il perno della posizione del filosofo inglese, il quale attua una separazione fra un modello di storia delle idee e uno di storia della filosofia. La prima, di fatto, è assimilabile, grosso modo, al concetto che ci viene tradizionalmente tramandato, ossia un modello di storia delle idee, come Williams stesso la chiama, che privilegi un tono contestualistico della filosofia di ogni tempo, in cui la formazione di un pensiero è irrinunciabilmente legata al contesto storico-sociale e storico-filosofico del suo tempo. La storia della filosofia che invece Williams ha in mente cambia prospettiva dal momento in cui prende coscienza dell’importanza di affrontare importanti autori del passato “filosoficamente”. Sebbene la labilità del confine fra i due modelli sia chiara a Williams, la portata del suo contributo si gioca fortemente su questo terreno, in cui, a scapito di una sequenza di saggi che tenga esclusivamente conto della linearità storica fra gli autori, si favorisce uno sguardo su grandi figure della filosofia che abbia costanti di approccio e, soprattutto, di stimoli per il pensiero dell’uomo di oggi – di qualunque “oggi”.
L’interesse che il filosofo inglese, lungo la sua ricca esperienza di lavoro, di pensiero e di vita, ha manifestato per la filosofia morale e i suoi relativi problemi per l’uomo di qualunque epoca, in questo senso, può essere considerato il leitmotiv anche di quest’opera; si considerino in proposito l’attenzione e l’equilibrio equivalenti con i quali considera le riflessioni sulla moralità dell’uomo in Platone, Aristotele e Nietzsche. In tale prospettiva, infatti, possiamo sostenere che il lavoro di Williams miri al passato richiamandone la sua continua attualità, più che la sua partecipazione ad una tradizione consolidata da rinchiudere in una “giusta sepoltura” archivistica.
Del resto è proprio il “consolidato” in quanto tale ad essere più e più volte sotto torchio nell’indagine del nostro autore, il quale, con uno spiccato antifondazionalismo, tende a mostrare una chiara inclinazione verso il pensiero di autori spiccatamente antisistematici (cfr. Nietzsche, Wittgenstein) o verso un tipo di lettura asistematica a sua volta di autori notoriamente più legati a una forma di razionalità teoreticamente organizzata in un corpus (cfr. Aristotele, Descartes).
Una scelta di questo tipo risponde all’esigenza che bene Salvatore Veca vede nella sua prefazione all’opera,, quando contestualizza l’opera williamsiana oltre le tendenze di filosofi “delusi” che “assegnano alla filosofia un singolare primato rispetto alla conoscenza scientifica (Prefazione, p. XVIII): una filosofia che possa riconoscersi come indagine critica sul senso della realtà di chi filosofa nel suo tempo e per il suo tempo non può fare a meno della coscienza della sua incompletezza, come anche della vivibilità intellettuale, di questa incompletezza; ed è il pregio complessivo che Veca riconosce a Williams sintetizzando con “responsabilità intellettuale, disciplina metodica e serietà morale” (Prefazione, p. XIX) il concetto di Williams che si è legittimamente fatto attraverso la lettura di questo come altri importanti lavori del filosofo inglese, Vergogna e necessità (1993) su tutti.
La “storia della filosofia fatta filosoficamente” consiste proprio in questo equilibrio filosofico che, per reperire soddisfazione per la domanda di senso del proprio tempo, recupera il senso del passato come imprescindibile stimolo al legame con l’umanità di ogni tempo e, necessariamente, alla propria umanità.
È così che, ad esempio, introduce Platone e Aristotele dichiarando: “sarà la forza e la profondità delle loro argomentazioni specifiche a ispirare ammirazione e interesse, più che l’ampiezza e ambizione dei loro sistemi” (p. 12). Un saggio di questo approccio lo si riscontra direttamente quando Williams non può né vuole soffermarsi sui presocratici per concentrare la sua ammirazione e il suo interesse, appunto, su Platone e Aristotele: non è per caso che i saggi che ne compongono l’illustrazione vertano su “la costruzione della bontà intrinseca in Platone”, “Platone contro l’immoralista”, “l’analogia dello stato e dell’anima nella repubblica di Platone”. A Williams interessa la lezione di vita intellettuale e se nel caso di Platone, conclude riconoscendo a questi le più grandi doti del filosofo: “forza e profondità intellettuali; padronanza della scienza; senso della negatività non meno che della creatività umane; ampiezza d’orizzonte e immaginazione fertile; riluttanza ad accontentarsi di sicurezze superficiali” (p. 199), nel caso di Aristotele Williams adopera proprio questi strumenti platonici per dissentire da Aristotele stesso (coraggiosamente!) come ad esempio nel caso della tematizzazione della pleonexìa (l’avidità), la quale non può essere, secondo Williams, la motivazione principe della disposizione umana all’ingiustizia: “chi è pleonettico di certe cose per solito non lo è di tutte […] chi segue le orme della trattazione aristotelica sbaglia nel cercare altrove che in questa stessa radicata indifferenza [per la giustizia, NdA] il vizio dell’ingiustizia e, dopo averlo cercato, nell’individuarlo in tali motivazioni” (p. 237). La preferenza di Williams per Platone piuttosto che per Aristotele è nota anche all’amico e collega Myles Burnyeat, autore dell’Introduzione al volume, in cui, oltre questo e altri aneddoti sull’anticompartimentismo dei saperi professato da Williams, sottolinea come questo sia associato a un distacco del nostro autore nei confronti di divisioni come “filosofi anglofoni” e “continentali”, verso cui l’ironia pungente di Williams riportata da Burnyeat è emblematica: “questa classificazione ha sempre comportato una contaminazione piuttosto bizzarra di metodologia e topografia, come se si volessero classificare le automobili in automobili a trazione anteriore e automobili giapponesi” (Introduzione, p. XXX). Efficace ironia ai margini del volume che noi invece in questa sede vogliamo premiare per acume e brillantezza.
Cosa invece per nulla ai margini dell’opera è la presenza più che frequente della figura di Descartes: più volte citato anche nei saggi sulla filosofia greca, il filosofo francese noto per aver aperto le porte della modernità ha occupato importante parte dello studio filosofico di Williams nella sua vita così come in questo volume. Del resto, quell’equilibrio mediano fra scetticismo e “serietà morale” cui prima ci si riferiva pensando alla stima di Veca per Williams, non poteva essere da questi stimolata che da una figura filosofica e intellettuale come quella di Descartes.
Di questi Williams apprezza in particolar modo il legame fra dubbio iperbolico che “non solo consente per la prima volta di supporre che qualsiasi percezione sensoriale possa essere illusoria, ma cancella anche il passato e Dio; inoltre getta ombra sull’attendibilità dei procedimenti puramente intellettuali” (p. 256). Aspetto che, se da un lato, lo affascina similarmente nel caso del Nietzsche che citerebbe “ogni venti minuti” (cfr. O'Grady, Jane. Professor Sir Bernard Williams, The Guardian, June 13, 2003), da un altro lo porta alla massima considerazione del Descartes che, nonostante questo dubbio incedente, non rinuncia alla scienza, poiché “il suo interesse riguarda in sostanza una pratica di chiara concentrazione intellettiva” (p. 262), punto cruciale della tensione filosofica di Williams lungo tutto il testo. Cruciale al punto di rendere, detto in onestà, i saggi su Hume, Sidgwick, Collingwood e Wittgenstein degli affluenti. Nel caso di Wittgenstein, è il caso di dirlo, il piccolo saggio che lo riguarda pare il meno felice, senza particolare verve e senza particolare collegamento con il resto, se non per la scelta di un filosofo notoriamente innovativo. Se nel caso di Sidgwick, Williams si muove all’interno della praticabilità della teoria in ambito etico, nel caso di Hume elogia l’antifanatismo che contraddistingue questi in merito al problema della religione. Nel caso di Collingwood, più semplicemente, troviamo un saggio che ha il tono di un debito e di una resa d’onore nei confronti di un maestro che Williams riconosce, soprattutto sotto l’aspetto della scrittura filosofica che impone “una certa responsabilità al lettore, una sorta di pazienza” (p. 370). Pazienza e responsabilità che Williams adopera con maggiore intensità e con maggiore interesse per noi lettori nel caso di Nietzsche.
Il Nietzsche che citerebbe ogni venti minuti è quello dell’impostazione che consente di “individuare un eccesso di contenuto morale nella psicologia richiamandosi in primo luogo a ciò che un interprete onesto, acuto e non ottimistico comprenderebbe della condotta umana” (p. 326). Se ciò ci suggerisce l’impressione che l’aspetto più eminentemente teoretico (e.g. Il concetto dell’“eterno ritorno”) di Nietzsche non trovi grande spazio nelle riflessioni di Williams, di certo questo passaggio, invece, accomuna e lega il tipo di interesse di Williams per Platone, Descartes e Nietzsche, come si può evincere da quanto sin qui detto. In questo quadro la profonda riflessione del capitolo 20 “La psicologia morale minimalistica di Nietzsche” sul ressentiment trova una coerenza che va riconosciuta in questa ottica di continuità fra i tre pensatori sotto il profilo dell’intellettualità indefessa e anticonvenzionale, ottica che ci permettiamo di ritenere il fulcro di questa raccolta di saggi e di quel senso del passato che Williams intende rispolverare nel sincero amore e interesse per l’umanità riflessiva, inaggirabile, valutativa quanto avalutativa sempre nella cifra della coscienza dei propri limiti come della propria creatività, in ogni tempo e per ogni tempo; interesse e amore dai quali ogni filosofo, ogni storico della filosofia – e in generale ogni uomo – non può sottrarsi soprattutto oggi, in cui la povertà di domanda e di reperimento di senso rischiano di non essere nemmeno più una posa post-moderna, ma una vertiginosa realtà di fronte alla quale un lavoro come quello di Bernard Williams può rappresentare una fra le pertinenti e preziose opportunità di rivalsa di cui l’uomo contemporaneo può godere.

Indice

Premessa di Patricia Williams 
Prefazione all’edizione italiana di Salvatore Veca 
Introduzione di Myles Burnyeat 
I GRECI IN GENERALE 
L’eredità della filosofia greca 
Le trachinie: narrazioni, pessimismo, etica 
Capire Omero, letteratura, storia, e antropologia locale 
SOCRATE E PLATONE 
Giustizia Pagana e amore cristiano 
Introduzione al Teeteto di Platone 
Platone contro l’immoralista 
L’analogia dello stato e dell’anima nella Repubblica di Platone 
La costruzione della bontà intrinseca in Platone 
La teoria dei nomi di Cratilo e la sua confutazione 
Platone: l’invenzione della filosofia 
ARISTOTELE 
Agire come agisce l’uomo virtuoso 
Aristotele sul bene: un profilo formale 
La giustizia come virtù 
Ilemorfismo 
DESCARTES 
L’uso dello scetticismo in Descartes 
Saggio introduttivo alle Meditazioni di Descartes 
Descartes e la storiografia filosofica 
HUME 
La religione in Hume 
SIDGWICK 
Il punto di vista dell’universo: Sidgwick e le ambizioni dell’etica 
NIETZSCHE 
La psicologia minimalistica di Nietzsche 
Introduzione alla Gaia Scienza 
Ci sono molti occhi diversi 
Sofferenza insopportabile 
COLLINGWOOD 
Saggio su Collingwood 
WITTGENSTEIN 
Wittgenstein e l’idealismo


L'autore

Sir Bernard Arthur Owen Williams (Westcliff-on-Sea, 1929 – Roma, 2003) è stato un filosofo britannico. Professore Knightbridge di filosofia all'Università di Cambridge per più di un decennio e Rettore del King's College (Cambridge) per quasi altrettanto, Williams divenne noto a livello internazionale per il suo tentativo di far tornare alle origini lo studio della filosofia morale: dalla storia alla cultura, dalla politica alla psicologia e, in particolare, ai Greci. A Cambridge dal 1979 fino al 1987, quando si trasferì presso l'Università della California a Berkeley. Ritornò in Inghilterra nel 1990 per diventare Professore della Cattedra White di Filosofia Morale ad Oxford, una carica che occupò fino al 1996, quando fu nominato Professore di Filosofia a Berkeley. Rimase ad Oxford fino a quando morì di cancro. Piuttosto curioso e importante nella ricostruzione del personaggio extra accademico ricordare che Williams presiedette e fece parte di un numero di Commissioni Reali e comitati governativi. Negli anni settanta, presiedette la Commissione dell'Oscenità e della Censura dei Film. Si occupò con profondo interesse anche di femminismo e pornografia, droghe e gioco d’azzardo, confermando la sua inclinazione per un sapere volto anche alla pratica mondana degli aspetti morali.

