sabato 24 giugno 2006

Marx, Karl, Manoscritti matematici.

Milano, Spirali (l’alingua, 226), 2005, pp. 196, € 25,00, ISBN 88-7770-710-0

Recensione di Maurizio Brignoli 24/06/2006

Filosofia della scienza, storia della filosofia, matematica

I Manoscritti matematici di Marx, pubblicati per la prima volta a Mosca in traduzione russa nel 1933, contengono i lavori Sul concetto di funzione derivata e Sul differenziale, scritti nel 1881, oltre a diversi abbozzi ed aggiunte, in cui Marx elabora la sua interpretazione del calcolo differenziale e illustra il metodo da lui scoperto. Anche se l’interesse di Marx per la matematica risale agli anni Quaranta, e la rilettura nel 1859 delle parti della Logica di Hegel destinate al calcolo differenziale stimolerà ulteriori ricerche, è soprattutto negli ultimi anni della sua vita che Marx si dedica sistematicamente alla matematica ed in particolare al calcolo differenziale.
Il lavoro di Marx è collocabile all’interno di un’indagine di matematica pura il cui obiettivo è giungere a fondare in modo “non mistico” il calcolo infinitesimale: “La consolazione a cui si aggrappano alcuni matematici razionalizzanti, cioè che dy e dx sarebbero in realtà soltanto infinitamente piccoli e che il loro rapporto sarebbe solo tendente a 0/0, è una chimera” (p. 51). Le derivate e i differenziali non sono entità metafisiche dotate di esistenza propria, quantità né finite né nulle, ma sono simboli di operazioni che Marx cerca di definire collocandosi, come aveva già notato Lucio Lombardo Radice, sulla linea di pensiero della definizione operativa che porta ad Einstein e Wiener.
A Marx interessa un’analisi operativa del passaggio da una funzione y = f(x) alla sua derivata. Per ottenere le derivate bisogna “porre x1 = x, quindi in senso strettamente matematico x1 – x = 0, lasciando perdere le frottole di una approssimazione soltanto infinita” (p. 53); non vi è insomma nulla di simbolico nella derivata. I coefficienti differenziali simbolici (du/dx, dz/dx) – che vengono al mondo unici, una sorta di “figure d’ombra senza corpo” (p. 67), coefficienti differenziali simbolici senza differenziale reale – devono divenire oggetto e contenuto dell’operazione differenziale e non semplicemente risultato simbolico della stessa. Col metodo di Marx, prima di tutto i coefficienti differenziali simbolici e le variabili diventano elementi contenutistici della derivazione; in secondo luogo non devono essere trovate le espressioni simboliche per i coefficienti reali (f’(x)), ma il coefficiente differenziale reale corrispondente alla sua espressione simbolica; infine, le espressioni differenziali simboliche finiscono per svolgere il ruolo di simboli che indicano reali operazioni differenziali e non sono più il risultato simbolico delle operazioni differenziali eseguite con la reale funzione x.
Il volume presenta poi un progetto di storia del calcolo differenziale, contenuto in una successiva e più completa edizione sovietica del 1968, ed altri abbozzi ad esso collegati, risalenti agli anni Settanta e Ottanta, sui teoremi di Taylor e Mac Laurin. Marx riassume la storia del calcolo differenziale in tre periodi, basati rispettivamente sul metodo mistico di Newton e Leibniz, sul metodo razionalistico di D’Alembert ed Eulero e su quello puramente algebrico di Lagrange.
Con Newton e Leibniz il differenziale dx viene posto tramite una definizione metafisica: le espressioni differenziali valgono come formule di operazioni per trovare un equivalente reale. Esse diventano cioè simboli di operazioni senza che emerga la loro origine algebrica. I differenziali di y vengono posti “fin da principio per definizione come esistenze autonome, separate dalle grandezze variabili, da cui risultano, senza che siano fatti derivare attraverso un qualsiasi procedimento matematico” (p. 128). Il differenziale “mistico” innanzitutto esiste e solo in seguito viene definito. Newton e Leibniz introducono inoltre quantità reali infinitamente piccole, incorrendo in tutta una serie di difficoltà sul piano di un calcolo rigorosamente matematico: “le grandezze infinitamente piccole sono grandezze così come lo sono quelle infinitamente grandi (l’espressione infinitamente piccolo intende dire nient’altro che indeterminatamente piccolo); perciò dy, dx, ecc., figurano nel calcolo alla stessa maniera delle grandezze algebriche ordinarie, e nella equazione sopra considerata, (y + k) – y ovvero k = 2x dx + dx dx, dx dx ha lo stesso diritto di esistenza di 2x dx: ma la cosa più strana è il ragionamento attraverso cui esso viene violentemente soppresso, cioè appunto in base al fatto che viene utilizzata la relatività del concetto di infinitamente piccolo” (p. 132). Marx nega dunque l’esistenza di quantità infinitamente piccole ma non nulle.
Con Newton e Leibniz si procede insomma con presupposti non dimostrati e con procedure che contrastano le leggi matematiche, come quando si ricorre a “giochi di prestigio” per far sparire errori di calcolo o si sopprimono violentemente i termini che sono d’ostacolo e che non appartengono realmente alla derivata, la quale viene invece determinata in maniera puramente sperimentale: “Che questo risultato matematicamente corretto si basasse sul presupposto altrettanto matematicamente del tutto errato che x1 – x = Δx sarebbe, dal principio, x1 – x = dx, non si sapeva. Altrimenti si sarebbe ottenuto lo stesso risultato non mediante un gioco di prestigio ma attraverso una operazione algebrica di tipo assai semplice e restando nel campo matematico” (p. 144). Col metodo di Newton e Leibniz si ottengono così risultati veri da premesse false.
D’Alembert approda invece al metodo razionalistico. Parte, come Newton e Leibniz, da x1 = x + dx, ma opera una correzione fondamentale: x1 = x + Δx, dove Δx, pur essendo una quantità indeterminata, costituisce comunque un incremento finito (eliminando così il problema dell’infinitamente piccolo). Inoltre, il differenziale non è il punto di partenza del calcolo, bensì quello d’arrivo e D’Alembert non è così costretto a sopprimere i termini delle equazioni, se non attraverso corrette operazioni matematiche.
Con Lagrange si cerca di approdare ad una fondazione del calcolo differenziale su basi puramente algebriche. Mentre gli scopritori del calcolo ed i loro successori facevano dei simboli differenziali il punto di partenza del calcolo, Lagrange parte dalla derivazione algebrica delle funzioni reali e considera i simboli differenziali espressioni puramente simboliche delle funzioni derivate. Il grande merito di Lagrange è, secondo Marx, di aver introdotto il concetto di funzioni derivate e di aver fornito lo sviluppo puramente algebrico di tutte le funzioni possibili di (x + h) con potenze ascendenti intere positive. Marx però individua anche i limiti di questo lavoro: Lagrange non chiarisce il rapporto fra il teorema del binomio e quelli di Taylor e Mac Laurin, da cui egli stesso parte; inoltre, si libera sì di tutto ciò che gli sembra trascendenza metafisica, ma ciò “non evita che egli abbia costantemente bisogno, nell’impiego della sua teoria e riguardo alle curve, ecc., dell’una o dell’altra di queste idee metafisiche” (p. 170). Marx quindi non si arresta, nella sua concezione del calcolo differenziale, alle posizioni di Lagrange.
Secondo Augusto Ponzio, che ha curato la traduzione e l’edizione dei Manoscritti matematici marxiani, questi testi possono essere considerati in riferimento alla teoria e alla storia del calcolo infinitesimale, ma anche in relazione al rapporto con la dialettica e all’impalcatura matematica dell’analisi economica marxiana.
Come evidenziato da Ponzio, la specificità dell’analisi di Marx risiede nell’aver evidenziato il carattere dialettico del calcolo differenziale come condizione della sua scientificità. Come già sottolineato da Engels nell’Anti-Dühring (opera alla quale, ricordiamo, ha collaborato lo stesso Marx), la matematica delle grandezze costanti si muove nei limiti della logica formale, mentre quella delle grandezze variabili, ed in particolare il calcolo infinitesimale, costituisce l’applicazione della dialettica ai rapporti matematici. Si tratta di mostrare come nell’operazione differenziale operi la negazione della negazione e, secondo Marx, ciò risulta chiaramente se si procede per via rigorosamente matematica: “Porre in un primo tempo la differenziazione e successivamente rimuoverla di nuovo porta dunque letteralmente a nulla. Tutta la difficoltà nella comprensione dell’operazione differenziale (come in generale in quella della negazione della negazione) consiste precisamente in ciò: nel vedere come essa si distingua da tale semplice procedura e conduca perciò a risultati effettivi” (pp. 49-50). dy/dx non è semplicemente un simbolo di 0/0 ma è un simbolo del processo da cui scaturisce 0/0. Il carattere dialettico del calcolo emerge nel momento in cui si passa dalla mistica ad una matematica rigorosa. Solo procedendo dall’interno della matematica è possibile mostrarne il carattere dialettico senza giustapposizioni o semplici analogie.
Per quanto riguarda l’applicazione della matematica nella teoria economica, si tratta per Marx di realizzare un uso critico dei modelli matematici, a differenza di quanto fa la scuola marginalista. Ponzio sostiene che Marx aveva presumibilmente in mente la costruzione di una teoria matematica dell’economia politica, un progetto di realizzazione di modelli matematici dinamici. I marginalisti (Jevons, Marshall, Walras, Pareto) si limitano ad applicare le procedure matematiche senza assumere un punto di vista critico sui presupposti e la logica di queste stesse procedure, laddove invece la critica marxiana della dialettica può essere intesa come una critica generale del ragionamento aprioristico. Come aveva già sottolineato l’economista marxista Giulio Pietranera, i marginalisti, attraverso termini “rigorosamente” scientifici, filtrano, non mediati, gli aspetti della vita economica concreta. Nelle moderne teorie economiche vi è così una connessione fra una visione feticistica del mercato ed una visione feticistica del simbolo matematico.

Indice

Introduzione. I manoscritti matematici di Marx di Augusto Ponzio
Due manoscritti sul calcolo differenziale.
Abbozzi e aggiunte concernenti il lavoro Sul differenziale
Sulla storia del calcolo differenziale
Il teorema di Taylor, il teorema di Mac Laurin e la teoria di Lagrange delle funzioni derivate
Aggiunte al manoscritto Sulla storia del calcolo differenziale e analisi del metodo di D’Alembert

Links

Testo di Sul concetto di funzione derivata con introduzione di Lombardo Radice http://www.fisicamente.net/index-682.htm
Dizionario Marx-Engels http://www.argument.de/wissenschaft
Marx-Engels [Mega – opere] http://www.marxforschung.de/home.htm
Testi marxisti (in italiano) http://www.bibliotecamarxista.org/
Marxists Internet Archive http://www.marxists.org/
Centro studi Marxhaus http://www.fes.de/marx

giovedì 22 giugno 2006

Cantù, Paola - Testa, Italo, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo.

Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. xx+187, € 14,00, ISBN 88-424-9316-3.

Recensione di Fabio Lelli - 22/06/2006

Filosofia del linguaggio, Logica

A partire dalla fine degli anni ‘50, con i pionieristici lavori di Toulmin e Perelman, si è diffusa una crescente attenzione verso la teoria dell’argomentazione, un campo di studi complesso e dalla forte valenza interdisciplinare, e che racchiude al suo interno molteplici interrogativi filosofici di ampia portata, che spesso travalicano il puro e semplice interesse logico-linguistico, arrivando a toccare campi quali le neuroscienze e l’intelligenza artificiale, l’etica, la politica, e la riflessione giusfilosofica.

Alla base di questi studi c’è innanzitutto un rinnovato interesse per l’argomentazione quale pratica dialogica e dialettica, che si può contrapporre alla (o considerare un necessario ampliamento della) stretta visione della razionalità cartesiana, monologica e formale, e comporta, quindi, anche un ripensamento della razionalità umana e delle forme in cui essa si esprime. 

