martedì 30 gennaio 2007

Aa.Vv., Lessico di biopolitica.

Roma, Manifestolibri, 2006, pp. 382, € 30,00, ISBN 8872854318.

Recensione di Antonio Tursi – 30/01/2007

Filosofia politica, Etica

Il termine ‘biopolitica’, come noto, risale all’elaborazione di Michel Foucault: «termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze…» (Foucault M., Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005, p. 261). Per essere più precisi, la biopolitica è parte del biopotere che, legato a doppio filo al capitalismo e al suo pensiero, si articola appunto in bio-politica e anatomo-politica. Nel primo caso, si presenta come dispiegamento di pratiche governamentali, di controlli regolatori sulla popolazione, sul corpo-specie: lo Stato di “polizia”, nell’accezione che ne diede Johann H.G. von Justi, si occupa della nascita e della morte, del sesso, della salute e della malattia, dell’alimentazione e delle condizioni igieniche della “popolazione” – problema economico e politico, questo, apparso nel XVIII secolo, e non prima. Nel secondo caso, si disciplinano i corpi-macchina dei singoli, le loro attitudini, le loro forze, producendo effetti individualizzati attraverso istituzioni quali le prigioni, le scuole, i collegi, le caserme.
Foucault dice la novità storica del concetto con il celebre passo: «Per millenni, l’uomo è rimasto quel che era in Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica; l’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2005, p. 127). Viene così rimessa in gioco, come elemento necessario alla coniazione del concetto, la distinzione greca tra zoé e bíos. Il rapporto tra vita, storia e politica è pensato da Foucault nella spaziatura dispiegata da questa distinzione. Foucault rivendica la storicità della nozione di vita: essa è «un indicatore epistemologico» caratterizzante l’epoca moderna nella quale solo la vita della specie umana ha fatto il suo ingresso nella storia, del sapere e del potere; occorre risituare quelle che sono considerate le regolarità che definiscono la natura umana, «all’interno delle altre pratiche umane, economiche, tecniche, politiche, sociologiche che servono loro da condizione di formazione, comparsa e da modello» (Chomsky N., Foucault M., Della natura umana, DeriveApprodi, Roma 2005, p. 37).
Questa può valere come breve introduzione al concetto di biopolitica, come abbozzo dello sfondo teorico del lavoro curato da Ottavio Marzocca ed altri, come richiamo all’autore – Foucault – con il quale tutti gli autori del Lessico di biopolitica si confrontano. Molte delle quasi sessanta voci di cui il volume si compone prendono in carico elementi chiave della configurazione foucaultiana, li sintetizzano, li chiariscono, li attualizzano (da Assoggettamento/soggettivazione a Discipline, da Governamentalità a Pratiche di resistenza). A volte alcune voci risultano troppo introduttive, se non didattiche, ma nel complesso l’insieme del Lessico riesce a raggiungere lo scopo di dare un quadro d’insieme conciso e preciso sulle questioni teoriche aperte dal concetto di biopolitica.
Ma il Lessico necessita di un’altra breve introduzione. In questo caso, non sono questioni di teoria ad attirare l’attenzione. In questo caso, è la prassi viva del nostro mondo a mostrare come la vita diventi posta in gioco delle dinamiche di potere. In verità, riteniamo che sempre la vita sia stata questione di potere. Sicuramente però negli ultimi decenni (per non dire anni), gli esempi di un diretto, irriducibile gioco della vita e sulla vita si sono moltiplicati. Abbiamo assistito al riemergere di un elemento vitale, il sangue, quale movente di guerre (etniche); alle migrazioni di corpi nudi e perciò indifesi e perciò vittime; ad una febbre dei media per la nostra salute alimentare, la salute dei nostri corpi minacciati da corpi estranei; all’apertura di orizzonti post-umani legati allo sviluppo delle biotecnologie; a guerre cosiddette umanitarie e a paure securitarie connesse alle bombe umane del terrorismo fondamentalista. In qualsiasi punto volgiamo lo sguardo, sia esso sito nel nostro più immediato quotidiano sia esso dislocato in regioni estreme del mondo non occidentale, vediamo emergere prepotentemente vite che ci paiono nude, che subiscono le prepotenze dei poteri e che cercano di resistervi.
Di tutto ciò non manca riscontro nel Lessico. Un numero cospicuo di voci si occupa del nostro presente attuale, di quei fatti che le teorie di Foucault rendono leggibili e che altrimenti rischierebbero di passare sotto silenzio ovvero di essere denunciati come incomprensibili. Da Biotecnologie a Centro di Permanenza Temporanea, da Guantanamo a Reality show, questi lemmi offrono interpretazioni dei fatti del giorno dal punto di vista del rapporto tra vita e politica.
Per tutto questo, per saper vivere il nostro presente, il Lessico di biopolitica ci pare un valido strumento. Riesce cioè ad introdurre e a fare il punto su un ambito teorico e pratico di recente assai frequentato e forse anche abusato.
Infine, è da sottolineare l’utilità della Bibliografia generale. Nell’arbitrarietà del gioco tra presenti e assenti, vorremmo però segnalare la mancanza di due autori che ci sono particolarmente cari e che ci paiono decisivi per comprendere tra le tecniche del sapere e del potere, quelle particolari tecnologie che rendono possibile la comunicazione: si tratta di Walter Benjamin e Marshall McLuhan.

Indice

Avvertenza; 
Introduzione (di Ottavio Marzocca);

Ambiente (di O. Marzocca); 
Assoggettamento/soggettivazione (di Roberto Nigro); 
Biodiversità (di Renata Brandimarte); 
Bioetica (di Sarah Delucia); 
Biometria (di Salvo Vaccaro); 
Biopolitica (di O. Marzocca); 
Biotecnologie (di R. Brandimarte); 
Body-building (di Onofrio Romano); 
Campi (di Patricia Chiantera-Stutte); 
Capitale umano (di O. Marzocca); 
Cittadinanza (di Roberto Ciccarelli); 
Controllo sociale (di Dario Melossi); 
Corpi (di Andrea Russo); 
CPT (Centro di Permanenza Temporanea) (di Anna Simone); 
Degenerazione (di Pierangelo Di Vittorio); 
Difesa sociale (di Máximo Sozzo); 
Differenze (di A. Simone); 
Discipline (di Alessandro De Giorgi); 
Eccezione (stato di) (di Beppe Foglio); 
Ecologismo (di S. Delucia); 
Empowerment (di Claudio Bazzocchi); 
Eugenetica (di P. Chiantera-Stutte); 
Genocidio (di Carlo Altini); 
Governamentalità (di O. Marzocca); 
Guantanamo (di A. Russo); 
Guerra (di R. Ciccarelli); 
Lavoro/non lavoro (di Benedetto Vecchi); 
Medicalizzazione (di Mario Colucci); 
Migrazioni (di A. Simone); 
Mostro (di Maria Muhle); 
Normale/patologico (di Antonella Cutro); 
Normalizzazione (di Alain Beaulieu); 
OGM (Organismi Geneticamente Modificati) (di R. Brandimarte); 
Oikonomia (di Paolo Filippo Cillo); 
Polizia (di B. Foglio); 
Popolazione (di Dario Padovan); 
Postumano (di Paola Borgna); 
Potere pastorale (di Pietro Polieri); 
Pratiche di resistenza (di A. Russo); 
Psichiatria (di P. Di Vittorio); 
Razzismo (di P. Chiantera-Stutte); 
Reality show (di Olivier Razac); 
Rischio (di R. Brandimarte); 
Salute pubblica (di P. Di Vittorio); 
Secessione (di O. Romano); 
Sessualità (dispositivo di) (di A. Russo); 
Sicurezza (di Antonello Petrillo); 
Singolarità (di A. Simone); 
Sociobiologia (di R. Brandimarte); 
Sostenibilità (di S. Delucia); 
Sviluppo (di O. Romano); 
Terrorismo (di R. Ciccarelli); 
Totalitarismo (di C. Altini); 
Umanesimo scientifico (di Vincenzo Pavone); 
Welfare (di Andrea Fumagalli); 
Zoé/bíos (di Antonella Moscati);

Bibliografia generale; 
Gli autori

giovedì 25 gennaio 2007

Adorno, Theodor W., Metafisica. Concetto e problemi, a cura di Rolf Tiedemann.

Trad. it. e cura di Stefano Petrucciani, Torino, Einaudi, 2006, pp. 177, € 18, ISBN 88-06-15275-0.
[Ed. or.: Metaphysik. Begriff und Probleme <1965>. Hrsg. Rolf Tiedemann (Nachgel. Schr., Abt. IV, Bd. 14.) Frankfurt a.M. 1998]

Recensione di Raffaela Strina –25/01/2007

Filosofia teoretica

“Si può certo dire che il concetto di metafisica è lo scandalo della filosofia.” (p. 3) E’ proprio questo scandalo il filo conduttore dell’interpretazione della metafisica proposta da Adorno nel corso di lezioni dedicate all’argomento tenuto nel semestre estivo del 1965, e ora pubblicato da Einaudi in traduzione italiana. Lo scandalo risiede nel fatto che la metafisica, in quanto s’interroga sul senso ultimo della realtà, è la spina dorsale della filosofia, ma è molto difficile definire non solo quale sia il suo oggetto e se questo oggetto esista o meno, ma anche definire la metafisica di per sé stessa, soprattutto nel turbolento mondo contemporaneo, che, nel prendere le distanze dalla modernità, ha finito per mettere sotto processo la stessa metafisica, ridotta a “vana speculazione”, “semplice follia mentale” (p. 3).

L’origine della metafisica è la stessa della teologia: il bisogno dell’essere umano di trovare un ordine, un orizzonte di senso che possa trascendere la caducità dell’esistenza. La differenza risiede nel fatto che la teologia rinviene tale significato nel divino, in entità superiori trascendenti, che creano, ordinano e plasmano il mondo, laddove la metafisica “è il tentativo di stabilire, partendo dal puro pensiero, l’assoluto o le strutture costitutive dell’essere e della conoscenza” (p. 11), e ciò non più dogmaticamente a partire da una rivelazione data, bensì partendo dal vaglio critico della ragione e dal concetto. Da questo punto di vista, la metafisica è momento costitutivo dell’Aufklärung: in quanto espressione di quel pensiero in continuo progresso che disincanta miti, magia, religioni, la metafisica ha in sé un’anima critica, negativa, che secolarizza le credenze religiose, sostituendo l’accettazione passiva di un dato positivo fisso con la ragione e le sue strutture concettuali.

