giovedì 30 ottobre 2008

Tolone, Oreste, Il sorriso di Adamo. Antropologia e religione in Plessner, Gehlen, Welte e Guardini.

Marietti, 2008, pp. 160. € 18,00 ISBN  978-88-211-8699-8

Recensione di Rolando Ruggeri – 30/10/2008

Antropologia – Religione - Filosofia

Il testo è una raccolta di saggi pubblicati dell’autore in varie riviste e volumi miscellanei. La trattazione produce un discorso spirituale, antropologico ma anche logico, sull’uomo, l’essere che trova senso nella sua contraddittorietà e dà senso a ciò che lo circonda. Il sorriso dell’uomo è il disvelamento di una identità profonda che i saggi tentano, con successo, di tracciare.
Nel primo saggio, “La dignità del sorriso secondo Helmuth Plessner”, l’autore mostra la cifra antropologica del pensiero di Plessner. L’uomo, con il peccato, è caduto sulla terra, ha abbandonato uno stato di protezione per lanciarsi nella vita. La simbologia dell’albero richiama qualcosa da cui si precipita, “cadere dall’albero vuol dire perdere la propria casa, rinunciare all’Eden per ricostruirselo” (p. 19). Plessner trova nella limitatezza propria dell’uomo quella spinta che serve a uno slancio più alto, più spirituale. La libertà umana sta nell’emanciparsi da una condizione di carenza, nel riuscire a superare il proprio stato di “emigrante” costretto a crearsi una patria per far fronte alla propria instabilità.
La scintilla spirituale dell’uomo sta proprio nel suo essere duplice, nella sua tensione tra ciò che è e ciò che vorrebbe-potrebbe-dovrebbe diventare. Non è la dicotomia shakespeariana essere o non essere, ma una fusione di essere e non essere, consapevolezza della propria contraddittorietà. Contraddizione e polisemicità non solo come sostanza, ma anche come forma, laddove lo slancio per il salto spirituale viene proprio dall’imitazione. Da quel “mettersi nei panni altrui […] per fuoriuscire in direzione dell’altro” (p. 28). Centrale in questo processo è il riconoscimento della figura di Cristo, quale termine medio tra uomo e Dio.
Ancora la tensione è al centro del secondo saggio, “La natura polare dell’uomo in Romano Guardini”. L’autore, sulla scorta del filosofo e teologo italo-tedesco, sottolinea la natura oppositiva dell’essere umano; l’“opposizione polare” è una continua tensione tra un punto interno e un punto esterno all’uomo stesso, un irrisolto e irrisolvibile contrasto tra forza centrifuga e forza centripeta. L’uomo ondeggia tra la rassicurante protezione dell’“interno” e la voglia di perdersi nell’altro, nel diverso, nel vuoto. Tensione impressa, oltre che nella carne (e nella mente) dell’uomo singolo, anche nei popoli. Guardini delinea un atteggiamento tipico di tutti i popoli: antichi e moderni, nordici e mediterranei, tutto si legge alla luce di questa irrisolta tensione che rischia di segregare o annichilire, di perdersi in se stessi o perdersi negli altri. Ma è questa tensione che permette anche l’incontro con Dio. L’uomo filtra la chiamata di Dio dentro sé, per comprendersi e trascendersi allo stesso tempo. Tolone insiste, accompagnato dagli autori citati, sulla peculiarità tutta umana di questa duplicità; il filo conduttore dell’opera, meditato nei diversi saggi e dai diversi pensatori presi in esame, è lo slancio tutto umano verso i poli dello spirito, uno interno a sé e l’altro al di fuori di sé.
Anche il terzo saggio, “Eccentricità e naufragio”, individua nella capacità di “decentrarsi” la differenza dell’animale uomo dall’essere vivente in senso generale. Il bisogno di “trascendere continuamente la propria posizione” (p. 60) è ciò che fa dell’uomo un essere utopico, un essere che però deve saper tornare in sé. “Bisogna perdere il mondo, ma per riconquistarlo, badando bene, in questo processo, a non smarrire del tutto le coordinate di partenza, altrimenti si rischia di andare incontro a una totale perdita d’identità” (p. 64). Occorre allora cercare di non smarrirsi: la potenzialità all’apertura è anche il rischio della totale perdita dell’identità, del naufragio, pericolo quanto mai attuale.
“Mito e morte nell’antropologia di Plessner”, il quarto saggio presentato nel testo, esamina il tema della morte e del mito che ruota attorno a esso. Vera mortalità non è soltanto cessazione della vita, ma rilettura del proprio orizzonte esistenziale alla luce della consapevolezza della morte. Il sapere di morire solleva l’umanità da un’esistenza ciclica, in cui sono racchiuse le culture mitiche, per proiettarla in una tensione che va da un momento iniziale a un momento finale. La storia lineare, possibile grazie alla storicità della rivelazione cristiana, permette di creare un futuro che non coincide più con un “già vissuto” ma è qualcosa di nuovo, più libero, anche se più precario. Ma qual è la fede nel futuro? “La posthistoire. Gehlen e la fine della storia”, il quinto saggio del libro, riconosce la “fede nel progresso” quale il corrispondente secolarizzato della speranza di salvazione; l’uomo ripone della tecnologia il bisogno di redenzione (e di tensione a qualcosa fuori di lui) che non può fare a meno di sentire. La società si fa tecnologizzata ma non sfugge al rischio di perdita di senso che i saggi precedenti ci hanno mostrato. Il concetto di posthistoire abbraccia proprio lo svuotamento di senso della fede nel progresso, un secondo grado di secolarizzazione, che degrada a routine ciò che si credeva avesse di salvifico il mondo tecnologizzato. Si assiste a un livellamento culturale che spinge la storia in un vicolo cieco ed è preludio per la sua fine. L’ottimismo di Plessner non si ritrova nel pensiero di Gehlen, la standardizzazione mina alle fondamenta le istituzioni della società, di ogni società che, non riuscendo più a proteggere se stessa, si perde all’interno del magma globalizzato e indifferenziato proposto dalla nuova cultura. Che resta quindi delle istituzioni? Che resta, ad esempio, della nostra Europa? Tolone non lascia cadere nel vuoto la domanda. Il saggio successivo si intitola “L’Europa tra Husserl e Plessner”. All’Europa viene riconosciuta un’identità che non è stata mai coesa, un’unità che in realtà non si ritrovava, se non a parole. Prima attraverso il pensiero di Plessner e poi quello di Husserl, l’Europa viene letta con occhio acuto e critico, mostrando quello che rappresenta per la cultura mondiale e quello che perde nel contatto con il mondo.
Gli ultimi due saggi riguardano il pensiero di Bernhard Welte, “Libertà e ontologia in Bernhard Welte” mostra la capacità unicamente umana di assentire alle proprie azioni, l’impossibilità dell’uomo di ridursi a semplice meccanismo. Nella libertà umana, che è fondata sulla facoltà di aprirsi all’altro da sé, troviamo la piega entro la quale si realizza la scelta dell’allontanamento. La capacità di trascendere è, come già si è visto, capacità di perdere se stessi, di dire no agli altri e a Dio. Legato al tema della libertà e della trascendenza è l’ultimo saggio, “Welte e l’epocalità della fede”, in cui l’autore ci mostra il legame indissolubile tra rivelazione e storicità. La storia, resa possibile dalla presenza dell’uomo, è la culla entro la quale la rivelazione può manifestarsi. Il messaggio di Dio si fa storia e viene inserito nel sentire di un’epoca, letto attraverso i canoni culturali; è nella “comprensione dell’essere” che tutto acquista senso ed è proprio tenendo fermo il concetto di lettura epocale che la rivelazione può essere letta, in ogni epoca, come un fatto nuovo, sempre presente. Così la Rivelazione stessa, comunemente intesa quale unico e immutabile lascito, viene a essere interpretata in modo diverso a seconda delle varie epoche, entrando a far parte anch’essa, come l’uomo, della tensione tra finito e infinito.
Saggi brevi ma pregni di contenuto e di interesse, non forzatamente accostati ma intimamente collegati a un interesse comune e a una idea condivisa di uomo.

Indice

Prefazione di Adriano Fabris 
Introduzione 
I. La dignità del sorriso secondo Helmuth Plessner 
II. La natura polare dell’uomo in Romano Guardini 
III. Eccentricità e naufragio 
IV. Mito e morte nell’antropologia di Plessner 
V. La posthistoire. Gehlen e la fine della storia 
VI. L’Europa tra Husserl e Plessner 
VII. Libertà e ontologia in Bernhard Welte 
VIII. Welte e l’epocalità della fede


L'autore

Oreste Tolone, formatosi all’Università di Friburgo, insegna Antropologia filosofica all’Università di Chieti. Di Berhard Welte ha tradotto: Storicità e rivelazione (Lecce, 1996). Sua è la monografia su Helmuth Plessner, Homo absconditus (Napoli, 2000) e il suo volume: Bernhard Welte. Filosofia della religione per non credenti (Brescia, 2006).

martedì 28 ottobre 2008

Negri, Antonio, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica.

Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 156, € 12,00, ISBN 9788807104350.