Denton, Derek, Le emozioni primordiali. Gli albori della coscienza.

Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 350, € 35,00, ISBN 9788833919782.
[Ed. or.: The primodial emotions. The dawning of consciousness, Oxford University Press, Oxford-New York 2007]

Recensione di Valentina Questa - 18/11/2009

Psicologia

Il testo di Denton, relativamente al tema, ai metodi della ricerca e al contesto epistemologico di fondo, trova la sua naturale collocazione all’interno del programma di ricerca interdisciplinare offerto dalla moderna scienza cognitiva. L’autore, fisiologo di formazione e studioso di istinti animali, affronta il complesso tema della natura della coscienza da un punto di vista strutturale e funzionale (con riferimento ai correlati neurofisiologici del fenomeno), ma soprattutto genetico, ricostruendone le condizioni di possibilità sia all’interno di possibili scenari evoluzionistici del passato, sia, nell’ottica continuista della teoria dell’evoluzione, attraverso lo studio del comportamento di specie animali differenti in specifiche nicchie ecologiche.

Il libro si compone di tre parti che, dal punto di vista sia concettuale che argomentativo, non mostrano confini marcati, poiché le affermazioni, i concetti, gli esempi sperimentali e gli autori di riferimento ricorrono in tutto il testo, contestualmente rivisitati. Una parte del testo è dedicata all’enunciazione dell’ipotesi teorica dell’autore e ad una ricostruzione dell’attuale dibattito sulla coscienza. Una seconda traccia dell'esposizione è costituita da una consistente mole di dati e prove sperimentali, sia di tipo etologico che neuroscientifico. Inoltre, prevalentemente nella terza parte, l’autore prende in considerazione i più tradizionali concetti di emozione espressi dalla recente letteratura, con riferimento soprattutto a Damasio, alla luce della propria teoria.
L’ipotesi formulata da Denton rintraccia i primi segni dell’esperienza cosciente, la cosiddetta coscienza primaria, nella manifestazione di una gamma di istinti primordiali cablati geneticamente e con un alto valore di sopravvivenza, quali la fame, la sete, l’appetito per i sali minerali, il bisogno d’aria, le sensazioni di variazioni della temperatura corporea, la necessità impellente di sonno dopo un periodo di deprivazione, il desiderio sessuale e il dolore. Egli estende l’etichetta di “emozioni” a tali stati della mente, definiti come forme impellenti di eccitamento accompagnate da un’intenzione compulsiva, riprendendo un concetto già espresso da William James nei Principi di psicologia. Secondo questa idea esisterebbe un legame inscindibile, determinato geneticamente, tra istinto ed emozione, di modo che un qualsiasi oggetto che risvegli un istinto attiva una qualche forma di emozione, a tal punto che i due concetti sfumano l’uno nell’altro. E’ l’elemento qualitativo-eccitatorio a distinguere gli istinti dall’attività riflessa, che, al contrario dei primi, può essere descritta come un fenomeno puramente meccanico.
Le emozioni primordiali sono elicitate da un sistema di enterocettori (o recettori chimici interni) implicati nella regolazione delle funzioni vegetative attraverso l’attivazione di aree e sistemi funzionali cerebrali filogeneticamente antichi che comprendono le regioni del cervello basale, con particolare riferimento al sistema attivatore reticolare (che, situato nel mesencefalo, regola il livello di eccitabilità dei neuroni della corteccia) e il cosiddetto sistema limbico. Quest’ultimo presiederebbe ad una serie di funzioni emozionali e vegetative attraverso l’attivazione di strutture subcorticali (amigdala, setto, diencefalo e parti dello striato) e corticali (giro del cingolo, insula, ippocampo e giro paraippocampale). Alcuni autori fanno risalire la sua evoluzione ad un periodo antecedente alla comparsa dei vertebrati amnioti, cioè mammiferi, uccelli e rettili diapsidi (dotati di un cranio con due finestre temporali e due archi ossei, come le lucertole, i serpenti e i coccodrilli), i cui embrioni sono avvolti da una membrana, l’amnio, che contiene liquido amniotico.
Il circuito limbico, il cui nome fu coniato da Broca, fu individuato nelle sue funzioni- secondo la ricostruzione di Joseph LeDoux- da James Papez che, nel 1937, ipotizzò due vie principali di elaborazione degli stimoli sensoriali, una via dei pensieri, che giunge alla neocorteccia attraverso il talamo, e una via dei sentimenti che, attraverso il talamo, invia gli impulsi all’ipotalamo (responsabile delle risposte fisiche), al talamo anteriore, al cingolo (che riceve feedback dalla corteccia sensoriale), all’ippocampo e, nuovamente, all’ipotalamo. MacLean (1952), vi includerà amigdala, setto e corteccia prefrontale.
Sebbene Denton, in linea con la tradizione anatomo-funzionale delle neuroscienze, accetti in linea di principio e utilizzi il concetto di “sistema limbico”, troviamo nel libro un riferimento alle critiche che LeDoux muove all’utilizzo convenzionale di tale concetto, che qui vale la pena di riportare, facendo direttamente riferimento al suo testo, Il cervello emotivo, che tratta dell’argomento. LeDoux muove da un’affermazione di carattere generale molto interessante secondo cui la tradizionale distinzione tra parti anatomicamente antiche e recenti della corteccia risulterebbe impossibile da stabilire e sarebbe contraddetta da una serie di ricerche empiriche dei primi anni 70 del XX secolo che dimostrerebbero la presenza, in animali privi di neocorteccia, di aree cerebrali corrispondenti ad essa da un punto di vista sia strutturale che funzionale, anche se localizzate diversamente. (Il tema non viene ulteriormente approfondito da LeDoux ma è di fondamentale importanza nell’ambito degli studi che si occupano della genesi delle funzioni mentali e dell’attribuzione di capacità mentali alle varie specie animali).
LeDoux prosegue negando l’esistenza del sistema limbico, in base a due ordini di considerazioni: se definito con riferimento alla centralità e al grado di connettività con l’ipotalamo, studi ulteriori rilevano la complessità delle connessioni di questa struttura con tutti i livelli del sistema nervoso, compresa la neocorteccia; relativamente all’argomento della specificità funzionale legata alle funzioni emotivo-viscerali, LeDoux rileva come alcune aree del sistema limbico, come l’ippocampo, i corpi mammillari e il talamo anteriore risultino principalmente implicate nei processi cognitivi (lesioni in queste aree possono comportare deficit di memoria cosciente o dichiarativa), mentre, come abbiamo sostenuto in precedenza, altre aree situate nel midollo allungato, quindi non appartenenti al sistema limbico, svolgono importanti funzioni nella regolazione autonoma. Gli studi di neuroimaging effettivamente mostrano l’attivazione di specifici circuiti neurali dell’area limbica contingentemente ad alcune specifiche esperienze emozionali elicitate nei soggetti sperimentali ma ciò, afferma LeDoux, lungi dal dimostrare l’esistenza di un sistema limbico, rivela, tutt’al più, quella di specifici sistemi funzionali, il che può legittimamente far sorgere il dubbio se sia corretto parlare di un sistema emotivo generale o se non sia più lecito riferirsi a specifici sistemi emotivi, ciascuno legato ad una funzione di sopravvivenza.
Tale questione rappresenta un nodo centrale nel dibattito interdisciplinare sulle emozioni ed è sottolineata anche da Denton che passa in rassegna una serie di definizioni ufficiali del termine “emozione” che mostrano l’incredibile difformità dei punti di vista sull’argomento, che verte generalmente sulla natura delle cosiddette emozioni primarie o, tutt’al più, sociali. Denton non cerca altre definizioni, ma propone un’estensione del termine a nuovi oggetti, le motivazioni biologiche di base, qualitativamente connotate, che guidano la condotta di individui in possesso di un sistema nervoso non necessariamente attrezzato a svolgere operazioni cognitive complesse, costituendone le condizioni di sviluppo.
Nel discutere la sua ipotesi Denton prende in esame principalmente le teorie sulla coscienza di alcuni autori come Edelman, Panksepp, Damasio, oltre al riferimento costante a James, che critica, pur nell’ambito di una comune epistemologia di riferimento. Poiché Denton condivide sia con James sia con Damasio la centralità del concetto di emozione come ipotesi genetico-esplicativa del fenomeno della coscienza, qui verranno presi in considerazione soprattutto i primi due approcci teorici (Edelman e Panksepp), la cui discussione può consentire una maggiore comprensione del punto di vista dell’autore.
Nella teoria di Edelman il focus dell’esperienza mentale cosciente risiede nella capacità di categorizzazione percettiva del sistema nervoso dei vertebrati che consente all’individuo, anche in assenza del linguaggio o di un senso del sé che non sia molto limitato, di costruire una scena integrata del presente. Ciò avviene attraverso la codifica percettiva degli input provenienti dal mondo esterno e la capacità di rievocazione del sistema di valori attribuito agli stimoli stessi attraverso l’esperienza, da cui la definizione di “presente ricordato” per descrivere un processo giustificato, da un punto di vista neurofisiologico, da sottosistemi neuronali fortemente integrati all’interno del sistema talamocorticale. Tale processo implica sia l’attivazione di eterocettori o recettori a distanza e, di conseguenza, l’attivazione di aree della neocorteccia che inviano le informazioni al talamo attraverso una via discendente, sia la preesistenza di una serie di abilità cognitive che consentono la valutazione, non necessariamente consapevole, della situazione contestuale in cui il soggetto viene a trovarsi. Tali abilità implicano, perciò, l’attivazione di parti relativamente recenti della corteccia e uno sviluppo cognitivo complesso (che necessiterebbe, a sua volta, di essere spiegato) che presuppone uno stadio dello sviluppo de sistema nervoso piuttosto avanzato.
Le emozioni primordiali, dal punto di vista evolutivo, compaiono prima, sono geneticamente determinate, comportano l’attivazione delle parti filogeneticamente più antiche del sistema nervoso e implicano un impulso all’azione che potrebbe giustificare lo sviluppo di forme più complesse di intenzionalità. Ciò, secondo alcuni studiosi, trova una giustificazione storico-evolutiva nel momento in cui il passaggio dalla vita nell’acqua ad una sulla terraferma incrementa lo sviluppo di sequenze comportamentali motivate e piani d’azione più complessi legati alla ricerca del nutrimento. Ad uno stadio successivo, emozioni primordiali e categorizzazione percettiva sono coevolute in funzione della sopravvivenza attraverso il meccanismo della selezione, favorendo l’evoluzione graduale della struttura cerebrale in direzione rostrale e, parallelamente, lo sviluppo di una vita mentale ricca emotivamente e cognitivamente complessa, di cui le forme più sofisticate di autoconsapevolezza, empiricamente evidenti nelle grandi scimmie, oltre che negli esseri umani, ci offrono una testimonianza.
La genesi evolutiva della coscienza si fonda, secondo Panksepp, in contrasto con Edelman, nell’area del tronco encefalico, sede dei primi sistemi motori organizzati che genererebbero gli stati di coscienza affettivi. L’ipotesi trae conforto sia dai casi dei pazienti split-brain che da studi su pazienti colpiti da ictus che hanno subito la lesione di parti rilevanti della superficie corticale. Tranne rare eccezioni, in questi casi i soggetti conservano sia la coordinazione motoria che un buon livello di coerenza individuale. Perciò Panksepp situa il centro del SELF (simple ego life form) a livello subcorticale e le condizioni del suo sviluppo ad uno stadio evolutivo precoce, a partire da processi motori organizzati in modo riflesso e via via sempre più orientati in senso affettivo e cognitivo. Ma, obietta Denton, le risposte motorie riflesse, pur evolvendo verso forme più complesse, sono inizialmente prive di intenzionalità e non riescono a giustificarne la comparsa in quanto non comportano alcuna sensazione cosciente. Al contrario, secondo l’autore, è la sensazione impellente a causare l’intenzione compulsiva verso l’oggetto. Prima è comparso uno stato affettivo di bisogno a segnalare una prima forma di coscienza (ad esempio, nel caso del dolore, il valore di sopravvivenza di tale stato mentale è inevitabilmente legato ad una sua percezione cosciente) e poi, solo ad un certo stadio del percorso evolutivo, l’attività motoria è divenuta intenzionale. Un riscontro empirico alla tesi di Denton è offerto dalla sindrome “locked in” in cui, in seguito alla lesione dell’area pontina anteriore, il soggetto, anche se paralizzato (conserva solo la capacità di muovere verticalmente gli occhi) rimane cosciente. Al contrario, la lesione della parte posteriore della regione del ponte, con la distruzione delle vie sensoriali ascendenti e del sistema attivatore reticolare, causa uno stato di coma, quindi una totale perdita di coscienza.
In conclusione, l’intenzione di Denton di applicare la definizione di “emozioni” ad una categoria naturale, costituita da una serie di motivazioni biologiche con una componente soggettiva comuni ad esseri umani e animali non umani, per rendere conto della comparsa delle prime forme di esperienza cosciente, anche se sostenuta talvolta da argomentazioni non proprio inattaccabili sul piano concettuale, sembra feconda dal punto di vista della proiettabilità induttiva e passibile di indagine empirica, economica, coerente e conforme ai principi della teoria evoluzionistica e particolarmente convincente rispetto alle teorie alternative precedentemente discusse.