Il passaggio dalla teologia alla metafisica comporta un mutamento nel rapporto tra il mondo delle essenze e i fenomeni intramondani: mentre la divinità è trascendente, superiore e assolutamente altra rispetto al mondo creato, sussiste tra i concetti, le idee, i generi e le specie e la realtà mutevole e contingente una relazione problematica. La metafisica sorge appunto da una “rottura tra le essenze, quegli dei appunto secolarizzati in idee, e il mondo dei fenomeni, che è inevitabile nel momento in cui gli dei si trasformano in concetti e l’essere si trasforma anche in una relazione con l’ente” (p. 23). La peculiarità del pensiero metafisico è che assume come suo oggetto proprio quella tensione nel rapporto tra il mondo della trascendenza e del soprasensibile e il mondo dell’esperienza e di ciò che semplicemente è. Per questo Adorno intravede in Aristotele, e non in Platone, il primo vero metafisico della storia della filosofia. Platone è per Adorno ancora troppo teologico. Egli, è vero, ha per primo secolarizzato il pantheon delle divinità nel mondo iperuranico delle essenze, ma ciò che manca è l’elemento di tensione tra essenza e apparenza, la sua problematizzazione, che è invece per Adorno il nocciolo duro di ogni metafisica. Poiché il mondo sensibile è l’assoluto non – ente, il mondo fenomenico della pura illusione, in Platone non si pone il problema del rapporto tra essenza e fenomeno. Il primo metafisico è Aristotele, perché, sia nella sua critica antiplatonica contro la trascendenza e indipendenza delle idee dalla cosa, che nella sua concezione delle sostanze come sinolo di materia e forma, assume quale oggetto della metafisica il rapporto problematico di concetto e cosa. Paradossalmente, per Adorno è Aristotele il primo metafisico, perché, rispetto a Parmenide o a Platone, riconosce dignità e valore alla realtà intramondana, e si pone il problema di mediare universale e particolare, concetto e cosa.

Oltre che il primo metafisico Aristotele è, dunque, anche il primo filosofo della mediazione, nella misura in cui “ha sempre l’intenzione di trovare un elemento intermedio tra due estremi e quindi di pensare l’ente (…) come un elemento intermedio tra forma e materia” (p. 57). Ma tale questione, che egli per primo pone, non viene da lui né adeguatamente esplicitata né risolta, bensì solo prospettata, in quanto nella sua architettura filosofica sussiste un’aporia fondamentale tra l’affermata sostanzialità del particolare e del fenomeno concreto da un lato, e “la superiorità delle supreme determinazioni categoriali” (p. 50) dall’altro. Tali determinazioni non sono nominalisticamente intese come mere astrazioni del soggetto, bensì come forme sostanziali universali e necessarie, essenze “estratte” molteplicità dell’ente e trasformate platonicamente in un ente-in-sé (senza che questa astrazione venga riconosciuta come attività propria del soggetto); rispetto ad esse, l’elemento sensibile, materiale, “cosale”, appare come accidentale e inferiore. Il risultato è, secondo Adorno, una concezione additiva dell’ente, interpretato come “agglomerato quantitativo” dei due momenti, materia e forma, pensabili in modo indipendente l’uno dall’altro. La mediazione aristotelica fallisce perché è adialettica, è semplicemente “qualcosa tra gli estremi” (p. 57), e non ciò che si compie attraverso gli estremi stessi, implicando il reciproco rimando dell’uno all’altro.

Aristotele con questa mediazione additiva e non dialettica anticipa il corso della metafisica occidentale; essa, problematizzando il rapporto tra particolare e universale, ha sempre privilegiato questo secondo momento. Il problema fondamentale secondo Adorno è che la metafisica non ha un solo volto, ha un lato critico – negativo, illuministico, demitologizzante, ed uno conservatore e apologetico, in quanto il rischiaramento concettuale che spazza via gli dei, intimorito dal dissolvimento nominalistico delle essenze, “vorrebbe in un certo modo salvare o ripristinare o persino rigenerare, da sé, a partire solo dalla ragione, i concetti demoliti dalla ragione”(p. 62), cristallizzandoli di nuovo in quella sostanza immutabile e fissa, universale e necessaria, che può fare a meno del polo opposto, il particolare. Aristotele alla fine ritorna a Platone, la metafisica in fondo sembra ritornare alla teologia, nella misura in cui sostituisce al dio un nuovo assoluto, il pensiero, con l’aggravante ideologica che viene fatto passare per incondizionato qualcosa che è invece finito e condizionato, in quanto mediato dall’oggetto, dalla cosa.

Paradossalmente Adorno riconosce nella teologia, ed in particolare nelle forme apocrife e non gerarchizzate, come ad esempio la mistica o la cabbalah, il mantenimento di un elemento di autoriflessione critica che la metafisica sacrifica sull’altare dell’universale. Queste forme teologiche, che hanno posto l’assoluto come qualcosa di totalmente diverso dalla realtà mondana, non avevano la pretesa di ridurre e dissolvere tutto nel momento soggettivo – formale – concettuale, in quanto riconoscevano un limite al potere di comprendere e disporre da parte dell’uomo. Inoltre, nell’assoluta differenza tra divino trascendente ed esistente contingente, le teologie eretiche riconoscevano paradossalmente una grande rilevanza alla realtà intramondana e storica per la rappresentazione in negativo della trascendenza: è proprio nell’assoluta differenza tra questa realtà intramondana e il trascendente divino che l’uomo, che appartiene pur sempre al creato, al contingente, al finito, può rappresentarsi in negativo l’infinito, l’assoluto. Al contrario, la metafisica ha finito per dissolvere il finito, la cosa, la materia nell’elemento concettuale cristallizzato come essenza immutabile ed eterna, astorica.

Questo primato del concettuale sul momento “cosale”, materiale ha finito per svolgere una funzione ideologica e giustificatrice nei confronti del già dato: “proprio perché la forma è il perfetto e la materia è l’imperfetto e poiché alla forma si conferisce la priorità in ogni senso sulla realtà, proprio per questo la realtà è trasformata in un positivo, in qualcosa che, se non è già perfetto, per lo meno tende alla perfezione.” (p. 108) Ora, però, un pensiero che tende a rendere la realtà un positivo, e così a giustificarla, è ormai divenuto insostenibile. Dopo Auschwitz affermare che il mondo così com’è è teleologicamente strutturato, in sé dotato di senso, ordinato, bello e buono, sarebbe una sacrilega beffa nei confronti delle vittime. Secondo Adorno la metafisica in senso tradizionale, con tutto il bagaglio di positività e ottimismo che comporta, entra oggi in contrasto insostenibile con quella che è l’esperienza intramondana, con quella temporalità contingente ed imperfetta, che ogni metafisica incentrata sul sovratemporale universo dei concetti ha sempre ritenuto inessenziale Se la metafisica in senso tradizionale è posta sotto scacco per le sue pretese di comprendere il reale attraverso un pensiero divenuto assoluto e secondo un’intrinseca teleologia, sopravvive però l‘esperienza metafisica come interrogazione dell’uomo sul senso della propria vita, sul senso della propria morte, della propria finitezza, come riflessione critica sul mondo della contingenza, sul fenomeno.

Si comprende dunque meglio, ora, lo scandalo della metafisica in Adorno: intesa nel suo senso tradizionale, essa risulta effettivamente incomprensibile, un vaneggiare folle sul soprasensibile eterno che colpevolemente ignora il caduco mondo dell’esistenza umana; ma in quanto esperienza metafisica, riflessione critica sul senso della realtà intramondana, essa è ancora l’anima della filosofia, ciò per cui in fondo si inizia a filosofare. In questo senso le riflessioni che qui Adorno svolge sulla metafisica risultano fondamentali per poter inquadrare la sua complessa dialettica negativa, spesso interpretata banalmente come una critica postmoderna al soggetto e a tutta la tradizione metafisica. In realtà queste lezioni ci mostrano come il rapporto tra pensiero adorniano e metafisica sia molto più complesso e sottile. Ma allora Adorno è un metafisico o un critico della metafisica? Come al solito Adorno sfugge agli aut aut imposti dalle definizioni concettuali e potremmo concepire il suo rapporto alla metafisica come una costellazione di momenti diversi: è critico della metafisica in quanto assolutizzazione del pensiero e giustificazione del reale dato in quanto tale, ma è ancora metafisico nella misura in cui fa esperienza metafisica, riflettendo criticamente sul rapporto tra universale e particolare, concetto e cosa, non più alla luce di un predeterminato primato del concetto e del pensiero come assoluto, ma alla luce dell’esperienza negativa della morte, della non libertà, dell’adattamento, insomma dell’imperfezione e della finitezza dell’essere umano.

Indice

Introduzione di Stefano Petrucciani

Prima lezione. Che cos’è la metafisica?
Appunti per la seconda lezione. Dottrina del Primo
Appunti per la terza lezione. Storia del concetto
Sulla metafisica di Aristotele
Quarta lezione. Platone, Aristotele e Heidegger
Quinta lezione. Universale e singolare
Sesta lezione. Genesi e validità
Settima lezione. Mediazione e medio
Ottava lezione. Dottrina dell’immutabile
Nona lezione. Forma e materia
Decima lezione. Problema della mediazione
Undicesima lezione. Movimento, mutamento
Dodicesima lezione. Il motore immobile
Metafisica dopo Auschwitz
Tredicesima lezione. Atene e Auschwitz
Quattordicesima lezione. La liquidazione dell’Io
Quindicesima lezione. Metafisica e materialismo
Sedicesima lezione. Coscienza della negatività
Diciassettesima lezione. Morire oggi
Diciottesima lezione. Esperienza metafisica


L'autore

Theodor W. Adorno (1903-1969) è stato uno dei maestri della Scuola di Francoforte ed uno dei più lucidi pensatori del panorama filosofico contemporaneo; i suoi interessi hanno spaziato dalla filosofia teoretica alla musica, dall’estetica alla sociologia. Tra le sue opere maggiori tradotte in italiano si ricordano: Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, 1966, 1980, 1997), Minima moralia (Einaudi, 1954, 2003), Dialettica negativa (Einaudi, 2004), Teoria Estetica (1975).

lunedì 22 gennaio 2007

Pancera Carlo, La Paideia greca. Dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici.

Milano, Edizioni Unicopli, Storia sociale dell’educazione 19, 20061, pp. 256, € 15.00, ISBN 88-400-1122-6.