L’argomentazione è generalmente intesa come la pratica di addurre e contestare ragioni all’interno di uno scontro dialogico. La teoria che se ne occupa potrà rendere conto di un aspetto descrittivo, quale l’analisi delle argomentazioni della vita quotidiana (specificando se e in quale modo vadano ricostruite logicamente), di un aspetto normativo, quale l’indicazione di regole e standard da seguire per poter condurre un’argomentazione razionale, di un aspetto fondativo, nel caso in cui un approccio voglia giustificare gli schemi adottati per valutare o ricostruire gli argomenti. Queste le direzioni fondamentali della rassegna di Cantù e Testa, gli snodi teorici che opportunamente vengono ricordati e riassunti anche lungo il corso del testo.

Perelman e Olbrecht-Tyteca riaprono questo campo di studi con la loro “nuova retorica” (1958), dall’intento prevalentemente descrittivo, cercando di rivalutare il discorso retorico, persuasivo, dalla razionalità diversa rispetto alla pura logica deduttiva. Nello stesso anno, Toulmin ripensa l’intera logica quale “giurisprudenza generalizzata”, e cioè come una dialettica del dare e testare ragioni, ma - a differenza di Perelman - studiata normativamente, fornendo cioè schemi normativi di corretta argomentazione.

Il rifiuto della riduzione di ogni ragionamento razionale alla logica deduttiva ha invece generato quel vasto movimento noto come “informal logic”. Nella varietà degli autori e delle prospettive di questi movimenti, si possono tenere fermi alcuni punti, tra i quali il rifiuto del riduzionismo deduttivista, un atteggiamento prevalentemente normativo nello studio dell’argomentazione, un’attenzione particolare verso l’atteggiamento pragmatico di Peirce e agli studi pionieristici di Grice sulle implicature conversazionali e convenzionali.

Fra gli approcci indirizzati a cogliere l’aspetto specifico della logica “dialogica”, si può ricordare la scuola di Erlangen con Lorenzen, Kamlah e Schwemmer, che tenta di produrre il significato delle formule logicamente valide attraverso la procedura dialogica; i lavori di Hamblin, nei quali un sistema dialettico è concepito come orientato verso obbiettivi (goal) sia generali che specifici; e la riflessione di Barthe e Krabbe, particolarmente interessante per il tentativo di pragmatizzare, cioè di riformulare la logica degli ambiti teorici particolari in una prospettiva pragmatica, e per il principio di esternalizzazione della dialettica, per il quale la pratica argomentativa del dare e contestare ragioni deve unicamente indirizzarsi alle parole effettivamente espresse (e quindi agli impegni pubblicamente assunti), e non alle “intenzioni” dei partecipanti al dialogo.

Con un intento più radicale, Hintikka considera la logica l’unico mezzo di argomentazione razionale, ma intendendola principalmente come dialettica - come era concepita già in Aristotele -, comprendente non solo regole “difensive” per evitare illeciti logici, ma anche buone strategie per vincere il confronto. In questo senso possono essere anche giudicate correttamente le fallacie, intese non solo come “mosse illegali” logicamente, ma anche come “mosse stupide”, cioè non adatte alla strategia del confronto.

L’indirizzo della Pragma-dialectics di Van Eemeren e Grootendorst vorrebbe conciliare l’aspetto “descrittivo” (l’analisi dei ragionamenti quotidiani) con un aspetto spiccatamente “normativo”, che si specifica in alcune meta-regole dell’argomentazione e in “dieci comandamenti” che elencano gli atti linguistici permessi durante un confronto, e il loro lecito ed efficiente utilizzo. Il dialogo è qui concepito come il confronto fra due posizioni contrastanti che ha lo specifico compito di raggiungere un consenso. Anche in questo caso le fallacie sono intese principalmente nel loro ruolo dialettico: fallacia è ciò che impedisce il raggiungimento del consenso. 

Il complesso modello di Walton e Krabbe tiene conto in particolare delle peculiarità contestuali dell’argomentazione, e caratterizza in modo articolato quegli impegni (commitments) che ogni parlante assume nel corso di un’argomentazione (caratterizzandoli come dark side/light side commitments, a seconda del loro essere impliciti o espliciti), e introduce anche la nozione di shift (spostamento) all’interno di uno stesso dialogo, fra un modello di argomentazione “rigoroso” e uno “permissivo” (quotidiano). In maniera molto interessante, le fallacie vengono lette come usi inappropriati di tale shift.

Raccolti in un capitolo specifico, tre importantissimi autori che legano la loro riflessione sul dialogo a un progetto filosofico di ampia portata. Jürgen Habermas elabora una teoria della comunicazione linguistica generale, che vale come “pragmatica universale”, valida per ogni possibile comunicazione. L’argomentazione assume inoltre il valore di teoria generale della razionalità umana, che è quindi essenzialmente comunicativa. L’argomentazione è concepita come lo scontro fra impegni dialogici contrastanti - chiamati da Habermas “pretese di validità” - che cercano di essere soddisfatti mediante argomenti. Le norme meta-contestuali individuate da Habermas sono universali e isolano le condizioni di possibilità di un argomento razionale rispetto a una “situazione ideale”, che deve essere tenuta presente dai partecipanti alla discussione almeno controfattualmente, come impegno reciproco.

La struttura essenzialmente pragmatica del linguaggio può essere invece individuata, per Robert Brandom, attraverso il gioco fra impegni dialogici e “titoli” (entitlements), cioè le ragioni che siamo pronti a dare per sostenere i nostri impegni. Brandom sostiene inoltre una concezione olistica e argomentativa del significato, per la quale la comprensione del significato di un termine coincide con la capacità di saperlo utilizzare in contesti argomentativi. La formalizzazione delle inferenze valide avviene sempre “dopo” la loro istituzionalizzazione nelle pratica sociale dell’argomentazione. Il parlante razionale deve inoltre essere capace di essere uno “scorekeeper” dei suoi “impegni” e “titoli”, aggiornando in modo razionale il suo virtuale “deposito”, e mantenendo una coerenza interna.

La pragmatica trascendentale di Apel non si fonda su ragioni pragmatiche, ma su pure considerazioni di ordine trascendentale: le regole dell’argomentazione sono condizioni inaggirabili, non violabili a meno di incappare in una autocontraddizione performativa. Apel risolve così brillantemente il trilemma di Münchausen di Albert (l’impossibilità di una qualunque fondazione a causa della caduta nella petitio principi, nel regresso all’infinito o in una presupposizione arbitraria) ma la sua proposta sembra non essere verosimile nel ricavare tutti gli impegni discorsivi a partire da un solo assunto. La proposta di Apel e quella di Habermas hanno anche una valenza morale: i vincoli da loro individuati per la gestione del discorso assumono anche il ruolo di una morale minimale, che nel caso di Apel è fondata a livello trascendentale, mentre in Habermas è fondata tramite la ricostruzione delle intuizioni dei parlanti.

Lo studio dell’argomentazione si intreccia così con la riflessione pratica in genere, per individuare anche per la morale modelli di razionalità (ad esempio con R.M. Hare), liberandola dalla condanna di insensatezza dell’emotivismo neopositivista. Infatti, autori quali Perelman e MacCormick legano la pretesa di correttezza del ragionamento giuridico alla correttezza dell’argomentazione razionale. Per Robert Alexy, il ragionamento giuridico non è altro che un “caso particolare” della ragione pratica, che sottostà quindi alle sue norme e che si specifica per particolari condizioni. Habermas rifiuta invece la teoria del “caso particolare” per non sottoporre il diritto alla morale, concependo il discorso morale (legato al principio di universalizzabilità) e quello giuridico, come istanze di un contesto più generale di imparzialità di tutti i discorsi razionali (principio “D”, e cioè la validità delle norme per l’azione che sarebbero approvabili da tutti gli interessati partecipando ad un discorso razionale).

Infine, per Ronald Dworkin, il diritto è inteso come pratica interpretativa sulla base di certi valori della società quali l’equità e la giustizia, espressi dal principio dell’integrità. Si comincia a dipanare in tal modo il collegamento fra teoria dell’argomentazione e l’ordinamento democratico costituzionale, legato cioè all’ideale di una società in cui sia garantita la libertà di discussione e la legittimità dell’ordinamento democratico attraverso la capacità di prendere decisioni razionali giustificate pubblicamente. Sotto questo aspetto sarebbe stato interessante inserire anche un riferimento alla democrazia deliberativa.

Il campo di studi è molto ampio, ma l’agile volume di Cantù e Testa riesce a fornire una panoramica ragionata, seppur sintetica, dei problemi e degli autori, accompagnandosi con una buona scelta bibliografica e rivelandosi un ottimo testo introduttivo in questo ambito, che è tanto interessante quanto complesso.

Indice

Introduzione
La rinascita novecentesca
La logica informale
Dialogo e dialettica
Pragmatica e dialettica
Intersoggettività e impegni dialogici
Razionalità e fondazione
Argomentazione e pratiche sociali
Bibliografia
Indice dei nomi

Gli autori

Paola Cantù è dottore di ricerca in Filosofia della scienza all’Università di Genova, e svolge attività di ricerca in storia della logica presso l’Università degli Studi di Milano. È autrice di Giuseppe Veronese e i fondamenti della geometria.

Italo Testa insegna Storia della filosofia politica all’Università di Parma e svolge attività di ricerca a Ca’ Foscari. Ha pubblicato Hegel critico e scettico e curato i volumi Ragionevoli dubbi e Hegel contemporaneo.

Okasha, Samir, Il primo libro di filosofia della scienza.

Torino, Einaudi, 2006, pp. 159, € 14,00, ISBN 9788806181068.

Recensione di Daniela Mainardi - 22/06/2006

Il saggio scritto da Samir Okasha, docente all’Università di Bristol, è di carattere divulgativo. Esso propone una panoramica storico-filosofica di alcune importanti problematiche di natura epistemologica. Nella prima parte del saggio Okasha descrive le origini della scienza moderna. Come è noto, esse vanno rintracciate in un periodo di rapido sviluppo del sapere che ebbe luogo in Europa nel lasso di tempo compreso tra il 1500 e il 1750. Nel 1542 Copernico pubblicò un libro che attaccava il modello geocentrico dell’universo e che situava la terra al centro del cosmo, con i pianeti e il sole che le orbitavano intorno. L’innovazione promossa da Copernico favorì la evoluzione della fisica moderna attraverso l’opera di Keplero e Galilei. Keplero scoprì che i pianeti non girano intorno al sole con orbite circolari, come credeva Copernico, ma ellittiche: si tratta della cruciale prima legge del moto planetario. La seconda e terza legge specificano la velocità con cui i pianeti ruotano intorno al sole. Nel loro insieme le leggi di Keplero fornivano una teoria planetaria di gran lunga superiore rispetto a qualunque altra avanzata in precedenza, risolvendo problemi che avevano sfidato gli astronomi per secoli. Galileo sostenne per tutta la vita il copernicanesimo e fu tra i pionieri del telescopio. Per Okasha Galileo è il primo fisico veramente moderno: fu il primo a mostrare che il linguaggio della matematica poteva essere usato per descrivere il comportamento degli oggetti reali del mondo materiale, come i corpi in caduta o i proiettili. Dopo la morte di Galileo ci fu una progressiva accelerazione delle scoperte scientifiche che culminarono nell’opera di Isaac Newton le cui conquiste sono senza pari nella storia della scienza.