Indice

Prefazione di Jean- Pierre Changeux 
Ringraziamenti 
PARTE PRIMA. L'IPOTESI 
1. Introduzione. L'idea e il contesto 
2. La definizione di coscienza e di autoconsapevolezza 
3. La natura della coscienza secondo Searle, Smith, Mountcastle e Sperry 
4. La coscienza negli animali 
5. L'appetito per il sale e la mente: l'intenzione negli elefanti cavatori di sale 
PARTE SECONDA .ANALISI SPERIMENTALE 
6. La filogenesi e la comparsa della coscienza primaria. La teoria di Edelman 
7. Una teoria basata sugli enterocettori per l'origine della coscienza primaria 
8. La fisiologia di un'emozione primordiale: la sete 
9. Neuroimaging funzionale della sete 
10. Neuroimaging di altre emozioni primordiali e di emozioni di secondo livello indotte dai recettori a distanza 
PARTE TERZA. FUNZIONI COGNITIVE SUPERIORI ED EMOZIONI 
11. La coscienza di ordine superiore: struttura anatomica e funzioni fisiologiche correlate 
12. La biologia dell'emozione 
Glossario 
Bibliografia 
Indice dei nomi 
Indice degli argomenti 
Fonti delle immagine


L'autrice

Derek Denton, professore all'università di Melbourne, si occupa di istinti animali e di fisiologia integrativa. E' stato il fondatore dello Howard Florey Institute, il più importante centro di ricerca australiano sul cervello. Tra le sue pubblicazioni, The Hunger for Salt. An Anthropological, Physiological and Medical Analysis (1983) e The Pinnacle of Life. Consciousness and Self-Awareness in Humans and Animals (1993).

domenica 15 novembre 2009

Kurotschka, Vanna Gessa - de Luzenberger, Chiara (a cura di), Immaginazione etica interculturalità.

Milano, Mimesis, 2008, pp. 273, € 16,00, ISBN 9788884838551.