Recensione di: Francesco Verde - 22/1/2007

Il testo di Carlo Pancera, da considerarsi pienamente di pedagogia e dunque né di storia, filosofia o letteratura greca a differenza della Paideia di W. Jaeger, si struttura in due parti ben distinte.
La prima (Dalla cultura arcaica ai dialoghi socratici) si occupa diacronicamente della variazione delle modalità pedagogiche dall’età arcaica a Socrate, prendendo in considerazione alcuni di quei dialoghi platonici appartenenti al periodo giovanile e dunque ‘più socratico’ (per questo aporetici), quali il Carmide, il Gorgia, il Fedro, il Protagora, l’Alcibiade maggiore, il Critone. La seconda parte (Schede d’approfondimento), invece, è una sezione che raccoglie proficui e interessanti approfondimenti su alcune questioni di fondamentale importanza per comprendere non solo il variare del processo storico-pedagogico dall’età arcaica a Socrate ma anche le modalità descrittive, mitiche e storiografiche in virtù delle quali gli antichi leggevano l’educazione, il tempo, la storia, il mito, il rapporto fra oralità e scrittura e fra pedagogia e politica.
Forte di una costante misura filologica e di un aggiornato apparato bibliografico, l’autore si dedica alla disamina delle parti introduttive o prologhi dei dialoghi platonici; questi, infatti, rappresentano l’inizio del percorso dialogico e, dunque, filosofico. Socrate inizia il dialogo con le celebri domande ti esti? oppure ti kaleis?, ti legeis?. Proprio su tali espressioni si incentra il contributo di Pancera che individua nella spontaneità della domanda socratica il fondamento necessario per tentare di conoscere la verità, la bontà, la giustizia o la bellezza.
Il kata brachy dialeghesthai, il dialogare per brevi domande e risposte proprio di Socrate, instaura un rapporto di educazione reciproca fra l’allievo e il maestro, sebbene, nel caso del Socrate che sapeva di non sapere, sia assai difficile discernere l’allievo dal maestro. Eppure come il centauro Chirone per Achille, come Fenice, Mentore, Orfeo e Prometeo, Socrate è un educatore, è l’educatore alla filo-sofia, giacché, come recita un celebre passo del Fedro, solo gli dei sono sophoi mentre gli uomini sono solo philosophoi, amano la sapienza ma non la possiedono; come recita l’Apologia, la filosofia deve essere tensione zetetica, una ricerca costante che non prevede confini o, per usare la metafora dell’amicizia presente nel Liside, una epithymia, una tensione, un desiderio che nella sua costanza rivela l’aspetto pedagogico, l’essenza stessa della pedagogia.
Il dialogare socratico è una forma di educazione metodologica che lentamente abbandona l’età arcaica e si rivolge - senz’altro polemicamente - ad una paideia di valori già costituiti e disponibili nell’Atene del V secolo, valori come la giustizia, la virtù, la pietà religiosa, l’amicizia, il coraggio, la cui pretesa universalità viene meno alla luce del ti esti o del ti kaleis che Socrate pone ai suoi interlocutori. Il carattere pedagogico della dialettica socratica risiede proprio nell’homologia fra maestro e allievo: Socrate non è un maestro e i suoi interlocutori non sono allievi. Esiste una condizione di parità dialogica in cui ogni interlocutore ha pari dignità dell’altro.
Tutta la filosofia di Socrate, su cui Pancera si sofferma meticolosamente, è dunque un’immarcescibile desiderio mai soddisfatto di trovare definizioni, concetti universali validi almeno in base all’homologia del hic et nunc. Socrate, quindi, educa non presentando modelli educativi o concettualizzazioni già onto-assiologicamente determinate ma la sua paideia sta proprio nella strada, nel metodo che cerca di individuare una possibile verità, che, tuttavia, non si raggiungerà mai.
La domanda di Socrate è uno stimolo fecondo verso l’apprendere, quel manthanein che, come la paradigmatica figura di Eros, è tra il sapere e il non sapere. La conoscenza, quindi, nasce dalla volontà comune di rispondere alle questioni poste da Socrate: «Si può dire che per Socrate una conoscenza è tanto valida e oggettiva quanto più teniamo presente e vigiliamo criticamente sui presupposti soggettivi dei nostri giudizi e sulle motivazioni che usiamo per darle senso.» (p. 97).
La paideia non è più acculturazione o arte sofistica ma si configura come desiderio, tensione verso oggetti e valori che solo successivamente Platone ipostatizzerà con la teoria delle Idee. Socrate non è più un maestro di cultura, ma rappresenta quel primo Ursprung che bada alla formazione dell’uomo non a partire da forme culturali legate alla tradizione (mitica e sofistica), ma a partire da se stessi, dall’imperativo delfico “conosci te stesso” che sollecita l’aspetto formativo della conoscenza: «Il processo di formazione è un processo di trasformazione e Socrate, fin dall’inizio della sua ‘missione delfica’, fu consapevole di questa implicazione […] il suo insegnamento vuole favorire negli allievi anche la capacità di compiere una revisione di tutto ciò che è stato insegnato loro dall’ambiente sociale e culturale, ma contestualmente anche una disamina critica di se stessi.» (pp. 61-62).
E, tuttavia, nei suoi sviluppi successivi, neppure la dialettica platonica sarà, forse, una risposta efficace e universalmente valida a quell’insistente, a tratti fastidioso, eppure così educativo ti esti socratico; la dialettica di Socrate rappresenta, dunque, quel discrimen necessario e forse inevitabile che separa la cultura arcaica dalla filosofia: questo stesso discrimen è alla base della filosofia occidentale che, agli occhi di Pancera, nasce proprio come teoria generale dell’educazione.

Indice

Introduzione, di Mario Manno

Premessa
§. 0 - Introduzione al retaggio storico e culturale dell’epoca
Parte prima
DALLA CULTURA ARCAICA AI DIALOGHI SOCRATICI
§. 1 - Il modello arcaico di pedagogo
§. 2 - Socrate considerato in quanto mèntore
§. 3 - Socrate insegna, indica il percorso, attraverso il domandare
§. 4 - Il Carmide
§. 5 - Il Gorgia
§. 6 - Il Fedro
§. 7 - Il dialogo intitolato Ipparco
§. 8 - Il Protagora
§. 9 - L’Alcibiade maggiore
§. 10 - Il Critone
Parte seconda
SCHEDE D’APPROFONDIMENTO 
1 - Oralità e scrittura
2 - Cultura ripetitiva\ cultura retorica dei Sofisti
3- Riflessioni sull'ermeneutica della recitazione
4 - Prendendo spunto dal tema del raccontare attraverso un mito
5 - Conoscenza della realtà e storiografia
6 - Appunti sul percorso di iniziazione
7 - Pedagogia e società politica: rapporto tra il soggetto in formazione e i simboli e valori di riferimento
8 - Sulla figura di Chitone nella storia dell’educazione arcaica
8.1 - Socrate sileno
9 - Sul nome di Fenice
10 - Prometeo, il Titano educatore dell'umanità
Postilla. Sull’origine dell’umanità secondo Democrito
11 - Spunti pedagogici sulla questione della giustizia, suprema virtù.
Indice dei nomi antichi
Indice dei nomi moderni

L'autore

Carlo Pancera si è laureato in Lettere moderne presso l'Università statale di Milano. Dal 1973 è docente di Storia della Pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Ferrara. È stato visiting professor all'Università di Barcellona nel 1989/90. Si occupa di storia dell'educazione nell'Europa moderna tra il XVII e il primo terzo del XIX secolo; ultimamente, tuttavia, si è appassionato alla figura di Socrate.

Links

lunedì 15 gennaio 2007

Habermas, Jürgen, Il pensiero post-metafisico, a cura di Marina Calloni.

Bari, Laterza, 2006, pp. 295, € 18,00, ISBN 88-420-7691-0.