Recensione di Gianmaria Merenda – 28/10/2008

Sociologia, Filosofia politica

Le intenzioni di Antonio Negri sono espresse chiaramente all’inizio del testo e si ripresentano varie volte nello sviluppo delle lezioni: “Queste lezioni, tenute nel 2004-2005 al Collège internationale de philosophie, a Parigi, si sono date il compito di cogliere il passaggio dalla modernità alla postmodernità nelle analisi della scienza politica e della filosofia. Il loro punto di partenza è consistito innanzitutto nel tentativo di circoscrivere il linguaggio politico corrispondente a questa transizione” (p. 5); “Un invito collettivo ai ricercatori di buona volontà perché si consacrino alla redazione di un nuovo vocabolario postmoderno del campo politico […]” (p. 8); “Quello che qui ci interessa è innanzitutto la riforma del lessico politico – in particolare quando si arriva a toccare nozioni come quelle di “diritto soggettivo”, di “cittadinanza”, di “esercizio del potere costituente” o, ancora, di “democrazia”” (p. 100); “Insomma: una nuova Enciclopedia” (p. 110). La successione serve solo a mettere in luce la continua e pressante esigenza dell’autore, da pagina 5 a pagina 110, di ricordare al lettore, forse anche a sé stesso, l’obiettivo delle lezioni. Credo che in questo modo si possa cogliere la continuità dell’azione.
Negri in queste lezioni parigine ha ben in mente un suo pubblico ideale: “ai socialisti e i comunisti che hanno vissuto onestamente e che hanno pensato la loro esperienza nei vecchi termini dialettici del marxismo-leninismo” (p. 8).
La prima lezione affronta la cesura che si è creata tra il moderno e il postmoderno. Negri indica il postmoderno come tutto ciò che è successivo “alla crisi dello stato-nazione”. Attorno a questa cesura si è coagulato un pensiero della politica che è rimasto imbrigliato in una dialettica sostanzialmente binaria: da una parte l’accettazione del potere per quello che è, dall’altra la negazione del potere. “Una vasta omologia della concezione del potere nel pensiero moderno” (p. 12). Questo pensiero ‘imbrigliato’ nasce dalle teorie politiche di Weber, Schmitt e Lenin: “Ripetiamolo: nei due casi che stiamo analizzando [accettazione del potere o negazione dello stesso, ndr.], si tratta di una doppia impasse che pretende di obbligarci a scegliere tra due possibilità. La prima consiste nel prendere il potere e diventare un altro potere – cioè, malgrado tutto, sempre e ancora un potere; la seconda cerca di negare totalmente quel potere sulla vita che è, allo stesso tempo, una negazione della vita stessa” (p. 15).
Il problema postmoderno che ha scardinato la concezione binaria del potere, per questo insieme di lezioni, è il ‘lavoro immateriale’, di concetto, creativo. Il lavoro materiale ha ormai fatto il suo corso, “si è trattato di una sfida operaia e insurrezionale che ha messo in crisi sulla lunga durata (esattamente quella che altri hanno definito come il “secolo breve”) l’insieme del lavoro organizzato” (p. 17). Una spina nel mondo capitalistico che non provoca più fastidio, il lavoro materiale è sempre più de-localizzato, è altrove. Nell’immateriale deve quindi svilupparsi l’insurrezionale negriano. Infatti, una seconda cesura postmoderna “si gioca attorno alla ridefinizione del concetto di sovranità” (p. 18), il controllo del biopotere è passato dall’individuo all’intera popolazione. Ecco rispolverato il concetto foucaultiano di biopolitica che per Negri non è un ritorno al reazionario vitalismo, ma al contrario un tentativo “di far ripartire il pensiero (e la riflessione sul mondo) dall’artificialità – intesa come rifiuto di ogni fondamento naturale – e dalla potenza della soggettivazione” (p. 29).
Per comprendere queste cesure e la necessità di rinnovare il concetto di biopolitica Negri illustra le tre forme caratteristiche del pensiero postmoderno: il ‘pensiero debole’ che “riduce la soggettività alla circolazione mercantile” (p. 24) - gli autori di riferimento sono Lyotard, Baudrillard, Vattimo e Rorty -; il pensiero come ‘resistenza marginale’ oscillante tra una sorta di “feticismo delle merci” (p. 24) e la tentazione di un’escatologia mistica - autori di riferimento Derrida, Agamben, Nancy e Benjamin - ed infine il pensiero “come postmoderno critico, ovvero come riconoscimento non solo della nostra fase storica ma dell’antagonismo che le corrisponde […] come ricostruzione di uno spazio di soggettivazione” (p. 24) - autori di riferimento Foucault e Deleuze. Qui secondo Negri si troverebbe la soluzione del problema postmoderno. Le filosofie politiche e della differenza di Foucault riescono ad essere i motori di una nuova soggettivazione.
È proprio la soggettivazione che permette di avvistare un’eccedenza di potenza del lavoro cognitivo perché questo non è facilmente quantificabile, riducibile a pura merce: “La potenza è al contrario il non-misurabile, l’espressione pura delle differenze irriducibili” (pp. 34-35).
Da questa descrizione della potenza si passa al concetto di moltitudine che è il luogo, forse il ‘piano d’immanenza’ deleuziano, in cui si incrociano le ‘differenze irriducibili’ poco sopra descritte: “La moltitudine deve dunque essere necessariamente pensata come una molteplicità non organica, differenziale e potente” (p. 40).
“In generale vi sono due obiezioni che vengono formulate contro la definizione del concetto di moltitudine: la prima consiste nel denunciare la sua incapacità a presentarsi in quanto forza antisistemica, la seconda obietta che non è possibile descrivere il passaggio della moltitudine dall’in sé al per sé, ovvero di definirla in quanto istanza di ricomposizione unitaria capace, dunque, di sviluppare un’azione politica efficace al di fuori di ogni mistificazione dialettica” (p. 55).
Nell’insieme di differenze irriducibili che formano la moltitudine negriana però si aboliscono le gerarchizzazioni salariali: “Non c’è alcuna ragione di distinguere e di gerarchizzare le forme di salario” (p. 59). Le differenze salariali e di gerarchia sono con ogni probabilità l’ultimo appiglio che una visione capitalistica del mondo, opposta a quella di Negri, poteva recriminare per conservare un minimo di ‘mercificazione’ dell’antisistemica moltitudine. L’autore quindi per non incorrere in questo rischio le esclude a priori.
La moltitudine si ‘esprime’, per mutuare ancora un concetto deleuziano, nel comune: “Il comune si presenta sotto forma di un’attività – e non come un risultato; si presenta sotto forma di un concatenamento, di una continuità aperta e non come una densificazione del controllo” (p. 61). Ovvio che l’espressione del comune ha delle implicazioni sul reale: “Il diritto comune non è pensabile che a partire dalla distruzione dello sfruttamento – che questo sia pubblico o privato – e dalla democratizzazione radicale della produzione” (p. 67).
Il ‘comune’, dunque, in quanto resistenza allo status quo e in quanto momento ‘costituente’ avverte e chiama la violenza: “Quando abbiamo parlato di resistenza […] non abbiamo escluso la violenza politica. la violenza politica è semplicemente una funzione dell’agire politico democratico, poiché anch’essa mostra, alla sua maniera, la resistenza, e perché impone l’antagonismo là dove lo stato non può che affermare il suo dominio e il suo controllo” (pp. 113-114).
È possibile agire con la violenza politica nel reale e non solo nelle idee teoretiche? Dove deve svilupparsi questa violenza politica? Negri non ha dubbi, nell’Impero: “L’Impero è la sola dimensione spazio-temporale, etica e ontologica, politica ed economica, nella quale la moltitudine possa dedicarsi a una sperimentazione pratica della libertà. […] Un interregno durante il quale uno stato di fatto sovversivo e rivoluzionario si è affermato in maniera decisiva” (p. 127). È in questa cesura, tra moderno e postmoderno, che la moltitudine dovrebbe esprimere la propria potenza. Il momento è propizio. Difatti anche il concetto di rivoluzione è toccato dall’analisi politica di queste lezioni: “La rivoluzione è un’accelerazione del tempo storico, la realizzazione di una condizione soggettiva, di un evento, di un’apertura, che concorrono a rendere possibile una produzione di soggettività irriducibile e radicale” (p. 142).
Sul finire del testo appare ciò che sembra essere il vero oggetto della ricerca. Non tanto la creazione di un nuovo lessico politico ma il consolidamento di un vecchio concetto, il conflitto: “Ecco che dappertutto ritroviamo il conflitto trascendentale” (p. 153).
Non ci sentiamo di avallare questo pensiero politico perché non pare ‘nuovo’, come era invece stato pensato nelle intenzioni di Negri nella prefazione del testo, e perché porta con sé il seme della violenza. Purtroppo non si è intravisto il rinnovamento dell’Enciclopedia politica. La violenza, che sia trascendente o trascendentale poco importa in questo frangente, è sempre stata uno dei concetti cardine nella tassonomia della filosofia politica, non occorre ricordare in questo luogo le occasioni del suo richiamo. Rimaniamo per questo motivo in attesa dei risultati del lavoro dei ricercatori ‘di buona volontà.

Indice

Prefazione
Atelier n. 1
Moderno e postmoderno: la cesura
Atelier n. 2
Il lavoro della moltitudine e il tessuto biopolitico
Atelier n. 3
Fra globalizzazione ed esodo: la pace e la guerra
Atelier n. 4
Oltre il privato e il pubblico: il comune
Atelier n. 5
La critica del postmoderno come resistenza marginale
Atelier n. 6
Differenza e resistenza
Dal riconoscimento della cesura postmoderna alla costituzione ontologica dell’a-venire
Atelier n. 7
Dal diritto della resistenza al potere costituente
Atelier n. 8
Governo e governance
Per una critica delle “forme di governo”
Atelier n. 9
Decisione e organizzazione
Atelier n. 10
Il tempo della libertà comune
Conclusione


L'autore

Antonio Negri, detto Toni, classe 1933, nel 1967 è professore di Dottrina dello Stato presso l'Università di Padova, da vita all’organizzazione ‘Potere operaio’, è processato e condannato per reati di terrorismo. Si rifugia in Francia dove si avvale della “dottrina Mitterand” che gli evita l’estradizione in Italia. Rimane in Francia per quattordici anni insegnando nelle università. Finisce di scontare la pena nel 2003 dopo il suo rientro in Italia. Tra le sue opere più recenti e di maggior successo si segnalano: Impero, il nuovo ordine della globalizzazione, scritto con Michael Hardt, Rizzoli, 2002; Moltitudine, guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, sempre con Michael Hardt, Rizzoli, 2004; Goodbye Mr Socialism, Feltrinelli, 2006.

Amoroso, Leonardo (a cura di), Il battesimo dell’estetica.

Pisa, Ets, 20083, pp. 64, € 9,00, ISBN 9788877416971

Recensione di Paolo Calabrò - 28/10/2008

Estetica

Giunge alla sua terza edizione questo bel libro, ormai quindicenne: Il battesimo dell’estetica, curato da Leonardo Amoroso, docente di Estetica all’Università di Pisa. Il testo è pensato per gli studenti del suo corso, pubblico al quale si rivela certamente adatto - soprattutto per la chiarezza dell’Introduzione, che occupa un terzo del libro - ma non manca di coinvolgere anche chi gli studi se li è lasciati alle spalle già da un po’, per l’efficacia della sintesi e al contempo la ricchezza degli spunti.
Il problema dell’individuazione della nascita dell’estetica viene ricomposto partendo da una ben precisa base testuale (in traduzione italiana con testo a fronte, latino - per gli scritti di Baumgarten - ovvero tedesco - per quelli di Kant). Nella ricostruzione di Amoroso - basata su quattro testi del Settecento, due di Baumgarten e due di Kant - l’estetica nasce, sia come termine sia come disciplina filosofica, nel 1735, con il Progetto dell’estetica di Baumgarten (diversamente, Benedetto Croce, faceva risalire la genitura dell’estetica a Vico, mentre Baumgarten l’avrebbe semplicemente “tenuta a battesimo”, espressione che dà il titolo al libro). Essa nasce dunque in Germania, e con l’ambizione di “dimostrare razionalmente, filosoficamente, le regole del poetare” (p. 10). Per Baumgarten l’estetica va concepita come scienza rigorosa dell’esperienza sensibile. La poetica (concepita a sua volta razionalisticamente come arte dell’esprimere le idee con la massima chiarezza possibile) va integrata nella filosofia, dalla quale eredita tutto il rigore e la forza dimostrativa; il suo fine dichiarato è la “perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale” (p. 16).
L’estetica dunque come scienza di una forma di conoscenza, quella sensibile (Amoroso rileva en passant che a Baumgarten si deve l’introduzione del neologismo “gnoseologia” oltre a quello di “aesthetica”); alla quale, “sorella minore della logica” (il primato spetta infatti sempre alla razionalità), non manca il primato per così dire “temporale”, dato dal fatto che “gli uomini prima sentono e poi ragionano” (p. 17). In dialettica con questa posizione “fiduciosa” nei confronti della possibilità di una fondazione scientifica dell’estetica, Kant delinea la propria posizione, dapprima scettica, in seguito più “possibilista” (come si rileva dagli ultimi due dei quattro scritti proposti da questa antologia).
Tra i motivi che rendono piacevole - e non solo utile - la lettura di questo testo, lo stile di Baumgarten, che conosce bene i limiti propri e della neonata disciplina, il cui entusiasmo nell’intravedere la soluzione del problema non gli impedisce di valutarne e di accettarne onestamente la distanza: “§ 5 - Si potrebbe obiettare alla nostra scienza (§ 1): 1) Si estende troppo per poterla esaurire in un unico volumetto, in un unico corso di lezioni. Risp.: Concesso. Ma qualcosa è meglio di niente” (p. 37). E che è alieno dal considerare la filosofia come qualcosa di etereo, adatto a uomini con la testa persa fra le nuvole: “§ 6 - Si potrebbe obiettare alla nostra scienza: 4) Cose sensibili, immagini, favole, perturbazioni degli affetti, etc. non sono degne dei filosofi, sono poste al di sotto del loro orizzonte. Risp.: a) Il filosofo è uomo fra gli uomini e non fa bene a ritenere a sé estranea una parte tanto grande della conoscenza umana” (p. 39).
Questa terza edizione contiene un nuovo testo, il quarto, che sostituisce il precedente § 8 della Erste Einleitung, ritenuto oggi da Amoroso, sulla scorta della sua esperienza didattica, troppo ostico per gli studenti. Nuova edizione critica, nel suo piccolo, che riesce a rendere conto - relativamente, è chiaro, alla sola parte citata - dei ritocchi apportati da Kant alla seconda edizione della Critica della ragion pura. Accessibile nei contenuti e privo di refusi tipografici; insomma, un libro sull’estetica che è “bello” leggere.