Recensione di Lidia Gasperoni – 15/11/2009

Etica, Estetica

L’immaginazione può svolgere un ruolo centrale nella riflessione etica? Questa è la questione fondamentale intorno alla quale si articola l’insieme dei saggi che compongono questo volume collettaneo edito da Vanna Gessa Kurotschka e Chiara de Luzenberger. Il volume presenta una serie molteplice di punti di vista che hanno tutti come filo conduttore la possibilità di concepire un paradigma immaginativo in etica che affronti innanzitutto due questioni: la prima riguarda il carattere creativo della facoltà dell’immaginazione; la seconda i vincoli del suo impiego e la comprensione delle sue produzioni.
I diversi contributi esplorano questa problematica da prospettive metodologiche e concettuali differenti definendo così tre aree tematiche che corrispondono alle tre parti del volume. Nella prima parte sono oggetto di analisi quelle filosofie che hanno posto a fondamento dei processi cognitivi, deliberativi e di significazione umana la facoltà dell’immaginazione. In particolar modo vengono indagate le radici fisiche dell’immaginazione e in che modo essa possa essere vincolata dalla memoria, alla luce di quanto sostenuto da Aristotele, Vico e Kant. Nella seconda parte del volume sono trattate invece quelle prospettive filosofiche del ’900 che hanno affermato l’autonomia dell’immaginazione nei processi cognitivi con conseguenze importanti per la riflessione etica, vale a dire Husserl, Heidegger e Bloch. Infine la terza parte del volume si occupa, in ambito contemporaneo, della relazione tra concettualità, immaginazione ed etica discutendo questioni legate alla neurologia, alla neurobiologia e all’interculturalità. Il volume si conclude con un’appendice sulle relazioni tra divinazione, estasi e immaginazione.
A partire dunque dall’importanza dell’immaginazione per la capacità di deliberare, il primo contributo di Elisabetta Cattanei (Melanconia, deliberazione e phantasia. Stati patologici e fisiologici dell’“immaginazione deliberativa” in Aristotele), indaga quegli stati patologici e fisiologici che per Aristotele rendono l’uomo incapace di deliberare in modo corretto. Questo è il caso del melanconico il quale “quando non riesca a mitigare gli eccessi del suo male, si trova privo del potere, somatico e psichico allo stesso tempo, di trattenere immagini ordinate e di collegarle in serie” (p. 52).
Il legame tra la facoltà dell’immaginazione, la comprensione e la prassi è al centro delle analisi dei due saggi successivi in cui Manuela Sanna e Vanna Gessa Kurotschka si concentrano in particolar modo sulla concezione dell’immaginazione elaborata da Vico. In primo luogo, Sanna (Manifestazione dell’apparenza e inganno della presenza nel concetto moderno di immaginazione) mostra come in Vico la razionalità si stabilisca nella relazione tra immaginare e intendere, aspetti che, invece, nella filosofia moderna vengono spesso distinti in maniera ascensionale.
In secondo luogo Vanna Gessa Kurotschka (La morale poetica: immaginazione e deliberazione) inserisce in un percorso, che ha il merito di essere storico e al contempo sistematico, la questione della morale poetica in Vico all’interno del dibattito contemporaneo della Philosophy of Mind. In essa è, infatti, possibile distinguere due prospettive epistemologiche fondamentali: la prima è quella segregativa che considera le proprietà causali e quelle sensibili in maniera esclusiva; la seconda prospettiva, detta integrativa, considera al contrario queste proprietà in modo appunto integrato. Quest’ultima concezione – che caratterizza un soggetto come capace di integrare nella scelta ragione, sensi, sentimenti e passioni – negli ultimi decenni del Novecento ha acquisito sempre più importanza sia nella teoria della conoscenza che nella riflessione morale. Vanna Gessa Kurotschka individua allora una connessione profonda tra una prospettiva integrativa e la morale poetica proposta da Vico in cui agiscono ragioni sia fisiche sia mentali: “La grande scoperta di Vico è stata che vi è un tipo di sapere, quello poetico, il cui carattere più eminente è il fatto che esso sia pratico, un tipo di sapere che si costituisce in uno stadio intermedio di un processo in cui la mente emerge dalla sua contrazione in un primo barlume di coscienza – la identità sensibile - attraverso la paura e inizia ad operare con facoltà che sono fisiche ma anche mentali”(p. 82). Attraverso la lettura dei testi di Vico si può quindi accedere a quel “compito integrativo” tra i diversi aspetti del soggetto, dagli aspetti epistemici a quelli sensibili, compito che in parte è ancora da compiere.
Sara Fortuna conclude la prima parte del volume con un saggio su Kant ponendo l’attenzione sul valore positivo dell’illusione come creazione dell’immaginazione e al contempo sulla possibilità di discernere i diversi modi dell’immaginazione e quindi le sue delimitazioni. Sara Fortuna traccia un itinerario significativo all’interno dell’opera kantiana che distingue alcuni aspetti dell’immaginazione come produzione di apparenze che hanno per Kant anche un significato positivo come illusioni confrontabili con l’esperienza percettiva del soggetto. Al riguardo Fortuna individua le analogie e le differenze tra Kant e Vico mostrando come in Kant vi sia “la propensione per un’illusione poetica in grado di trasformare il soggetto a un livello che rimane parallelo rispetto a quello dell’esperienza reale” (p. 100). Nell’ultima parte del saggio le tre massime della Denkungsart vengono indagate in riferimento a due questioni fondamentali: la prima concerne il contesto dell’esperienza estetica la cui condizione sentimentale è il giudizio riflettente descritto da Kant nella Critica della facoltà di giudizio. La seconda questione prende in considerazione il linguaggio e la diversità delle lingue, tracciata da Humboldt, come punto di connessione tra le diverse massime e più specificatamente tra la dimensione del soggetto come pensatore indipendente (caratterizzato da quella dimensione dello spettatore indagata da Hannah Arendt) e la possibilità di pensare in modo ampio e di confrontarsi con altri punti di vista in una dimensione intersoggettiva.
Nella seconda parte del volume sono oggetto di analisi alcuni aspetti della filosofia di Husserl, Heidegger e Bloch i quali hanno sostenuto l’autonomia dell’immaginazione nei processi cognitivi e deliberativi. Si indaga dunque quello “strabismo” proprio dello sguardo etico come uno sguardo che è rivolto ai valori e che nel contempo li elabora a livello soggettivo. Il rapporto allora tra valori e soggettività è trattato alla luce delle analisi fenomenologiche al fine di individuare lo spazio della performatività dei concetti e il significato dell’apertura verso nuove possibilità.
Nel primo contributo (Immaginazione e valore: tre itinerari fenomenologici) Anna Donise propone tre diversi itinerari fenomenologici: il primo riguarda la relazione tra variazioni e valori e il significato della variazione eidetica; la seconda traccia concerne l’origine fenomenologica del rapporto tra immagine e valore, tra fatti e valori in cui l’immaginazione riveste un ruolo centrale; la terza traccia riguarda la possibilità di definire l’immaginazione come uno dei linguaggi dell’etica. Donise al riguardo crea un collegamento suggestivo con il pensiero di Iris Murdoch definendo quindi quell’immaginazione narrativa che permette di “vedere e descrivere i valori” (p. 125).
Pierpaolo Ceccarelli (Immaginazione e antropologia. Heidegger e il problema dell’evento antropo-logico) approfondisce alcuni aspetti pratici dell’immaginazione prendendo in considerazione l’interpretazione sviluppata da Heidegger dello schematismo trascendentale kantiano. Egli pone quindi al centro del suo saggio la possibilità di un’esperienza antropo-logica “ossia dell’emergere del discorso sull’uomo indipendentemente da una idea dell’uomo, senza cioè che sia già presupposta una determinata concezione antropologica” (p. 127). Attraverso l’interpretazione heideggeriana dello schematismo trascendentale kantiano e la definizione della consistenza ontologica dell’immagine (Bild) si individua il significato dell’immaginazione come esibizione esemplare del concetto che ha conseguenze importanti anche per la riflessione etica. L’immaginazione dunque, anche in riferimento alla distinzione aristotelica tra poiesis e praxis, rappresenta una manifestazione pratica dell’uomo che è a fondamento anche della produzione dei concetti e in generale dell’“esserci” umano (p. 143).
Gabriella Baptist con il suo saggio (Tra ideazione e fatticità. Le possibilità della fantasia in Edmund Husserl) torna a Husserl, prendendo in analisi principalmente testi degli anni Dieci e dell’inizio degli anni Venti, per mostrare in che modo Husserl sviluppi una concezione delle possibilità della fantasia che agisce in una duplice prospettiva: al giudizio indica la possibilità di negare il dato e alla percezione la possibilità dell’alternativa, del dubbio.
Chiara De Luzenberger (Immaginazione ed esperienza nel pensiero di Ernst Bloch) conclude la seconda parte del libro con un saggio su Bloch analizzando in particolar modo il ruolo che l’immagine riveste nella visione della realtà futura. Luzenberger mostra come nel pensiero utopico di Bloch l’immaginazione rappresenti un’apertura verso altre realtà possibili e migliori la quale caratterizza l’esistenza umana. Al riguardo viene presa in analisi la possibilità di una fenomenologia della coscienza anticipante e il ruolo di mediazione che l’arte riveste “tra l’astrattezza dell’universale e l’accidentalità del singolare” (p. 172).
Nella terza parte del libro la questione delle radici fisiche e sensibili dell’immaginazione è trattata dal punto di vista contemporaneo nelle scienze cognitive. Mario Guazzelli e Claudio Gentili (Immaginazione, emozioni e cervello) indagano le diverse funzioni e attività dell’immaginazione, il suo rapporto con la percezione, con le emozioni e con processi motori da un punto di vista cerebrale, nelle scienze cognitive e nelle neuroscienze emotive. Il saggio parte dall’importanza di un default mode dell’attività cerebrale, ossia di una sorta di riposo cerebrale che in realtà rivela un’attività significativa – associabile alla fase di sonno REM. Inoltre Guazzelli e Gentili mostrano in che modo l’attività immaginativa sia legata alle emozioni, come per esempio quella del dolore. Attraverso l’indagine dei rapporti tra immaginazione, emozioni e cervello si può allora comprendere in che modo l’immaginazione svolga una funzione performativa fondante in molti processi cognitivi: “L’immaginazione non è relegata a momenti marginali ma è presente in molte occasioni della vita quotidiana e riconoscerne il ruolo contribuisce a rendere più ricca e complessa la comprensione della vita della mente” (p. 194).
Al centro del saggio di Piergiorgio Donatelli (Lo spazio dei concetti, l’immaginazione, l’etica) si trova invece la questione delle possibili relazioni tra concettualità, immaginazione ed etica. Partendo dalle analisi di Williams e dalla condizione secondo cui l’etica “si muove nello spazio costituito dai concetti di cui sono intessute le vite delle persone” (p. 195), Donatelli problematizza in un percorso molto interessante le posizioni di Murdoch, Diamond e Cavell. Attraverso la trattazione di questi autori Donatelli giunge ad affermare la necessità di uno spazio concettuale che sia esso stesso “oggetto di riflessione e di conquista morale”. (p. 212)
Giuseppe Cacciatore affronta le relazioni tra immaginazione ed etica (La logica e l’identità meticcia. Note sul nesso fra immaginazione, identità e interculturalità) da una prospettiva originale, a partire dalla quale sia possibile ripensare la problematica dell’interculturalità. A partire da alcune categorie vichiane come la centralità dell’immaginazione, della fantasia e dell’ingegno, Cacciatore propone di assumere la centralità dell’immaginazione per definire un altro tipo di razionalità. Tale “altra razionalità” è allora a fondamento del tentativo di alcuni filosofi messicani come Arriarán e Beuchot di ripensare categorie come quella del meticciato. In questa prospettiva, l’interculturalità è indagata alla luce del carattere inventivo e analogico dell’immaginazione.
Nell’ultimo saggio di questa parte del libro Vanna Gessa Kurotschka (La complessità della vita umana: neurobiologia, etica e cultura) prende in considerazione tre tipi differenti di riduzionismo i quali, in una prospettiva integrativa, definiscono quel complesso intreccio che è la vita umana. Il primo riduzionismo analizzato è quello di considerare la vita solamente come oggetto fisico ossia come un oggetto che esiste nello spazio e nel tempo indipendentemente da chi lo conosce. Il secondo tipo di riduzionismo è quello che concepisce la vita solamente come un oggetto ideale. La terza riduzione riguarda la vita considerata solamente come un oggetto sociale.
Il libro si conclude con un’appendice (Immaginazione e profezia. Riflessioni su uno strano legame) in cui Francesco Piro affronta la problematica delle relazioni tra divinazione, estasi e immaginazione. Quel che in particolar modo interessa Piro è la “profonda ambiguità presente nell’associazione tra stati visionari e immaginazione” (p. 251). Questa tematica è trattata nella filosofia antica, neoplatonica, arabo-islamica e in riferimento alla ricezione medievale della teoria avicenniana della profezia. Attraverso questo percorso, Piro mostra l’intrinseca ambiguità che caratterizza il processo dell’immaginazione sia rispetto alla profezia che alla creatività.
L’insieme dei saggi che compongono la raccolta definiscono i contorni di una riflessione etica che assume come centro epistemologico l’immaginazione rilevandone i caratteri inventivi e di apertura narrativa. In questa prospettiva il volume è segnato da molteplici richiami interni (rispetto a Vico e all’importanza dell’immaginazione narrativa per la riflessione etica) che suggeriscono diversi percorsi di approfondimento. Anche se il volume non si concentra in modo sistematico sul ruolo e il carattere processuale che l’immaginazione riveste nella teoria della conoscenza, ha comunque il merito di affermare in ambito etico il valore performativo dell’immaginazione e mostrare come i suoi procedimenti e produzioni siano distinguibili e specificabili in quel terreno ambiguo in cui rischiano di confondersi illusioni, apparenze e conoscenze.
Il volume offre dunque diversi spunti per una riflessione epistemologica sull’immaginazione e in questo senso inaugura la possibilità di un ampio e sistematico dibattito sulla sua centralità nei processi tanto cognitivi quanto deliberativi.

Indice

Prefazione 
Introduzione: La capacità di immaginare e la sua funzione etica, di Vanna Gessa Kurotschka e Chiara de Luzenberger 
PARTE PRIMA: LE RADICI FISICHE DELL’IMMAGINAZIONE E I VINCOLI DELLA MEMORIA 
Melanconia, deliberazione e phantasia. Stati patologici e fisiologici dell’“immaginazione deliberativa” in Aristotele, di Elisabetta Cattanei 
Manifestazione dell’apparenza e inganno della presenza nel concetto moderno di immaginazione, di Manuela Sanna 
La morale poetica: immaginazione e deliberazione, di Vanna Gessa Kurotschka 
Immaginazione, aspetto, illusione poetica: un percorso kantiano, di Sara Fortuna 
PARTE SECONDA: STRABISMO DELLO SGUARDO ETICO, PERFORMATIVITÀ DEL CONCETTO, POSSIBILITÀ 
Immaginazione e valore: tre itinerari fenomenologici, di Anna Donise 
Immaginazione e antropologia. Heidegger e il problema dell’evento antropo-logico, di Pierpaolo Ciccarelli 
Tra ideazione e fatticità. Le possibilità della fantasia in Edmund Husserl, di Gabriella Baptist 
Immaginazione ed esperienza nel pensiero di Ernst Bloch, di Chiara de Luzenberger 
PARTE TERZA: WANDERING MIND, SPAZIO DEI CONCETTI, INTERCULTURALITÀ 
Immaginazione, emozioni e cervello, di Mario Guazzelli e Claudio Gentili 
Lo spazio dei concetti, l’immaginazione, l’etica, di Piergiorgio Donatelli 
La logica poetica e l’identità meticcia. Note sul nesso fra immaginazione, identità e interculturalità, di Giuseppe Cacciatore 
La complessità della vita umana: neurobiologia, etica, cultura, di Vanna Gessa Kurotschka 
Appendice: Immaginazione e profezia. Riflessioni su uno strano legame, di Francesco Piro


Le curatrici

Vanna Gessa Kurotschka è professore ordinario di filosofia morale all’Università degli Studi di Cagliari. È membro del collegio dei docenti del dottorato in Teoria politica della Luiss di Roma e del Dottorato di alta formazione dell’Istituto di Scienze Umane in Etica e storia della filosofia. È, inoltre, vicedirettore del Master interuniversitario di II livello in Consulenza filosofica e membro del Beirat scientifico del gruppo di ricerca Funktionen des Bewusstseins della “Akademie der Wissenschaften” di Berlino. Fra le sue pubblicazioni: Ricostruzione della soggettività (2004), Umano e Post-umano (2004), Etica (2006), I saperi umani e la consulenza filosofica (2007).

Chiara de Luzenberger, dottore di ricerca in Filosofia, ha svolto attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Cagliari dal 2003 al 2007. Attualmente è assegnista di ricerca presso il dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Calabria, collabora inoltre alle attività della cattedra di Filosofia morale presso l’Università di Napoli Federico II. Fra le sue pubblicazioni si ricordano il volume Narrazione e utopia. Saggio su Ernst Bloch (2002) e, tra i saggi, L’ambiguità dei “diritti umani”. Alcune considerazioni su persona e collettività (2006), L’idea di comunità tra diritto naturale e pensiero utopico (2006).

Carbone, Andrea Libero, Filosofia della chiacchiera.

Roma, Castelvecchi, 2009, pp. 96, € 7,50, ISBN 9788876153327.

Recensione di Rolando Ruggeri – 15/11/2009

Pratica filosofica

La chiacchiera, bandita dalla tradizione filosofica come deviazione dal retto ragionamento, come argine da non superare per non disperdere il corso del pensiero in rivoli che stagnano senza destinazione alcuna, è protagonista assoluta di questo breve scritto di Andrea Libero Carbone. L’autore ci mostra la chiacchiera come qualcosa che la filosofia ha sempre cercato di lasciare fuori, di nascondere tra le pieghe di qualche pagina, dimenticata in funzione di un rigore razionale che un discorso serio richiede.