Recensione di Giuliano Manselli – 15/01/2007

Metafisica, Pragmatismo, Linguaggio

Il pensiero post-metafisico di J. Habermas si caratterizza sia per la complessità dei temi trattati che per la particolare struttura del testo. Si tratta, infatti, di una raccolta di saggi scritti dall’autore tra il 1986 e il 1988 che, seppur concepiti come autonomi, vengono ora articolati in tre parti seguendo un filo logico discorsivo comune, che ruota attorno al concetto fondamentale di ragione comunicativa. L’opera in questione si situa, concettualmente, dopo quel mutamento di paradigma che, nell’ambito della cosiddetta “svolta linguistica” della filosofia contemporanea, aveva caratterizzato il pensiero di Habermas a partire dagli anni ’70, e che si era incarnata in Teoria dell’agire comunicativo (1981) attraverso la messa a punto di una teoria pragmatica del linguaggio, cioè di una teoria che tenesse nella dovuta considerazione il rapporto tra il linguaggio e il soggetto che ne fa uso.
In Il pensiero post-metafisico Habermas riprende e chiarisce tale approccio teorico nel tentativo di rinvenire un concetto di razionalità capace di sintetizzare le opposte posizioni del contestualismo e dell’universalismo, senza però cadere in quelle forme di ritorno alla metafisica o di radicalizzazione del relativismo che caratterizzano il pensiero post-metafisico.
Sotto questo aspetto nella parte prima del libro, dal significativo titolo Ritorno alla metafisica?, appare chiaro l’intento dell’autore di portare una critica forte contro quelle tendenze che, nell’epoca del disincanto post-metafisico, proponevano una mera restaurazione della tradizione metafisica. Come lo stesso Habermas ricorda alla fine del libro, nell’appendice “Ritorno alla metafisica? Una recensione collettiva”, attraverso le parole di Schnädelbach: “a meta del XIX secolo(…) il pensiero sistematico e orientato verso il mondo nel suo complesso, si vide per la prima volta sfidato, anzi precipitato in una crisi d’identità ad opera della razionalità procedurale di una scienza sperimentale che si era venuta a qualificare attraverso propri metodi di ricerca”(p. 262), ma, per reazione contro le stesse reazioni prodotte da questa crisi di autocomprensione della filosofia, non mancò chi auspicò una riabilitazione di un sapere totalizzante e omnicomprensivo di stampo metafisico.
Tuttavia, la critica di Habermas non si esaurisce qui, egli si confronta anche con quelle posizioni che, sempre a partire dalla crisi del pensiero metafisico, si erano sviluppate attraverso una radicale critica della ragione approdando ad una sorta di relativismo nichilistico o di disfattistico pluralismo. Ed è proprio in questo confronto che l’autore pone le basi per la chiarificazione della sua teoria dell’agire comunicativo che occupa tutta la parte seconda del libro dal titolo La svolta pragmatica. In tale contesto egli rivendica l’universalità della ragione comunicativa: la logica intersoggettiva della comunicazione che permette l’intesa sulla base di regole o pretese universali, testimonia la presenza di un’istanza di razionalità comune a tutti i soggetti. Quella di Habermas è una pragmatica formale che studia le condizioni universali e necessarie che stanno alla base di ogni possibile comunicazione linguistica rivolta all’intesa, costituite perciò da una peculiare forma di sapere riflesso condiviso da tutti i parlanti. Indubbiamente per l’autore, che si pone così nell’ambito del dibattito attuale sulle teorie del significato e dell’azione, “solo la svolta linguistica nella filosofia ha messo a disposizione quei mezzi concettuali, grazie ai quali è possibile analizzare la ragione incarnata nell’agire comunicativo”(p. 47); ma questo “concetto di agire comunicativo deve potersi confermare alla prova della teoria sociologica dell’azione… che rende accessibile la dimensione dello sfondo della vita”(p. 72). La svolta pragmatica si compie così attraverso la reinterpretazione del concetto husserliano di mondo della vita come orizzonte o sfondo dell’agire comunicativo, cioè come supporto o retroterra di ogni agire rivolto all’intesa: “il mondo della vita è presente in maniera implicita e preriflessiva; ciò che lo contraddistingue è innanzitutto la modalità della certezza immediata. Ciò conferisce un carattere paradossale a quel sapere al quale aderiamo senza distanza, quando viviamo, facciamo esperienza, parliamo ed agiamo”(p. 89). Allo stesso tempo il mondo della vita rappresenta quel serbatoio nel quale si conservano le tradizioni culturali, si stabilizza l’integrazione sociale e si confermano le identità individuali. E’ in questo senso che l’autore definisce la società come mondo della vita simbolicamente strutturato: “le componenti del mondo della vita risultano dalla continuità –tramite cui si mantiene- del sistema vigente(…) e dalla formazione di attori capaci di intendere e di volere. La rete della prassi comunicativa quotidiana si estende attraverso il campo semantico dei contenuti simbolici, così come nelle dimensioni dello spazio sociale e del tempo storico, costituendo il medium attraverso cui cultura, società e strutture della personalità si formano e si riproducono”(p. 94). Habermas propone così l’idea di un soggetto “pubblico” strutturato in termini linguistici, ossia il concetto della comunità linguistica come luogo in cui, e attraverso cui, la coscienza si costituisce. In tal modo l’intersoggettività diviene il frutto del processo comunicativo, senza che però i soggetti perdano la loro individualità ed identità personale.
La parte terza del libro, Tra metafisica e critica della ragione, pur riprendendo gli argomenti dei capitoli precedenti, appare meno omogenea. I saggi che la compongono trattano infatti singoli temi specifici. Nel primo, dal titolo L’unità della ragione nella molteplicità delle sue voci, il filosofo polemizza con quelle posizioni contestualistiche profondamente critiche verso un concetto di ragione universale. A suo parere invece, “nella possibilità dell’intesa linguistica noi possiamo ricavare un concetto di ragione situata, che fa sentire la propria voce in pretese di validità dipendenti dal contesto, ma che nello stesso tempo lo trascendono: questa ragione comunicativa è immanente, nel senso che non può essere trovata al di fuori dei concreti giochi linguistici e istituzioni, ma è nello stesso tempo trascendente, è un’idea regolativa, verso cui noi ci orientiamo quando critichiamo le nostre attività”(p. 175). O ancora: “la ragione comunicativa è certo come una buccia galleggiante – tuttavia essa non annega nel mare delle contingenze, anche quando il tremito per il mare grosso diventa l’unico modo di “dominare” le contingenze”(p. 181). Attraverso questa metafora Habermas sembra voler suggerire così che la ragione comunicativa non sia altro che l’estremo tentativo di salvare la razionalità da una critica della ragione che finisce per distruggere se stessa.
In Individuazione tramite socializzazione. Sulla teoria della soggettività di George Herbert Mead l’autore si occupa del problema dell’inesprimibilità dell’individuale. Nella lettura habermasiana Mead ha per primo approfondito il modello intersoggettivo dell’Io socialmente prodotto capace però di essere autonomo. Per Mead infatti il “Me” rappresenta i comportamenti e gli atteggiamenti sociali fatti propri dall’individuo, mentre l’ “Io” sarebbe la risposta del “Sé” ai condizionamenti sociali, la sua capacità di reazione; per cui se senza il “Me” non si costituirebbe la soggettività, che non è altro che l’interiorizzazione del punto di vista altrui attraverso il medium linguistico che permette le interazioni sociali, questa una volta costituitasi è a sua volta in grado, mediante l’ “Io”, di interagire con la società e modificarla. Anche per Habermas quindi: “la supposizione idealizzante di una forma universalistica di vita in cui ognuno assume la prospettiva di ciascuno degli altri e ognuno fa affidamento sul reciproco riconoscimento fra tutti, rende possibile la comunitarizzazione di esseri individuati: l’individualismo come rovescio dell’universalismo. Solo il riferimento ad una forma sociale proiettata rende possibile la propria individuazione”(p. 222).
Infine in Filosofia e scienza come letteratura? l’autore spiega perché i testi filosofici non possano essere considerati come letteratura: “un aspetto rispetto al quale è possibile chiarire questa differenza, è la connessione tra significato e validità”(p. 255); le pretese di validità che compaiono nel testo letterario non sono vincolanti per il lettore, egli le può assumere senza porsi troppe domande, in quanto si riferiscono ad un mondo fittizio. Nei confronti di un testo filosofico il lettore è invece “invitato ad una (riflessione) critica verso le pretese di validità sollevate all’interno del testo”(p. 256), a porsi domande sulla validità di ciò che nel testo viene detto su qualcosa del mondo.

Indice

Introduzione all’edizione italiana 
Prefazione 
Parte prima: RITORNO ALLA METAFISICA?
1. L’orizzonte del moderno si sposta
    Quattro movimenti filosofici, - Motivi del pensiero moderno, - Intuizioni-limitazioni 
2. La metafisica dopo Kant 
3. Motivi del pensiero postmetafisico 
    1.Aspetti del pensiero metafisico, - 2.Razionalità procedurale, - 3.Il situamento della ragione, -4.La svolta linguistica, - 5.Deflazionamento dell’extra-quotidiano 
Parte seconda: LA SVOLTA PRAGMATICA 
4. Azioni, atti linguistici, interazioni mediate linguisticamente e mondo della vita 
    I: 1.Parlare versus agire, - 2.Agire comunicativo versus agire strategico 
    II: 1.La svolta pragmatica nella teoria del significato, - 2.Dall’agire sociale all’ordine sociale 
    III: 1. Il concetto formal-pragmatico di mondo della vita, - 2.società come mondo della vita simbolicamente strutturato 
5. Per la critica della teoria del significato 
    1.Tre impostazioni di teoria del significato, - 2.Limiti della semantica e della teoria degli atti linguistici, - 3.Azione linguistica, agire comunicativo e interazione strategica 
6. Annotazioni su “meaning, communication and representation” di John Searle 
Parte terza: TRA METAFISICA E CRITICA DELLA RAGIONE 
7. L’unità della ragione nella molteplicità delle sue voci 
8. Individuazione tramite socializzazione. Sulla teoria della soggettività di George Herbert Mead 
9. Filosofia e scienza come letteratura? 
Appendice 
10. Ritorno alla metafisica? Una recensione collettiva


L'autore

Jurgen Habermas nasce a Gummersbach, vicino a Düsseldorf, nel 1929. Allievo di Adorno e Horkheimer all’Istituto per le scienze sociali di Francoforte, qui insegna sociologia e filosofia dal 1964. Tra il 1971 e il 1983 dirige l’Istituto Max Plank di Starnberg. Tuttora è professore emerito alla Goethe Universität di Francoforte.

Links

http://www.filosofico.net/habermas.htm 
http://it.wikipedia.org/wiki/J%C3%BCrgen_Habermas
http://www.msu.edu/user/robins11/haermas/
http://www.habermasforum.dk/index.php?type=bibliografi1
http://www.helsinki.fi/%7Eamkauppi/hablinks.html
http://www.philosophy.northwestern.edu/people/habermas.html

domenica 14 gennaio 2007

Ricuperati, Giuseppe, Frontiere e limiti della ragione.

Torino, Utet, 2006, pp. xix-379, € 23,00, ISBN 8802072299.