Un problema di carattere diverso affrontato da Okasha riguarda una classica domanda epistemologica: in quale modo un fenomeno può essere spiegato dalla scienza? Si tratta di una problematica che ha impegnato i filosofi fin dai tempi di Aristotele, ciononostante il punto di avvio della riflessione filosofica di Okasha è la celebre teoria della spiegazione scientifica promossa negli anni cinquanta dal filosofo analitico Carl Hempel. La teoria di Hempel è nota come modello della legge di copertura della spiegazione. Lo studioso suggerì che le spiegazioni scientifiche hanno tipicamente la struttura logica di un’argomentazione. L’obiettivo di fornire un’analisi della spiegazione scientifica diviene allora quello di caratterizzare esattamente la relazione che deve sussistere tra un insieme di premesse ed una conclusione, affinché le premesse possano contare come spiegazione della conclusione. Nella relazione suddetta le premesse debbono implicare logicamente la conclusione, le premesse debbono essere vere e una delle premesse deve essere una legge generale. Hempel ammetteva che una spiegazione scientifica potesse fare appello tanto a fatti particolari quanto a leggi generali, ma sosteneva che almeno una legge generale era sempre essenziale. In sintesi, secondo tale approccio l’essenza della spiegazione è mostrare che il fenomeno da spiegare è comunque coperto da una legge di natura generale.

Come fa notare Okasha, la teoria di Hempel cattura molto bene la struttura di molte spiegazioni scientifiche reali, ma deve anche fronteggiare un certo numero di impegnativi controesempi. Essi sono fondamentalmente di due tipi: da un lato ci sono casi di spiegazione scientifica che non corrispondono al modello, neppure approssimativamente. In questo caso la teoria di Hempel è troppo restrittiva. Dall’altro lato, ci sono casi che soddisfano il modello della legge di copertura, ma che intuitivamente non contano come spiegazioni scientifiche genuine. Questi casi suggeriscono che il modello hempeliano è troppo liberale (p. 46).

Le idee scientifiche cambiano in fretta. In confronto ad altri settori dell’impresa intellettuale, come la filosofia o l’arte la scienza è un’attività che muta rapidamente. A tal riguardo, un buon numero di questioni filosoficamente interessanti si incentrano proprio sul tema del cambiamento scientifico. La maggior parte delle discussioni moderne su questa tematica nascono dal lavoro di Thomas Kuhn, uno storico e filosofo della scienza americano, che nel 1963 pubblicò un libro chiamato La struttura delle rivoluzioni scientifiche, l’opera di epistemologia più influente degli ultimi cinquant’anni. L’impatto delle idee di Kuhn si è avvertito anche in altre discipline accademiche come la sociologia e l’antropologia e ha in generale influenzato la cultura intellettuale nel suo insieme. L’opera di Kuhn è scritta con un tono radicale; il filosofo dà l’impressione di voler sostituire le idee filosofiche comuni circa il cambiamento teorico nella scienza con una concezione completamente nuova. La sua dottrina dei mutamenti di paradigma, dell’incommensurabilità e della natura carica di teoria dei dati sembra del tutto in contrasto con la visione positivistica della scienza come impresa razionale, oggettiva e cumulativa. In un poscritto alla seconda edizione dell’opera, il filosofo spiegò che il suo libro non era un tentativo di mettere in dubbio la razionalità della scienza, dichiarò piuttosto di aver interesse a offrire un’immagine più realista e storicamente accurata di come la scienza si sviluppi effettivamente. Nel trascurare la storia della scienza i positivisti erano stati condotti a una spiegazione sbrigativa, in verità idealistica, di come funziona la scienza; lo scopo di Kuhn era semplicemente di fornirne un correttivo (p. 93). Di fatto, le idee di Kuhn trasformarono la filosofia della scienza; egli risvegliò l’attenzione su un ventaglio di questioni che la filosofia della scienza tradizionale aveva semplicemente ignorato. Un’altra importante conseguenza della sua opera è l’aver focalizzato l’attenzione sul contesto sociale in cui la scienza si sviluppa: l’esistenza di una comunità scientifica tenuta insieme dall’adesione a un paradigma condiviso è infatti un prerequisito fondamentale per la pratica della scienza. Non sorprende che le sue idee siano state molto influenti presso i sociologi. In particolare, un movimento noto come il “programma forte”, nella sociologia della scienza, emerso in Gran Bretagna negli anni Settanta del secolo scorso deve molto a Kuhn (p. 96).

Su una linea analoga, ci pare interessante la parte del saggio in cui Okasha si sofferma a spiegare le contaminazioni che, in epoca contemporanea, la filosofia subisce dalle scienze umane. Una delle tematiche care alla filosofia della mente è quella che riguarda la conformazione della mente umana. Secondo una prospettiva la mente umana è un risolutore di problemi generalista. Ciò significa che la mente contiene un insieme di abilità generali, per la soluzione di problemi, che applica a un numero indefinito di compiti. Così un unico e medesimo insieme di capacità cognitive viene applicato se l’umano sta cercando di contare delle biglie. Secondo una concezione rivale, la mente umana contiene un certo numero di sottosistemi specializzati o moduli, ciascuno dei quali è progettato per affrontare un numero molto limitato di compiti e non può fare nient’altro. Questa è nota come l’ipotesi della modularità della mente. Alcune delle più convincenti evidenze probatorie in favore dell’ipotesi della modularità vengono da studi su pazienti con danno cerebrale, noti come studi sul deficit. Se la mente umana fosse un risolutore di problemi generalista, dovremmo aspettarci che un danno al cervello colpisca tutte le capacità cognitive, in modo più o meno equivalente. Ma non è questo quello che riscontriamo. Al contrario, il danno cerebrale danneggia certe capacità cognitive, ma ne lascia intatte altre. Molto del recente interesse per la modularità si deve al lavoro di Fodor, un influente filosofo e psicologo americano, che nel 1983 pubblicò un libro sulla mente modulare, che conteneva una spiegazione molto chiara di che cosa è un modulo. Fodor argomentò che i moduli mentali hanno un certo numero di caratteri distintivi, dei quali i principali sono i seguenti: essi sono specifici per un dominio, le loro operazioni sono obbligate, sono informativamente incapsulati. I sistemi non modulari al contrario non possiedono nessuna di queste caratteristiche. Fodor affermò che la mente umana è in parte, sebbene non del tutto, modulare; noi risolviamo alcuni compiti cognitivi usando moduli specializzati, altri usando la nostra intelligenza generale (p. 119). I più entusiasti sostenitori della modularità credono che la mente sia interamente composta di moduli, ma questa posizione non è accettata universalmente. Fodor stesso afferma che percezione e linguaggio sono probabilmente modulari, mentre il pensiero e il ragionamento quasi certamente non lo sono (p. 122). Per Okasha la tesi di Fodor, secondo cui la mente è parzialmente, ma non del tutto, modulare appare piuttosto plausibile. Ma sapere esattamente quanti moduli esistono e che cosa fanno con precisione sono questioni a cui non si può rispondere, allo stato attuale delle ricerche. (p. 123)

Questo libro è un utile strumento per avvicinarsi all’attuale dibattito epistemologico. Esso fornisce gli strumenti critici per la comprensione di alcuni fondamentali valori della scienza contemporanea, ed è corredato da un nutrito apparato bibliografico.

Indice

Che cosa è la scienza?
Il ragionamento scientifico
La spiegazione nella scienza
Realismo e anti-realismo
Cambiamento e rivoluzione nella scienza
Problemi filosofici in fisica, biologia e psicologia
La scienza e i suoi critici
Indicazioni bibliografiche
Indice analitico


L'autore

Samir Okasha insegna all’Università di Bristol; in precedenza è stato docente di filosofia della scienza all’Università di York, a Oxford, alla London School of Economics e all’Università nazionale del Messico.

lunedì 19 giugno 2006

Massaro, Domenico, Questioni di verità. Logica di base per capire e farsi capire.

Napoli, Liguori, 2005, pp. 213, € 11,00, ISBN 88-207-3892-9.

Recensione di Francesco Crapanzano – 19/06/2006

Logica, Filosofia, Scienza

In più di un’occasione ufficiale si presenta un volume appena pubblicato come “ciò che mancava” nel panorama editoriale, legittimandone, così, l’apparizione come necessaria per colmare presunte lacune nell’ambito di ricerca in cui l’autore si è mosso.

Non è questo che qui si vuol fare, e ciò non perché non si possano trovare concreti riscontri in tal senso nel lavoro di Domenico Massaro (ad esempio la validità didattica, aspetto solitamente trascurato nei manuali di logica e sempre presente nelle ricerche dell’autore), quanto per il motivo che così facendo verrebbero a trovarsi in secondo piano gli altri pregi che la pubblicazione presenta.

Ferdinando Abbri, nella Prefazione, sottolinea come dal volume emerga l’importanza della logica “in quanto scienza dell’argomentazione razionale” volta alla ricerca della verità (cfr. p. 4). Non si tratta di un’introduzione alla logica intesa come computazione, di cui comunque si fa menzione, quanto alla “logica filosofica”, la cui trattazione non può che essere in forma “di ricognizione sistematica della storia della logica” (p. 6). E qui si tocca uno dei punti di merito del volume, cioè il fatto, poco ‘alla moda’, di presentare argomenti di logica senza farne una sottodisciplina dell’algebra. La logica è nata ben prima e su altro terreno rispetto alla matematica e quest’ultima non esaurisce le potenzialità del pensiero critico (critical thinking) e dell’argomentazione razionale, e, ancora, non sfiora l’aspetto etico-politico-pratico della comunicazione: “Ragionare bene – scrive Massaro – non è soltanto un esercizio astratto […], ma la condizione per capire e farsi capire” (p. 9).

Pensare con la propria testa nell’epoca di Internet, cioè nel tempo in cui si realizza un bombardamento mediatico (“effervescenza dialogica”; cfr. p. 14), è importante, ma non basta: bisogna pensare e comunicare bene, ed in questo senso la logica si configura aristotelicamente come organon del pensiero, non come sua fonte (cfr. pp. 15-20). Passando dalla logica inferenziale a quella del lógos, dalla dialettica a quella dell’argomentazione fino alla fregeana, emerge dalle pagine di Massaro un quadro variegato e complesso in cui, parafrasando Aristotele, la logica si può declinare in tanti modi, tutti con una propria dignità, utilità e valore. Certamente si tratta di un insieme di regole che trovano impiego nella ricerca della verità (rispondono, in un certo senso, alle “questioni di verità”), anche se si devono tenere ben distinti i piani verità\realtà: “La validità di un ragionamento può prescindere dalla validità degli enunciati di cui è costituito” (p. 26) e “non tutta la nostra attività linguistica si identifica con il ragionamento” (p. 29). A questo riguardo – e non solo - il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche è giustamente chiamato in causa (cfr. pp. 29 e ss.).

Unendo efficacia espressiva e dovizia di riferimenti, Massaro osserva come il linguaggio non si esaurisca nel discorso apofantico (“nelle parole c’è la nostra storia”; p. 36, cfr. pp 29-40) e come alla logica (intesa come il linguaggio logicamente coerente) sia stato attribuito, da Boole, Frege e il “primo” Wittgenstein in poi, un ruolo ontologico tutt’altro che secondario (cfr. pp. 156-179). In realtà, la logica ha ‘un’altra storia’ che affonda le sue radici nel pensiero greco; nel volume si ricordano l’importanza del verbo essere presso gli eleatici (cfr. pp. 55-57), i paradossi di Zenone (cfr. pp 18-20), l’Organon di Aristotele, i modelli di ragionamento stoici (cfr. pp. 87-98) ecc. 

In epoca medievale si prendono come riferimento Aristotele, Porfirio e Boezio (cfr. pp. 106-108), ma non mancano elementi di notevole originalità: la logica che Massaro definisce “artistica” (come “arte” del trivio), la quale vede nei principi logici qualcosa di diverso rispetto a semplici regole, un codice al di sopra degli dei, o, più moderatamente, una creazione divina a cui il dio non è necessariamente assoggettato (cfr. pp. 102-106). “Dobbiamo ai medievali la prima chiara identificazione della logica formale” attraverso la distinzione dei termini sintecategorematici (le contemporanee “costanti logiche”, che non hanno significato isolatamente, ma collegano altri termini. Ad esempio: “Ogni”, “tutti”, “alcuni”, “non”, “nessuno” ecc.; p. 108, cfr. pp. 108-110) e categorematici (che possiedono un proprio significato). Sempre nel medioevo inizia l’analisi delle proposizioni modali (le proposizioni vengono catalogate in necessarie, possibili, impossibili e contingenti) che giungerà agli importanti sviluppi settecenteschi di Leibniz sui mondi possibili e ad alcune considerazioni contemporanee di Carnap (cfr. pp. 111-116).