Indice

Prefazione alla terza edizione
Introduzione
Baumgarten, Progetto dell’estetica
Baumgarten, Definizione e apologia dell’estetica
Kant, Sulla possibilità di un estetica filosofica
Kant, La critica della capacità di giudizio


L'autore

Leonardo Amoroso, nato a Livorno nel 1952, è docente di Estetica all’Università di Pisa. Tra le sue opere si ricordano: Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, ETS, 20082; Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e Benamozegh, ETS, 2004; Lettura della “Scienza nuova” di Vico, UTET Università, 1998; Nastri vichiani, ETS, 1997; Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier, 1993; (a cura di), Maschere kierkegaardiane, Rosenberg e Sellier, 1990; L’estetica come problema, ETS, 1988; Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, 1984.
Link

Pagina personale di Leonardo Amoroso presso il sito del Dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa - 

giovedì 23 ottobre 2008

Ferraro, Giuseppe, L’innocenza della verità. Corso di filosofia in carcere.

Napoli, Filema, 2008, pp. 230, € 14,00, ISBN 9788895204024.

Recensione di Irene Merlini – 23/10/2008

Il testo nasce dell’esperienza viva di Giuseppe Ferraro nelle carceri campane di Bellizzi e di Carinola. Per questa ragione il libro si snoda in un intreccio continuo di rimandi, tra l’esperienza vissuta e le riflessioni profonde che dalla prima scaturiscono.

Si scopre presto che innocenza e carcere, entrambi termini presenti nel titolo, sono un ossimoro solo apparente. Ciò che ha fatto Ferraro, e che ha saputo trasformare bene in parola scritta, è un percorso teso a riconoscere come la verità interiore, quella vera, sia sostanzialmente innocente. Solo quando si hanno il coraggio e gli strumenti –che spesso mancano- per riconoscere la verità, si apre quel luogo singolare in cui si può essere liberi anche dentro le mura, uscendo dalle strettoie delle catalogazioni: carcerato, omicida, ladro. Libertà significa poter cambiare, avere la possibilità di uscire dalla stasi rassegnata, significa che si può migliorare se stessi.
Qui trova ragione di essere la filosofia: tra la psicologia e la giurisprudenza, tra la sfera privata e la sfera pubblica, essa è l’unica disciplina che racchiude la parola filìa, ovvero amore, nel senso di avere cura.
La filosofia si preoccupa del logon didonai, cioè del rendere ragione nel senso della restituzione. Se innocenti si nasce e colpevoli si diventa, e il percorso a ritroso è precluso, la filosofia dona la possibilità di tornare in se stessi dopo ciò che si è stati -probabilmente colpevoli-, e non per tornare come si era, bensì per tornare in sé e a sé in modo differente. Qui sta l’estrema ricchezza di questa disciplina che è “un possesso senza proprietà” (p.29) e, in quanto tale, deve essere restituita. La filosofia è un come più che un cosa; si fa etica, alla ricerca del bene e del vero.
Emerge una critica alla struttura carceraria così com’è, perché l’offerta formativa è di minorità, un po’ come il minimo garantito, senza nessuna aspirazione –scrive Ferraro-. Se la salute di una democrazia si misura proprio nelle sue zone di confine, e il carcere è una di queste perché è la zona dell’illegalità, allora bisogna indagarla, anziché emarginarla. Se polis vuol dire legame tra i molti che hanno cura della stessa cosa, che scelgono di stringere legami perché la cosa di tutti sopravviva, illegale è chi non ha sentito il sentimento del legame con le regole, di un legame di verità con le regole. “Ed è solo quando una regola non è sentita propria, o quando non ti fa sentire proprio e in relazione di verità con te stesso e con gli altri, solo allora scatta quella catena che porta lontano fino a smemorare l’appartenenza alla propria città” (p.40). Legami e legalità: questo il binomio funzionante, perché la legalità è affettiva prima ancora che giuridica.
Ferraro ricerca le relazioni che permettono di insegnare la filosofia come pratica, come arte della fuga senza evasione, nel rincorrersi del tempo interiore, per raggiungersi e trovarsi proprio là dove non si era mai stati. La filosofia obbedisce a un tempo strano, “un futuro interiore, ed è quello che si condensa nel vano dell’animo e che ci fa promettere ed educare ad essere al presente” (p.54). Ferraro offre ai detenuti un riparo attraverso l’esercizio filosofico della disposizione, come posizionarsi altrimenti. Posizionarsi in cerchio per essere liberi di sapere, in un luogo in cui è importante la modalità, in un luogo fatto di presenza e di parola. Non si tratta di sapere cosa, ma di sapere di cosa, “di saperla nel modo in cui la si vive, la si sente, nel modo in cui la si ascolta risuonare in se stessi, partecipandovi” (p.47).
Nel cerchio avviene l’esperienza straordinaria dell’amicizia, attraverso l’uso della parola vera, che è di ciascuno ma si offre a tutti, donando riparo all’irreparabile. Si tratta in sostanza di dare parola ai contenuti e ai sentimenti che non l’hanno avuta prima, perché non hanno potuto averla o non hanno saputo averla. Si tratta di dire e di usare uno sguardo attento per ascoltare l’invisibile. “Se la filosofia è vedere quel che manca in quel che c’è, perché quel che c’è sia veramente quel che è, allora l’esercizio che precede ogni altro è presentarsi impreparati per cogliere ciò che risulterebbe compromesso da un discorso approntato e già definito. Vedere l’invisibile è questa propriamente la pratica della filosofia, l’arte della sua fuga, non certo andare chissà dove, ma mirare verso ciò che non si vede proprio in ragione di quel che si lascia vedere” (p.51).
E’ esattamente questo lo spirito con cui Ferraro entra nel carcere e che introduce alla Parte II del testo, Il cerchio dei dialoganti, fatta di capitoli che associano nel titolo un concetto ad un soggetto, come a ribadire che i concetti sono sempre di qualcuno, hanno origine sempre da una vita vissuta e da una voce vibrante.
L’atteggiamento dell’autore non è mai di chi impone certe tematiche, ma di chi è pronto a cogliere quel che c’è nell’hic et nunc del cerchio dei dialoganti, per intraprendere un binario inatteso e imprevedibile.
Molti ragionamenti meriterebbero menzione, perché è esemplare come sono nati e si sono evoluti nel tessuto di voci, come e cosa hanno fatto scoprire ed aprire.
Nell’antica Grecia non è libero chi non possiede legami, ma chi possiede legami di appartenenza a una famiglia, chi è riconosciuto e appartiene alla città. Nell’ora di filosofia si dischiude ai detenuti la possibilità di essere liberi, intessendo legami di verità, riappropriandosi di sé e del proprio tempo.
L’ esercizio dell’ascolto educa ai sentimenti, perché significa dare tempo all’altro e guadagnarlo per se stessi nella relazione di verità, laddove il contrario è il tradimento di chi è nemico. Il vero filosofico è fatto dalle relazioni che sosteniamo, è ciò che ci sostiene e non ciò che sosteniamo e che sarebbe passibile di falsità. Si è veri allora con gli amici, con la famiglia, con se stessi, con tutti coloro di cui si ha fiducia e con cui ci si può abbandonare.
E’ educativo recuperare lo spazio difficile in cui si è veri, giusti e buoni. Già Aristotele distingueva “un’amicizia per il bene dell’interesse e un’amicizia per l’interesse del bene, ovvero un’amicizia interessata e una disinteressata” (p.86) e Agostino lo riecheggia quando sostiene che la verità non si può condensare in una definizione, ma è una relazione, un dialogo di verità che si può intrattenere con chi è amico.
Il problema sorge col nemico, con chi è nemico di chi e perché. Serve un terzo che giudichi e la filosofia insegna a farsi terzo ed essere giusti prima di tutto nella zona interstiziale tra sé e sé. Parafrasando Aristotele: “Quella giustizia che non giudica recuperando alla concordia sociale procurando, attivando e alimentando l’amicizia, diventa una giustizia ingiusta”(p.117). Se è così, quando siamo di fronte a una colpa non dev’essere il singolo solo a risponderne, ma tutta la città deve essere chiamata in causa. L’educazione dovrebbe essere tanto primaria da dover essere diffusa in tutti i contesti. Essa è strumento essenziale al riscatto dei detenuti perché, se è vero che la verità è innocente, che i detenuti sono innocenti nelle loro relazioni di verità, è anche vero che la loro storia non lo è, che la storia e la verità non sempre coincidono. La questione sta nel come farle coincidere, nel come diventare ciò che si è. L’educazione diventa la possibilità di costruire una storia altra, talmente clamorosa da poter essere ricordati per un’altra storia.
La forza del testo, che offre molte riflessioni di questo tipo, sta nella possibilità di ascoltarle nel mentre si dispiegano: attraverso i pensieri silenziosi che Ferraro si porta a casa, attraverso le parole dette e quelle scritte dai detenuti. Alberto, trasferito in un’altra casa circondariale, è ancora parte del cerchio attraverso un rapporto epistolare denso e profondo. Lui è l’esempio di chi ha capito e quindi trova la forza di reagire ogni giorno alla pena definitiva: crescendo, leggendo, pensando a ciò che è importante, dedicandosi con verità ai rapporti essenziali; Alberto è tutti coloro che hanno scoperto il prezioso segreto filosofico e a cui Ferraro dice: ”Fa’ di tutto per essere un detenuto libero. Non è un paradosso. Cerca di detenerti da te stesso, non farti detenere”(p.100).
Il testo si conclude con una critica, nel senso filosofico, della ragione penale. Ferraro si tiene lontano dalle colpe dei prigionieri, e non perché non siano reali, ma perché a lui interessa la verità delle persone e che le persone tocchino la loro verità. E’ un percorso che spinge ad una riflessione sul perché del carcere, delle pene e delle colpe. Dalla lettura della Fenomenologia di Hegel, nella parte dedicata alla “ragione che esamina le leggi”, emerge la necessità di una relazione fluida tra l’Etica e la Legge, perché “essere nella sostanza etica significa considerare il Giusto in sé per sé, quindi considerarlo tale non per me e in me” (p.205). Si tratterebbe di riconoscere nella propria volontà quella di un Noi, se non fosse che anche la Legge è passibile di scelte individuali: Hegel non parla di Socrate in cella che, innocente, sceglie di non fuggire, per obbedire a quella stessa Legge che lo condanna. E’ ancora la questione dei legami, del binomio legami-legalità, è questione di quantificazione e qualificazione del tempo. In cella il tempo è solo quello esteriore e misurabile, che non sa monitorare i singoli passi di una coscienza che pesa e che non può riscattarsi senza strumenti. “Occorre pensare al carcere come ad un istituto di garanzia sociale” (p.215), in cui si ragioni in termini di restituzione, e non di risarcimento: usare termini di patteggiamento e di sconti significa rimanere nella logica dello scambio e promuovere valori legati allo scambio. Ma, come si può scambiare ciò che misurabile non è, se non operando un’illecita conversione del tempo interiore in tempo esteriore?
Non è in questione il perdono, i delitti non si perdonano, perché non si possono perdonare e perché solo Dio li potrebbe perdonare. “L’uomo può solo restituire, quando non resta impigliato nello schema d’interesse di scambio. Non il perdono, ma l’imperdonabilità verso se stessi rende possibile la restituzione come espressione del Giusto, avanzando verso una Giustizia Restitutiva” (p.217). Ciò che è in questione è come bisogna fare per restituire se le misure saltano, e quando si ha a che fare con la vita le misure saltano, perché nel mentre si cerca di definirla quella si trasforma. Sta tutto lì il suo senso, nel sacro e nel nulla della coscienza interiore di ciascuno. E’ questo dell’interiorità il luogo in cui si può restituire e restituirsi, anche dentro il carcere. L’esperienza di Ferraro lo dimostra: si tratta di offrire stimoli per sapere-di, come quella sera a Carinola, in cui gli allievi erano raggianti dopo la lezione, perché si erano scoperti in grado di rispondere alla domanda milionaria di un quiz televisivo. Non avevano vinto, ma erano felici come se avessero vinto, perché sapevano. Chiedono ancora di poter sapere, di sé e del mondo; chiedono di sapere attraverso le parole che non hanno mai saputo o potuto dire, per ritrovarsi dove non erano mai stati; chiedono di sapere attraverso le relazioni di verità e amicizia coi compagni di viaggio; ma soprattutto (si) chiedono di quel compagno che stanno conoscendo e da cui non si separeranno mai: l’altra parte di sé. Certo, questa non li assolverà ma, nel tempo del futuro interiore, renderà loro possibile costruire una storia nuova, che coincida finalmente con la loro verità.
A noi che siamo fuori dalle celle resta uno spazio smisurato per una critica della ragione penale, per l’autocritica e per una riflessione, a partire dalle parole di Giuseppe, detenuto e allievo-amico di Ferraro: “La vita («Limpida meraviglia di un delirante fermento») come mezzo di conoscenza e con questo principio nel cuore penso si possa vivere deliziosamente e finanche tendere fin dove si vuole: l’uomo arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo” (p.227).