Recensione di Rolando Ruggeri – 14/01/2007

Storiografia  - Storia della Storiografia – Settecento

Il libro di Giuseppe Ricuperati è composto da sette diversi saggi che coprono un periodo di ricerca e riflessione che va dal 1968 all'anno in cui l'autore pubblicò il suo primo profilo di Paul Hazard, il 2003. L'interesse per Paul Hazard soggiace a tutto il percorso dell'autore che condivide con Hazard l'interesse iniziale per la comparativistica letteraria che riluce di cultura e storia di chi la produce. Non è però attraverso gli studi letterari che Ricuperati "incontra" Hazard, la storia della letteratura non lo considera ancora degno di nota; solo più tardi se ne avrà la scoperta e la corretta valutazione critica che pone in risalto l'importanza di Hazard nella concezione che lega lo sviluppo dell'Illuminismo con i secoli che immediatamente lo precedono. I saggi del volume, pur cronologicamente separati, seguono una ricerca e una riflessione che porta alla non mai raggiunta chiarificazione della materia.
Il primo saggio (Radicamenti. Cultura italiana e pensiero europeo) mostra un'Italia che si muove culturalmente in un equilibrio sempre complesso tra influenze culturali provenienti dall'Europa e originalità del pensiero italiano che, contrariamente a quanto una certa storiografia è solita fare, non può essere semplicisticamente ridotto in blocco a precursore del Risorgimento e della sua cultura. A trainare la cultura italiana in un discorso che travalica i confini nazionali (anche quelli in mutazione e precario equilibrio) sono quattro città che mai hanno perso contatti culturali con L'Europa: Napoli, Roma, Firenze e Venezia. Il dialogo fu facilitato, nella sua ripresa, dalla crisi della Controriforma alla fine del Seicento. Ricuperati indica i protagonisti di questo dialogo e insegue le tracce lasciate da opere giornalistiche di fondamentale importanza (per citarne uno, "Giornale de' letterati d'Italia") che mostravano i complessi rapporti ed equilibri tra gli indirizzi politico-culturali che scontrandosi, intersecandosi, fondendosi o diversificandosi, vitalizzavano il clima culturale italiano iscrivendolo in un panorama più ampio di quello descritto dai confini geografici. A tenere aperto il dialogo con l'Europa troviamo anche il cattolicesimo illuminato, più indirizzato verso una convergenza tra scienza e fede rispetto agli indirizzi controriformistici, che negavano questa strada. Le prospettive che nascevano da questa comunione di correnti vanno a iscriversi in quel complesso e variegato orizzonte illuministico di cui si possono rintracciare nodi fondamentali piuttosto omogenei, miranti ad una riforma non solo dell'orizzonte culturale, ma anche politico nel senso più ampio del termine, investendo campi fondamentali della società quale ad esempio la formazione scolastica, vista giustamente quale officina vera e propria di una società.
Ricuperati esamina quale importanza abbia rivestito l'attenzione a "coltivare" interessi non solo per gli ambienti eruditi e più raffinati, ma arrivare a stimolare l'opinione pubblica, attraverso giornali che inaugureranno il modello sotteso alla produzione futura: il modello che derivava dall'esempio dell'Encyclopédie. L'autore stesso afferma non essere possibile restituire compiutamente la ricchezza delle posizioni culturali diffuse, la tendenza è comunque la più viva partecipazione delle città (anche quelle più piccole) ad un movimento culturale ampio e produttivo. Diverse variabili vengono a incidere sull’influenza della cultura europea nella società italiana (e in alcuni casi anche per l'inverso): le traduzioni, la diffusione di testi in lingua, la maggiore alfabetizzazione e quindi la più facile diffusione della cultura tra ceti prima esclusi da ogni tipo di partecipazione intellettuale. Resta comunque aperto il problema della periodizzazione che diviene difficile da risolvere se si sottende all'analisi del periodo una qualche ideologia che pone l'accento non sul periodo in esame ma su ciò che verrà dopo o su ciò che è venuto prima. Il legame tra Settecento e gli anni successivi non può essere banalizzato con dirette "figliolanze" o con scale di colori che a poco a poco prendono consistenza; la complessità resta storica, politica e filosofica, una ancora non risolta tensione tra continuità o salto discreto che Ricuperati esaminerà in un saggio seguente (Le categorie di periodizzazione e il Settecento) in cui la complessità appare chiaramente dalle centinaia e centinaia di nomi citati e dalle altrettante opere che si interessano dell'argomento.
Il saggio sul problema della periodizzazione è il più lungo e probabilmente quello che raccoglie la criticità maggiore. Gli autori e le opere citate sono centinaia, il saggio diventa una sorta di grande bibliografia critica che mostra la difficoltà di lettura di un fenomeno che vale per ogni periodo storico, la difficile collocazione temporale (ed anche culturale e geografica) dei propri limiti, sempre che di limiti netti si possa parlare, nel caso contrario occorrerà lasciar posto a concezioni per cui questi limiti sfumano perdendosi nell'epoca precedente e continuano a fluire in quella successiva. Ogni periodizzazione è figlia sia di una particolare e personale visione proveniente dallo studioso che la propone, sia di una cultura generale (che spesso è figlia del tempo, intendendo con ciò il tempo in cui si vive) che vede una certa epoca alla luce delle successive conseguenze o la rilegge a partire dalle premesse storiche che affondano radici ("radicamenti", appunto) in un tempo precedente. L'autore non ha una soluzione al problema ma, per sua stessa dichiarazione, punta a mostrare le varie concezioni che si sono susseguite e che si susseguono (trovando fili conduttori o reti di intersecazione) in materia; leggendo il saggio è come se ci si trovasse in un corridoio sul quale viene aperta una finestra alla volta, una finestra per ogni autore, da ogni finestra entra una brezza che porta con sé lo spirito di un'interpretazione, a poco a poco si viene investiti da una corrente che sospinge da ogni lato il problema della giusta collocazione storica di idee e movimenti. Ci si trova al centro di un labirinto di nomi e titoli che, mattone su mattone, costruiscono un'arena (o come dice l'autore un "terreno di gioco") in cui si incontrano-scontrano coloro che hanno esaminato a fondo il Settecento e i suoi molteplici aspetti e nodi concettuali.
ll secondo saggio riguarda la figura di Paul Hazard, dai suoi interessi giovanili per il comparativismo letterario fino allo svolgimento delle opere mature. L'interesse giovanile per la cultura letteraria italiana, passa anche attraverso lo studio di quei fenomeni che non sono solamente manifestazione della cultura alta o ufficiale. Giusta attenzione occorre dare anche a quei fenomeni di giornalismo e stampa che stanno alla base della formazione di un'opinione pubblica diffusa e avanzata, preludio alla nascita di una coscienza collettiva.
Ricuperati mostra come in Hazard sia nata la concezione di "crisi", una rottura di valori che spezza anche con il concetto positivistico di evoluzione; viene ripercorsa la struttura dell'opera hazardiana per mostrarne l'intelaiatura generale che vede l’Europa come una solida unità. La pars destruens della cultura europea: quella che mira a smantellare gli antichi pregiudizi è solamente l’altra faccia della medaglia della pars costruens, che edifica dalle macerie della vecchia cultura una nuova coscienza europea. La storia europea è quindi profondamente unita. Hazard é una delle grandi voci a difesa della storiografia europeocentrica. L'Illuminismo quindi è figlio della cultura precedente, la crisi ha prodotto anche la nascita della cultura della tolleranza che nel Settecento ritroviamo così diffusa. All'opera "Les Origines intellectuelles de la Révolution Française" Hazard, comunque, non arriva quale naturale prolungamento della "Crise" ma da una riflessione sulla società contemporanea, intrisa di profondo pessimismo e dominata culturalmente da strutture superindividuali (partiti, stato, masse). Non è la sua visione di ottimistico europeismo che gli detta il libro, è il pessimismo dello sguardo che egli lancia attorno a sè nel mondo contemporaneo. L'intellettuale ha perso il suo potere di essere sopra le parti, ha maturato il suo tradimento, è sempre schiacciatamente schierato. La ricerca del nascondiglio della ragione portò Hazard a indagare le origini dell'Illuminismo. La diffusa rivalutazione dell'Illuminismo era quindi una reazione alle conseguenze della cultura tardo-romantica. Hazard si fa assertore della sopravvivenza di un' Europa culturalmente determinata, pur nell'imminente minaccia che la Germania rappresentava per la visione di un’Europa unita e unica; il suo è un grido di allarme contro le minacce della moderna società e contro le ideologie totalitarie che stavano fagocitando quella razionalità che il Settecento aveva esaltato.
Gli altri saggi sono di simile tenore, si mostrano come una sorta di bibliografia estremamente informata e critica, sottendono una tensione non risolta (forse non risolvibile) tra correnti e movimenti che confluiscono nella cultura illuministica e debordano in quella successiva. I saggi navigano sulle acque (profonde) dell'illuminismo radicale, dell'utopia, dei concetti di universalismo e di nazione, resi non semplicisticamente quali compartimenti stagni di una concezione altrimenti unitaria e lineare, ma innervati profondamente e trasversalmente ad una cultura variegata e in movimento che Ricuperati, in tutte le pagine del libro, mostra di ricordare maneggiando con cautela termini, autori e categorie storiografiche. Il testo è quindi un percorso estremamente informato tra i concetti chiave e le problematiche storiografiche che hanno fatto e continuano a far discutere gli storici del periodo sei-settecentesco. Il riferimento a Paul Hazard è chiaro fin dal titolo e mira a far riscoprire, pur nell’ampia gamma di indirizzi e correnti sviluppate in quel periodo, la coerenza della cultura europea che sopravvive e procede nonostante le difficoltà (crisi) e la strada tortuosa che le si pone innanzi.

Indice

Prefazione di Duccio Canestrari
Capitolo 1. Radicamenti. Cultura italiana e pensiero europeo.
Capitolo 2. L'uomo che inventò la crisi della coscienza europea.
Capitolo 3. Crisi della coscienza europea e illuminismo radicale.
Capitolo 4. Le categorie di periodizzazione e il settecento
Capitolo 5. Utopia, Settecento, Illuminismo.
Capitolo 6. Rileggendo Paul Hazard e Franco Venturi. Gli spazi italiani e la rivoluzione francese.
Capitolo 7. Universalismo e nazione dal Settecento alla Restaurazione
Epilogo. Radici e alternative tra il presente e il futuro.


L'autore

Giuseppe Ricuperati è docente di Storia Moderna presso l'università di Torino. Studioso del Settecento europeo e italiano, tra le sue pubblicazioni ricordiamo La città terrena di Pietro Giannone, Un itinerario tra "Crisi della coscienza europea" e illuminismo radicale (2001), Lo stato sabaudo nel Settecento. Dal trionfo delle burocrazie alla crisi dell'antico regime (UTET Libreria, 2001), Apologia di un mestiere difficile (2005).

venerdì 12 gennaio 2007

Ciancio, Claudio, Del male e di Dio.

Brescia, Morcelliana, 2006, pp. 136, € 12,00, ISBN 8837221215.

Recensione di Davide Sisto - 12/01/2007

Filosofia della religione, Teologia, Ermeneutica, Esistenzialismo.