All’interno del volume, con opportuni riferimenti alle fondamenta storiche di cui si diceva, vengono presentate alcune logiche contemporanee “polivalenti” (quella di Lukasiewicz e la Fuzzy logic) in cui, ai tradizionali valori di verità\falsità, se ne affiancano altri quali l’indeterminato, il possibile e lo ‘sfumato’. Si affronta, poi, uno dei principali modi di conoscenza logica, la deduzione (cfr. pp. 76-86). Il sillogismo aristotelico con le sue figure, antenato di ogni forma logica, e i principi di identità, non contraddizione e terzo escluso, offrono uno strumento di conoscenza impareggiabile, esso – come il pensiero - non “crea le cose, ma le apprende” (p. 80). L’ontologia, così, fonda la logica e non viceversa. 

L’induzione è trattata in uno specifico capitolo (pp. 117-129) all’interno del quale se ne evidenzia la fecondità. Il ragionamento induttivo prende le mosse dalla filosofia greca (addirittura da Socrate, riferisce Platone; cfr. p. 119) e trova una prima forma compiuta con Bacone, il quale spiega che né il sillogismo (Massaro chiarisce che secondo Bacone “Aristotele è stato un grande filosofo, ma i suoi concetti non servono a farci progredire nelle scienze. Il suo metodo è paragonabile al comportamento del ragno: costruisce la sua tela […] e poi pretende che si identifichi con il mondo”; p. 123) né l’empirismo (“neppure la formica ci soddisfa, che […] accumula dati su dati, osservazioni su osservazioni, senza essere in grado di elaborarli”; ibidem) aprono nuove vie alla conoscenza come l’induzione (“l’ape è la nuova metafora della ricerca: essa, infatti, succhia il nettare dei fiori su cui si posa, ossia osserva e raccoglie, ma poi elabora e produce il proprio”; p. 124).

John Stuart Mill, poi, ha offerto il suo contributo sull’induzione definendone una sorta di decalogo; essa dovrebbe procedere secondo cinque “canoni” o criteri: “Differenza”, “concordanza”, “concordanza e differenza” congiunte, “metodo dei residui” e “metodo delle variazioni concomitanti” (cfr. pp. 128-129).

Con la scuola di Port-Royal la logica non è più “tecnica formale di costruzione dei ragionamenti, ma […] un’arte della scoperta e dell’invenzione” (p. 135) che, tuttavia, necessita di un adeguato studio ed esercizio per essere appresa. La logica, insomma, richiede una sicura applicazione in quanto un suo cattivo utilizzo origina quegli errori che in precedenza, sbagliando, si attribuivano ai sensi (cfr. pp. 138-140). L’influenza cartesiana di questa teoria della conoscenza è fin troppo evidente; la novità sta nel modo nuovo di concepire la logica come rigorosa e feconda  insieme, ‘utile’ nelle situazioni in cui serve decidere in condizioni d’incertezza (Massaro presenta l’emblematica scommessa pascaliana; cfr. pp. 141-143).

Nel volume, successivamente, si focalizza un diverso significato di logica, quello di “logica della scoperta scientifica” o, diversamente detto, lo studio delle norme che reggono la dinamica del progresso scientifico (cfr. pp. 144-155). Tappe obbligate a questo proposito sono rappresentate dalle riflessioni di Peirce (abduzione) e Popper (falsificazionismo), che Massaro utilizza come tessere di un mosaico raffigurante la scienza nel suo concreto sviluppo. Questa non procede “in modo schematico, né lineare, [adopera congiuntamente] il pensiero e l’esperienza, la deduzione, l’induzione e l’abduzione […]. E, in definitiva, è proprio in questa virtuosa circolarità, fatta di ipotesi – osservazione - teoria – verifica, che può racchiudersi la meravigliosa avventura della scienza e della conoscenza umana” (pp. 154-155).

Un’altra ‘declinazione’ della logica, tipicamente novecentesca, è quella linguistico-matematica. Massaro ne tratteggia i contorni a partire dallo studio di Frege sul “senso” e sul “significato” (“denotazione”) dei termini, inserito in un progetto generale finalizzato all’eliminazione delle ambiguità dal linguaggio, soprattutto da quello scientifico (cfr. pp. 156-160). I contributi di Russell e Wittgenstein mostrano la stessa intenzione seppur con diverse sfumature (Russell “traduce gli enunciati descrittivi in enunciati assertivi”, il Wittgenstein del Tractatus crede nella “perfetta corrispondenza (isomorfismo) tra linguaggio e mondo” e nella possibilità “che l’applicazione dell’analisi al linguaggio filosofico possa eliminare ogni fraintendimento e disguido interpretativo”; pp. 162, 166-167, 170). Il “secondo” Wittgenstein sconfesserà tale posizione esprimendo nelle Ricerche l’impossibilità di ridurre il linguaggio ordinario a forma logica (cfr. pp. 163-170). Il logico polacco Alfred Tarsky ha proposto di venir fuori dai paradossi della logica attraverso l’utilizzo di piani metalinguistici, poiché “quando il linguaggio è chiuso in se stesso genera un’antinomia” (p. 177). Si verrebbe così a formare una serie gerarchicamente ordinata di metalinguaggi; solo che questo ‘metodo’ fa della verità qualcosa di precisamente definito unicamente all’interno di metalinguaggi o linguaggi specialistici che parlano di oggetti (non di proposizioni, cioè non di se stessi). Il linguaggio ordinario resta ai margini della verità perché troppo ampio e poco ‘formalizzabile’ (cfr. pp. 175-179). 

L’ultimo capitolo del volume tratta delle classiche ‘trappole’ tese dal linguaggio alla logica. L’ambiguità da uso scorretto di quantificatori, le citazioni fuori contesto, l’argomento dell’autorità (dimostra qualcosa facendo leva sull’autorità di chi argomenta e non giudicando la bontà di ciò che viene detto; cfr. p. 183) sono solo alcuni dei trabocchetti linguistici che impediscono la comunicazione corretta. Massaro segnala come al tempo d’oggi, in cui Internet e i mezzi di comunicazione di massa hanno reso fruibile l’informazione, monta un’ignoranza diffusa su come funzionino proprio i mezzi di comunicazione. Dove impera lo specialismo, la frammentazione dei saperi, gli uomini possono restare intrappolati in ciò che hanno costruito: fallacie, argomenti ad misericordiam (ci si appella alla compassione della persona cui ci si rivolge; cfr. p. 183), ad populum (si fa leva sulla carica emotiva della massa; cfr. ibidem), ad hominem (ragionamento che prende a bersaglio la persona che parla e non ciò che dice; cfr. p. 184), ad ignorantiam (un argomento è vero perché non se ne sa dimostrare la falsità; cfr. p. 186). 

Il discorso di Massaro si chiude volgendo lo sguardo su qualcosa di apparentemente estraneo all’ambito logico: è lo spazio che vede interagire la logica, quindi la verità, con la democrazia, col vivere civile. Conoscere la logica, sia essa matematica oppure dell’argomentazione, significa, infatti, porre rimedio ai “tanti guasti che facciamo, con le parole o le inferenze sbagliate, quando nel tentativo di risolvere un problema ne creiamo altri e di più complicati. […] ci può dare una mano per non farci inciampare negli stessi errori” (p. 190).

Da sottolineare, infine, la presenza a fine testo di un utile glossario delle definizioni e dei termini usati in logica

Indice

Prefazione di Ferdinando Abbri       
Introduzione 
Pensare con la propria testa 
Linguaggio, pensiero e comunicazione
Onesti con le parole
La verità, innanzitutto
Vero, falso, indeterminato e altro ancora
Deduzione
Dilemmi, paradossi e rompicapo. Il lato divertente della logica
Analisi del linguaggio, dottrina della supposizione, ragionamenti modali. La logica nel Medioevo e oltre 
Induzione
L’arte di pensare, ovvero come decidere in condizioni di incertezza
Scienza e verità
Senso, significato e verità
Fallacie, errori e stratagemmi retorici
Epilogo. Logica, verità, democrazia
Glossario 
Bibliografia essenziale

L'autore

Domenico Massaro insegna Logica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena e Arezzo. Ha già pubblicato numerosi articoli e saggi su rivista e diverse monografie fra cui: L’arte di ragionare (Paravia-Scriptorium, Torino 1999) Il filo di Sofia. Etica, comunicazione e strategie conoscitive nell’epoca di Internet (Bollati Boringhieri, Torino 2000). È autore del manuale per i licei La comunicazione filosofica (Paravia, Torino 2000-2002).

Link

Breve saggio sull’argomentazione filosofica

Patella, Giuseppe, Estetica culturale. Oltre il multiculturalismo.

Roma, Meltemi, 2005, pp. 168, € 16,00, ISBN 88-8353-435-2.

Recensione di Riccardo Campi - 19/06/2006

Estetica

Le indagini condotte da Giuseppe Patella nel suo ultimo libro si presentano, al contempo, come un bilancio e come un programma. Due infatti sono le principali linee di riflessione che l’autore segue e sviluppa: da un lato, si tratta di valutare l’importanza e il significato del contributo che i cultural studies hanno apportato a una disciplina filosofica come l’estetica, al suo statuto, ai suoi metodi, e ai suoi stessi oggetti; dall’altro, l’ambizioso progetto - che è piuttosto una sfida - consiste nel rivendicare la necessità e l’urgenza “di ripensare, di ridefinire l’identità [dell’estetica] in maniera adeguata alle esigenze del nostro tempo” (p. 72). In maniera ancora più esplicita, viene espressa l’esigenza “di accompagnare l’estensione dell’estetica verso nuovi orizzonti con una dotazione metodologica quanto mai flessibile e che sia in grado di avvicinare realmente tutta quella vastità di fenomeni complessi e differenziati che coinvolgono la sfera del sentire contemporaneo, all’opera nel mondo della comunicazione e dei media, nella società e nella politica, nella religione e nelle arti” (p. 60).

L’apporto più rilevante che gli studi culturali - anche nella loro versione postcoloniale (il rimando è ad autori quali Said, Chambers e Spivak) - hanno fornito al dibattito teorico è una diversa, più problematica definizione di “cultura”: questa non risulta più essere il prodotto di una tradizione unitaria, bensì la posta di una “lotta per il riconoscimento”. In altri termini, essa deve essere concepita come un contested terrain (l’espressione è di Douglas Kellner: cfr. pp. 43-45), nel quale i valori e i paradigmi culturali vengono determinati in base alla loro funzione nel quadro di una data struttura, complessa e storicamente determinata, di interessi e conflitti sociali, economici e ideologici (o meglio simbolici). Questo è l’assunto da cui muove la proposta teorica avanzata da Patella: “Va da sé che questo mutamento epocale della nozione di cultura implica l’obsolescenza tanto della classica concezione antropologica di cultura, intesa come sistema stabile e integrato che racchiude l’insieme dei modelli di pensiero e di azione condiviso dall’organismo sociale e che si trasmette di generazione in generazione, quanto dell’ideale estetico di cultura, erede della religione romantica dell’arte, come contenuto di verità eterna di cui l’artista sarebbe il custode e la grande opera la sua manifestazione privilegiata” (p. 46). Si potrà contestare pedantemente che questo ideale estetico di cultura è un’eredità ben più antica della religione romantica dell’arte, e che essa appartiene a una lunga tradizione umanistica la cui ambizione è sempre stata di abbracciare l’intera storia della civiltà occidentale, a partire dalla sue origini greche, onde fissare un modello universalmente valido di razionalità. Ma in tal modo non si fa che confermare la fondatezza dell’importanza “epocale” che Patella attribuisce a questa ormai necessaria e ineludibile (e anzi, di fatto, già compiuta) “ridefinizione della cultura”, come avrebbe detto T.S. Eliot, con tutt’altri intenti. 