Ciò che si vuole tener lontano è, però, più vicino di quanto si creda. La filosofia infatti è accomunata alla chiacchiera da chi vede in questa disciplina qualcosa di scarsamente, o per nulla, pratico, nel senso concreto del termine. La filosofia è vista come un inutile esercizio mentale, staccato dalle cose reali, vana chiacchiera senza una reale utilità. L’intento utilitaristico, segnatamente economico, è visto come fondamentale per l’uomo di mondo, ma il filosofo lo ritiene vano, arrivando a considerare chi lo persegue, ad esempio il sofista, come un filosofo deviato, da guardare con sospetto. Il sofista però è attento agli umori del pubblico, in questo modo riesce a far passare il filosofo come un chiacchierone (p. 49). Né possiamo cancellare completamente i bisogni materiali dell’uomo; non è un caso che Aristotele reputasse la filosofia un lusso, qualcosa di possibile solo quando le esigenze primarie fossero state soddisfatte, quasi a dire che a pancia vuota il borbottio dello stomaco influenzi e faccia deviare il ragionamento.

Ciò che il filosofo allontana da sé gli è in realtà attribuito da chi è convinto che le questioni del mondo siano più concrete di quelle da lui trattate. La chiacchiera, in fondo, ha le caratteristiche per essere la sorellastra della filosofia. Filosofia e chiacchiera: figlie della stessa madre, la parola, si distinguono tuttavia per la loro paternità. La filosofia ha per padre il ragionamento; la chiacchiera un non meglio precisato impulso all’esternazione di un pensiero più o meno coerente. Carbone dà di questa differenza una immagine che sfocia nell’erotico: “il desiderio eterno che si esprime nel filosofo attraverso la ritenzione continua dell’interrogare si risolve nel chiacchierone in un’eiaculazione ininterrotta – e tuttavia sempre prematura – di parole, di risposte non necessariamente connesse ad altrettante domane” (p. 8).

Il libro presenta un interessante excursus etimologico sul termine chiacchiera, l’origine delle parole rivela sempre molto sul loro reale spirito, ne mostra gli aspetti più immediati. Collocare la chiacchiera in un preciso ambito è difficoltoso. È la chiacchiera a sopravanzare le cose esistenti nel mondo, oppure ciò che esiste non può essere adeguatamente ridotto in semplici frasi? In poche parole, ma trattandosi di chiacchiera il discorso inevitabilmente si allunga, la chiacchiera ha sempre attinenza con il mondo reale o non sempre alle parole corrisponde una natura concreta? L’appellativo di chiacchierone non viene attribuito solamente a chi è effettivamente affetto da logorrea ma anche a filosofi e fisici che si “perdono” in cose teoriche perdendo il contatto con il mondo magari cadendo leggendariamente in un pozzo come Talete di Mileto. L’intreccio è complesso, Carbone si muove su diversi fronti, esce dagli esempi libreschi, da dove, tra l’altro, la chiacchiera è espunta, per portarci ad esplorare esempi paradigmatici, per citarne uno, lo sketch dei Monty Python in cui i filosofi giocano a calcio (pp. 21-22) La filosofia si tiene lontana dalla chiacchiera ma corre il rischio di finirci dentro; Hegel può essere distratto nei suoi ragionamenti dal vociare del chiacchierone; Marx si alza dalla sedia interrompendo il flusso intricato del ragionamento per spingersi all’azione; lo scambio dialettico può essere interrotto dal chiacchierone che trasforma il dialogo in un monologo senza senso.

Meglio il silenzio allora? E perché il filosofo dovrebbe tacere? Per non correre il rischio di apparire un chiacchierone, oppure perché, visto che la filosofia è chiacchiera, non c’è più nulla di interessante da dire?

Indice

Filosofia della chiacchiera
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autore

Andrea Libero Carbone (Palermo 1975) è dottore di ricerca in Filosofia alla Sorbona, traduttore di Aristotele per BUR e Bompiani. È uno dei fondatori di duepunti edizioni e lavora in campo editoriale anche come consulente. Oltre ad occuparsi di filosofia della scienza delle immagini, ha insegnato Letteratura Digitale Francese. Filosofia della chiacchiera è la sua prima opera.

venerdì 13 novembre 2009

Urbinati, Nadia, Lo scettro senza il re.

Roma, Donzelli, 2009, pp. 132, € 15,00, ISBN 9788860363565.

Recensione di Gennaro De Falco – 13/11/2009

Filosofia politica, Filosofia del diritto

Il breve saggio di Nadia Urbinati offre interessanti spunti al lettore per comprendere meglio come oggi, in una realtà sempre più complessa e sfuggente, operi la democrazia, cosa essa significhi e quali modalità di interrelazione con i cittadini esprima.
Dopo alcuni cenni storici sulla democrazia, considerata nell’antichità come il governo dei poveri (cfr. p. 3), vista sfavorevolmente sino all’età moderna in quanto governo della moltitudine, l’autrice pone la sua attenzione sulla differenza sostanziale tra la democrazia odierna e quella antica.
Infatti oggi non si può certo sostenere, come nell’Atene di Pericle, che democrazia significhi partecipazione diretta di tutti i cittadini alla gestione della res publica.
Democrazia, oggi, significa temporaneità dei pubblici poteri: il voto, pertanto, viene ad essere elemento indispensabile in quanto, attraverso di esso, i cittadini hanno il potere di scegliere chi dovrà rappresentarli per un determinato periodo, sino alle successive elezioni.
Democrazia rappresentativa – e non più diretta – è quella che permea gli stati moderni occidentali (con il grave rischio che, autoreferenzialmente, le forme occidentali di governo si considerino migliori di quelle esistenti in altre parti del mondo): “La rappresentanza mette in moto un processo politico complesso che attiva il popolo sovrano ben al di là dell’autorizzazione elettorale” (p. 16).
In questo processo i cittadini non sono attori solo nel momento del voto, ma lo restano per tutto il periodo in cui durano in carica i loro rappresentanti: le elezioni creano una “relazione tra partecipazione e rappresentanza (società e Stato)” (p. 20), nella quale gioca un ruolo fondamentale l’informazione, argomento che si affronta efficacemente e criticamente nell’epilogo del libro (cfr. pp. 123-126). In tali pagine, infatti, l’autrice sostiene con forza che la teoria della rappresentanza democratica deve tenere in necessaria considerazione le circostanze nelle quali si forma il giudizio politico e, nel contempo, mette in luce i limiti che le costituzioni moderne presentano in relazione al diritto di informazione. Un cittadino che non può liberamente accedere a tutti i mezzi di informazione, o a cui non è garantito un reale pluralismo di fonti di informazioni (e dualismo non significa pluralismo), vedrà leso il suo diritto di voto.
Accanto a quella della rappresentanza democratica, l’autrice fa cenno ad altre due teorie - la rappresentanza giuridica, della quale è opportuno ricordare, come suoi importanti esponenti, Hobbes e Sieyès, e quella istituzionale (che prende a modello la teoria giuridica) a cui l’autrice dedica meno attenzione –, entrambe basate sul dualismo tra Stato e società, ovverosia sulla indipendenza tra la sfera sociale e quella politica (cfr. p. 40), nonché su una concezione volontaristica della sovranità.
Tutt’altri panni veste la rappresentanza democratica che non si esaurisce in aspetti puramente formali e dualistici, presupponendo invece una “circolarità tra istituzioni e società” (p. 43), che porta ad assimilare entrambe a camere comunicanti, e non più stagne, dove agisce quello che gli americani chiamano soft power, quel potere cioè che viene dal giudizio e dalle opinioni degli elettori (cfr. p. 46) e che presuppone una informazione libera e plurale.
I cittadini, in un modello perfetto di rappresentanza democratica, esercitano un potere negativo la cui peculiarità consiste, al di là del momento del voto, nella possibilità di “interrompere, arginare o modificare il corso d’azione dei rappresentanti eletti” (p. 57). Tali eventuali attività nascono dalla possibile circostanza che un elettore, avendo espresso il suo voto in un precedente momento per un determinato candidato a fronte del suo programma politico e/o delle sue opinioni politiche, successivamente non ne condivida più l’operato.
Bisogna infatti tener presente che un rappresentante eletto porterà avanti una linea politica che non sarà mai predefinita in toto, ma che dovrà adattarsi alle situazioni del momento e che sarà pertanto oggetto di valutazione da parte degli elettori: “L’orecchio più che l’occhio è l’organo sensoriale che corrisponde alla rappresentanza, nella misura in cui la sua forma sono le idee e le parole, non la persona fisica” (p. 69).
Dalle considerazioni espresse da Nadia Urbinati, il programma politico – che pur è determinante per la scelta degli elettori – viene ad essere un canovaccio, uno schema a cui è verosimile si aggiungano, in corso d’opera, altre parti ed elementi.
La stessa autrice avverte che la scelta razionale degli elettori, talvolta, rischia di essere subordinata alla condivisione o meno, da parte degli stessi, di specifiche costellazioni di idee o, detto in altre parole, alla identificazione di tali idee in un certo candidato.
Nell’odierno sistema democratico i partiti risultano essere ancora indispensabili, potendo essere considerati come associazioni di parte ma collettive, luoghi dove i cittadini e i rappresentanti hanno la possibilità di riconoscersi vicendevolmente (cfr. p.76).
Ciò non significa che i partiti rappresentino solo i loro iscritti, come tradizionalmente era in una logica di lotta di classe. La loro azione è trasversale e punta a tutelare interessi generali che appartengono a tutta la comunità. Basti pensare che le questioni inerenti a tematiche quali l’ambiente, l’occupazione, la finanza e la tutela del credito, catalizzano ormai le attenzioni di tutti i partiti e di tutti i rappresentanti politici.
L’autrice non condivide l’opinione di chi ravvisa in una ipotetica democrazia post-partitica una fase di maggiore libertà per i cittadini; ne è riprova, a dire di quest’ultima, che lo stesso Silvio Berlusconi è stato costretto a fondare un movimento politico assimilabile ad un partito, non essendo sufficiente il mezzo televisivo per veicolare la sua immagine quale uomo politico (cfr. p. 86 sg).
La parte finale del libro è dedicata ad illustrare il concetto di patrocinio (in inglese advocacy), per il quale un soggetto eletto dai cittadini deve essere in grado di perorare le cause per cui i cittadini lo hanno preferito ad altri, senza però farsi trascinare così tanto (dalla identificazione nelle proprie cause) da chiudere ogni rapporto dialettico con gli schieramenti politici avversari.
Legato a quello di patrocinio è il concetto di “somiglianza ideologica intesa come somiglianza di prospettive” (p. 120) per cui gli elettori sceglieranno il candidato che ritengono migliore non tra tutti, ma tra quelli che più sono aderenti ed affini alle loro idee.
L’impianto teorico illustrato dall’autrice, oltre ad essere un interessante spunto di riflessione per comprendere le caratteristiche necessarie della democrazia rappresentativa odierna, può entusiasmare il lettore che, leggendo di questi complessi meccanismi della democrazia, si sente parte di un sistema dove è attore. Uno dei tanti elettori, ma pur sempre attore.
Il saggio di Urbinati, il cui impianto teorico può essere contestualizzato nella realtà che domina in Italia (e non solo) - dove il confronto tra le parti politiche avversarie non pare riflettere queste complesse dinamiche della rappresentanza, dove l’elettore è talvolta disaffezionato alla res publica-, rappresenterà per molti lettori uno stimolo ad una più attenta analisi del sistema politico e del gioco democratico e, nel contempo, un incoraggiamento ad una ancora più intensa partecipazione, elemento indispensabile per garantire cambiamenti efficaci, fruttuosi e duraturi.
Magari, alcuni lettori, quelli più pessimisti e sfiduciati, pur trovando giuste ed affascinanti le teorie esposte dall’autrice, non cambieranno idea, restando convinti che, da qualche parte, il sistema politico ed istituzionale racconti un’altra storia che potrebbe intitolarsi La menzogna, prendendo in prestito il titolo di una meravigliosa opera teatrale del regista Pippo Delbono.