Indice

Premessa 
Ringraziamenti 
I Parte: La filosofia in pratica 
II Parte: Il cerchio dei dialoganti 
III Parte: Per la critica della ragione penale


L'autore

Giuseppe Ferraro insegna filosofia presso l’Università Federico II di Napoli. Per Filema ha pubblicato nella stessa collana La filosofia spiegata ai bambini, Filosofia in carcere e La scuola dei sentimenti.

mercoledì 22 ottobre 2008

Panikkar, Raimon, L’altro come esperienza di rivelazione.

L’altrapagina, 2006, pp. 79, ISBN 978-88-87530-25-4.

Recensione di: Vittorio Russo - 22/10/2008

Filosofia delle religioni - Dialogo interculturale

L’altro come esperienza di rivelazione è un opuscolo piccolo, ma prezioso, che conserva, tra le sue pagine, le parole sagge di un’intervista di Achille Rossi a Raimon Panikkar sul dialogo interreligioso. Un semplice dibattito che finisce per diventare un insegnamento di vita.
“Sono partito come cristiano, mi sono scoperto indù, sono ritornato come buddhista senza aver cessato mai di essere cristiano” (p. 32). Un’espressione significativa, l’incipit adatto per poter comprendere l’idea portante di questo libro, intrinseca al titolo stesso: il principio di alterità, intendendo con questa formula un' analisi, uno studio continuo dell’altro, dell’“altera pars” che è in ognuno di noi.
La conoscenza dell’altro è possibile attraverso il dialogo e, secondo quanto asserisce Panikkar, attraverso un dialogo che smetta di essere interreligioso e cominci ad essere dialogale. Questo perché il dialogo dialogale - lungi dall'essere un confronto sterile tra due discorsi fondato sul principio di non contraddizione - è un dialogo che arriva al cuore dopo che tutti gli interlocutori hanno relativizzato le proprie credenze e abbattuto le proprie mura interiori.
Si tratta di un dialogo che crea contatto tra persone sprofondando nei meandri riposti della loro interiorità e per questo trascendendo la regione della razionalità. È un dialogo che Panikkar ha altamente a cuore e che ama definire con l’espressione “l’incontro degli occhi”: "Se gli occhi non si parlano, se non si dicono quello che non si può dire, non può cominciare un dialogo" (p. 44).
Il dialogo dialogale possiede come principio filosofico fondamentale quello di non ridurre all’unità tutte le differenze esistenti, sia perché il pluralismo è intrinseco alla verità sia perché, secondo Panikkar, non esistono universali culturali, il monoculturalismo è asfissiante e, in ultima istanza, non esiste il monomorfismo.
Questa, secondo il teologo ispano-indiano, è una lezione da impartire soprattutto agli occidentali che si mostrano oltremodo presuntuosi nel non voler ammettere che ogni cultura è un mondo a sé stante con le opportune sue diversità. Da qui la critica negativa di Panikkar all'immagine del “villaggio globale” e al suo fautore Mc Luhan che non hanno fatto altro che accrescere il rischio di ridurre tutto a un comune denominatore e dipingere gli occidentali come provinciali inconsapevoli di esserlo.
È importante sottolineare che nell’aprirsi all’altro, e quindi a una cultura differente, è implicata anche la religione, intesa come “espressione del senso della vita”. La religione, per Panikkar, è strettamente legata alla cultura così come questa è inscindibile dalla prima: "Come la religione dà alla cultura il contenuto ultimo intellettuale, la cultura dà alle religioni il suo linguaggio e si parla di un linguaggio diverso a seconda della religione" (p. 37).
Ed è proprio la religione a svolgere un ruolo dominante in questo opuscolo dal quale traspare quel surreale clima che si originò ad Assisi nel 1986 (e che tutt'oggi perdura in alcuni dei suoi esponenti, come mostra questa intervista a Panikkar del 2006) con l’incontro tra i rappresentanti tutti delle religioni mondiali. Un evento storico in cui l’osmosi tra le diverse religioni fu palpabile al punto da indurre a credere che, forse, è questa l’unica soluzione per perpetuare la pace e porre rimedio alle guerre e al terrorismo.
Relazione e dialogo tra diverse culture e religioni non sono più da considerare come una possibile idea di salvezza dell’umanità, ma “devono” essere valutati come necessari alla sopravvivenza della società mondiale e essenziali per evitare uno scontro carnefice tra le civiltà. In ciò è possibile comprendere il senso e l’essenza ultima del già citato “principio di alterità” in grado di definire anche la posizione del cristianesimo rispetto a tutte le altre religioni esistenti.
Alla domanda di Rossi riguardo cosa può ottenere la religione cristiana dell’occidente con le religioni d’oriente, il nostro teologo fornisce una risposta lapidaria e decisa: “Tutto”.
Questo deriva dal fatto che per Panikkar nessuna religione, presa singolarmente, è autosufficiente; è perciò indispensabile e vitale apprendere dall’altro ciò di cui si è carenti: "I cristiani da soli marciscono, i musulmani ripiegano su stessi…" (p. 50).
Una globale conoscenza dell’altro per potersi dire tale richiede un dialogo che arrivi al cuore degli interlocutori, e ancora una fondamentale predisposizione all’ascolto che permette di entrare in dialogo con persone di fede dissimile e di provare a interpretare il mondo secondo il loro metro.
L’ascolto, però, segue a una prima fase distruttiva di credenze “individualistiche” che consiste nello spogliare la mente di qualsivoglia forma di giudizi e preconcetti. È naturale che nel fare questo debbano essere superati il “fanatismo” e l’“egoismo” che altrimenti comprometterebbero ogni tipo di confronto con l’altro e la possibilità di imparare e di apprendere da questo. In questo è racchiuso il senso del titolo del libro.
La formula “altro come esperienza di rivelazione” è adoperata da Panikkar per dire che ogni uomo, ogni cultura così come ogni religione è fonte inesauribile di sapere e che, in ogni caso, “ se parlano con il cuore” essi palesano a me qualcosa che non conosco. Per tale ragione si parla di “rivelazione” e per tale ragione va assolutamente evitata ogni sfumatura, anche la più piccola e la più trasparente, di presunzione e fanatismo.
Traspare dalle pagine quanto impegnativa sia la tematica affrontata e sviscerata senza riserve da Rossi e Panikkar che, senza mai smarrire la sua immagine di uomo saggio, riesce ad utilizzare toni differenti per qualsiasi risposta.
Diversi i punti in cui è con sottile, se non tagliente ironia che il teologo esplicita il suo punto di vista riguardo l’argomento analizzato. E si tratta di un argomento che, per forza di cose, finisce col portare chiunque si appresti alla lettura dell’opuscolo a un’amara riflessione circa la diffidenza che si prova nell’allacciare un’interazione con l’altro; con un soggetto appartenente a una cultura differente.
Una riflessione che, però, non rimane fine a se stessa perché è degno di plauso lo sforzo di Panikkar nell’illustrare una possibile soluzione a questo problema. Soluzione che egli vede, come fin qui spiegato, nel dialogo dialogale.
Ancora sono da considerare illuminanti le parole, intrise di speranza, che il teologo spende per impartire l’inestimabile insegnamento di vita contenuto nel libro cercando, nonostante la brevità dello scritto, di non lasciare nulla in sospeso o di incompreso. In conclusione, questo è un libro che merita di essere letto perché anch’esso è, per dirla alla maniera panikkariana, un’esperienza di rivelazione.

Indice

Prefazione
L’Umbria e lo spirito d’Assisi
di Damiano Stufara
Un artista del dialogo
di Achille Rossi
L’altro come esperienza di rivelazione
Intervista di Achille Rossi a Raimon Panikkar
Un grande maestro del nostro tempo
di Raffaele Luise


L'autore

Raimon Panikkar, nato nel 1918 da padre indiano e madre catalana e cattolica e laureato in chimica, filosofia e teologia, è oggi esimio professore della University of California. È uno scrittore e teologo stimato, conosciuto in tutto il mondo per le sue conferenze e scritti. Tra le opere più note rammentiamo: Il dialogo intrareligioso, L’esperienza della vita, L’esperienza di Dio, Il silenzio del Buddha, Il problema dell’altro. Oggi vive a Tavertet, in Catalogna.

Links

www.gianfrancobertagni.it/autori/raimonpanikkar.htm (sito contenente un’ampia raccolta di materiale su Raimon Panikkar)

Greco, Lorenzo, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea,

Liguori Editore, Napoli, 2008, pp. 302,€. 25,00, ISBN 978-88-207-4141-9.