Nella relazione Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, presentata nel febbraio 1986 al convegno Dove va – se va – la filosofia italiana? svoltosi a Saint-Vincent, Luigi Pareyson palesava il proprio stupore per il fatto che “nell’immediato dopoguerra abbiano avuto grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, mentre l’umanità stava appena uscendo dall’abisso del male e del dolore in cui era precipitata” (L. Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in Essere libertà ambiguità, a cura di F. Tomatis, Milano, Mursia, 1998, p. 15); pareva, in particolar modo, inammissibile al filosofo esistenzialista torinese che la filosofia del dopoguerra tentasse esplicitamente di occultare quelle diaboliche manifestazioni dell’efferatezza umana culminanti nell’Olocausto, perdendo tempo in questioni di lana caprina o, ancor peggio, cimentandosi futilmente con passatempi linguistici non certo determinanti per le sorti culturali e sociali dell’Occidente. Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki non sono, infatti, soltanto prove tangibili dell’angoscioso insuccesso di qualsivoglia tendenza filoilluministica volta all’ottimismo nel progresso tecnologico e scientifico della modernità, ma anche inquietanti sintomi della radicalità del male nel mondo, la cui scandalosa presenza non ha fatto altro che rendere ancor più drammaticamente attuali termini quali disillusione e spaesamento.
Con il presente Del male e di Dio, Claudio Ciancio, nel portare avanti gli insegnamenti del maestro Pareyson, sulla scia di una filosofia della libertà intesa come pensiero tragico ed ermeneutica dell’esperienza religiosa, ripropone il problema della possibile compatibilità fra esistenza di Dio e realtà del male, cercando di trascendere la radicata tendenza occidentale di attenuare, o addirittura rimuovere, quell’incoercibile e demoniaca energia malvagia che impronta ineluttabilmente il creato, pietra d’inciampo che la filosofia non può permettersi di aggirare o ignorare.
La prima parte dell’opera si pone il compito di enucleare le principali “strategie di difesa e anche di immunizzazione dal male” (p. 7) che l’universo culturale da sempre fornisce all’umanità, in modo da “approntare una spiegazione rassicurante o consolante o liberante, da offrire un rifugio di fronte al male che assedia l’esistenza umana” (p. 8). Se l’arte classica tende ad estetizzare l’esperienza del male, sottraendo “la realtà caduca al flusso distruttore del tempo e al non senso” (ibid.) e privando il tò kakòn della sua intrinseca e malefica irragionevolezza mediante rappresentazioni artistiche volte ad una quieta sublimazione dei contrasti, e se alcune diffuse correnti religiose della contemporaneità perseverano in una consolante mitigazione delle sofferenze terrene derivanti dall’ineludibile certezza della morte, è la filosofia ad essere “il luogo della più decisa rimozione o giustificazione del male” (p. 14). Due sono sostanzialmente le strategie immunizzanti avanzate dalla filosofia: la prima – di stampo cosmico-fatalistico e ampiamente frequente nel pensiero greco – pensa il male “come lo stesso prodursi del mondo, come il prodursi delle cose particolari e dei singoli uomini attraverso un distacco dall’unità originaria” (p. 18), di modo che il negativo altro non sia che “condizione di un bene superiore” (ibid.). La seconda, invece, riconducibile prevalentemente al razionalismo metafisico di Hegel, lungi dal negare il male, lo riconosce come “reale opposizione, ma tale opposizione è resa del tutto funzionale alla realizzazione dell’assoluto” (ibid.); ne consegue una risoluta razionalizzazione del negativo, condizione fondamentale della piena manifestazione di Dio.
Tenuto conto delle preziose testimonianze offerte da Kant e da Schelling riguardo ad un riconoscimento autentico del problema del male, le quali risultano senza dubbio determinanti per le successive posizioni filosofiche di Kierkegaard e Dostoevskij, Ciancio s’accinge ad affrontare la pars costruens del suo saggio, intendendo dimostrare, attraverso un richiamo tutt’altro che velato alla tautegoricità del linguaggio mitico – cioè al contenuto originario di verità insito nel concetto di mito – e all’interpretazione cristiana del tragico, che la salvezza dal male non può fare a meno che implicare una drastica accentuazione delle contraddizioni in esso insite.
Lungi dall’essere banalmente ricondotto nel tunnel del mero errore o della sofferenza come naturale vicenda della vita, il male va pensato, nella sua traboccante e inarrestabile infinità e universalità, come colpa e peccato, realtà che investe l’intero ordine dell’essere: “solo come peccato il male si presenta come contraddizione infinita, come rovina profonda e irreparabile, come ciò che è ma non doveva essere, formula con la quale si esprime il carattere ontologico ma negativo del male, l’essere del non essere: in virtù di tale carattere il male è attiva potenza di distruzione e non può trovare una soddisfacente mediazione con l’essere” (p. 39). Esasperando e radicalizzando il male come essere che in nessun modo doveva essere ma che, per un uso perverso della libertà, è divenuto reale, è possibile trovare quell’unica via che paradossalmente ci avvicina a Dio, giacché nella sua negatività assoluta sono insiti i segni dell’onnipotenza divina, la quale, congiunta a bontà e generosità, ha reso Dio volontariamente impotente, in modo che la sua creatura più importante (l’uomo) godesse di un tal libero arbitrio, da poter addirittura ribellarsi e farsi indipendente dal suo stesso Padre creatore. Ciancio pare convinto che non vi sia indizio più certo della divinità che la realtà stessa del male: “la condizione dell’uomo – osserva il pensatore piemontese – è tragica non perché misera, ma piuttosto perché misera e grande insieme. La grandezza sta nella sua capacità di elevarsi alla verità e al bene (attraverso la grazia), di ricostituire l’unità di infinito e finito spezzata dal peccato; ma questa grandezza non cancella la miseria, anzi la fa risaltare ancora di più” (p. 95). Dietro il tragico come paradossale “impossibilità possibile” della mediazione tra finito e infinito, s’impongono l’Abramo kierkegaardiano, esposto al rischio doloroso ed eticamente ingiustificabile della fede, la cui profonda tragicità “consiste nel fatto che proprio ciò che procura la salvezza spalanca un baratro in cui ci si può perdere” (p. 98), e Alësa e Dmitrij Karamazov, che Dostoevskij contrappone all’ateismo di Ivan, in quanto assumono volontariamente su di sé la sofferenza; “la redenzione a cui conduce questa assunzione non è una semplice conciliazione, perché è prodotta a prezzo di una sofferenza ingiustamente distribuita” (p. 99). L’uomo ha, pertanto, il dovere di non cercare, nella sua vita, effimere vie di fuga dalla sofferenza, ma piuttosto d’intraprendere quell’angoscioso cammino del dolore, necessario per il riconoscimento dell’alterità assoluta, nell’orizzonte della quale soltanto può essere pensata la salvezza e una futura gioia sempiterna, come insegna, d’altronde, Schelling nella sua ultima stagione speculativa.

Indice

Strategie di rimozione del male 
Rimozione e riconoscimento del male nel pensiero contemporaneo 
Forme e dimensioni del male 
La sofferenza 
Cristianesimo tragico 
Il male come “prova” dell’esistenza di Dio


L'autore

Claudio Ciancio insegna filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale ed è Direttore del “Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson” di Torino. Fra i suoi lavori ricordiamo: Friedrich Schlegel. Crisi della filosofia e rivelazione (Mursia 1984), Cartesio o Pascal? Un dialogo sulla modernità (con U. Perone, Rosenberg & Sellier 1995) e Il paradosso della verità (Rosenberg & Sellier 1999).

martedì 9 gennaio 2007

Annalisa Verza, Il dominio pornografico. Femminismo e liberalismo alla prova.

Napoli, Liguori, 2006. ISBN 88-207-3987-9, € 16,50.

Recensione di Fabio Lelli – 09/01/2007

Parole chiave: Filosofia politica, Etica, Femminismo, Liberalismo

1. Un lungo percorso identificativo copre la prima parte del testo, una mossa preliminare alla strategia complessiva che l’autrice vuole mettere in atto sia per mettere alla prova alcuni limiti, o confini, del liberalismo e del femminismo, sia per operare un “disinnesco” della pornografia, non una sua banale e controproducente messa al bando. Si tratta evidentemente di un atteggiamento non neutrale nei confronti dell’oggetto analizzato, non motivato da moralismo ma da una precisa valutazione etico-politica.
Cosa è dunque la pornografia? Non la semplice esposizione di materiali sessualmente espliciti, ma anche e soprattutto la rappresentazione della “porné”, vale a dire della “puttana”, non certo della raffinata cortigiana, ma della donna dei postriboli, al più basso gradino della scala sociale; e ciò non avviene mettendo in scena storie di prostituzione (da notare come non venga mai raffigurato il pagamento della prestazione sessuale), ma pretendendo di raffigurare donne comuni, e quindi suggerendo, per sineddoche, che tutte le donne sono in realtà “porné”.
Ciò che è più grave in questo forma di diffamazione, è il suo nascondere una forma di dominio, un “potere erotizzato”, come sottolineato da Catherine MacKinnon: l’immagine della donna veicolata dalla pornografia è all’esatto opposto di quell’ideale di “costumatezza” che la stessa “comunità maschile”, creatrice e fruitrice della pornografia, ha imposto alle donne. La pornografia, quindi, rappresenta donne “svergognate”, degradate, che stanno inevitabilmente infrangendo il modello di comportamento che dovrebbero onorevolmente seguire. Si tratta in pratica di un doppio inganno: da un lato alla donna viene prescritto un certo modello di costumatezza, e dall’altro la stessa cultura maschile insinua per mezzo della pornografia che tutte le donne non possono mantenere questo codice di onorabilità.
Da questo raggiro, o meglio dalla sua incomprensione, nasce l’assurdità dei movimenti femministi “pro-sex” a difesa della pornografia, che possono vedere in essa o uno strumento di liberazione sessuale per l’intera società, o addirittura una rappresentazione di eguaglianza fra uomini e donne. In entrambi i casi si commette un grave errore: si scambia la pornografia con il sesso tout-court, cadendo nel suo inganno (la pornografia pretende di rappresentare la “reale” sessualità umana), avvalorando il modello di donna-porné (un’idea assolutamente maschile), per intraprendere una lotta contro la repressione sessuale, anch’essa di chiara derivazione maschile. La pornografia è dunque, nietzscheanamente, una menzogna che permette ad un certo gruppo (gli uomini) di dominarne un altro (le donne).
2. Se la pornografia fosse stata semplicemente identificata con un fenomeno di moralità privata (che coinvolge cioè unicamente adulti consenzienti), sarebbe stato estremamente difficile costruire e soprattutto giustificare quella strategia di “demistificazione” che viene proposta come alternativa alla mera censura. E sarebbe stato impossibile allontanarsi dalle prese di posizione di autori liberal come Ronald Dworkin, che difendono il diritto di espressione e che ritengono le usuali protezioni giuridiche sufficienti per affrontare gli eventuali abusi che possono essere originati dal fenomeno pornografico.
Il principio di Mill dell’harm to others quale limite e base fondamentale dell’etica e della politica liberale non deve essere scavalcato per poter agire contro la pornografia: la pornografia provoca effettivamente dei danni. Fra questi l’autrice ricorda la desensibilizzazione rispetto alla sessualità, l’imposizione sia agli uomini che alle donne di modelli di comportamento irraggiungibili e moralmente discutibili (l’esempio è l’ostentazione irresponsabile di ricchezza dei giornali patinati alla Playboy), e naturalmente gli abusi delle modelle, per le quali è poi estremamente difficoltoso dimostrare la mancanza di consenso. L’imposizione di una certa figura femminile, secondo alcune femministe fra cui Catherine MacKinnon e Andrea Dworkin, è causa inoltre della discriminazione del gruppo “donne”, e nei casi estremi anche di stupri. Le azioni legali condotte nel 1983 e nel 1984 ispirate alle tesi delle due femministe non si prefiggevano come obiettivo una censura preventiva, bensì un puro risarcimento per questi effettivi danni causati dal materiale pornografico.
Quello che qui interessa sottolineare, per rendere coerente la tesi di fondo del testo, è il danno intrinseco della pornografia, che consiste nel suo valore performativo: la pornografia è in quanto atto espressivo, una diffamazione ed uno svilimento, e quindi non può essere considerata, secondo l’autrice, alla pari di una qualsiasi altra libera espressione di un libero pensiero. Ecco perché occorre riflettere sulle strategie per affrontarla al di là delle mere “garanzie negative” e della problematica distinzione “pubblico/privato” propria della tradizione liberale. Ancora più complesso il problema del cosiddetto soft-porn, visto che nell’erotismo patinato spesso associato alla pubblicità si trasmette, sia pure in assenza di immagini sessualmente esplicite, la medesima mercificazione e svilimento della donna (e sempre di più anche dell’uomo) in modo ancora più subdolo, proprio a causa del suo non essere apertamente pornografico, privando quindi ogni eventuale fruitore della possibilità di evitarne la visione.
Si tratta, in ultima analisi, di un danno “di gruppo”, delle donne intese come gruppo; un danno estremamente grave se, come suggeriscono autori del calibro di Charles Taylor e di Joseph Raz, all’uguale rispetto e considerazione dei singoli cittadini è necessaria anche la protezione degli individui in quanto membri di gruppi specifici.
3. La pornografia si rivela in tal modo un banco di prova di grande efficacia, misurando “sul campo” i limiti estremi del classico ideale liberale della neutralità, e fungendo anche da discrimine per diverse forme di femminismo. Si può quindi leggere questo fenomeno, sempre più presente nella cultura e nell’immaginario, sia in senso negativo che in senso positivo, come un reagente eccezionale per rivelare i meccanismi interni delle ormai pacifiche idee di fondo della tradizione ben consolidata del liberalismo politico.