Si possono facilmente intuire le conseguenze che lo statuto disciplinare dell’estetica può (e, secondo Patella, deve) subire al cospetto di un processo storico di tale portata. Meno di un secolo fa, si sarebbe parlato apocalitticamente di “crisi della cultura”. Più pacatamente, Patella suggerisce di cercare di comprendere tale processo e d’interpretarlo ripensando in maniera critica e accorta la nozione, fin troppo abusata e vaga, di “postmoderno”: essa può ancora rappresentare l’orizzonte, storico e concettuale nello stesso tempo, entro cui inscrivere quest’opera di ridefinizione della cultura. Bisogna però saper distinguere due “postmodernismi”: uno, “debole e perento, […] modaiolo e che ha fatto il suo tempo” (p. 23), rischia di trasformarsi (e di fatto si è trasformato fin dall’inizio) in euforica apologia dell’esistente, solidale con le nuove forme che i “beni culturali” assumono in seguito al processo di mercificazione cui l’industria culturale li sottopone indistintamente, favorendone un consumo di massa, irriflesso e sostanzialmente acritico. Per quanto fondate, “queste preoccupazioni di stampo francofortese” (p. 73), come le chiama Patella, non debbono tuttavia escludere la possibilità di intendere “il postmoderno come l’imporsi di una diversa logica del pensiero, una nuova forma di razionalità, non più monolitica, ma plurale […]: senza il tipo di consapevolezza che il postmoderno ci ha lasciato in eredità, come potremmo comprendere o anche solo confrontarci con le esperienze insolite e stranianti proprie di questi nostri tempi? […] Non è forse il caso di cominciare a misurarsi con le mutevoli espressioni dell’esperienza contemporanea - sempre più caratterizzate dalle forme della differenza, dell’opposizione, del conflitto, così come dalle ibridazioni, dagli scambi, dalle contaminazioni e dagli intrecci - a partire da quel diverso paradigma culturale, più aperto, flessibile, articolato, che si è imposto proprio con il postmoderno?” (pp. 23-24). Se la retoricità di tali domande è evidente, non meno evidente è la necessità di fornire a questo “diverso paradigma culturale” un apparato concettuale e metodi di analisi meno eclettici di quelli esibiti dal postmodernismo nelle sue manifestazioni più corrive.

Se del postmoderno bisogna riprendere il problema di fondo che esso sollevava, e non le effimere soluzioni che proponeva, allora una delle questioni più urgenti riguarderà la natura stessa degli oggetti con cui si trova a doversi confrontare un’estetica rinnovata - e, più in generale, ogni teoria (filosofica, sociologica, antropologica) che pretenda hegelianamente di apprendere il proprio tempo nel pensiero. Dall’“antropologia simmetrica” di Bruno Latour, Patella trae alcuni spunti per costruire una diversa tipologia di oggetti, e dunque delinearne una diversa definizione: i “nuovi oggetti” non si contrappongono più a un soggetto puro, magari un Io-penso trascendentale, poiché tra essi “l’uomo stesso è direttamente coinvolto e annoverato”. Latour li chiama oggetti “chiomati”, “arruffati”, con “attaccamenti a rischio”, ossia “oggetti incerti, quasi-oggetti, fatti di molteplici connessioni tentacolari mai del tutto chiuse, in grado di mettere in moto delle conseguenze inattese anche a lungo termine, e per questo tanto più imprevedibili e incontrollabili” (p. 124). Benché l’interesse di Latour sia rivolto propriamente alla costituzione di una “ecologia politica”, capace di dare conto di questi strani ibridi di natura e cultura (cfr. pp. 119-128), è tuttavia chiaro in cosa tale lavoro teorico possa risultare utile e pertinente anche per una riflessione sull’estetica in quanto disciplina, e sull’estetico in quanto dimensione peculiare dell’esperienza umana: anche l’oggetto dell’estetica ha subìto una sorte analoga agli altri “oggetti”, preso com’è tra l’industria culturale che ne fa una merce, le istituzioni (scolastiche, museali) che ne fanno un feticcio più o meno venerando, e un generale processo di estetizzazione delle forme di vita quotidiane che tende ad attribuirgli un valore eminentemente simbolico. È chiaro però che, in tal modo, l’estetica viene privata dei suoi tradizionali oggetti d’indagine. La conclusione cui Patella perviene nel constatare tali mutamenti è drastica: “Se prendiamo estremamente sul serio le indicazioni sollevate dall’insieme di queste problematiche e ci facciamo carico fino in fondo delle utili ‘provocazioni’ che giungono dall’ambito degli studi culturali, non possiamo non concluderne che dobbiamo veramente dire addio all’estetica, dobbiamo in altri termini rinunciare alla disciplina così come abbiamo imparato a conoscerla e a pensarla finora, lasciando spazio piuttosto a quella che, con Bourdieu, si potrebbe chiamare una teoria dei beni simbolici, o una scienza degli artefatti culturali” (p. 87).

Il riferimento a Bourdieu non è occasionale: la sua sociologia, in virtù della coerenza e del rigore che la caratterizzano, fornisce infatti alla riflessione di Patella uno dei principali punti di riferimento teorici, e soprattutto metodologici. Per analizzare e descrivere oggetti dallo statuto costitutivamente incerto, sono richiesti in effetti strumenti che non possono essere unicamente quelli dell’estetica filosofica tradizionale. La nozione di “campo”, per esempio, insieme a quelle (a essa complementari) di “habitus”, “riconoscimento”, “capitale specifico” (simbolico, in primo luogo), costituisce uno strumento per delimitare e descrivere l’ambito, le forze e le poste in gioco di quelle pratiche sociali particolari che si suole definire “artistiche” (pp. 96-97 e 108). Integrando tali nozioni con altre, per esempio con quella di “articolazione”, quale viene proposta da Stuart Hall (e da Laurence Grossberg, cfr. pp. 54-55), sarà possibile comprendere come “il riposizionamento di pratiche all’interno di un campo di forze in continuo cambiamento” (Grossberg) costituisca una lotta che fa della cultura (o, meglio, di quel campo particolare detto cultura) un contested terrain. Questo approccio “culturale” al problema del rapporto fra cultura e potere, tanto nella versione anglosassone che in quella sociologica di Bourdieu, secondo Patella ha il merito di sfuggire al “determinismo di tipo economico” (pp. 51-52), eredità di una concezione dottrinaria e ormai superata del marxismo. 

La costante polemica condotta da Patella contro quella che, a più riprese, chiama “estetica accademica” (pp. 61 e 75) non riguarda soltanto semplici questioni di metodo o di merito, circoscritte a un ristretto e specialistico ambito disciplinare: la “svolta culturale dell’estetica” (p. 67) invocata da Patella non solo priva quest’ultima dei suoi tradizionali oggetti d’indagine, ma ripropone l’esigenza di pensare ancora la “lotta per la cultura” (p. 46) in termini essenzialmente politici, e ideologici (nella corretta accezione marxiana). Una reticenza comprensibile (benché non condivisibile da parte di chi scrive) induce Patellla a omettere di fare appello all’auctoritas dei maestri francofortesi, che per primi e in maniera coerente e filosoficamente consapevole evidenziarono il nesso tra estetica, critica della cultura e critica dell’ideologia. Salvo poi sigillare, a sorpresa, il breve capitolo conclusivo del libro con una poderosa citazione di Adorno: “È successo di continuo, nella storia, che un lavoro che persegua obiettivi puramente teorici si sia rivelato capace nei fatti di trasformare le coscienze e quindi anche la stessa realtà sociale” (cit. a p. 156). Rivendicare, con Adorno, il primato della teoria sulla prassi è un modo per rivendicare all’estetica la sua funzione radicalmente critica nel confronti dell’esistente - e dunque politica. Retrospettivamente, i paragrafi dedicati a Bourdieu o quelli dedicati a Zizek (pp. 128-144) potranno allora essere rimeditati, per esempio, alla luce della celebre formula benjaminiana, secondo la quale il “patrimonio culturale […] non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie” (Tesi sulla storia, VII) - dove “barbarie” allude alla violenza e ai conflitti che i monumenti della tradizione culturale occultano, imponendosi come puri oggetti da venerare e paradigmi atemporali di bellezza e razionalità. Rimettere in discussione il valore esemplare di questa tradizione, e al contempo le condizioni del suo attuale consumo di massa, significa riattivare, e  rinnovare con strumenti più aggiornati, quell’atteggiamento critico che l’ideologica celebrazione della “fine delle ideologie” ottunde. 

Per designare questo nuovo tipo di engagement, Patella utilizza (già a partire da uno dei suoi primi lavori) il termine politicamente saturo di “resistenza”. Anche se, molto opportunamente, precisa che “questa resistenza non può essere espressa semplicemente in termini di negatività, né tanto meno di universalità; essa avrà piuttosto una funzione specifica, determinata, sarà a sua volta differenziata, pluralistica, contingente e propositiva. Il suo movimento differenziale non può significare nostalgia, rifiuto o rassegnazione, ma trasformazione e trapasso. In questo senso resistenza non significa né inerzia, né difesa dell’esistente, ma lento, quasi impercettibile però inarrestabile a caparbio movimento di trasformazione, di differenziazione dei piani, di disarticolazione della realtà e riarticolazione dei suoi livelli” (p. 150). Patella si vieta di ricorrere al gergo della tradizione dialettica, nelle sue diverse varianti, da Hegel ad Adorno, a Goldmann, e magari ad Althusser: probabilmente tale gergo gli suona ancora troppo metafisicamente pregiudicato. Questione di gusti: poco importa. Ciò che importa è che la sfida sia stata ripresa, adeguatamente riformulata, e rilanciata con vigore.

Indice

Introduzione

Orizzonti postculturali

Sull’utilità e il danno degli studi culturali per l’estetica

Frontiere. Ripensare l’estetica con le scienze sociali

Oltre il multiculturalismo: la resistenza

L'autore

Giuseppe Patella è professore associato di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. È redattore capo della rivista “Ágalma” e autore dei seguenti volumi: Sul postmoderno. Per un postmodernismo della resistenza (1990); Gracián o della perfezione (1993); Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica moderna (1995); Simbolo, Metafora e Linguaggio, a cura di G.P. (1998); Bellezza, arte e vita. L’estetica mediterranea di George Santayana (2001); Giambattista Vico tra Barocco e Postmoderno (2005).

sabato 10 giugno 2006

Husserl, Edmund, Fichte e l’ideale di umanità. Tre lezioni, a cura di Francesca Rocci.

Pisa, Ets, 2006, pp. 89, € 12,00, ISBN 88-467-1200-5.

Recensione di Gianfranco Cordì – 10/06/2006

Storia della filosofia (idealismo)

Edmund Husserl ricoprì la cattedra di filosofia presso l’Università di Frieburg dal 1916 al 1929. In occasione del suo insediamento tenne una serie di tre lezioni su Fichte, le quali vengono ora pubblicate in volume. Dall’Introduzione della curatrice apprendiamo che Husserl «tenne […] le sue lezioni su Fichte alla facoltà di scienze politiche nell’ambito dei corsi per i partecipanti alla guerra» (p. 9). E che queste lezioni avvennero fra «l’8 e il 17 novembre 1917, per ripeterle […] due mesi dopo, dal 14 al 16 gennaio dell’anno seguente» (p. 11). Husserl, infine, le ripeté nei giorni «6, 7 e 9 novembre del 1918» (p. 12). Per mezzo della filosofia di Fichte, Husserl si pone un determinato obiettivo: portare all’attenzione del popolo tedesco due importanti caratteristiche dell’idealismo fichtiano. Ovvero «il misticismo religioso […] e quel fervore politico in chiave nazionalista che rende agli occhi di Husserl così attuale per quegli anni di conflitto il pensiero di Fichte» (p. 42). Siamo dunque nel cuore della Prima guerra mondiale. Da filosofo, Husserl sente di dover fare qualcosa per il suo popolo. E, da filosofo, utilizza le aule dell’Università di Friburgo per indicare nell’opera appunto di Fichte il modello da seguire (in quella particolare congiuntura storica) per il popolo tedesco. Dunque l’obiettivo che si pone è, come egli stesso afferma, quello di risvegliare nel popolo tedesco «la fede nel fatto che, nel caso in cui esso adempia liberamente alla sua destinazione più alta, con ciò debba avviare la liberazione anche per l’umanità intera» (p. 88). Per raggiungere questo scopo di Fichte, Husserl studia i «soli scritti popolari di carattere etico-politico e religioso senza leggere mai nessuna stesura della dottrina della scienza eccetto le due introduzioni del 1917» (p. 33). Ed inoltre: dell’idealismo di Fichte Husserl sceglie soltanto alcune particolari determinazioni. La prima è quella che afferma che «essere soggetto è assolutamente nient’altro che essere agente» (p. 60). La seconda, che «l’essenza dell’agire implica essere orientati a un fine» (p. 61). La terza, quella che dichiara che «ogni fine è un telos, ma tutti i fini devono legarsi nell’unità del telos, dunque in un’unità teleologica» (ibid.).