Recensione di: Sarin Marchetti – 22/10/2008

Etica, filosofia della mente, storia della filosofia moderna

Il volume di Lorenzo Greco rappresenta un elaborato e convincente tentativo di riabilitazione dell’etica sentimentalista humeana che in Italia non ha avuto mai vita facile. Come scrive Eugenio Lecaldano (maestro dell’autore e primo sostenitore di questo progetto) nella post-fazione, questa linea teorica di ricerca è stata variamente preferita nel nostro paese ora al razionalismo kantiano, ora ad una qualche forma di giusnaturalismo, che pretendono tutt’oggi di dettare l’agenda morale e politica nel dibattito e nella discussione pubblica. È in questo clima culturale che si deve leggere, e quantomeno apprezzare, l’intento di mostrare come vi possa essere un’alternativa virtuosa e proficua a tali tradizioni dominanti, e come essa riesca a render conto in modo più soddisfacente delle nostre esigenze e scrupoli morali quotidiani, costituendo, nello stesso tempo, un paradigma di ricerca valido per far fronte ai continui problemi morali che la modernità ci presenta. Questo obiettivo è portato avanti dall’autore tramite un’analisi dettagliata ed originale della riflessione morale di David Hume, eroe settecentesco di una concezione laica, secolarizzata e sentimentalisticamente orientata dell’etica. Investigando ed elaborando a fondo alcune delle idee più importanti del filosofo scozzese, Greco sostiene con forza che proprio dal recupero di tali idee la discussione etica contemporanea trarrebbe vantaggio.
Il libro si divide in una prima parte in cui l’autore porta alla luce ed esamina criticamente la teoria dell’io morale humeana, e in una seconda in cui tale modello è messo al confronto con gli altri disponibili, su tutti utilitarismo e kantismo, mostrando le sue migliori credenziali teoriche in grado di legittimarlo come il modello di riflessione etica disponibile più proficuo, e dunque quello da adottare nella risoluzione delle controversie morali.
Greco introduce i temi del libro con un’asserzione per nulla scontata: “[l]a nozione di io morale non può essere aggirata quando si fa etica” (p. 1, corsivo nostro). In questa affermazione di sapore programmatico è racchiuso il leitmotiv della ricerca dell’autore: il ruolo centrale che il soggetto morale occupa nella riflessione etica, ed in particolare la sua non-negoziabilità, poiché come afferma Greco sin dalle prime battute non è possibile parlare o riflettere circa il contenuto dell’etica indipendentemente dalla nozione di io morale. L’etica riguarda intimamente l’io morale, e quei progetti che pensano di poter elaborare un pensiero morale non mettendo al centro l’io bensì astratti principi, regole o diritti sembrano essere sfocati rispetto al centro di interesse principale della riflessione morale; tuttavia, sostiene l’autore, anche quei progetti che hanno effettivamente messo al centro l’analisi dell’io ne hanno però fornito un’immagine insoddisfacente, schiacciata ora sull’esaltazione della sua componente razionale, ora su quella egoistica. La sfida di Hume consiste invece nel mostrare come sia nella dimensione sentimentale che bisogna guardare per guadagnare gli elementi adatti necessari alla riflessione morale. Sembrerebbe tuttavia quantomeno azzardato, continua l’autore, tornare proprio a Hume per trovare risposte soddisfacenti al problema della centralità dell’io, quando la vulgata comune (italiana, ovviamente) vuole proprio nel filosofo scozzese il più acerrimo nemico di tale nozione, sfociando la sua trattazione negli esiti scettici dell’appendice al primo libro del Treatise (1739-40). È tuttavia questa una cattiva lettura di Hume, che si ferma in modo miope al primo libro del Treatise, falsando e travisando in tal modo completamente il pensiero del suo autore. Greco ci suggerisce di leggere invece le riflessioni scettiche del primo libro all’interno dell’intera opera di Hume, e soprattutto degli ultimi due libri del Treatise, in modo da re-interpretare le affermazioni contenute nel primo libro. Letti alla luce dell’intera riflessione humeana sulle passioni e sulla moralità, gli esiti scettici circa l’intelletto umano del primo libro acquisteranno una nuova fisionomia e significato, non essendo più in contraddizione con le considerazioni positive svolte dal filosofo scozzese circa l’io morale e passionale; in particolare, risulterà chiaro che ciò che Hume rifiuta non è una caratterizzazione positiva tout court dell’io, bensì una sua fondazione teoretica nei termini di identità personale tra io diacronici connessi nel tempo. Con le inequivocabili parole dell’autore “l’ipotesi che si vuole sostenere è che […] il problema dell’io morale non corrisponde a un problema di identità personale. Se si vuole capire che cosa intenda Hume con ‘io’ in ambio etico, bisogna lasciare da parte il problema dell’identità personale e concentrarsi invece altrove” (p. 13). Quest’altrove è, naturalmente, la complessa psicologia filosofica che Hume tesse nel secondo libro del Treatise ed impiega nel terzo quando tratta la moralità.
Rifiutare che il campo semantico in cui definire i confini della nozione di io è quello dettato dalla riflessione circa l’identità personale è una mossa originale, dato che questo è stato, almeno da Locke in poi, il terreno su cui i vari autori si sono scontrati nella definizione di cosa costituiva la nostra soggettività – ancora W.O. Quine scriveva “no entity without identity”. Greco presenta Hume come il primo critico di questo progetto, riportando le sue conclusioni scettiche circa l’individuazione di un io diacronico stabile come l’indice che questa strategia di riconoscimento e fondazione teoretica dell’io attraverso l’analisi della sua identità personale non sia la giusta strada da percorrere per guadagnare una buona immagine dell’io; in particolare Hume rifiuterebbe questa strada per motivi interni alla sua concezione dell’intelletto umano, in particolare della natura dell’accesso introspettivo che abbiamo alla nostra mente che ci mostra solo fasci di percezioni disomogenei che si susseguono come in una rappresentazione teatrale, confondendosi e legandosi tramite l’intervento dell’immaginazione, e dunque dandoci una sensazione erronea della persistenza di un io stabile, di un’anima o di una sostanza individuale. Greco sostiene che Hume distingue a questo proposito il problema teorico dell’identità personale, che è au fond un problema di conoscenza, dal problema dell’io, che è un problema pratico che ricade all’interno della sfera dell’etica. La tesi interpretativa forte consiste nel sostenere che se non distinguiamo nettamente questi due ambiti non possiamo comprendere la pars construens del discorso di Hume, in cui il filosofo scozzese presenta la sua concezione ricca e sostantiva dell’io morale.
L’immaginazione gioca in Hume un ruolo centrale, soprattutto quando questa ci fa ‘sentire’ alcune connessioni tra stati mentali o ci permette di rappresentarci come soggetti continui nel tempo. La natura associazionistica della mente ci può facilmente confondere e sviare da come sono le cose realmente, e solo cambiando prospettiva riusciremo a guadagnare un’immagine soddisfacente della soggettività. Greco si interroga sul tipo di associazionismo che Hume vuole difendere, ed in particolare come esso possa affrontare i problemi dell’unità della coscienza e della consapevolezza di sé (pp. 26-60): per comprendere cos’è il sé non dobbiamo andare a vedere i costituenti della mente, bensì le loro molteplici attività – tuttavia, questo progetto non va inteso come una sorta di ‘protokantismo’ (p. 48). Greco, rifiutando varie interpretazioni del metodo newtoniano humeano, avanza una proposta alternativa, ossia quella di leggere le affermazioni di Hume circa la nostra consapevolezza non problematica di un io semplice avanzate nel terzo libro come una proposta di superamento del paradigma conoscitivo per dar spazio a quello pratico-morale, dato che è proprio quest’ultima prospettiva quella più importante per il filosofo scozzese. Nella seconda parte Greco mette in relazione queste riflessioni con la teoria passionale dell’io morale descritta da Hume nel secondo libro del Treatise, in cui la discussione dell’orgoglio e dell’umiltà porteranno alla luce la vera natura dell’io humeano. L’io, afferma Hume, è infatti l’oggetto di tali passioni, ma non solo; esso è anche un oggetto semplice in sé, poiché altrimenti si tornerebbe al problema del primo libro in cui l’io era dissolto in una miriade di percezioni sconnesse. L’autore spiega questo cambiamento tramite uno slittamento da una prospettiva in terza persona ad una in prima persona: se è vero che lo scienziato della natura umana newtoniano studierà le passioni nei termini di sensazioni piacevoli o dolorose che sono in relazione al nostro io, dal punto di vista fenomenologico del soggetto stesso tali passioni sono immediate e non divisibili dal nostro stesso io. Passione e orgoglio hanno l’io come oggetto nel senso che “io e orgoglio e umiltà si presentano simultaneamente […] non c’è nessun io che precede o che segue orgoglio e umiltà, ma arriviamo ad avere consapevolezza dell’io nel momento stesso in cui proviamo queste passioni” (p. 72): questi elementi e nozioni non sono l’uno l’effetto degli altri o viceversa, ma hanno una genesi simultanea. Da questo cambiamento di focus segue in effetti un cambiamento di soggetto, nel senso che qui Hume non sta più trattando il soggetto intellettuale (la mente), bensì il soggetto passionale (l’individuo); Greco sottolinea questo stacco radicale sostenendo (con Lecaldano ed altri) che se non si comprende questo salto concettuale non si riesce a comprendere il cuore stesso della proposta humeana. Tramite una ricca ricostruzione del complesso apparato teorico dei libri secondo e terzo del Treatise l’autore mostra convincentemente la portata di questo salto, specificandone il significato tramite un fitto confronto con la letteratura secondaria.
Per l’autore la caratteristica saliente di questo io passionale è il suo essere già moralmente connotato: la discontinuità forte tra Hume e la tradizione cartesiana consiste in un ri-orientamento di prospettiva che Greco formalizza con l’espressione “da ‘io penso’ a ‘noi facciamo’” – riprendendo la terminologia di Nicholas Capaldi. Protagonista di questa prospettiva “non è più un astratto soggetto pensante, ma un agente, un essere attivo e non solo intellettuale, il cui scopo primario è di tipo pratico” (p. 93). La simpatia è la nozione cardine dell’intero sistema morale humeano, poiché questa connette l’idea (lockeana) della responsabilità verso il proprio io alla ineliminabile dimensione di socialità in cui tale io si staglia. Come spiega chiaramente l’autore, il principio di simpatia è funzionale per rispondere alle critiche di quanti hanno letto Hume come un autore che risolveva la morale in un discorso solipsistico chiuso tra le incomunicabili barriere dell’io; Hume, invece, “presenta la simpatia come il principio che permette di spiegare come sia possibile la comunicazione emotiva” (p. 109), e nello stesso tempo chiarifica a noi stessi la natura delle passioni che proviamo e che attribuiamo anche alle altre persone: “è la stessa sfera passionale a venire specificata attraverso lo scambio simpatetico” (p. 119). Se la simpatia è dunque il ponte che connette l’io agli altri, il carattere rappresenta propriamente il locus dell’io morale: Greco mostra nella parte terza del suo libro la complessità di questa nozione, per poi farla reagire con altri paradigmi di soggettività e di riflessione morale, per mostrarne la fecondità. La nozione di carattere è presentata come lo snodo dal “momento passionale a quello propriamente morale” (p. 126), poiché questo è insieme l’espressione della nostra vena passionale e il bersaglio delle nostre valutazioni morali: il carattere è per Hume “un insieme strutturato e duraturo di passioni che rivelano le intenzioni degli agenti […] a partire dal quale siamo in grado di prevedere le loro azioni” (p. 127). È proprio a partire dall’educazione, la cura e lo sviluppo di un certo carattere che derivano quelle particolari passioni che sono i sentimenti morali, ossia i materiali primi dell’etica. L’approvazione e il biasimo morali sono sempre diretti ad un certo carattere, e l’autore sostiene, con Hume, che questi sentimenti sono nello stesso tempo fondativi della soggettività: non vi sarebbe io senza carattere, ossia senza un oggetto stabile proprio di approvazione o biasimo.
L’io moralizzato di Hume rappresenta secondo l’autore una ipotesi più convincente di quella proposta dalle etiche utilitaristiche e kantiane, poiché il tipo di soggettività elaborata da quest’ultime (o, per essere più precisi, la particolare antropologia filosofica che emerge dalle loro differenti teorie morali) è ora troppo esigente ed impegnativa, ora altamente idealizzata. Nella parte quarta del volume, di carattere più teorico, l’autore tratteggia i contorni di un’etica delle virtù neo-humeana che ruota intorno alla nozione di soggetto morale sostenuta dal filosofo scozzese; questa proposta, la cui validità è vagliata in contrapposizione ad alcune opzioni teoriche contemporanee alternative, elabora ed attualizza la riflessione morale humeana mostrandone la freschezza e la validità. Nello specifico, Greco sostiene che la nozione di io morale, al centro dell’etica di Hume, è in grado di soddisfare alcune delle nostre più care intuizioni circa la soggettività e la moralità, quali il valore della separatezza delle persone , la loro limitatezza e, nonostante questo, la loro capacità di impegnarsi in stabili e proficue relazioni morali. Citando le parole con cui l’autore chiude il volume “ciò che si ricava dalla lettura di Hume è la valorizzazione degli individui così come sono: creature che possono racchiudere in sé grandi qualità, ma anche grandi difetti […] Contano le persone: la constatazione della loro imperfezione è per Hume parte integrante dell’etica, non qualcosa che va eliminato […] Alla fine, la teoria che si ricaverà sarà forse meno coerente e magari meno armonica nella sua mancanza di geometria, ma di sicuro sarà veramente, e senza false illusioni, umana” (p. 247).
Nel volume di Greco c’è molto di più di quanto il breve spazio di una recensione possa contenere, e nonostante il materiale presentato sia tanto, questo è sempre ben supportato da una gran mole di letteratura secondaria con cui l’autore si confronta direttamente, senza però appesantire il filo del discorso, sempre chiaro e mai confuso. Le molte e corpose note, di carattere più specialistico ed interno al dibattito, possono infatti essere lette in un secondo momento come approfondimento del discorso avanzato dall’autore. Inoltre, la proposta avanzata dall’autore, sia nella sua componente più storico-interpretativa, sia in quella teorica ed originale sembra solida e ben argomentata, oltre che interessante. Questo volume rappresenta dunque sia una buonissima introduzione al pensiero di Hume e all’etica contemporanea, sia uno stimolo per specialisti e addetti ai lavori, che avranno molto materiale su cui lavorare, per implementare, o anche mettere in discussione, tale progetto.