Indice

Introduzione. Rappresentanza e democrazia: oltre la politica come presenza
Gli esempi contrari che ci vengono dalla storia
Concezioni della rappresentanza
Rappresentanza come processo politico
Il potere negativo dei cittadini
Discordia e voto, presenza e voce
Cittadini-partigiani e partiti politici
La Democrazia del pubblico
La duplice natura dell’eguaglianza
Patrocinio
Rappresentatività
Epilogo
Indice dei nomi


Il curatore

Nadia Urbinati insegna Teoria politica alla Columbia University. Tra le sue monografie più recenti, Representative Democracy. Principles and Genealogy (Chicago Press, 2006; 2008) e L’ethos della democrazia (Laterza 2006).

martedì 10 novembre 2009

Cusinato, Guido, La totalità incompiuta. Antropologia filosofica e ontologia della persona.

Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 336, € 25,00, ISBN 9788856803105.

Recensione di Daniela Verducci - 10/11/2009

Antropologia, Filosofia teoretica (ontologia)

Il titolo del recente volume di Cusinato sembra annunciare che la riflessione sull’essere della persona indotta dal focus sull’antropologia filosofica non approderà ad una definitività: la persona vi resterà colta, quasi sfruttando la corrente calda dello spirito dell’utopia di blochiana memoria, nel suo enigmatico mantenersi aperta e sospesa sull’essere, nel suo estenuante protendersi verso un altrove sempre desiderativamente re-anticipato e dunque dai contorni perennemente sfumati. A spingere G. Cusinato a scavare nella dimensione personale allo scopo di rinvenirvi prospettive innovative sull’essere, è dunque un’insoddisfazione ontologica, al cui delinearsi hanno certo contribuito gli approfonditi studi scheleriani da lui condotti fin dagli anni ’90. Infatti, dell’esigenza filosofica di elaborare un’ontologia della persona, che rivitalizzasse la metafisica stessa - istanza già avvertita, aggiungiamo noi, nel cuore della modernità da G. W. Leibniz e oggi ripresa con decisione da Anna-Teresa Tymieniecka - Max Scheler fu l’araldo più convinto, oltre che il padre dell’antropologia filosofica, la nuova disciplina sul cui terreno quell’esigenza, prepotentemente emersa nel XX sec., potè trovare accoglienza e incipiente soddisfazione. A Scheler non sfuggì l’incapacità della chiusa e statica ontologia tradizionale di assumersi l’onere di dar conto di quell’eccedenza dionisiaca, evidenziata da F. Nietzsche, per la quale l’uomo, mentre è in grado di compiere il gesto di portarsi über sich hinaus e di liberarsi dalla soggezione nei confronti tanto della logica dell’utilità e del piacere quanto di quella evoluzionistica dell’adattamento biologico, trova tuttavia che la sua Wille zur Macht non lo proietta affatto su un orizzonte relativistico e arbitrario; al contrario essa àncora il suo slancio di trascendenza alla scala oggettiva del Grad der Macht, cui è legata quella stessa “potenza pura che tracima, eccede, si diffonde oltre se stessa” (p. 20), della quale egli nella sua volontà individuale è portatore e non creatore. Tale base “ontologica” della volontà di potenza Cusinato ritiene di poter evincere da alcuni luoghi nietzscheani, individuati nelle Nietzsche Werke. Kritische Studienausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montanari, Berlin-New York 19882 (pp. 19-21), purtroppo indicati con i soli numeri di volume e di pagina, così da non poter essere rintracciati con facilità in altre edizioni delle opere di Nietzsche. Ma la sfida all'ontologia tradizionale si rinnova radicalmente allorchè Scheler assume la visuale antropologica, già agostiniana, dell’eccedenza agapica, completamente misconosciuta da Nietzsche. Il movimento amoroso, che promana dalla persona, infatti, coinvolge nella sua dinamica dirompente i ripiegamenti sul mondo ancora presenti nel trascendere dionisiaco ed erotico dell’homo faber alla P. Alsberg (pp. 142-158), determinando un'apertura al/del mondo (Weltoffenheit) che resta unica e specialissima in quanto comporta una Umkehrung ovvero una ri-apertura delle precedenti eccedenze, pur non richiedendo affatto la coincidenza della volontà di generare il proprio superamento con la volontà di morire/tramontare, come avviene nell’uomo nietzscheano (p. 12). Anzi, proprio in virtù di tale prospettiva, nell’osservazione delle modalità effettive della cura sui, produttiva di Bildung e di Umbildung individuale, presente nell’antropologia scheleriana dell’ordo amoris e foucaultiana ante litteram (pp. 43-45), si potranno localizzare nell’essere quelle virtualità di incremento, che fanno capo alla coscienza e alla volontà dell’essere personale e anzi, premono su quest'ultimo perché si liberi dalle forme intellettualistiche e ascetiche di narcotizzazione dell’eccedenza (pp. 32-42), di cui è caduto vittima nel corso dei secoli, e riprenda a coltivarsi come istanza di trascendenza vivente e proprio perciò, in quanto radicato nel flusso universale della vita, capace di trascinare nel proprio potenziamento l’universo intero dell’essere. Attraverso il contegno umano si fa strada, così, l’idea di un essere sui generis, un essere che è “solo una direzione di un processo possibile”; inoltre, si delinea una condizione ontologica paradossale perchè “l’uomo – che dal punto di vista dell’evoluzione biologica è l’essere più fisso e stabile, il filisteo della vita – dal punto di vista del divenire personale risulta un sistema aperto e imprevedibile”; non solo un superuomo (Übermensch), dunque, ma un uomo globale (Allmensch) (pp. 49-50), la cui “eccedenza [...] è la struttura aperta che dà vita all’uomo” (p. 51). Proprio da tale condizione antropologica - segnala Cusinato - Scheler trarrà, nell’ultima fase del suo pensiero, lo spunto per ridisegnare l’intera metafisica occidentale del nous poietikòs e avviare un pensiero “post-metafisico” in cui non solo campeggeranno le tesi, “scandalose” per il teismo razionalistico contemporaneo, del werdender Gott, delle ideae cum rebus, dell’Ohnmacht des Geistes (p. 47), ma l’essere umano stesso diverrà lo snodo imprescindibile per la nuova metafisica dell’atto o meta-antropologia. Tuttavia, dalla fenomenologia della persona umana, fin qui da Cusinato intessuta, non emerge ancora che le pratiche formative e di autoincremento, che la persona è in grado di porre in essere, vadano a incidere sull’essere totale, secondo le linee di un’ontologia dinamica, dove la soggettività partecipa al far essere dell’essere. Manca tuttora, infatti, una “scala-d'essere” – diciamo noi - che veicoli la contestualizzazione ontologica della specialissima forma d'essere della persona e che insieme la salvaguardi sia dalla volatilità della sua più corrente interpretazione spiritualistico-moralistica che dallo snaturamento dell'appiattimento biologistico. Il riferimento obbligato per una tale riforma della concezione d’essere, che tenga ontologicamente insieme causalità fisica e libertà, resta F. W. J. Schelling, della cui influenza su Scheler, Cusinato è finalmente in grado di offrire circostanziata documentazione, avendo individuato, nell’opera scheleriana Idealismus-Realismus, tre citazioni da saggi schellinghiani, risalenti al periodo di Berlino, finora “passate inosservate in quanto Scheler omette d’indicarne la fonte” (pp. 81-83). Schelling agisce sulla strozzatura ontologica prodotta dal formalismo kantiano, restituendo al Naturprodukt la sua portata ontologica e inserendone la specifica forma di auto-organizzazione in una ontologia “a strati”, comprensiva di oggetti, organismi, persone, dove in un’unica Stufenfolge si apre la possibilità inedita di “ripercorrere la preistoria della libertà dell’Io fino alla natura stessa e d’individuare nella natura vivente un processo ascendente in cui s’esplicita sempre di più l’effettualità della libertà” (pp. 69-70). In cruciali passaggi schellinghiani, opportunamente riportati da Cusinato, si mette a fuoco la dinamica di “centricità” con cui l'organismo, operando sulla serie lineare inorganica di cause ed effetti, unifica questi due estremi e, flettendo in circolarità autoripiegantesi la linearità della natura inorganica, da essa fa sorgere il sistema vivente, secondo una “legatura-d'essere” che lo dota di finalità autonoma e perciò lo abilita a produrre le proprie tappe auto-organizzative in livelli di sempre maggiore complessità, dall’organismo più elementare alla coscienza umana (p. 73). Addirittura, il “ritornare su se stessa” della legatura ontologica dell’organismo, che fa coincidere esistenza e auto-referenzialità, diviene, in Schelling, la chiave interpretativa di tutto l’essere, che nella Stufenfolge viene scandito per gradi crescenti di centricità ovvero di autoreferenzialità sempre più autoindividualizzante, a partire dalla Selbstlosigkeit dell’inorganico, attraverso tutto il mondo organico, fino alla coscienza quale forma della completa di Zurückwendung in sich selbst (pp. 74-75). Ma si identifica forse la dimensione personale dell'essere umano, con tale curvatura psichistica/coscienzale/autocoscienziale, ontologicamente ridotta, come nella tradizionale visione intellettualistica cartesiana, ancora dominante fino a Brentano e Husserl, sebbene integrata dall’intenzionalità istintiva e pulsionale, ad opera di W. Dilthey (pp. 123-129)? Evidentemente, i gradi ontologici fin qui guadagnati dall'indagine di Cusinato (pp. 17-173), sono serviti solo a far emergere, per differenza, la specificità della dinamica personale, incarnata dal vivente umano. L’uomo, infatti, è certo in rapporto all’ambiente (Umwelt) e al mondo (Welt) (cfr.: ecologismo di J. Gibson, pp. 191-194); è vivente autopoietico (cfr.: U. Maturana, F. Varela e N. Luhmann, pp. 91-97); è un Io (cfr.: emergentismo e ontologie della persona di L. Baker e R. Sokolowski); egli è però soprattutto portatore di una dimensione che va oltre, pur comprendendo i livelli psico-fisici e cognitivo-pratici del vivere: per cogliere tale costituzione Cusinato imposta un'apposita investigazione, di nuovo sulla scorta di Schelling, tendente a enucleare il carattere ex-centrico dell’essere umano rispetto alla centricità organica (pp. 218-230). La persona si attua, infatti, in una espressività sui generis: non proietta se stessa all’esterno, come avviene nel metabolismo dei viventi, si fa invece terreno pronto ad accogliere e far germinare un’esemplarità positiva; essa vive un' esperienza non affidata all’attività sintetica delle categorie intellettuali kantiane, ma piuttosto consegnata alle tonalità affettive e a specifici sfondamenti emozionali, che ampliano l’orizzonte mondano in direzione della Selbstgegebenheit. E' compiendo atti agapici compartecipativi dell'alterità che la persona determina il rovesciamento (Umkehrung) della logica percettiva vitale, che viene ri-aperta e orientata verso la profondità personale (p. 197) per cogliervi quell’innalzamento di valore rispetto all’esistente, che può mostrarsi solo all'amoroso “domandare a cui il mondo risponde dischiudendosi”: in tale “atto fecondante”, la persona “non si limita a intenzionare qualcosa che c’è già, ma intercetta, al di là del piano fattuale, l’intenzionalità di ciò che ancora non è, creando lo spazio per la sua costituzione”, nel “vuoto promettente” o Sehnsucht, che ospita al suo interno (pp. 309-310). Così facendo, l’atto personale dell’amore dà anche luogo effettivo, nel suo centro reale personale “all’emergere di una novità positiva (o nel caso dell’odio, negativa) che non aveva ancora trovato spazio nella fattualità” (p. 206), oltrepassando ogni metafisica della presenza (p. 199). Superando anche l'antropologia ermeneutica di Ch. Taylor, si delinea qui, tramite la forma di co-eseguibilità degli atti, in cui si dà esclusivamente la fecondante esemplarità altrui (pp. 304-308), una vivente e creativa ontogenesi personale reciprocamente formativa e libera da qualunque uniformarsi esecutivo a modelli. Si completa così la “scala-d'essere”, elaborata da Cusinato per raggiungere le altezze cui la persona sembrava inizialmente sospesa e che rappresenta, a nostro avviso, il risultato più cospicuo della sua presente ricerca. La persona trova ora la sua definizione ontologica come “totalità incompiuta che metabolizza funzioni psichiche in atti grazie a una singolarizzazione operativa di tipo compartecipativo e non a una chiusura operativa omeostatica” (p. 296). A chi però abbia seguito l'intensa e incalzante investigazione di Cusinato e percorso fino al suo termine la “scala-d'essere” da lui approntata, senza attardarsi nelle pur interessantissime énclaves di commento che continuamente le si aprono lateralmente, si spalanca lo spettacolo sorprendente dell'essere della persona dispiegato: un essere non più solo incompiuto, ma piuttosto singolarmente aperto all'infinito ontologico e capace di effettivo ed incessante potenziamento di sé e dell'universo intero.