Secondo Fichte dunque esiste «un’ ordinamento morale del mondo», la cui «idea normativa» è Dio; «un altro Dio non ci può essere» (p. 64). Husserl dice perciò che, agendo in questo modo, Fichte crea una «produzione teleologica del mondo» (ibid.). Ovvero, crea un mondo «in cui l’agire morale possa avere il suo posto» (ibid.). Cioè crea «un mondo umano […] un mondo di spiriti liberi, che siano gli uni con gli altri in relazioni morali e che, guidati dal sublime imperativo del dovere, realizzano un ordinamento morale del mondo» (ibid.). Husserl ha intenzione di portare all’attenzione dei suoi compatrioti proprio questo Fichte. Cioè quel Fichte che «negli anni della più profonda umiliazione della Germania […] mise davanti agli occhi al popolo tedesco in forma nobile la sublime idea nazionale [… e] la congiunse all’ideale di un popolo vero e autentico» (p. 81). Quel Fichte, infine, che «mostra la via, l’unica via, alla liberazione nell’innalzarsi all’ideale autentico di umanità rappresentato dalla moralità vera» (p. 69). 

Le tre lezioni su Fichte, viste nel quadro della produzione globale di Husserl, vanno a collocarsi nel periodo in cui lo stesso Husserl stava attendendo a una profonda messa a punto della sua filosofia. Messa a punto che l’avrebbe portato alla pubblicazione della Logica formale e trascendentale (1929), delle Meditazioni cartesiane (1931) e infine della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936).  Afferma Rocci che «in questo periodo si trovano tracce di un interesse del tutto nuovo per l’idealismo tedesco, che la critica nota coincidere in modo particolare con gli anni della guerra» (p. 31). Fu in questo arco di tempo che Husserl «vide negli idealisti i precursori, per quanto in forma non rigorosa e non scientifica, dell’idealismo scientifico fenomenologico, di cui essi intuirono gli scopi quasi in un “presentimento”» (p. 32). Perciò anche in questo suo accostarsi alla filosofia fichtiana è presente il riconoscimento del «merito di aver saputo individuare […] l’ambito e i fini della ricerca filosofica» (p. 33). Ma (visto che, come detto, Husserl non riconosce la scientificità dell’idealismo) in questo suo accostarsi è del resto contenuto un uso della filosofia di Fichte solo in relazione alla «sfera etico-religiosa» (p. 33). Così ci rendiamo conto che, nello studio delle dottrine di Fichte e nella composizione di queste lezioni, l’obiettivo che Husserl si propone è certamente di tipo morale. Ed ovviamente, solo se letto in un’ottica del genere, questo Fichte e l’ideale di umanità ci restituirà il valore esatto della seguente dichiarazione di Husserl su Fichte: «La passione che muove il suo pensiero teoretico non è mera sete di sapere, non è passione per un puro interesse teoretico. Fichte fu piuttosto una natura orientata in maniera assolutamente pratica. Per inclinazione e volontà dominante fu un riformatore etico-religioso, educatore dell’umanità, profeta, veggente, si, posso azzardare tutti questi appellativi, ed egli stesso se ne sarebbe compiaciuto» (p. 51).     

Indice

Introduzione. Fichte e l’ideale di umanità
Avvertenza
Parte prima. L’io assoluto degli atti
Parte seconda. L’ordinamento morale del mondo come principio creatore
Parte terza. L’autorivelazione di Dio nei livelli di umanità

L'autore

Edmund Husserl nacque a Prossnitz l’8 aprile del 1859. Studiò matematica con Weierstrass e fu scolaro di Brentano. Fu professore di filosofia a Gottinga e poi a Freiburg sino al 1929. Morì a Freiburg il 26 aprile 1938.

venerdì 9 giugno 2006

Hadot, Pierre, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura.

Trad. it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2006, pp. 332, € 25,00.
[Ed. or.: Le Voile d'Isis, Gallimard, Paris 2004]

Recensione di Moreno Montanari – 09/06/2006

Storia della filosofia (antica, moderna, contemporanea)

A differenza dei testi che lo hanno preceduto, quest’ultimo studio di Pierre Hadot non costringe a ripensare le tradizionali idee che avevamo sul tema di cui si occupa né offre nuove prospettive ermeneutiche sul concetto di natura. L’autore si limita infatti a descrivere l’evoluzione storica che, da Omero a Merleau-Ponty - passando però anche per la letteratura, la poesia, e l’arte pittorica e quella plastica - la civiltà occidentale si è fatta dell’idea della natura, senza proporre una rilettura di queste interpretazioni alla luce di nuovi studi filologici o particolari intuizioni filosofiche. Eppure – confessa l’autore – si tratta di un libro “pensato per oltre quarant’anni”. Chi conosce bene Hadot sa che la natura gioca un ruolo chiave non solo nella sua intera produzione filosofica, ma persino nella sua stessa maniera di concepire e vivere la filosofia. In un libro intervista con J. Carlier e A. I. Davidson, Hadot spiega infatti di sentirsi filosofo dal giorno in cui, ancora adolescente, fa una particolare “esperienza della natura” che descrive come segue: “Era calata la notte e le stelle brillavano in un cielo immenso. A quell’epoca si poteva ancora vederle. Un’altra volta fu in una stanza di casa nostra. In entrambi i casi fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del Tutto, e di me in questo mondo. […] Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se s’intende per filosofia questa coscienza dell’esistenza, dell’essere-al-mondo”. E da quel momento, prosegue Hadot, “ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. […] Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. […] Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso, ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia: ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo” (La filosofia come modo di vivere, Torino 2001, p. 23). Si tratta dunque di un’idea di natura che, al tempo stesso, è un’esperienza come, proprio nelle righe finali de Il velo di Iside, Hadot spiega: “Il lettore avrà colto, di sfuggita, i temi che mi seducevano di più e sui quali sono soffermato forse anche troppo: un’idea e un’esperienza. L’idea: la natura è arte e l’arte è natura, giacché l’arte umana non è che un prolungamento dell’arte della natura; […] L’esperienza: […] che consiste nel prendere intensamente coscienza del fatto che noi facciamo parte della natura, che in un certo senso noi siamo questa stessa natura infinita e indicibile, che ci ingloba totalmente” (p. 314). Ovviamente il libro passa in rassegna anche altre idee di natura ma, al di là delle sue definizioni, si concentra sul costante mistero e segretezza che appare ricoprirla, dalla physis come origine, nascita delle nei primi filosofi greci, sino all’alba (nel primo novecento) dell’epoca del disincanto. Per oltre 2.500 anni la natura è stata interpretata alla luce del “segreto invisibile che regola tutto ciò che è visibile” (p. 30), “vale a dire la forza, la ragione invisibile, di cui il mondo visibile non è che la manifestazione esterna” (p. 32), fenomenologica. Ecco dunque affacciarsi in tutta la sua centralità l’aforisma eracliteo secondo il quale  “la natura ama nascondersi” (af. 123).

Ma il senso di questo nascondersi e la storia delle modalità atte a svelarlo e a riportarlo in luce mutano di secolo in secolo: da mistero ineffabile e divino (Omero) a equazione matematica da risolvere (Newton); da segreto da divinare a verità da estrapolare “sotto la tortura degli esperimenti” (Bacone, cit. a p. 91); da massima espressione di perfezione da contemplare (da Aristotele a Seneca) a perturbante brivido (in Kant e Rilke - manca in realtà un’analisi delle molteplici interpretazioni psicoanalitiche, a partire proprio dal perturbante di Freud), da segreto da decifrare per conoscere se stessi e raggiungere la propria realizzazione (Novalis) a illusione insvelabile pena il depotenziamento della nostra esistenza; da nostra unica divinità (gli stoici) a nostro regno (il cristianesimo), da segreto dell’essenza della verità a oggetto di manipolazione della tecnica (Heidegger) ecc., così che “le tre parolette di Eraclito” nel corso dei secoli, finiscono per significare “di volta in volta, che tutto quanto nasce tende a morire,  che la natura è difficile da conoscere, che essa si avviluppa in forme sensibili e in miti, che essa nasconde virtù occulte, oppure che l’Essere è originariamente in uno stato di contrazione e non-svelamento, e che, infine, con Heidegger, L’essere si disvela velandosi” (p. 311). Le diverse posizioni che l’indagine di questa storia ha evidenziato vengono ricondotte da Hadot a due categorie impersonate dalle figure simboliche di Prometeo, che vuole indagare i segreti della natura per vincerla e sottoporla alla sua volontà, e di Orfeo che ritiene che sia rischioso scoprire i segreti che la natura cela e che è bene che restino tali. 

Alla fine di questa lunga ricostruzione storica, Hadot invita anche a riflettere su due conseguenze prodotte dalla fine dell’interesse filosofico per la natura: da una parte ciò comporta lo spostamento del velo di Iside da simbolo dei segreti della natura a icona dei segreti dell’esistenza, dall’altro l’aridità delle spiegazioni scientifiche ha rilanciato l’importanza di “un’altra forma di conoscenza della natura, un’altra verità, in questo caso, estetica” (p. 313): in fin dei conti il velo non è ancora stato tolto. 

Indice

Prefazione
Prologo a Efeso
Il velo della morte
Il velo della natura
La natura ama nascondersi
Lo svelamento dei segreti della natura
L’atteggiamento prometeico. Lo svelamento dei segreti tramite la tecnica
L’atteggiamento orfico. Lo svelamento dei segreti tramite il discorso, la poesia, l’arte
Il velo di Iside
Dal segreto della natura al mistero dell’esistenza. Terrore e stupore
Conclusione, p. 311. Indicazioni bibliografiche
Indice dei nomi

L'autore

Pierre Hadot è stato Directeur d'études all'École Pratique des Hautes Études fino al 1986, e dal 1982 è titolare presso il Collège de France della cattedra di Storia del pensiero ellenistico e romano.

martedì 6 giugno 2006

Nussbaum, Martha C., Capacità personale e democrazia sociale, a cura di Gianfrancesco Zanetti.

Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 196, € 14,20, ISBN 88-8103-269-4.