Indice

Prefazione

Parte prima: La cultura della pornografia
1 La pornografia e le sue contraddizioni
2 Pornografia e rappresentazione dell'uguaglianza sessuale

Parte seconda: Un tentativo di definire
3 Materiali sessualmente espliciti, oscenità, pornografia, erotismo, soft-porn

Parte terza: Pornografia, diritto e danno. Femminismo radicale e nuovi paradigmi
4 Alla fonte della produzione di pornografia: le donne rappresentate
5 Attraverso la pornografia prodotta: i danni a persone specifiche
6 Gli effetti della circolazione di pornografia: pornografia e danno collettivo

Appendice:
Pornotopia, fuga dalla realtà e patologia. Intervista al prof. Guerreschi sulla pornodipendenza

Bibliografia
Indice analitico


L'autore

Annalisa Verza è professore associato di Sociologia Giuridica e di Filosofia del Diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna. Tra le sue pubblicazioni, La neutralità impossibile (Giuffrè 2000).

domenica 7 gennaio 2007

Onfray, Michel, Le saggezze antiche. Controstoria della filosofia I.

Roma, Fazi editore, 2006, pp. 285, € 15,00, ISBN 8881127946.
[Ed. or.: Les Sagesses antiques. Contre-histoire de la philosophie I, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris, 2006]

Recensione di Jamila Mascat – 7/01/2007

Filosofia antica

Le saggezze antiche costituisce il primo tomo dedicato alla filosofia greco-romana di questa Controstoria della filosofia – così recita il sottotitolo dell’opera - che Michel Onfray presenta come un antidoto e una risposta alle mistificazioni di lunga data della storiografia filosofica ufficiale. E poiché “la scrittura della storia della filosofia greca è platonica” (p. 6) la controstoria di Onfray “si propone di andare a vedere dall’altro lato dello specchio platonico per scoprire pagine alternative” (p. 9). Le critiche dell’autore alla storiografia dominante muovono dalla constatata cristallizzazione del corpus tradizionale della storia della filosofia entro una ricostruzione consolidata e indiscussa che ha eletto la filosofia platonica a filosofia ufficiale a scapito di altre scuole di pensiero, condannando queste ultime al carro dei vinti.

Se per un verso indulge all’ironia di una scrittura sarcasticamente antiplatonica, l’autore non si limita ad accusare Platone. Egli rinviene le ragioni del non casuale processo di oblio/annientamento della cosiddetta filosofia dei vinti nella secolare egemonia del pensiero esercitata in occidente dalla filosofia cristiana e dalla speculazione idealista: da un lato la propaganda cristiana, per lungo tempo impegnata a demolire teoricamente e demonizzare quelle filosofie ritenute incompatibili con la dottrina evangelica, dall’altro la chiesa ufficiale, che ha contribuito praticamente a quest’opera di demolizione attraverso la distruzione dei manoscritti, il saccheggio e l’incendio delle biblioteche, e non in ultimo le mistificazioni compiute sui testi dai monaci copisti; infine l’idealismo moderno e contemporaneo che ha monopolizzato la scena filosofica perpetrando la messa al bando dei pensatori anti-idealisti.

Ecco allora che la controstoria della filosofia prende forma come “storiografia dei pensieri dominati” (p. 9), ovvero come storia di quelle filosofie e di quei filosofi che sono stati volutamente dimenticati, ignorati, confinati al ruolo di autori minori oppure denigrati e ritratti come immorali, folli, licenziosi, corrotti, viziosi.

Ma chi sono dunque questi filosofi ‘sconfitti’ protagonisti della controstoria di Onfray? I filosofi appartenenti al cosiddetto arcipelago edonista (p. 265), antenati del materialismo moderno e contemporaneo, filosofi della terra avversari della celeste filosofia platonica, filosofi del corpo e dei sensi, filosofi del piacere, pensatori atei e irreligiosi, relativisti, utilitaristi: fautori di un pensiero dell’immanenza che rigettando la tradizione metafisico-religiosa ambiva a restituire il mondo alla giurisdizione degli uomini. Tra questi Leucippo di Mileto e Democrito di Abdera, Antifonte il sofista e Anassarco il beato, Aristippo di Cirene e Diogene il cinico, Epicuro e Filodemo di Gadara, infine Lucrezio e Diogene di Enoanda, solo per citare alcuni dei personaggi che popolano le pagine di questo volume.

La filosofia idealista-platonica, cristiana e tedesca, originariamente dualistica, ha tradizionalmente privilegiato l’anima a scapito del corpo, santificato lo spirito contro la materia, accreditato le Idee screditando le percezioni, nobilitato il dolore e la sofferenza demonizzando il piacere. Agli occhi dei filosofi idealisti l’edonismo di matrice sensistico-materialista professato dai filosofi di parte avversa rappresentava un pensiero scomodo, un pensiero nemico da combattere con tutti gli artifici della speculazione, e perfino con le assai meno legittime armi della menzogna. Non è un caso, nota Onfray, che la vasta aneddotica fiorita intorno ai padri dell’edonismo antico pulluli di episodi grotteschi e caricaturali che avevano come unico scopo quello di ridicolizzare questi filosofi e meritare loro il disprezzo collettivo. Né è un caso che a promuovere la circolazione delle ridicole storielle infamanti sul conto degli edonisti fossero proprio i filosofi militanti nelle fila degli schieramenti rivali. Emblematico è il caso di Epicuro, che l’iconografia tradizionale associa al ritratto di un maiale, l’animale confinato alla bassezza dal bestiario filosofico; quindi l’esempio di Lucrezio calunniato da San Girolamo che fa di lui un individuo disturbato, folle e suicida; poi ancora il personaggio di Diogene puzzolente, straccione e perfino cannibale, infine Democrito che – stando a quanto riporta Tertulliano - finì in tarda età per accecarsi da sé, allo scopo di placare il desiderio indomabile da sempre scatenato in lui dalla vista delle donne.

Agli aneddoti sottoposti ad una “ermeneutica erudita […] alla ricerca dei significati smarriti” (p. 93) l’autore attinge in abbondanza, talvolta per ovviare alla scarsità degli scritti tramandati dei filosofi presi in considerazione, ma più spesso per smascherare per mezzo degli stessi aneddoti la falsificazione sistematicamente messa in atto dalle scuole dei vincitori, mostrando come il ricorso da parte di questi ultimi all’espediente del discredito personale costituisca un’ulteriore testimonianza del consenso e del plauso di cui godettero le filosofie edonistiche, filosofie denominate ‘minori’, e tuttavia tali da costringere gli avversari a combatterle perfino con le armi della diffamazione.

A livello metodologico la pars destruens di questa controstoria consiste in primo luogo nella radicale messa in discussione dell’attendibilità dei dialoghi platonici che rappresentano con tutta evidenza una fonte copiosa, imprescindibile, eppure, data l’arbitrarietà delle citazioni, dei rimandi e delle omissioni contenuti in essi, tutt’altro che imparziale nella ricostruzione della storia della filosofia antica.

Platone e i suoi discepoli furono i primi ad intraprendere quella opera di sabotaggio della filosofia edonista che poi sarebbe stata proseguita dagli esponenti della patristica cristiana. Del filosofo dell’Accademia è proverbiale il disprezzo manifestato nei confronti dei sofisti che accusava di essere mercenari della parola. Non meno disprezzo Platone nutrì nei confronti della filosofia di Democrito, che mai compare citato nei suoi scritti, e il cui materialismo egli sembrava detestare a tal punto - stando al racconto di Diogene Laerzio - da voler bruciare tutte le sue opere. Contro i filosofi del piacere infine scrisse il “Filebo”, dialogo dedicato interamente alla confutazione delle tesi edonistiche cirenaiche, in cui il nome di Aristippo, maggiore esponente della scuola cirenaica - menzionato una sola volta nelle pagine del Fedone per segnalare con malevolenza la sua assenza al funerale di Socrate - non viene mai citato. La rappresentazione che Platone offre dell’edonismo antico in questo dialogo è fortemente condizionata dalla faziosità polemica dell’autore: nelle pagine del “Filebo” Protarco, difensore dell’edonismo, appare come un personaggio ridicolo ed evanescente, mentre le poche argomentazioni addotte a sostegno delle sue posizioni risultano deliberatamente indebolite per meglio poter essere confutate per bocca di Socrate. Per questa ragione oltre “la cortina di fumo” (p. 120) della storiografia platonica, Onfray si impegna a restituire all’edonismo tutto il suo spessore etico e speculativo.