Indice

Premessa
Parte Prima – L’io e l’identità
Parte Seconda – L’io e le Passioni
Parte Terza – L’io e l’etica
Parte Quarta – Il paradigma humeano e le sue alternative
Postfazione – L’etica sentimentalistica e i limiti della concezione razionalistica del soggetto morale di Eugenio Lecaldano
Bibliografia
Indice degli argomenti
Indice dei nomi


L'autore

Lorenzo Greco è dottore di ricerca in filosofia. Ha studiato a Pisa, Roma ed Oxford. Svolge la sua attività presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha pubblicato su varie riviste nazionali ed internazionali, tra cui ‘Rivista di filosofia’ e ‘Utilitas’, e in volumi collettanei.

lunedì 20 ottobre 2008

Scruton, Roger, Gli animali hanno diritti?, trad. it. di Daniela Damiani.

Milano, Raffaello Cortina, 2008, pp. XII+164, € 16,50, ISBN 9788860301703.
[Ed. or.: Animal rights and wrongs, Demos, 1996]

Recensione di Michele Paolini Paoletti – 20/10/2008

Filosofia morale

Il dibattito sui diritti degli animali costituisce probabilmente una delle tematiche più originali della filosofia contemporanea. La filosofia morale degli ultimi decenni, in effetti, ha riflettuto su tale questione non solo per affermare, sulla scia di autori come Hans Jonas, una più diffusa responsabilità umana nei confronti del mondo extraumano. Essa si è occupata del rapporto uomo – animale anche e soprattutto per definire meglio lo status metafisico, etico e giuridico della persona umana, individuando le eventuali affinità (oltre che le evidenti divergenze) col regno degli animali superiori. Il motivo di un simile interesse filosofico sembra pressoché scontato: dinnanzi alle sfide della tecnica contemporanea, che può incidere profondamente su ciò che costituisce la persona in quanto persona, occorre stabilire alcuni punti fermi nel trattamento morale e giuridico degli esseri umani. Oppure, al contrario, occorre giustificare la liceità degli interventi sull’uomo. In tal senso, alcuni filosofi hanno sostenuto che non esiste una differenza netta tra l’uomo e l’animale, e dunque: se paiono legittime alcune operazioni sul secondo, in effetti, le stesse operazioni possono essere considerate legittime anche sul primo. La tendenza ad estendere alcuni diritti tipicamente umani agli animali superiori, tuttavia, è ben più presente ed incisiva. Questo genere di inclusivismo morale, comunque, può spingere persino a ritenere che certi animali, in particolari condizioni, godano di maggiori diritti degli uomini che si trovano in situazioni eticamente border-line. Per Peter Singer, ad esempio, lo scimpanzè adulto dovrebbe essere maggiormente tutelato rispetto all’embrione umano nell’utero materno. La dinamica che anima simili riflessioni sembra essere la seguente: bisogna stabilire una certa caratteristica (es. la capacità di provare dolore) per individuare la persona e i suoi diritti; questa caratteristica non si presenta in certi esseri umani, mentre si presenta, sia pure con modalità differenti, in certi animali; questi animali, dunque, dovrebbero beneficiare di diritti simili a quelli umani.

Roger Scruton pare dedicare questo pamphlet proprio alla confutazione di questa tesi. Il titolo inglese del volume (Animal rights and wrongs) sembra già suggerire il pericolo insito nell’animalismo e nella difesa ad oltranza dei diritti degli animali. La tesi principale di Scruton è la seguente: gli animali non hanno diritti, poiché gli animali non sono persone e poiché solo le persone, in quanto esseri morali, hanno diritti. Nondimeno, “ciò non significa che gli esseri umani non abbiano doveri nei loro confronti, doveri che nascono e vengono assunti nel momento in cui rendiamo gli animali dipendenti da noi per la loro sopravvivenza e il loro benessere” (p. 97). L’autore, dunque, si impegna a dimostrare che vi è un vero e proprio salto di qualità tra l’essere umano e l’animale, che può essere osservato in base ad alcuni elementi che connotano l’uomo e che sono invece assenti persino negli animali più sviluppati. In seconda battuta, Scruton tenta di analizzare le basi del giudizio morale, per applicare poi le conclusioni teoriche raggiunte ai numerosi casi in discussione.

Nei primi capitoli dell’opera, il filosofo si occupa dello statuto metafisico degli animali. Non tutti gli animali sono dotati delle stesse facoltà. Occorre indicare, allora, alcuni livelli di “dotazione” mentale che possono darsi o meno nelle differenti specie. Il livello sensorio è presente in tutti gli animali, mentre quello percettivo, che comporta già una valutazione soggettiva, non è prerogativa di tutti. Ogni animale detiene appetiti e bisogni, ma soltanto gli animali superiori hanno delle credenze e sono capaci di apprendere proprio tramite l’acquisizione o la perdita di queste ultime, riconoscendo gli oggetti e le situazioni, nonché nutrendo certe aspettative nei loro confronti. Le specie più evolute sono contraddistinte dall’intenzionalità, poiché non reagiscono semplicemente agli stimoli, ma alle idee degli stimoli. Esse, dunque, riescono a suscitare la nostra simpatia. La simpatia umana verso gli animali, in ogni caso, non deve confondersi assolutamente con un’emozione sentimentalistica giacché, mentre il vero amore è interessato all’oggetto, l’amore sentimentalistico “non va oltre il Sé e dà priorità ai suoi stessi piaceri e dolori, oppure inventa per se stesso un’immagine gratificante dei piaceri e dei dolori del suo oggetto” (p. 100). L’animalismo sentimentalista, così, ignora alcune semplici constatazioni. In primo luogo, la categoria odierna di “naturale”, contrapposta a quella di “culturale” o “artificiale”, è sempre e comunque un prodotto dell’uomo, sicché anche la natura cui guardiamo per consolarci dai problemi della tecnica “ci rimanda un sorriso dai tratti umani poiché ci siamo assicurati che non possa offrirne uno differente” (p. 117). In secondo luogo, e proprio in virtù di quanto appena notato, l’uomo è diventato custode dell’ordine naturale: anche gli animali che più sembrano vivere in funzione dell’uomo, dunque, conducono spesso, sotto la nostra protezione, una vita migliore di quella che condurrebbero allo stato selvaggio. In terzo luogo, non tutte le specie cui assegneremmo certi diritti (almeno fondandoci sulle nostre emozioni) dovrebbero goderne, in quanto dannose per l’equilibrio tra uomo e ambiente, mentre altre specie, emotivamente ripugnanti, sono utilissime per l’uomo e per l’ecosistema in cui vive. In quarto luogo, dopo aver stabilito i diritti degli animali, dovremmo precisare anche i loro doveri, cui essi, di certo, non sarebbero in grado di ottemperare.

La ragione principale del mancato riconoscimento dei diritti degli animali, però, risiede nel fatto che gli esseri umani sono esseri razionali in senso stretto, poiché possono giustificare le loro credenze e le loro azioni e possono dialogare in modo sensato con gli altri. Gli uomini, così, possono scegliere di fare ciò che non vogliono fare, gettano in modo considerevole il loro sguardo sul passato e sul futuro, sviluppano ed utilizzano il linguaggio, provano passioni più elevate (o più basse, si dovrebbe aggiungere), sono dotati di senso dell’umorismo, di senso morale, di senso estetico e di immaginazione delle circostanze possibili ed impossibili. Essi, da ultimo, “sono consapevoli di sé e dei loro stati mentali, distinguono sé dall’altro e si identificano nella prima persona singolare” (p. 16). In qualità di esseri morali, gli uomini sono disposti al confronto con gli altri ed al compromesso nel contesto di una comunità morale, elaborano la legge morale e possono vivere all’insegna della virtù, sono capaci di pietas e di simpatia ad alti livelli. La simpatia umana, in particolare, è ben più raffinata di quella animale, poiché può accompagnarsi al pensiero di ciò che l’altro sta provando.

Le radici del giudizio morale, allora, sembrano essere quattro: la legge morale, la simpatia, le virtù e la pietas. Scruton, in questo ambito, rigetta ogni genere di utilitarismo morale, volto ad identificare il bene con la massimizzazione del piacere e la minimizzazione del dolore. L’utilitarista, a suo avviso, negherebbe a se stesso ed agli altri qualsiasi responsabilità (ed imputabilità) morale, considererebbe la giustizia e l’ingiustizia come fattori relativi ad un calcolo dei piaceri e, soprattutto, ignorerebbe la vera natura della felicità umana, che è la felicità propria di un essere razionale. L’unico calcolo di utilità ammissibile, per l’autore, è quel calcolo che permette di allargare il novero degli oggetti della propria simpatia, nel tentativo di considerare non solo il bene di un singolo uomo (l’uomo a noi più caro o vicino), ma il bene di gruppi sempre più estesi e, normativamente, quello dell’intera umanità.

Gli animali, ad ogni modo, non essendo capaci di un simile giudizio, non sono membri della comunità morale, non hanno doveri né responsabilità e sono privi di diritti. Gli uomini, però, proprio in virtù della loro moralità, hanno il dovere di trattare moralmente gli animali. A seconda della condizione dell’animale in rapporto all’uomo (l’animale da compagnia, quello da allevamento e l’animale selvatico), il filosofo delinea, dunque, alcune ipotesi di risposta alle questioni più rilevanti del dibattito corrente. Il libro è anche corredato da tre appendici (sull’allevamento, sulla caccia e sulla pesca) che mirano ad abbozzare una sorta di prassi, in linea con gli intenti programmatici di questo esercizio di pensiero lucido, attento e di particolare utilità per affrontare problematiche storicamente nuove, ma ormai consuete nella filosofia del nostro tempo.

Indice

Introduzione
1. Metafisica
2. L’essere morale
3. Vita, morte, gioia e sofferenza
4. Il margine morale
5. Le radici del pensiero morale
6. La base razionale del giudizio morale
7. Lo status morale degli animali
8. Il dovere e la bestia: conclusioni morali
9. La moralità e la legge
Appendice 1. Riflessioni sull’allevamento
Appendice 2. Riflessioni sulla caccia
Appendice 3. Riflessioni sulla pesca
Glossario di termini filosofici
Note
Indice analitico


L'autore

Roger Scruton (1944), filosofo e polemista inglese, è stato professore di Estetica al Birkbeck College dell’Università di Londra. Sono stati tradotti in italiano: Guida filosofica per tipi intelligenti (Cortina, 1998), L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica (Vita e Pensiero, 2004), Manifesto dei conservatori (Cortina, 2007), Sulla caccia. Riflessioni filosofiche per un’apologia dell’ars venandi (Olimpia, 2007).

lunedì 6 ottobre 2008

Jullien, François, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente.

Roma-Bari, Laterza, (Economica Laterza, 474), 2008, pp. 90, €. 6,90, ISBN 978-88-420-8750-2.
Edizione originale: Conférence sur l'efficacité, Paris, Presses Universitaires de France, 2005.