Indice

Introduzione
PARTE I. ANTROPOLOGIA FILOSOFICA
L'eccedenza dionisiaca
Oggetti, organismi, persone: un'ontologia a strati
Gli occhi dell'eros
PARTE II. ONTOLOGIA DELLA PERSONA
Riduzione e Weltoffenheit
La persona compartecipativa
Indice dei concetti
Indice dei nomi


L'autore

Guido Cusinato insegna Antropologia filosofica all'Università di Verona e dal 2001 è membro della Commissione Scientifica Internazionale della «Max-Scheler-Gesellschaft». È autore di Katharsis. La morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler (1999) e di Scheler. Il Dio in divenire (2002). Per i tipi della FrancoAngeli ha curato la traduzione italiana di La posizione dell'uomo nel cosmo di Max Scheler, corredandola di un'ampia Guida alla lettura (I ed. 2000, II ed. ampliata 2004) e il volume Max Scheler. Esistenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia (2007).

lunedì 2 novembre 2009

Cesa, Claudio, Individuazione e libertà nel “Sistema dell’idealismo trascendentale” di Schelling.

Pisa, Ets, 2009, pp. 137, € 10,00, ISBN 9788846722041.

Recensione di Davide Sisto – 02/11/2009

Storia della filosofia (idealismo)

Redatto originariamente nel 1968, viene ripubblicato da Claudio Cesa, per i tipi della Ets, uno dei suoi principali studi sulla filosofia di Schelling, quello concernente il problema della “deduzione” della personalità o dell’individuo umano nel System des transcendentalen Idealismus (p. 28); detto in altri termini, il modo in cui il filosofo di Leonberg tentò di risolvere il problema dell’individuazione del soggetto (p. 32). Due sono fondamentalmente i motivi che hanno spinto Cesa a riproporre il saggio così come fu stampato la prima volta: in primo luogo, la consapevolezza della rinnovata attenzione da parte degli studiosi nei confronti della filosofia di Schelling, sempre meno riconducibile a quella vetusta visione storico-filosofica che ne fa un anello di congiunzione tra il soggettivismo fichtiano e il razionalismo metafisico hegeliano. Ciò trova la sua decisiva conferma nella voluminosa e multiforme bibliografia, curata con invidiabile meticolosità da Carlo Tatasciore, la quale presenta ai lettori tutte le opere italiane pubblicate su Schelling dal 1971 al 2008. In secondo luogo, l’importanza che il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) riveste nell’oscillatoria bibliografia del filosofo tedesco, in quanto “unico ‘sistema’ completo che Schelling abbia mai pubblicato”, nonché opera principale di riferimento e di confronto da parte dei contemporanei (pp. 17-18).
Il punto di partenza delle riflessioni di Cesa è l’indubbia problematicità che si pone a monte di qualsivoglia decifrazione del rapporto tra autocoscienza e intuizione intellettuale nel pensiero giovanile di Schelling, la quale pretenda di avere una sua precisa trasparenza speculativa. Oscillatorie sono infatti le posizioni del filosofo di Leonberg: se, infatti, nello scritto Sull’Io egli ironizza sulla coscienza e prende le distanze dall’io empirico, esaltando come organo filosofico per eccellenza l’intuizione intellettuale, nelle Lettere filosofiche si compie un’operazione inversa, che alla critica dell’intuizione intellettuale contrappone l’assunzione della coscienza come ciò che accompagna il sentimento della vita e della finitezza come elemento costitutivo dell’uomo. Per Cesa, ciò va interpretato come “passaggio da un tentativo di discorso ‘scientifico’ alla esposizione di una Weltanschauung” (p. 25), che conduce man mano la speculazione schellinghiana al Sistema dell’idealismo trascendentale, all’interno del quale il filosofo tedesco cerca di elaborare sistematicamente l’idea che si possa risolvere il contrasto tra il dogmatismo e l’idealismo attraverso il ricorso a un linguaggio in grado di rendere possibile la comunicazione tra infinito e finito, una volta messo in luce il problema dell’individuazione del soggetto. Qui la costruzione schellinghiana si articola in vista di una possibile conciliazione della presa di coscienza con lo svolgimento oscuro del tutto, conciliazione che non può eludere il gravoso problema del rapporto tra la libertà e la necessità che caratterizza l’uomo-frammento nella sua costitutiva contraddittorietà e limitatezza, nonché nella sua perpetua oscillazione tra assoluto e finito. Intuizione intellettuale e autocoscienza, quest’ultima l’organo essenziale a cui è strettamente legato il concetto di soggettività, vengono – all’interno del Sistema – quasi a identificarsi, dal momento che la loro differenza è da ricercarsi, non tanto sul piano gnoseologico, quanto su quello esistenziale: “È con l’intuizione intellettuale che l’io si libera non solo dal sapere comune, ma si dà esistenza, produce se stesso. Questo suo atto è però privo di ogni mediazione [...] ciò che introduce la mediazione è un riflettere, il quale non è altro che l’autocoscienza” (pp. 56-57). Cesa percorre questa via speculativa, consapevole delle difficoltà che ne seguono, là dove tali figure idealistiche non vanno intese come forme individuali del divenire. In particolare, attraverso un’analisi acuta del Sistema schellinghiano, l’autore si interroga riguardo a quale concezione dell’uomo faccia riferimento Schelling, tenuto conto che l’unico vero soggetto della trattazione è l’io dell’autocoscienza (p. 63). Il quesito, che accomuna – in fondo – i principali esponenti dell’idealismo tedesco, viene affrontato attraverso la complessa esplicitazione, attorno a cui è costruita l’intera trattazione, del contrasto tra la finitezza umana come punto di partenza e l’infinità quale esigenza o attività ideale. Non può che emergere, sulla base di un’interpretazione che pone in comunicazione l’antropologia schellinghiana con una visione piuttosto complessa della temporalità, la certezza che l’individualità non sia un mero attributo dell’io, da acquisire pacificamente in se stesso. Piuttosto, va rimarcato come quella frammentarietà che connota il soggetto in Schelling fin dagli scritti giovanili rimandi a un fondamento che, il più delle volte, è negativo e non positivo. L’individuazione del soggetto passa attraverso “una fondazione della libertà che non è contro natura, ma dentro di essa, che non mira a una separazione, ma a una unificazione di umanità e naturalità” (p. 93); ciò permette a Cesa di cogliere il filo rosso che lega le speculazioni del Sistema dell’idealismo trascendentale alla dialettica tra fondamento ed esistenza nelle più tarde Ricerche sull’essenza della libertà umana.
Al di là della brevità richiesta da una recensione, la quale implica la scelta approssimativa di alcune linee direttive del libro in esame, va sottolineato come il testo di Cesa cerchi, anche attraverso svariati riferimenti agli altri esponenti dell’idealismo tedesco (Fichte in primis), di ricostruire il rapporto tra individuazione e libertà nel Sistema schellinghiano, evidenziando le ambiguità di fondo della prospettiva imbastita dal filosofo di Leonberg e la sua difficoltà a mettere in luce limpidamente le prerogative, per così dire, morali dell’individuo. Una difficoltà che spesso è, per Cesa, direttamente proporzionale al bisogno schellinghiano di rielaborare e sistemare il materiale altrui. Ma, azzardiamo noi, il problema è probabilmente intrinseco al Sistema dell’idealismo trascendentale stesso, il testo di Schelling più importante secondo gli studiosi, ma forse ancora incapace di evidenziare quelle prerogative fondamentali, che emergeranno negli anni a venire e che allontaneranno progressivamente Schelling dall’idealismo tedesco tout court e dai suoi evidenti limiti interni.

Indice

Introduzione
Individuazione e libertà nel «Sistema dell’idealismo trascendentale» di Schelling
Bibliografia italiana di Schelling (1971-2008) a cura di Carlo Tatasciore


L'autore

Claudio Cesa (1928), accademico Linceo e professore emerito nella Scuola Normale Superiore di Pisa, si è occupato soprattutto di pensiero tedesco, sui versanti teorico, politico e storiografico. È membro della Fichte-Kommission dell’Accademia delle scienze di Monaco di Baviera. Fra le sue opere La filosofia politica di Schelling (Laterza, 1969), Hegel filosofo politico (Guida, 1976), Introduzione a Fichte (Laterza 1994; 3° ed. 2000).

domenica 1 novembre 2009

Wittgenstein, Ludwig, Lezioni di filosofia, annotate e commentate da George E. Moore.