Recensione di Isabella Vanni – 06/06/2006

Filosofia politica

Il volume raccoglie tre saggi di Martha Nussbaum elaborati e pubblicati in occasioni diverse - Four Paradigms of Philosophical Politics (2000), Nature, Function and Capabilities: Aristotle and Political Distribution (1990) e Aristotelian Social Democracy (1990) –, una breve introduzione di Stefano Bertea e una bibliografia essenziale delle opere filosofico-politiche dell’autrice. Nel complesso, esso costituisce un agile e utile strumento introduttivo all’opera di quest’originale filosofa politica americana, ormai piuttosto nota anche in Italia.
Se il fine della politica è migliorare le condizioni di vita dei cittadini, allora essa non può fare a meno del contributo della filosofia: questo, si può dire in sintesi, il cuore del primo saggio, Quattro modelli di filosofia politica, nel quale, richiamandosi a Socrate, Platone, Aristotele e ai filosofi stoici, Nussbaum raccomanda di recuperare il significato che in epoca classica era attribuito alla filosofia, vale a dire ‘arte di vivere’, e di tenere in debita considerazione i benefici effetti che essa può apportare alla prassi politica. A tale raccomandazione si accompagna la consapevolezza di un problema essenziale: la necessità di delineare, e circoscrivere, l'ambito d'azione dei filosofi e della filosofia nella sfera pubblica, al fine di evitare derive tiranniche (l'autrice rinnova qui la classica critica alla Repubblica di Platone e al controllo assoluto sui cittadini che vi detenevano i governanti-filosofi). La soluzione consiste, da un lato, nell'accogliere a fondamento delle istituzioni politiche solo quei principi filosofici che siano suscettibili di ricevere l'adesione critica di tutti (trascurando il mutare stagionale delle maggioranze e delle loro preferenze), dall’altro nel chiedere al filosofo di improntare il proprio lavoro al valore politico del rispetto, offrendo la sua competenza in termini di persuasione etica e non d'imposizione dogmatica. Prima di affrontare il discorso sulla concezione aristotelica della ridistribuzione politica, ampiamente analizzata e sviluppata nei due saggi successivi, dove largo spazio è dedicato anche al confronto con il punto di vista liberale, vorrei richiamare l'attenzione sulle considerazioni suggerite all'autrice dal modo degli stoici di intendere il ruolo politico della filosofia. Quest'ultima, secondo gli stoici, non doveva limitarsi a fornire proposte di carattere normativo, ma doveva in primo luogo depurare la comunità dalle passioni degenerate, dimostrando come esse fossero socialmente costruite e, quindi, superabili. L'approccio ‘terapeutico’ degli stoici, finalizzato alla razionalizzazione di una vita pubblica inquinata dal desiderio di fama personale e dalla disponibilità a sopraffare il prossimo pur di ottenerla, traeva origine dal riconoscimento della pari dignità umana, e dalla convinzione che tutti fossero idonei al raggiungimento della virtù. Per la filosofa americana, ciò apre interessanti prospettive sul versante dell'educazione alla convivenza civile, laddove problemi come il pregiudizio razziale possono essere risolti alla radice se affrontati a partire dalla corretta immagine che dovremmo avere dell'‘altro’, piuttosto che puntando sulla mera inibizione del desiderio irrazionale di provare odio per un nostro simile. L’apprezzamento di Nussbaum per lo spirito cosmopolita che permea il pensiero degli stoici testimonia un approccio alla teoria politica attento ai contributi che questa può fornire al dibattito tra culture e società diverse. L’autrice sostiene infatti che una teoria della giustizia dovrebbe essere considerata tanto più pregevole quanto più si dimostri capace di rappresentare una base adeguata per il dialogo internazionale e interculturale, senza rinunciare per questo all’individuazione di universali culturali.
L’approccio di ispirazione aristotelica della Nussbaum trova il suo presupposto nella volontà di individuare gli aspetti della vita umana che possono essere riconosciuti come fondamentali per la realizzazione personale da qualsiasi tipo di cultura - e di descrivere le condizioni materiali e istituzionali che consentono a ciascun individuo di vivere pienamente quegli aspetti, affidando alla politica il compito di soddisfarle. Per una prospettiva liberale quale quella di Rawls, che vede nella neutralità l’unica garanzia possibile per il rispetto del fatto del pluralismo, l’applicazione della concezione ‘sostanziale’ del bene di derivazione aristotelica coinciderebbe necessariamente con una negazione dell'autonomia morale del singolo; il pluralismo e la libertà di scelta sarebbero invece garantiti solo se si adottasse una concezione ‘sottile’ del bene, cioè se ci si limitasse a individuare i beni ‘primari’ di cui ciascuno vorrebbe poter disporre in quantità il più possibile elevata perché giudicati necessari per la realizzazione del proprio progetto di vita, qualunque esso sia. La politica, in questo caso, avrebbe il compito di assicurarsi che tutti possiedano la quantità minima necessaria di tali beni. Nussbaum si preoccupa di evidenziare i limiti della posizione liberale. Relativamente alla teoria ‘sottile’ del bene, la filosofa richiama l'attenzione sull'impossibilità di attribuire un valore intrinseco a risorse che di per se stesse sono strumentali (quali il reddito, la ricchezza, la proprietà ecc.), e sottolinea la necessità, per qualsiasi governo, di domandarsi "quali sono le sfere della vita umana in relazione alle quali le risorse vanno distribuite" (p. 119) (il che equivale a fare i conti con una concezione del bene che non è ‘sottile’). Inoltre, è fatto notare come la libertà di scelta sia in definitiva solo prospettata, ma non garantita, da un approccio che non fornisce al legislatore indicazioni su come sviluppare la capacità di scelta degli individui e che non riserva alla politica un ruolo decisivo nell'offerta delle opzioni disponibili (in assenza delle quali tale capacità - e la libertà ad essa collegata - non potrebbe essere esercitata). Questo aspetto è invece cruciale nella proposta teorica di Nussbaum. L'adozione di un approccio aristotelico, lungi dal condurre all'elaborazione di una concezione particolare del bene da imporre con atteggiamento paternalistico ai cittadini, finisce per valorizzare al massimo grado proprio il ragionamento pratico, un ‘potere’ distintivo dell'uomo la cui riconosciuta peculiarità di intervenire in ogni attività fondamentale della vita umana fornisce un motivo sufficiente per chiedere alla politica di porsi come obiettivi principali la promozione del suo sviluppo e la creazione/preservazione delle condizioni che consentono il suo pieno esercizio (il quale può legittimamente concretizzarsi anche nella scelta di non fare uso delle proprie capacità o delle opportunità che ci sono offerte). Si tratta di richieste cariche di significato: rimandano infatti a una concezione istituzionale del Welfare che non ammette l'intervento dello Stato a posteriori, vale a dire solo quando ci si accorge che un determinato cittadino ‘non ce la fa’ (ottica, questa, di chi concepisce lo Stato sociale soprattutto come rete di sicurezza). La politica fallisce il suo scopo, avverte la Nussbaum, se non vigila costantemente affinché non si instaurino condizioni sfavorevoli alla piena realizzazione dei consociati, perché è solo garantendo a ciascuno di loro la possibilità di vivere una vita autenticamente umana che essa realizza una società di eguali. Cosa impedisce al liberalismo di riconoscere la ragionevolezza dell'approccio aristotelico? La pensatrice americana coglie il motivo di tale riluttanza nella consuetudine di porre l'accento sull'autonomia morale dell'individuo, trascurando il rapporto di profonda interdipendenza che esiste fra quest'ultimo e il mondo naturale. Prima ancora di essere un soggetto che ha bisogno di risorse per realizzare il proprio progetto di vita, l'essere umano è infatti "una creatura che vive nel mondo provvista tanto di determinati poteri essenziali quanto di non irrilevanti necessità" (p. 175): il suo bene, pertanto, non può prescindere dal complesso sistema di relazioni che si instaurano fra lui e gli elementi variabili che sono nel mondo (Nussbaum porta come esempi il cibo, l'acqua, l'alloggio, ma anche gli amici, le persone amate, la propria comunità di appartenenza, valorizzando così l'altro elemento distintivo dell'essere umano: il senso di affiliazione verso i propri simili).
Va da sé che una concezione della ridistribuzione politica come quella proposta da Nussbaum attribuisce un'importanza cruciale al sistema di educazione pubblica, ed è significativo il fatto che la pensatrice americana escluda a priori una logica di tipo meritocratico in tale ambito: se l'obiettivo è distribuire a tutti i consociati le capacità funzionali a una piena realizzazione personale, allora il legislatore ha l'obbligo di preoccuparsi maggiormente per coloro che non sono ancora in grado di realizzarsi compiutamente, "piuttosto che quello di migliorare la situazione di chi è già in condizioni prossime all'eccellenza, qualora questi due obiettivi entrino in competizione tra loro" (p. 172). Quest’ultima considerazione non è che uno dei tanti indizi della volontà di suggerire alla politica un nuovo modo, possibilmente più ‘ragionevole’ e più condivisibile rispetto ad altri, per guardare ai problemi della giustizia e dell'uguaglianza.

Indice

Introduzione di Stefano Bertea

Quattro modelli di filosofia politica

Natura, funzione e capacità: la concezione aristotelica della ridistribuzione politica

Una concezione aristotelica della socialdemocrazia

Bibliografia essenziale delle opere filosofico-politiche di Martha Nussbaum

L'autrice

Martha Nussbaum insegna Diritto ed Etica all'Università di Chicago.

Links

Bibliografia degli scritti della Nussbaum fino al 2000:
Martha Nussbaum’s home page:

sabato 3 giugno 2006

Marletti, Carlo – Cabrera, Paul L. Ravelo (a cura di), El gesto de la filosofía hoy.

Pisa-La Habana, Ets-Imagen contemporanea, 2006, pp. 254, ISBN 8846713966.

Recensione di Luigi Marfè – 03/06/2006

Filosofia politica, Filosofia della scienza, Etica (bioetica)

Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del levante, Marco Polo non poteva esprimersi col Gran Kan altrimenti che con gesti o con gli oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce. Secondo una tradizione che risale allo Hermes dei Greci, le Città invisibili di Italo Calvino fanno del mercante un vettore di comunicazione tra Oriente e Occidente proprio per l’abilità dei suoi gesti. In un’epoca di discorsi ininterrotti e parole in sovrappiù, la figura di Polo stupisce per la freschezza con cui si lascia alle spalle la vanità del dire e l’opacità dello scrivere. Come il Neveu de Rameau di Diderot, il suo discorso vive nella polisemia della pantomima. Ogni movimento si dona all’interlocutore come enigma e stimolo all’interpretazione, riservando a sé il potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né confondere.
Qual è tuttavia il gesto della filosofia oggi? A dispetto delle tentazioni delle nuove tecnologie dell’informazione o dei crescenti processi di globalizzazione, gli autori di questo volume confidano ancora nella resistenza pervicace del discorso filosofico e scommettono su una conoscenza cui si può attingere solo con i suoi mezzi. Come scrive Carlos Jesús Delgado Díaz, ai filosofi spetta la sfida di costruire un nuovo sapere che riconduca la scienza alla dimensione assiologica e costruisca una nuova etica della vita attraverso categorie capaci di totalità e comprensione in base a principi non antropocentrici e transdisciplinari. Contro le retoriche opposte dei sistemi onnicomprensivi e del riduzionismo esasperato, il gesto filosofico deve proporre un approccio obliquo, assieme organico e olistico. I risultati raggiunti nel campo della bioetica e dell’epistemologia mostrano come l’attitudine verso la complessità vada mescolata con la consapevolezza di tutto ciò che con Wittgenstein resta aldilà dal senso. Non lineare né irreversibile, la quête del senso resta appesa al bilico del provvisorio e va difesa non solo dal baratro dell’indifferenza, ma anche dalla falsa sicurezza di chi ne dà per scontato il progresso. L’incanto di Kublai è ancora possibile, a patto che la filosofia rinunci alla spiegazione meccanicistica per offrirsi come scarto dal noto e creazione del nuovo, variabile che non collima e brivido del non adeguarsi.
El gesto de la filosofía hoy è il frutto del primo Encuentro de Filosofía Cuba-Italia, che si è svolto a la Habana tra l’1 e il 3 ottobre 2002. Per l’Italia è intervenuto il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa. I due curatori Carlo Marletti e Paul L. Ravelo Cabrera vi hanno raccolto tredici relazioni, che delineano un panorama della filosofia contemporanea e riflettono sulla sua condizione e sulle sfide che la attendono. I campi di indagine sono soprattutto tre: la filosofia della politica e delle scienze sociali, la filosofia della scienza e l’epistemologia, la bioetica e i paradigmi delle scienze cognitive.
La fiducia nel dire politico della filosofia dipende per Ravelo dalla sua natura di gesto polemico. Contro le tesi del relativismo e le derive del postmoderno, occorre richiamarsi al discorso sulla responsabilità di Husserl. L’universalismo non è un concetto prêt-à-porter, ma piuttosto un progetto da costruire passo dopo passo. La ricerca filosofica non può svicolare dalla dimensione assiologica del giudizio né dall’inesauribilità della domanda sul senso. Juan Francisco Fuentes mette allora a confronto il discorso politico di John Rawls e di Jürgen Habermas. Della posizione del primo è criticato il riduzionismo, che esclude il politico dalla riflessione filosofica, ma lascia nell’ombra i fondamenti del suo progetto neo-contrattualista. L’insistere dell’altro sulla dimensione intersoggettiva sembra invece nascondere i fantasmi di etero-determinazione di chi annega l’io nelle retoriche del noi. Alfonso M. Iacono si dedica invece alla dialettica che si instaura tra i concetti di Oriente e Occidente. Derivate una dall’altra, le due dimensioni funzionano come orizzonte di comprensione reciproco: la frontiera è infatti un concetto mobile, che affianca identità e contaminazione. Lontano dagli stereotipi, le due tradizioni culturali mostrano affinità inaspettate nel discorso sulla teodicea del Dio che si ritira di Hans Jonas, Sergio Quinzio e, più di recente, Bronislaw Baczko, e sul senso della storia, intesa ora come ripetizione ora come freccia dell’irreversibilità.
Diverse relazioni affrontano inoltre temi di carattere epistemologico. Contro l’indifferenza ontologica del postmoderno, che si rinserra nella logica della potenzialità, Rigoberto Pupo Pupo difende l’eterno problema filosofico della verità. Benché possa essere definita in modi molto distanti, dall’adequatio rei et intellectusdegli scolastici al valore funzionale che le è attribuito nel pragmatismo, in ambito moderno, la verità sembra connotarsi come ricerca e divenire. Il rapporto di soggetto e oggetto non va inteso in maniera astratta, ma come relazione intersoggettiva. Non diversamente, mentre scorre la storia della matematica, Enrico Moriconi si sofferma sul passaggio delle sue strutture formali da strumento delle operazioni a soggetto del meta-discorso, fino al teorema di incompletezza di Gödel. Come nota Grisel Ramírez Valdes, la scienza deve far propria la teoria della complessità. Non tutta la realtà si lascia irretire nei sistemi che costruiamo, né d’altronde ciascuno di essi può escludere gli altri. Contro il riduzionismo, occorre esercitarsi in prospettive inter-schematiche che, senza relativizzare il concetto di verità, intendano l’oggettività come somma di punti di vista e inesausto girarvi intorno.
Due relazioni si inoltrano nei territori di frontiera del nuovo sapere filosofico: la bioetica e le neuroscienze. Aldilà dei risultati che ha saputo raggiungere in campo medico, Thalía Fung vede nella bioetica una lezione di metodo per tutto il discorso filosofico. Come per altro verso l’ecologia, la bioetica riconduce la scienza verso le questioni dell’etica e mostra i limiti di ogni costruzione antropocentrica. Fuori da ogni provincialismo del genere umano, il suo sguardo transdisciplinare allarga le proprie categorie agli altri modi della vita, fino ad abbracciare una dimensione cosmica. Non diversamente, le scienze cognitive indagano le connessioni tra la mente e il cervello e la base fisica del ragionamento. Nelle neuroscienze, Massimo Barale vede un ponte verso il futuro, a patto che sappiano guardarsi da ogni riduzionismo fisicalista. Liberata dall’entusiasmo acritico, l’immagine di software e hardware per la mente e il cervello può avere ancora valore. A importare maggiormente è però l’individuazione del codice operativo, cioè quella progettualità che i filosofi da sempre hanno chiamato ragione.
Anche in una prospettiva volta verso l’avvenire come quella di questo convegno, a tornare con frequenza nei discorsi dei relatori è infatti la questione sull’attualità dell’eredità kantiana. L’esempio dell’orientamento in una camera buia dà ad Adriano Fabris l’occasione per ripensare la portata rivoluzionaria del discorso trascendentale di Kant. Come già notava Heidegger, tuttavia, dietro l’importanza del soggetto resta la cocciuta persistenza del mondo. Studiando le riflessioni di Wilfrid Sellars, Carlo Marletti vede la lezione di Kant proprio nell’equidistanza con cui sfugge sia al mito del dato sia all’autonomia del concetto; la distanza tra i due è che per Sellars il processo conoscitivo non arriva mai ad offrirsi in maniera compiuta, ma piuttosto come proto-teoria. Da altro orizzonte teorico, anche Gian Mario Cazzaniga, mentre scorre la storia del concetto di società nel mondo occidentale dal Leviathan di Hobbes ai giorni nostri, torna al Kant della pace perpetua, come auspicio ed augurio per un futuro che tarda ad arrivare.
La nuova innocenza del postmoderno annacqua la distinzione tra conoscenza e valore, esalta il vagabondaggio nomade e si lascia fluttuare in un vortice di universi in compresenza indifferente a ogni scelta. Al contrario, El gesto de la filosofia hoy si propone come quête del senso. Nel saggio che apre il volume, Remo Bodei rammenta come le categorie della filosofia non siano eterne, ma durino appena più degli individui e, se dimenticate, muoiano assieme al loro modo di tagliare i concetti e gettare uno sguardo sul mondo. Tra l’utopia della memoria assoluta al modo del Funes di Borges e la melanconia per ciò che non tornerà di Pessoa, il filosofo deve percorrere la strada stretta di Epimeteo. Se con Nietzsche l’oblio aiuta a sopravvivere e cicatrizzare, la memoria permette di ricostruire nel futuro passati differenti dall’inferno e identità non più spezzate, nella fiducia che la storia abbia ancora qualcosa di nuovo da dirci. Viene in mente un passo di Danubio, quando, riflettendo sull’identità dell’Europa, Claudio Magris vede nel limes romano le labbra di una bocca che separa dalla barbarie, limita e dà forma, ma anche si apre all’incontro dell’altro e, nel bacio, ne assapora la differenza.

Indice

C. Marletti e P.L. Ravelo Cabrera, Introducción 
R. Bodei, Memoria, olvido u la construcción de la identidad 
P.L. Ravelo Cabrera, El apremio espiritual y el gesto político de la filosofía (entre Kant, Nietzsche y Husserl) 
A.M. Iacono, De occidente a oriente. Imágenes de la historia y autonomía de los hombres 
R. Pupo Pupo, La verdad como eterno problema filosófico 
J.F. Fuentes, Paradigmas de la filosofía política contemporanea 
A. Fabris, Kant y el problema del sentido 
Th. Fung, La bioética: ¿un nuevo tipo de saber? 
G.M. Cazzaniga, Metamórfosis de la soberania y derechos del hombre 
E. Moriconi, Transformaciones en el pensamento axiomático 
Gr. Ramírez Valdes, La complejidad de la ciencia : cómo la filosofía de la ciencia contemporánea “se desprende” del concepto de verdad 
M. Barale, Mente y naturalezza entre conocimiento científico y comprensión filosófica 
C. Marletti, Kant, Sellars y lo “múltiple del sentido” 
C.J. Delgado Díaz, Crisis y revolución en el pensamiento científico contemporáneo: la hipótesis del Nuevo Saber


Gli autori

Massimo Barale è professore ordinario di Ermeneutica filosofica all’Università di Pisa. Le sue ricerche sono incentrate sullo studio di teorie della ragione, dell'esperienza e della soggettività, verso nuovi modelli di etica filosofica (Immagini della ragione, 1983; Ermeneutica e morale, 1988; Visione e discorso nella scoperta platonica della struttura razionale dell'esperienza, 2001) e sulla filosofia come indagine critico-trascendentale, nel suo rapporto con le forme della razionalità scientifica (Filosofia come esperienza trascendentale, 1977; Kant e il metodo della filosofia, 1988; Betrachtungen über geschichtlich-philosophischen Hintergrund und den systematischen Ort von Kritik der Unterskraft, 1997).

Remo Bodei è professore ordinario di Storia della filosofia all’Università di Pisa e Recurrent Visiting Professor presso la University of California di Los Angeles. Ha dedicato le sue prime ricerche allo studio dell’idealismo tedesco (Sistema ed epoca in Hegel, 1975; Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, 1987; Hölderlin: la filosofía y lo trágico, 1990). Nel 1994 ha curato l’edizione italiana del Principio speranzadi Ernst Bloch. È redattore di numerose riviste. Le sue ultime ricerche affrontano il problema delle passioni (Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, 1991; Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, 1991; Le prix de la liberté, 1995; Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, 1998).

Gian Mario Cazzaniga è professore ordinario di Filosofia morale all' Università di Pisa ora in congedo. È inoltre membro del consiglio scientifico della cattedra UNESCO “Fondements philosophiques de la justice et de la société démocratique” di Montréal e del “Groupe de Recherches sur les Lumières, l'Illuminisme et la Franc-maçonnerie” al CNRS di Parigi. Nelle sue ricerche, ha approfondito i nessi che legano tradizione e modernità (Alle origini dello spirito laico. Fin’amors e cortezia nella cultura trobadorica, 1983; Traces de l'autre. Mythes de l'antiquité et Peuples du Livre dans la construction des nations méditerranéennes, 2004), illuminismo e massoneria (La religione dei moderni, Pisa 1999; La figura di Gesù nell’Illuminismo, “Heri et hodie. Figure di Cristo nella storia”, 2001) e filosofia classica tedesca, teorie della sovranità e radici dell’identità europea (Penser la Souveraineté à l'époque moderne et contemporaine, 2001; Radici d’Europa, 2003).

Adriano Fabris è professore ordinario di Filosofia morale all’Università di Pisa. Redattore di numerose riviste, ha tradotto opere di Heidegger, Gadamer, Scholem, Jean Paul. Le sue ricerche sono volte allo studio dell’ermeneutica filosofica (Logica ed ermeneutica, 1982; “Essere e tempo” di Heidegger, Introduzione alla lettura, 1999; El giro linguistico. Hermeneutica y analisis del lenguaje, 2000), la filosofia delle religioni (Linguaggio della rivelazione, 1990; Introduzione alla Filosofia della religione, 1996), la storia del pensiero ebraico (I paradossi dell'amore tra grecità, ebraismo e cristianesimo, 2001), la filosofia della musica, le etiche applicate, la filosofia della comunicazione.

Alfonso M. Iacono è professore associato di Storia della filosofia politica all’Università di Pisa. Collabora con il quotidiano “Il Manifesto”. I suoi interessi sono rivolti ai rapporti tra filosofia, antropologia e politica nel pensiero moderno e contemporaneo, con analisi storiografiche e indagini epistemologiche (Teorie del feticismo, 1985; Le fétichisme. Histoire d’un concept, 1992; Paura e meraviglia. Storie filosofiche del XVIII secolo, 1998; L’evento e l’osservatore, 1987). Al centro c’è una riflessione sul tema dell’altro nelle relazioni storico-sociali fra gli uomini (Il borghese e il selvaggio, 1982; Tra individui e cose, 1995).

Carlo Marletti è docente di Filosofia del linguaggio presso l’Università degli Studi di Pisa. I suoi lavori riguardano soprattutto l’ambito epistemologico (A proposito de sensación-concepción, 2000; McDowell e le ragioni della sensibilità, 2001; Kant, Sellars e l’intuizione, 2002).

Enrico Moriconi è professore associato di Logica presso l’Università di Pisa. Campo delle sue ricerche sono la logica e fondamenti della matematica (La teoria della dimostrazione di Hilbert, 1987), la filosofia del linguaggio (Discorso e significato, 1994; Normalization and meaning theory, 1998) e la filosofia della scienza (Etchemendy on logical truth, in coll. con M. Mariani, 1997).

Paul L. Ravelo Cabrera, Rigoberto Pupo Pupo, Juan Francisco Fuentes, Thalía Fung, Grisel Ramírez Valdes, Carlos Jesús Delgado Díaz sono professori di filosofia presso l’Università di La Habana.