Recensione di: Clara Mandolini – 6/10/2008

efficienza, potenziale, situazione, processo, trasformazione

Il volumetto, di agile lettura, contiene la traduzione della “conferenza sull’efficacia” in cui François Jullien riassume il risultato dei propri studi sulla differenza tra il pensiero occidentale e quello cinese a proposito della teoria dell’agire. Il discorso si snoda in quattro tappe principali, individuabili (1) nella giustificazione del valore euristico di uno studio del pensiero cinese, (2) nella focalizzazione dello sguardo sulla teoria dell’efficacia, (3) nella delineazione puntuale delle differenze concettuali sulla strategia dell’azione efficace, (4) nella rapida rilettura di alcuni cruciali passaggi storici della Cina alla luce di questa concezione della strategia di azione.
Jullien sintetizza il proprio intento, agli antipodi di uno sterile esotismo intellettuale, nella duplice immagine della deviazione e del ritorno che il “passaggio per la Cina” consente di effettuare: ci si allontana dalla storia della filosofia solo per riposizionarcisi e interrogarla su quanto in essa rimane indiscusso. La prospettiva cinese è così utilizzata come “operatore teorico” di un’interrogazione più profonda della stessa filosofia, di un esame della pretesa di validità delle sue categorie più frequentate. Il radicale “potere di obiezione” della cultura cinese deriva dall'essere la Cina la «sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo» (p. 3), dalla sua eterotopia, dal suo costituire un mondo altro eppure “pieno”.
Messo in prospettiva grazie a questo “altrove distante”, il pensiero occidentale può così essere interrogato nelle sue evidenze, indiscusse perché assimilate a un fondo di intesa la cui “ovvietà” rimane impensata. La presa in esame della logica interna al pensiero cinese aiuta cioè ad assumere un punto di vista eccentrico che permetta una presa di distanza critica utile a far apparire l’impensato stesso del nostro ragionare. L’autore affronta questa distanza sconcertante studiando in particolare la teoria dell’efficacia e della strategia, rispettivamente nell'ottica europea e cinese.
La concezione greca dell’azione, alla base del pensiero classico europeo, è riassunta globalmente nel concetto di modellizzazione: dapprima nell’intenzione si costruisce un modello ideale, una forma paradigmatica che configuri un obiettivo; poi si passa all’azione, come applicazione al mondo di quel modello formale, come realizzazione dello scopo assunto. Ma così intesa l’azione coinvolge estrinsecamente le due facoltà della volontà e dell’intelletto, e l’applicazione esige un livello variabile di “forzatura” del soggetto stesso e delle cose. La teoria della modellizzazione, tanto feconda sul piano della tecnica, aggrava in realtà lo scarto tra teoria e prassi e non sa rendere ragione della “dispersione” dell'intenzione nel passaggio intermedio al fatto.
Giustamente Jullien nota la posteriorità di questa visione alla nascita della filosofia, rilevando come nel pensiero greco arcaico si desse un altro tipo di comprensione dell’efficacia, rilevabile nell’uso del termine metis (“fiuto”) come capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di «scoprire i fattori “portanti” in seno alla situazione per lasciarsi trasportare da essi» (p. 15). In questa idea che, pur “perdente” nell’evoluzione successiva del pensiero, si avvicina di più alla prospettiva cinese, è meno accentuato il ruolo dell’iniziativa soggettiva dell’autore dell’azione rispetto al contenuto sfruttabile della situazione; con l’avvento della filosofia e del pensiero greco classico, però, eidos sconfigge metis consentendo il sopravvento del pensiero della modellizzazione, sul cui inusitato potenziale l’Europa investe pesantemente fino all’identificazione galileiana della matematica con il modello “linguistico” dell'intera natura.
È vero che proprio da questo passaggio prende avvio lo sfasamento dei ritmi di sviluppo della civiltà europea rispetto a tutte le altre. E tuttavia, a fronte dell’indubbia applicabilità del paradigma teorico della modellizzazione all’ambito dell’agire produttivo (della póiesis), ci si deve interrogare sulla fecondità della sua estensione a ogni campo dell'agire. È anzi evidente l’inadeguatezza, la non applicabilità, di questo modello alla strategia militare: tramite un confronto tra il testo del primo grande pensatore europeo della guerra, Carl von Clausewitz (XIX secolo), e i trattati cinesi classici sull’arte della guerra, principalmente quelli di Sun Tzu e Sun Bin (secoli V-IV a.C.), Jullien procede così a rilevare gli elementi di distanza della concezione cinese della strategia efficace rispetto a quella europea.
Clausewitz è cosciente dell’inevitabile scarto tra “guerra ideale” pianificata e “guerra reale”, ma non ne trae le dovute conseguenze sul piano della teorizzazione della strategia, ribadendo il fallimentare pensiero della modellizzazione; lo stratega prefetto è “geometra” ma anche, contraddittoriamente, “genio” capace di stravolgere il piano prestabilito e sfidare la sorte. È evidente per Jullien, in questa dicotomia costante nel pensiero occidentale della guerra, l’inadeguatezza della strategia della modellizzazione, incapace di “consonare” con le circostanze e di proiettarsi senza attrito nella situazione. Lo stratega cinese, di contro, pensa l’efficacia nella guerra come assenza o massima limitazione dell’attrito, della resistenza dell'azione proiettata nel mondo: la perfezione dell’efficacia si esplica non nel colpo clamoroso ma nella facilità – silenziosamente e pazientemente costruita – della vittoria stessa, non nella machiavellica “violenza” nei confronti della sorte, ma nella trasformazione della situazione a proprio vantaggio, dalla quale la vittoria non può che riuscire “senza sforzo”.
Si delineano così i vari caratteri che concorrono alla definizione cinese dell’efficacia. Le nozioni cardine in questo senso sono situazione, configurazione, terreno, dai quali lo stratega vero deve sempre partire: egli deve mirare a formare sotto di sé la pendenza favorevole, valutando e poi orientando vantaggiosamente il “potenziale della situazione” (shi), cioè l’insieme delle condizioni che “stanno intorno” (le circostanze) alle azioni sostenendole. Tale idea di efficacia strategica tende a favorire il momento della valutazione del potenziale della situazione per calcolare e «determinare la variabile in funzione del vantaggio» (p. 28). Lungi dall’affidarsi all’aleatorietà, lo stratega opera un’analisi rigorosa e in continuo mutamento, ricerca le condizioni della risultante vantaggiosa, configura la propria azione come “destino” inevitabile, perfettamente radicato nella situazione. Non ci deve perciò essere «frattura nella coerenza del processo» (p. 29), come non sono ammesse la divinazione né la speranza in un intervento esterno all’ordine delle circostanze date.
A partire dall’esame della teoria strategica Jullien tenta così di tracciare il profilo dell’intera concezione cinese della prassi umana, per mostrarne l'estraneità alle categorie di finalità e progresso. Mentre in Europa il pensiero della modellizzazione porta a pensare l’efficacia in termini di adeguazione tra mezzi e fini, quello cinese si basa piuttosto sull'idea di sfruttamento della propensione, in analogia al contadino che agevola senza forzare il processo della trasformazione naturale. Anziché sul telos e sul compimento, come fine che attrarrebbe a sé il divenire, il pensiero cinese si concentra sull’interesse o vantaggio (li), sulla disposizione che se favorevole va appoggiata e sfruttata, se sfavorevole modificata. Insieme all’accento sulla propensione, si definisce anche il diverso statuto dell’effetto: questo, come il frutto della pianta, va lasciato maturare, va cioè rispettato nel suo processo spontaneo di crescita, non forzato dall’attivismo finalizzato del soggetto ma neanche trascurato.
In definitiva risulta che «l’efficacia cinese è discreta» (p. 44) e non presenta lo “strappo” fondamentale della Libertà, per la stessa ragione per cui la storia della letteratura cinese non conosce epopee. Jullien sottolinea il contrasto tra “l’accanimento” europeo dell’azione nei confronti della materia recalcitrante e l’ideale cinese del “non-agire” (wu wei), da intendere non certo come passività o rinuncia all’azione, ma come trasformazione a tutto campo e per questo “invisibile”, secondo la formula: «Non fare nulla ma che niente non sia fatto» (p. 47). Jullien può allora sintetizzare le differenze tra la visione occidentale dell’azione e quella cinese di trasformazione efficiente: mentre l’azione è momentanea, locale, soggettiva (e ciò vale anche quando si protrae temporalmente ed è attuata da un soggetto collettivo), la trasformazione è per sua natura globale, estesa nella durata, progressiva e continua, rinvia non tanto a un attore ma procede attraverso l’influsso diffuso. In questa visione l’azione, «al massimo, può rappresentare una focalizzazione-coagulo-contrazione nel corso continuo delle cose» (p. 50), rimanendo effimera, priva dello slancio eroico tipico invece dell’epica europea.
Di qui è facile vedere, persino nell’attuale “improvvisa” emergenza della Cina a livello economico, una conferma del suo paradigma processuale (e non progressivo). Si può allora misurare tutta la distanza tra la retorica occidentale dell’evento (l’apparizione improvvisa che cambia la storia), della parola (anche quella rivelata) o dell’occasione, e la dissoluzione cinese dell’istante a favore del flusso della mutazione e dell’attenzione al momento «in cui si abbozza la tendenza favorevole» (p. 67), «la circostanza dalla quale far emergere l’opportunità» (p. 69). In senso negativo appare anche la conseguente accentuazione da parte cinese dell’ideale della destrutturazione del nemico realizzata attraverso l’erosione del suo potenziale della situazione, opposto a quello occidentale di distruzione del nemico stesso.
Jullien rilegge infine, nonostante il radicale stravolgimento operato dalla Rivoluzione culturale, la strana “epopea” della Lunga marcia, fatta di «strategia indiretta, che opera per svolte e controsvolte, di sbieco, sviluppandosi nella durata» (p. 75), cerca «un margine per sopravvivere, anziché sacrificarsi» (p. 76) e «farsi tollerare dalla storia» (Ibid.), non diversamente da quanto ha fatto Deng Xiaoping trasformando la Cina senza rotture destabilizzanti.
Ma proprio sul piano politico, secondo Jullien, sarebbe destinato ad arenarsi il modello cinese di efficienza, incapace di organizzare il dibattito democratico e di mettere in rapporto prospettive di valore e posizioni critiche, il che invece sarebbe possibile col procedimento tramite modellizzazione di tipo europeo, più capace di coagulare consenso e iniziative grazie al valore regolativo di un modello ideale. Paradossalmente allora, secondo l’autore, proprio sul piano dell’azione non produttiva, in tutto ciò che non fa capo alla semplice efficienza, l’Europa potrà rivitalizzare un primato politico.
Ci si può chiedere se i riferimenti fatti ai testi non siano che parziali esemplari di una più ampia varietà di concezioni dell’azione, dal lato europeo come da quello cinese, e se per questo non si debbano rilevare oltre alle differenze anche eventuali punti di contatto tra le due visioni, per esempio in merito ai criteri di valutazione morale dell'azione efficace. Un altro punto di domanda può essere posto sulla differenza, non affrontata nel testo, tra il paradigma cinese del vantaggio e quello di matrice economico-politica dell’utilità.
Nel complesso il tentativo intrapreso da Jullien appare comunque molto interessante per coloro che sulla scia dello stupore per la crescita d'influenza della Cina si interrogano sulla forma dei futuri rapporti con un Paese tacitamente portatore di una profonda sfida culturale. Il testo è certamente molto utile non solo a chi per ragioni politiche o economiche si confronta con partner cinesi, ma anche a tutti coloro che si occupano, da filosofi, di sondare la validità delle proprie categorie di comprensione del reale.

Indice

Un’alternativa nella cultura
Lo sconvolgimento del pensiero
Riaprire altri possibili nel proprio spirito
Per essere efficaci: modellizzare
O appoggiarsi sui fattori “portanti”: “surfare”
Domanda: quali sono i limiti di fecondità del modello?
La conduzione della guerra, non essendo modellizzabile, è forse per questo incoerente?
Nelle “Arti della guerra” cinesi: la nozione di potenziale della situazione
Sul coraggio: qualità intrinseca o frutto della situazione?
Valutazione-determinazione
Mezzo-fine
O condizione-conseguenza
Elogio della facilità
Processo: meditare sulla crescita delle piante
Modalità strategiche: l’indiretto e il discreto
Sul versante europeo: azione, eroismo, epopea
Sul versante cinese: il non agire
Azione/trasformazione
Mitologia dell’evento
Si tratta di empirismo?
Anche un contratto è in trasformazione (ma anche l’amicizia è un processo)
Progresso/processo
Come pensare l’occasione?
Traslazione: efficacia/efficienza
Obiezioni
La Lunga marcia è un’epopea?
Cercare un margine per sopravvivere (anziché sacrificarsi)
Deng ha “trasformato” la Cina
Che cos’è un grande politico?