Milano, Mimesis, 2009, pp. 136, € 12,00, ISBN 9788884838711

Recensore Mario Tanga - 01/11/2009

Filosofia del linguaggio

Pregevole (e fruibilissima) l’introduzione di Perissotto, dopo la quale ci troviamo davanti contemporaneamente a Moore e Wittgenstein, leggendo il secondo attraverso il primo.
Moore va oltre la lettera di ciò che riporta, non per la smania di metterci del proprio (rispetto e attenzione per Wittgenstein non vengono mai meno), ma per porgere i contenuti al lettore con un valore aggiunto di ordine e chiarezza, ricostruendoli (con puntualizzazioni, esemplificazioni, correlazioni, interpretazioni) in un resoconto con un impianto concettuale più unitario. Non esita a mettere in evidenza le proprie incertezze interpretative (non di rado dice “non ho ben chiaro…”, “non ho compreso del tutto…”) oppure, ove lo ritenga opportuno, le incongruenze dello stesso Wittgenstein, per coinvolgere il lettore o richiamare la sua attenzione.
La necessità di puntualità, insieme all’esigenza di giungere al fondo delle questioni, rende il testo a tratti un po’ ostico al lettore non specializzato.
Una maggiore agilità discorsiva e un ampliamento degli orizzonti giunge proprio nelle ultime pagine, dove il punto è nientemeno cosa sia la filosofia per Wittgenstein e come la “nuova” filosofia si ponga nei confronti della precedente. L’intento dichiarato è di dar luogo a una rottura come quella che a suo tempo fu provocata dalla filosofia galileiana. Anche adesso la questione è soprattutto di metodo e i nuovi filosofi dovranno mostrarsi soprattutto abili (“skillful”) nell’applicazione di protocolli, piuttosto che dar lena alla creatività o alla vena di grandezza.
La nuova filosofia (“new subject”) dovrebbe essere “qualcosa di simile al mettere in ordine le nostre nozioni riguardo a ciò che si può dire intorno al mondo” (p. 135, corsivo nostro). In altri momenti lo stesso Wittgenstein aveva dichiarato di non avere, da parte sua, la pretesa di inventare nulla di nuovo, né di proporre un nuovo corso di idee, “eine Gedankenbewegung” (p. 39), ma solo di chiarire ciò che altri hanno inventato.
Tre sono i nodi della filosofia di Wittgenstein: la sua novità è nel metodo, ha carattere di analisi, ha il suo ambito privilegiato nella logica, sconfinando nella matematica e nel linguaggio. Tale lavoro non investe tuttavia la totalità del linguaggio e della logica, ma solo quegli aspetti che creano imbarazzi o problemi. Non per questo, Wittgenstein tiene a precisare, in linea con Ryle, la filosofia si riduce a una mera faccenda di parole.
Il punto focale è l’essenza della rappresentazione, funzione che lega la parola alla cosa e al contempo ne precisa la differenza. Non si tratta del semplice richiamo di un immagine per associazione, né dell’ostensione dell’oggetto, né il fatto che l’oggetto sia il portatore di un nome (cfr. p. 66).
Parlare del linguaggio, in particolare dell’enunciazione, consente di cogliere un’altra differenza, quella tra soggetto e oggetto: le enunciazioni sulla propria esperienza privata (famoso è l’esempio ricorrente di “io ho mal di denti”) e su una possibile esperienza altrui (“lui ha mal di denti”) sono su piani diversi. La posizione di Wittgenstein in proposito è intermedia tra quello che lui stesso chiama solipsismo o idealismo (per il quale “io ho mal di denti” è l’unica enunciazione possibile e certa) e realismo (per il quale, all’opposto, “io ho mal di denti” e “lui ha mal di denti” possono essere entrambe vere, o meglio possibili, e secondo un medesimo criterio di verificazione oggettiva). Le due enunciazioni, in prima e terza persona, sono entrambe accettabili, ma non hanno lo stesso statuto. Appellandosi al senso comune, Wittgenstein presuppone che, oltre al mio corpo vivente, ci siano e ci siano stati altri corpi, altrettanto viventi, “ciascuno dei quali è stato il corpo di un essere umano distinto e diverso, il quale, per tutto il tempo della vita del suo corpo, ha avuto [come le ho avute io] molte esperienze differenti” (p. 23).
Si aprono così diverse possibilità: “Privatezza dei sentimenti può significare: nessuno può conoscerli a meno che io non li esibisca, oppure: in realtà io non posso esibirli. Oppure: se non voglio, non ho bisogno di dare alcun segno del mio sentimento, ma, anche se voglio, posso esibire solo un segno ma non il sentimento” (p. 25). E la scelta di Wittgenstein, tra tali possibilità, non è univoca, né facilmente definibile.
Il fatto cui si riferisce l’enunciazione in prima persona è comunque direttamente accessibile dal soggetto (esperienza primaria, diretta), negli altri casi l’accesso è indiretto e richiede un salto inferenziale. “Ciò che caratterizza un’‘esperienza primaria’ è il fatto che la parola ‘io’ non sta a denotare un possessore” (p. 118), mentre “tu” o “lui” sono corpi materiali, organismi o, al limite, voci enuncianti, cui potrebbe non corrispondere alcuna soggettività e alcun corpo materiale. Se ho un corpo, si chiede Wittgenstein, di chi è questo corpo? di un corpo?, lasciando intendere che per uscire da questo paradosso occorre considerare il corpo stesso come detentore di una soggettività sua propria. E l’importanza del corpo emerge anche da un’altra considerazione: non si coglie la valenza simbolica di una enunciazione, ovvero il suo senso, se non si considera, a completamento del segno linguistico, tutto quanto le attiene, compresa la parte del corpo che la effettua materialmente, ovvero, nel caso della parola pronunciata oralmente, la bocca.
Il privilegio della prima persona, rispetto alla seconda e alla terza, viene in altra occasione contraddetto (non è questo il solo caso in cui Wittgenstein ritratta le proprie convinzioni, cosa che non facilita chi cerca di tirare le fila del suo discorso), e in definitiva Wittgenstein si colloca tra gli estremi del solipsismo radicale e di un altrettanto radicale realismo: di entrambi dice che occorre riconoscere i pregi, ma anche i limiti e le contraddizioni, spiegandone, anche se un po’ frammentariamente, i motivi.
La necessità di chiarezza che il linguaggio pone, si articola a due livelli, atomico e molecolare (cfr. Russell), ovvero delle singole parole e delle proposizioni. Queste ultime, a detta di Moore, e non senza una traccia di disappunto, Wittgenstein tende talvolta a confonderle con gli enunciati; forse, gli concede Moore, per la comune etimologia, in tedesco, dei due termini. La singola parola non può essere valutata e interpretata di per sé, occorre riferirla a due contesti: quello concreto dell’uso, e quello del sistema (linguistico) di cui fa parte, due cose peraltro in continuità tra di loro. È a livello di proposizione che possiamo applicare la funzione di verità per decidere della verità/falsità di quanto dice, perché è essa che si lega ad un referente secondo un sistema di proiezione in base a regole, modalità, contesti: “il senso di una proposizione è il modo della sua verifica” (p. 72): la significazione si gioca elettivamente a livello delle proposizioni. Queste stanno ai fatti come le parole stanno alle cose. E i fatti meritano il privilegio del filosofo perché legano le cose tra di loro, rendendole comprensibili, conferendo loro senso e ragion d’essere. Forzando un po’ la nostra interpretazione potremmo dire inoltre che i fatti “accadono” (mentre le cose “sono”) e sono perciò molto più “rivelatori” della realtà.
Queste lezioni “inaugurano” il secondo Wittgenstein affermando un principio di significazione che fa discendere la referenza della parola dal suo uso: “Un punto su cui [Wittgenstein] ebbe a insistere in diverse occasioni nella sezione (II) era che una parola può avere significato soltanto se ‘mi sento impegnato (commit myself)’ dal suo uso.” (p. 64), in quanto la parola deve essere considerata come appartenente a un sistema: “perché un segno abbia significanza (significance), non è sufficiente che ‘ci si impegni’ a usarlo, ma è altresì necessario che il segno in questione appartenga al medesimo ‘sistema’ di altri segni.” (p. 65)
Tutto questo, tralasciando la controversa accezione del termine “sistema” (su cui Moore si dilunga), delinea da una parte l’impossibilità di prescindere dall’uso concreto del linguaggio e dall’altra l’importanza dei “giochi linguistici” che tanto peso hanno avuto nella filosofia di Wittgenstein e del Novecento.
Ma verificazione/falsificazione significa anche oggettività, o quanto meno intersoggettività, per cui il famoso “io ho mal di denti”, pur riferendosi a un fatto a me direttamente accessibile, non è così per tutti gli altri, e quindi, in altre parole, non è verificabile in senso proprio. Invece altre proposizioni, ipotesi, proposizioni matematiche, e persino le regole, sono verificabili (sia pure secondo criteri e modalità diversi) e quindi hanno un senso. Non è così invece per le tautologie (necessariamente sempre vere) e le contraddizioni (necessariamente sempre false), non verificabili, e, proprio per questo, senza senso.
È a livello di proposizione che si può parlare di carattere “simbolico” del linguaggio, per cui il “segno” (linguistico) acquista significanza. La proposizione si colloca tra fatto ed enunciato, ma si affaccia più sul il versante del fatto. La dimensione formale non è tuttavia prescindibile, né separabile proprio sul piano della referenza e della verifica: “La verifica determina il significato di una proposizione solo quando fornisce la grammatica della proposizione in questione” (p. 73), intendendo con “grammatica” qualunque spiegazione sull’uso del linguaggio e dei “giochi” in seno ai quali esso viene usato. Le regole grammaticali, imprescindibili, sono però arbitrarie, simboliche, non descrivono alcuna realtà. Se tentiamo di giustificarle riferendoci al reale, rischiamo di scivolare in una serie illimitata di rimandi, una sorta di “regressio ad infinitum”, mentre se le facciamo derivare le une dalle altre attraverso un meccanismo di relazioni interne, per via deduttiva, si cade nella tautologia. Wittgenstein sintetizza dicendo che “ciò che è essenziale alle regole è la molteplicità logica che tutti i possibili simboli diversi hanno in comune” (p. 99), una definizione attinente più all’uso pratico del simbolo, che ad un suo carattere “ontico”…
Similmente definisce il gioco o il bello (cfr. pp. 123-125): non si può astrarre qualcosa di comune dalle varie accezioni di questi termini, ma le possiamo concatenare, in serie. La mancanza di fratture e discontinuità nella serie è una sorta di paradigma, fonda unità e validità del concetto.
Wittgenstein si colloca ormai sul versante dei filosofi del linguaggio ordinario. La bipolarità tra ordinario e ideale ricorda quella, anteriore di due-tre secoli, della ricerca della lingua perfetta nella cultura occidentale (cfr. U.Eco, La ricerca della lingua perfetta in Europa, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993), in cui si è assistito alle ricerche più disparate su lingue “a priori” e “a posteriori”.
L’attenzione di Wittgenstein al linguaggio e al comportamento osservati, unitamente alle riserve sul poter accedere alle (altrui) motivazioni e agli (altrui) stati interiori in genere, lo induceva a cautela nell’attribuirli a cause univoche e deterministiche. Il che lo portava a dissentire, anche se per motivi diversi, sia da Darwin che da Freud.
Il libro contribuisce a una più attenta e approfondita comprensione non solo della svolta nella filosofia di Wittgenstein, ma più estesamente nella filosofia dell’epoca: il rivolgere lo sguardo alla vita e al mondo, lasciandosi dietro i pretenziosi programmi del linguaggio ideale, è stato un cambiamento di enorme importanza, che ha avuto il suo avvio negli anni Trenta, proprio nelle università di Oxford e, guarda caso, di Cambridge.
La filosofia, rispetto al neopositivismo logico e alla filosofia linguistica, si sforza di liberarsi dei connotati di un’operazione di forma, più o meno pretestuosa e cavillosa, e soprattutto rivendica una sua origine più profonda. Come già ai tempi di Platone, Aristotele o Berkeley (cfr. pp. 134-135) scaturisce dalla meraviglia (“wonder”) dell’uomo di fronte al mondo. È questo, credo, che possiamo prendere come suggello dell’intero testo.

Indice

Introduzione: Wittgenstein e Moore tra grammatica e metafisica
Lezioni di filosofia 1930-1933


L'autore

Ludwig Wittgenstein (Vienna, 1889 - Cambridge, 1951) dà un contributo decisivo alla filosofia analitica e alla logica. Pubblica in vita solo il Tractatus logico-philosophicus (le altre opere usciranno postume), divenuto subito punto di riferimento del Circolo di Vienna, di cui tuttavia non fa mai parte. Dopo varie peripezie torna a Cambridge, dove tiene lezioni che hanno lasciato un segno e non solo in Gran Bretagna. Questo periodo corrisponde al secondo periodo della sua filosofia, in cui sposta l’attenzione dal linguaggio ideale a quello reale.


Il curatore

George E. Moore (1873-1958), filosofo inglese che si colloca nella filosofia analitica e nella metaetica. Formula il noto paradosso che porta il suo nome e mette in luce quella che lui stesso definisce la fallacia naturalistica. Successivamente si interessa del senso comune. La sua opera principale è Principia Ethica. Insegna a Cambridge e ha rapporti con Wittgenstein.