Una fisica materialistica, un’etica del piacere, un ateismo moderato costituiscono le caratteristiche comuni alle filosofie di questa corrente del pensiero anti-idealista di cui fanno parte l’atomismo abderita, la sofistica, la scuola cirenaica, l’ascetismo cinico, l’epicureismo greco e romano. L’edonismo che li accomuna va ben oltre la semplificazione faziosa che ne fornì nei secoli la vulgata platonico-cristiana insistendo sul portato istintuale e animalesco di queste filosofie del piacere. La ricerca del piacere e della felicità presso gli antichi edonisti, assai lontana dagli stereotipi del libertinismo moderno, non professa quasi mai il culto degli eccessi, non incita ad assumere un atteggiamento smodato, né predica il vizio e l’abbandono agli istinti sfrenati. L’edonismo autentico considera auspicabile, per il saggio come per l’uomo comune, il perseguimento del piacere e della felicità attraverso la pratica di una condotta sobria e misurata, capace di preservare l’uomo dai turbamenti dannosi per la serenità dell’animo. Nelle sue molteplici varianti – dall’edonismo individualista e libertario di Antifonte all’edonismo austero di Epicuro passando per le stravaganze di Aristippo - l’etica edonista si configura come un’etica della misura e della ponderazione volta al conseguimento dell’equilibrio e del benessere individuale. La fisica prevalentemente atomistica e di stampo materialista e la critica rivolta alla religione tradizionale rappresentano i corollari necessari di una filosofia eminentemente pratica che individua il proprio fine nel dispensare esempi e consigli per una buona condotta e una vita felice. Vivere in pace con sé e con gli altri, vivere bene: questo il monito di ogni autentico filosofo edonista. Ma per vivere bene occorre liberare la mente da tutto ciò che puntualmente può rappresentare un ostacolo alla serenità dell’animo ed essere fonte di turbamento: la religione in primis e la paura della morte che condannano l’uomo all’infelicità, ma anche il denaro, la guerra, la politica e i suoi conflitti, i piaceri smodati, l’invidia, la gelosia, il risentimento e, nel caso di Democrito che tesse l’elogio del celibato, persino la famiglia e i figli. A ben guardare la ricerca del piacere è un’euthymia che aspira alla tranquillità dell’anima e all’armonia con sé; essa consiste nel tentativo di preservare l’individuo dall’esperienza del dolore e di salvaguardarlo dalla sofferenza estirpandone le cause; l’edonismo, connotandosi in senso fortemente antipitagorico e antiplatonico, vuole essere una tecnica di rimozione di tutto ciò che di negativo vi è nell’esistenza umana. In questo senso la filosofia edonistica sottintende una concezione terapeutica della filosofia, incarna l’ideale di una medicina filosofica capace di guarire il corpo e l’anima – basti pensare al famoso quadrifarmaco epicureo - e porta a sintesi filosofia e vita nell’esperienza di una saggezza filosofica che rappresenta anche una condotta di vita.

Inconsistente si rivela pertanto l’antico topos che vuole contrapporre la pratica della filosofia all’esercizio del piacere, ritenendo incompatibili saggezza e voluttà: l’esempio di Epicuro e degli altri antichi edonisti dimostra nei fatti la possibilità del contrario: la realtà di una filosofia “esistenzialmente utile” (p. 14).

Rispetto ad una visione del mondo rigidamente dualistica quale quella propugnata nei secoli dal platonismo e dalle filosofie filoplatoniche, la pratica dell’edonismo testimonia di una concezione più conciliante e naturale del rapporto tra corpo e spirito, vita e morte, saggezza e piacere. La negletta filosofia edonistica ha avuto il merito di riscattare dall’anatema platonico il corpo, la materia e l’universo terreno per confidarli all’uomo, e attraverso questa operazione ha indicato il cammino del pensiero verso il piacere e la felicità. Questa, infine, la grande lezione dell’edonismo che il filosofo francese sceglie deliberatamente di privilegiare nella sua controstoria come la più feconda delle saggezze antiche.

Indice

Preambolo. La storiografia, un’arte della guerra
Introduzione. Polveri di astri

Volume primo. Le saggezze antiche

Primo tempo. Tracce di atomi in un raggio di luce: il materialismo abderita

1. Leucippo e “la gioia autentica”
2. Democrito e “il piacere del rapporto con se stessi”
3. Ipparco e “la vita più piacevole”
4. Anassarco e la sua “natura appassionata di godimento”

Secondo tempo. Usi terapeutici del verbo: la sofistica antifontea

5. Antifonte e “l’arte di sfuggire all’afflizione”

Terzo tempo. L’invenzione del piacere: il giubilo di Aristippo di Cirene

6. Aristippo e “la voluttà che solletica”

Quarto tempo. Piacere del desiderio risoluto: la costellazione cinica

7. Diogene e “il godere del piacere dei filosofi”

Quinto tempo. Salvati dalla polemica: tre moschettieri edonisti

8. Filebo e “la vita felice”
9. Eudosso e “l’oggetto di desiderio per tutti”
10. Prodico e “la felicità”

Sesto tempo. Sotto il segno del porcello: l’epicureismo greco-romano

11. Epicuro e “il piacere supremo”
12. Filodemo di Gadara e la comunità edonista
13. Lucrezio e “la voluttà divina”
14. Diogene di Enoanda e “la gioia della nostra natura”

Note
Bibliografia
Cronologia
Indice analitico


L'autore

Michel Onfray (Argentan, 1959), insegnante di filosofia nei licei per quasi vent’anni, nel 2002 ha fondato l’Università popolare di Caen (Normandia) presso cui insegna Filosofia edonista. Tra le molte opere pubblicate, alcune delle quali tradotte in 14 lingue, ricordiamo, in italiano, il Trattato di ateologia (Fazi, 2005) e la Teoria del corpo amoroso (Fazi, 2006).

Links

Home page dell’autore e del sito dell’Università Popolare di Caen:

venerdì 5 gennaio 2007

Pulina, Giuseppe, Minima Animalia. Piccolo bestiario filosofico, con illustrazioni di Marco Lodola.

Sassari, Mediando, 2005, pp. 95, € 18,00, ISBN 8889502029.

Recensione di Massimo Pulpito – 05/01/2007

Storia della filosofia

In epoca moderna la riflessione sul concetto di uomo e i suoi confini ha incontrato più volte la questione dell’alterità, declinata pressoché esclusivamente nel senso della differenza tra gli uomini. Esemplare è il caso della differenza culturale, disvelata, ad esempio, dalle grandi scoperte geografiche. Tuttavia sempre più spesso l’alterità (come rapporto che non esclude affinità e analogie) si è scoperta in ambiti impensati, e negli ultimi secoli, persino nella roccaforte stessa del soggetto autocosciente. Questo movimento di graduale riconoscimento fattuale dell’alterità ha comportato un analogo processo di riconoscimento etico. È ciò che, ad esempio, è avvenuto per quell’Altro radicale dall’uomo che è l’animale: un altro che oltrepassa i confini dell’umano, ma nonostante ciò (o a causa di ciò) pone all’uomo un’inaggirabile domanda etica. Negli ultimi anni questo polo esterno è divenuto un interessante punto di osservazione sull’uomo stesso, come sembrano dimostrare recenti pubblicazioni sul tema. Tra tutte credo che vada citato il libro postumo di Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book 2006.
Da questo punto di vista mi sembra degno di interesse il libro di Giuseppe Pulina, Minima Animalia, il cui eloquente sottotitolo è Piccolo bestiario filosofico (eloquente, ma per la verità un po’ equivoco giacché l’autore non disdegna incursioni nell’ambito della letteratura). Il libro intende dimostrare come i pensatori abbiano sempre fatto i conti con questo altro così ingombrante: così diverso da noi, eppure così simile a ciò che siamo. Non c’è, infatti, animale che non evochi un aspetto dell’uomo, una sua virtù o un suo vizio, un carattere o una personalità, o semplicemente che non si presti ad illustrare un argomento e non funga da cavia per un esperimento mentale.
Pulina, facendo leva su questa duttilità concettuale dell’animale, punta a ricostruire, senza pretesa di esaustività, la zoologia sotterranea della storia della filosofia, e lo fa con atteggiamento spesso divertito, non esente in alcuni casi da fughe retoriche e riflessioni improntate più all’inseguimento di una suggestione letteraria che alla prudente chiarificazione dei passi. Ma, va detto, lo fa anche con una particolare pietas verso gli stessi animali, un non celato animalismo ironico, ma non per questo meno convinto.
L’autore ci introduce, così, in questa affascinante galleria di animali, uno zoo di carta e di pensieri, che ha accompagnato la riflessione filosofica (e letteraria) come esemplificazione vivente e indicazione dei confini dell’umano. Incontriamo così, nell’ordine, i maiali di Carroll (qui in veste di logico, più che di autore del celeberrimo Alice nel paese delle meraviglie), l’acaro di Pascal, l’asino di Buridano, le numerose bestie di Giordano Bruno, il serpente di Nietzsche, i cavalli di Platone, i gatti di Cesare Pavese, il coccodrillo degli stoici, la tartaruga di Zenone, i cigni di Popper, la balena bianca di Melville, le cornacchie di Michelstaedter, il pavone di Leopardi, il tacchino induttivista di Russell. Ma i riferimenti sono molti e tra questi non mancano quelli agli esseri fantastici (come la fenice) o ai non meno fantastici ibridi uomo-animale (come il licantropo).
Ci si potrebbe chiedere che cosa leghi tra loro tutti questi esseri viventi, se non il fatto di essere stati citati da noti filosofi e scrittori del passato. Non solo, infatti, i significati che gli autori traggono dalle caratteristiche di questi animali sono radicalmente diversi, ma lo sono anche la funzione e il senso del ricorso ad essi. In non pochi casi, la reductio ad bestiam (p. 6) sembra più un pretesto immaginifico cui non dare molto peso, che una vera tematizzazione teorica, in grado di offrire una chiave di lettura forte del pensiero del filosofo. A questa galleria di quadri slegati tra loro e alla stessa irrilevanza di taluni riferimenti (entrambi fattori che impediscono un approccio sistematico al tema) avrebbe potuto offrire una risposta adeguata un sobrio enciclopedismo. Pulina ha scelto un’altra strada, che lo ha condotto (peraltro correttamente) a giocare con questi riferimenti filosofico-letterari. Una scelta che ha consentito all’autore di concedersi alcune lacune (mi vengono in mente le api di Mandeville, la colomba metafisica di Kant – filosofo di cui pure en passant egli parla nel capitolo sugli uccelli – o la morale del formicaio di Bergson) e giustifica le incursioni letterarie (laddove le lacune non si conterebbero: perché, ci si potrebbe chiedere, Moby Dick sì, e non Zanna Bianca, lo scarafaggio di Kafka o il vasto repertorio zoologico di Esopo e Fedro?). La riflessione sul filo della suggestione e il tono a tratti leggero permettono, invece, anche scelte arbitrarie (come rivela lo stesso ordine di presentazione della fauna filosofica: né cronologico, né alfabetico, insomma casuale) e nell’insieme non pregiudicano la gradevolezza della lettura e la possibilità di fare nuove scoperte in questo safari filosofico-letterario.


Indice

I. Alice nel mondo dei sillogismi
II. L’abisso di Pascal
III. Asini volant
IV. Animalandia. Le bestie trionfanti di Giordano Bruno
V. Serpinseno
VI. Elogio dell’equinità
VII. I gatti di Pavese
VIII. Logici e conigliette
IX. Mal di luna
X. Bianche balene bianche
XI. Metafore della levità
XII. Le cornacchie di Michelstaedter
XIII. Tacchini e Pavoni. Russell contra Leopardi
XIV. L’ultimo drago


L'autore

Giuseppe Pulina è giornalista, insegnante e studioso di filosofia. Ha pubblicato diversi volumi e si è occupato di Michelstaedter.