L'autore

Svolti studi in Francia e a Pechino, già presidente del Collège International de Philosophie, François Jullien insegna ora all’Università Paris-VII e dirige l’Institut de la Pensée contemporaine. Si occupa dello studio del pensiero cinese in una prospettiva filosofica, in particolare sui temi dell'alterità, dell’arte, della morale, della strategia, del rapporto maestro-allievo. Tra le sue opere ricordiamo: La proprension des choses. Pour une histoire de l'efficacité en Chine (1992), Le Détour et l'accès. Stratégies du sens en Chine, en Grèce (1995).

Links

Temi di ricerca e opere
http://fr.wikipedia.org/wiki/Fran%C3%A7ois_Jullien
Intervista all'autore su una sua opera
http://www.associazioneasia.it/adon.pl?act=doc&doc=317
Recensioni ad alcune opere
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/jullien.htm

venerdì 3 ottobre 2008

Moroncini, Bruno, L'autobiografia della vita malata. Benjamin, Blanchot, Dostojevskij, Leopardi Nietzsche.

Bergamo, Moretti & Vitali, 2008, pp. 147, € 16,00, ISBN 9788871863757.

Recensione di Moreno Montanari - 3/10/2008

Estetica (autobiografia), Storia della filosofia (contemporanea)

“Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”. Queste famose frasi di Fernando Pessoa (Una sola moltitudine, Adelphi) potrebbero benissimo trovarsi in esergo al capitolo dedicato a Leopardi con il quale si apre il libro di Moroncini che nella disperazione del poeta scorge “la verità della maschera che ha dovuto indossare per entrare sulla scena del mondo”; una verità finta, recitata, della quale tuttavia lo stesso Leopardi si sarebbe infine convinto. Una verità testimoniata dal suo “corpo malato e deforme”, che l’autore elegge a vera “maschera di Leopardi” (p. 17). Esso sarebbe al tempo stesso l’oggetto del desiderio della madre (che vorrebbe il figlio malato, se non addirittura morto) e il modo in cui il poeta, per lo più inconsapevolmente, “sopravvive” ad esso e tenta di affermare la propria soggettività in opposizione alle manipolazioni della madre (p. 22). L’intero capitolo si gioca infatti tutto intorno alle suggestioni lacaniane di un desiderio che si crede proprio, ma che è sempre “desiderio dell’altro”: il desiderio del padre Montaldo che, degradato dalla propria famiglia, vuole riscattarsi facendone un affermato poeta, e il desiderio della madre Adelaide che desidererebbe che il figlio morisse presto o che, quanto meno, si ammalasse gravemente (pp. 20-21); stretto tra questi due fuochi a Leopardi non resterebbe che emanciparsi attraverso un’autobiografica poetica della “sopravvivenza non soltanto della e alla vita, ma soprattutto sopravvivenza della e alla morte” entrambe simulacri della madre, natura matrigna (p. 21).
La poetica del desiderio (dell’Infinito) costitutivamente votato all’empasse (in Lacan il desiderio è sempre desiderio impossibile perché desiderio dell’impossibile) procede per spostamenti e condensazioni, scivola di pagina in pagina, di maschera in maschera, di ambivalenza in ambivalenza, di contraddizione in contraddizione (per Leopardi “il vero nome della Natura è contraddizione”, p. 28), segnando percorsi che inseguendo fantasmi svelano verità e strutturano un’autobiografia che, per non cedere al desiderio dell’altro - meta e soddisfacimento naturale di ogni desiderio - “si voterà al peggio, al peggio del peggio, al peggio, se la grammatica italiana mi permettesse di dirlo, più peggiore del peggio del peggio” (p. 29). Il pessimismo di Leopardi starebbe tutto in questo “desiderio isterico” (ibid) di sottrarsi al desiderio dell’altro per sopravvivere ed imporsi con un destino che così si riappropria di se stesso. Un desiderio di nulla che tuttavia coltiva “il fiore dell’impossibile”, quella ginestra che sa essere “contenta dei deserti” (p. 30).
Non meno giocato sul registro del paradosso e dell’ambivalenza lungo i continui giochi di verità e menzogna (in senso extramorale) è il capitolo dedicato all’autobiografia che Nietzsche stesso traccia di sé nelle pagine di Ecce Homo ben integrate dall’autore con frammenti diaristici di preparazione all’opera e con alcune lettere nelle quali il filosofo parla del suo rapporto con Wagner. In questo caso il registro lacaniano appare senz’altro più coerente con lo stile ed il pensiero di Nietzsche il cui operato, com’è noto, consistette soprattutto nel decostruire la logica binaria e la prospettiva di una significazione univoca e definitiva a favore di una polisemia semantica interpretabile a più livelli. Non per nulla è Nietzsche stesso a presentarsi così: “io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre, vivo e ancora invecchio (…) sono decandent e inizio al tempo stesso, conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e l’altra cosa” (EH, cit. a p. 59). Ma i paradossi non finiscono qui: Nietzsche, infatti, non crede affatto ad un’identità singola, sostanziale ed immutabile né, data la sua teoria dell’eterno ritorno, propone di considerarla semplicemente come il prodotto della propria storia (“io sono ogni nome della storia” scriverà in un celeberrimo “biglietto della follia” indirizzato a Burckhardt il 5 gennaio 1889), al punto che Moroncini, con una felice e suggestiva intuizione arriva a proporre di considerare la teoria dell’eterno ritorno “come una nuova versione della metempsicosi: non una sola anima che resta uguale nelle diverse incarnazioni, ma più anime, ciascuna diversa dall’altra, dimentica dell’altra, simulacro dell’altra, presenti tuttavia nello stesso corpo” (p. 53).
Anche in questo scenario la vita malata, lungi dall’essere vista come segno di decadimento, si palesa piuttosto come una manifestazione di potenza tesa ad operare una trasvalutazione dell’esistenza ed una sperimentazione di nuovi e meno comuni stili di vita, non meno che di stili artistici e filosofici - come già aveva scritto Klossowsky. Non a caso, osserva l’autore, la parte sana e viva che Nietzsche rivendica come propria in Ecce Homo è senz’altro quella del padre morto, mentre quella décadent e mortifera è quella della madre - e della sorella - ancora vive ma, agli occhi di Nietzsche, contrarie alla vita dionisiaca e nichilisticamente attiva (p. 61). Di qui un’ardita ma suggestiva interpretazione del rapporto di Nietzsche con il femminile che si spinge ad ipotizzare che nella sue relazioni affettive con le donne amate e odiate (Lou Salomé, Cosima Wagner - ma anche, appunto, la madre e la sorella) costantemente caratterizzate da una triangolazione (lui – Nietzsche - lei e l’altro - il marito o l’amante, presunto o vero, vivo o morto, non importa) Nietzsche non vorrebbe sostituirsi edipicamente al soggetto di pari sesso ma, paradossalmente, a quello di sesso opposto: “Nietzsche non vuole sostituirsi né a Wagner né a Rée, piuttosto a Cosima e a Lou, vuole in realtà diventare come loro” (p. 73). Identificarsi con la donna, simbolo della creatività, della vita, della potenza, sarebbe per Nietzsche il tentativo di cogliere il segreto della vita: quella sua capacità di sopravvivere e di trasformarsi alla quale egli dedicò tutta la sua filosofia della quale la donna, appunto, sarebbe archetipo.
Anche il capitolo che ruota attorno alla metafora de L’idiota di Dostojevskij, quel principe Miskyn che come Dostojevskij è malato di epilessia, vede nella malattia un’opportunità per comprendere i meccanismi di costruzione della soggettività tanto più eloquenti quanto più macroscopici in una persona malata di epilessia (pp. 83-85). Il soggetto diviene ciò che è passando attraverso esperienze di non sapere che lo segnano, lo trasformano, lo trasfigurano e contribuiscono a creare la sua identità che è sempre prodotto e mai punto di partenza. Ma dato che ogni identità si gioca anche sul piano delle convenzioni sociali che l’idiota non comprende, guadagnandosi proprio per questo il suo appellativo, il principe Myskin svolge nell’opera di Dostojevskij anche una funzione di critica sociale simile a quella del bimbo che nella sua innocenza denuncia che il re è nudo: Miskyn, scrive Moroncini, è idiota “perché spiazza il suo interlocutore, perché la sua parola lo marchia a fuoco, lo attraversa, lo fruga nei più infiniti recessi del suo cuore, perché squarcia il velo con il quale pietosamente, ciascuno copre e nasconde sé a se stesso” (p. 91). È in particolare “l’impietosa pietà dell’idiota” - prosegue l’autore - ad aprire ad una messa in questione dei nostri valori più profondi e ad esporli al rischio di essere riconosciuti non soltanto come illusori simulacri, ma vere e proprie maschere del loro contrario secondo un asse interpretativo che ruota attorno alle variazioni sul tema di Freud, Nietzsche e Deleuze, e ai temi cardine del senso di colpa per la menzogna, la falsa coscienza ed il parricidio dell’autorità paterna sotto ogni sua manifestazione simbolica (Dio, Stato, ecc). Ma il senso di colpa è soltanto “la teodicea dell’impotenza alla mutazione” (p. 83) contro la quale si scagli invece l’idiota, metafora della creazione, dunque anche della rottura con lo status quo, per aprire - come Nietzsche e come Myskin - ad un nuovo stile di pensiero che è anche un nuovo stile di vita connotato dalla molteplicità e dalla differenza di un’identità che si ribella ad ogni univoca determinazione.
Anche l’opera di Walter Benjamin è riletta da Moroncini in chiave autobiografica. Partendo da un passo del testo autobiografico intitolato Angesilaus Satander, nel quale il filosofo austriaco ci comunica di avere due secondi nome che tuttavia si rifiuta di confessare, l’autore sostiene che è come se “Benjamin rifiutasse d’istinto la tesi del nome proprio come ‘designatore rigido’, ossia come quell’elemento del sistema linguistico che, a differenza del nome comune che ha un referente di generalità, che possiede cioè un significato concettuale estendibile ad una serie di individui, designa sempre un solo e medesimo individuo” (p. 106). Intrecciando le sue riflessioni a celebri passi dell’opera benjaminiana, con particolare attenzione all’Angelus Novus, Moroncini gioca ancora sui temi del “double bind” (ibid.) per riaffermare ancora una volta la sua idea di autobiografia: “la vera autobiografia infine non sta nella sequenza dei meri fatti e neppure nella fitta rete delle esperienze vissute: la sua verità racchiusa in un nome segreto il cui destino è di restare muto o di essere proferito in silenzio” (p. 120). Ovvio che una siffatta vita apra il fianco a simili esercizi d’interpretazione in cui tutto può essere maschera di altro, metafora, inganno, gioco di infiniti spostamenti e condensazioni, in una parola: sogno.
Chiude il libro il capitolo più criptico che, forse facendo un po’ il verso alla poetica di Blanchot alla quale è dedicato, s’impegna in una narrazione impossibile, ovvero nella narrazione dell’impossibile, dell’impossibilità di trovare una fine alla narrazione perché, come scrive Blanchot, “la fine comincia”. Pertanto ogni narrazione è impossibile (p. 125) non coincide mai con la realtà (con l’essere) ma può spiegarne l’essenza (p. 130) e appare per questo necessaria: “la narrazione è una protesi dell’essere, il supplemento necessario e risibile dei fatti, una modalità – la modalità – della sopravvivenza. La protesi sospende la morte nel momento stesso in cui l’attesta” (p. 133) perché se la fine comincia non c’è fine.

Indice

Patronimicografie 
Doppelte Herkunft e genealogia del soggetto. Prolegomeni ad una futura biografia di Friedrich Nietzsche 
Anima Idiotica. Saggio di stilografia 
Il nome segreto 
(L’autore messo tra parentesi)


L'autore

Bruno Moroncini è ordinario di Antropologia filosofica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno. La sua attività di ricerca si è concentrata soprattutto su aspetti e momenti della filosofia moderna e contemporanea. In particolare si e' a lungo occupato del pensiero e dell'opera di Walter Benjamin e del rapporto fra filosofia e psicoanalisi. Ha scritto saggi su Nietzsche, Bataille, Dostojevski, Blanchot, Simmel, Foucault e Levinas