mercoledì 25 aprile 2007

Ferrari Federico (a cura di), Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo.

Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 108, € 10,00, ISBN 9788842420224.

Recensione di Micaela Latini – 25/04/2007

Estetica

Arte e tempo: è su questa coppia concettuale che si organizzano gli interventi raccolti nel volume Del contemporaneo, scritti da alcuni fra i più autorevoli pensatori, scrittori e poeti francesi: Georges Didi-Huberman, Jean-Luc Nancy, Nathalie Heinich e Jean-Christophe Bailly.

La questione dalla quale prendono le mosse i quattro saggi è lo statuto sfuggente della nozione di contemporaneità: un’espressione tutt’altro che piana. Si tratta – osserva Ferrari nell’Introduzione – di un concetto dai confini sfumati e dalla fisionomia ben poco delineabile. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il contemporaneo ha a che fare con la temporalità, ossia con uno dei temi più dibattuti in ambito filosofico, da Parmenide a Heidegger, passando per la famosa teoria di Sant’Agostino: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi mi interroga non lo so”. Nessuna delle riflessioni che si sono succedute nella storia della filosofia è riuscita a risolvere le inevitabili aporie contenute nella dimensione del tempo. Il punto è che ogni indagine in merito è destinata al paradosso, perché costretta a darsi nel tempo stesso. In altre parole: com’è possibile parlare del tempo, quando siamo da sempre immersi nel tempo, e non possiamo trarcene fuori per definire questa nozione una volta per tutte?

Di qui si comprende la difficoltà nel definire un’espressione apparentemente trasparente come quella di contemporaneità. È questa la sfida lanciata dal volume: tracciare una mappa della contemporaneità, come se fosse possibile innalzarsi al di sopra del tempo, pur nella consapevolezza della impossibilità di questa operazione. “Porsi fuori dal tempo è impresa non umana […] non si può che navigare a vista” (p. X).


Il primo navigante in questa “regata” è Nancy. Il suo intervento, L’arte oggi, s’incentra già dal titolo su un rifiuto della categoria del contemporaneo, categoria dalle frontiere mobili, del tutto estranea a una determinata modalità estetica. Il problema sta nel fatto che, se la nozione di temporalità è problematica (e con essa l’espressione della contemporaneità), non di meno lo è lo statuto della cosiddetta “arte contemporanea”. Quella di oggi – come osserva Nancy – è un’arte che innanzitutto si interroga sulla sua stessa essenza, sui suoi limiti e sulle sue possibilità. Se ciò che accade nella dimensione artistica è la produzione di forme capaci di offrire una possibilità di mondo, allora il compito dell’arte è oggi, nel tempo della mondialisation, quello di “inventare una forma di mondo, intesa come forma di circolazione possibile di senso, tale però da essere percepito da chiunque, cioè tale da non essere significato” (p. 18).

All’arte come testimonianza è dedicato lo studio di Didi-Huberman, che prende spunto da un’opera di Pascal Convert, Sans titre (inspirée de Veillèe funèbre au Kosovo). Questo lavoro, nel quale viene utilizzato il vuoto per scolpire il grido, s’ispira esplicitamente a un’altra immagine, realizzata non come un’opera d’arte, ma con il chiaro intento di rendere visibile un “fatto che grida vendetta” al cospetto del mondo: la Pietà du Kosovo, ossia una fotografia divenuta celebre nella sua tragicità. Ecco il potere delle immagini: se il tempo della storia si limita a informarci su un singolo aspetto delle cose, spetta all’arte il compito di dare visibilità a ciò che il contemporaneo genera al di là di se stesso, costruendone la durata, ovvero la sopravvivenza, per dirla con Warburg.

Nathalie Heinich, nel suo contributo Per porre fine alla polemica sull’arte contemporanea, focalizza l’attenzione sulle aporie dell’espressione “arte contemporanea”, individuando i paradossi di una simile categorizzazione. La proposta è quella di non tentare di trarsi fuori dal paradosso che la tripartizione categoriale (antica-moderna-contemporanea) comporta, ma piuttosto di riflettere su una simile scansione, e di qui superarla. Il che significa “partecipare – per porvi fine – al dibattito” annoso sull’arte contemporanea.

L’ultimo intervento, che porta la firma di Jean-Cristophe Bailly, indaga, anche sulla scorta delle sollecitazioni offerte da Benjamin e Barthes, la connessione fra tempo e fotografia. La pellicola, come insegna l’indimenticabile film di Antonioni, Blow up, riesce a cogliere e a registrare anche l’opacità del reale, quei dettagli che sfuggono alla messa a fuoco dell’occhio nella quotidianità, e che pure a un “secondo sguardo” si rivelano in tutta la loro centralità.

Indice

Introduzione di Federico Ferrari
L’arte, oggi di Jean-Luc Nancy
Costruire la durata di Georges Didi-Huberman
Per porre fine alla polemica sull’arte contemporanea di Nathalie Heinich
L’immagine assoluta. Tempo e fotografia di Jean-Cristophe Bailly


Il curatore

Federico Ferrari (Milano, 1969) insegna Filosofia e fenomenologia delle arti contemporanee presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Curatore e traduttore di testi di Bataille, Blanchot, Klossowski, Focillon Merleau-Ponty, Foucault, Lyotard, Derrida, Nancy, Badiou e Alferi, ha pubblicato: La comunità errante. Georges Bataille e l’esperienza comunitaria (1997), Nudità. Per una critica silenziosa (1999) entrambi presso Lanfranchi; La pelle delle immagini (con J.L. Nancy), Bollati Boringhieri, Torino, 2003; Lo spazio critico, Luca Sassella editore, Roma, 2004 e Saggi sull’immagine, il tempo e la memoria, Lanfranchi, Milano, 2006. 

domenica 22 aprile 2007

A.a.V.v., Neurofenomenologia: le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di Massimiliano Cappuccio.

Milano, Bruno Mondadori Editore, 2006, pp. 432, € 30,00, ISBN 88-424-2006-9.

Recensione di Ottavia Spisni -22/04/2007

Filosofia della mente (Neurofenomenologia)

I quattordici scritti contenuti in questo volume, rispettivamente di Jean Petitot, Giuseppe Longo, Jean-Luc Petit, Carmelo Calì, Federico Leoni, Alberto Giovanni Biuso, Natalie Depraz, Franco Bertossa e Roberto Ferrari, Vittorio Gallese, Laura Boella, Roberta De Monticelli, Maurizio Ferraris, Mauro Maldonato, Domenico Jervolino, sono proposti all’insegna del saggio di Francisco Varela dal titolo ‘Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al “problema difficile”’. Anche il titolo di questo importante libro collettaneo curato e introdotto da Massimiliano Cappuccio per il primo volume della collana ‘La vita pensata’ diretta da Roberta De Monticelli prende le mosse dalla proposta fenomenologica di Varela di dare alla filosofia ‘rigore’ e ‘anima’ mediante una embodied cognitive science capace di coniugare le diverse espressioni dell’umano e del suo essere nel tempo, trattando ‘la mente e il mondo come realtà che si sovrappongono reciprocamente, da cui la denominazione qualificante di scienza cognitiva incarnata, situata o generativa (enactive)’ (p. 87). I saggi proposti sono eterogenei, ma il fil rouge che li lega è il comune tentativo di dare risposta al progetto di ricerca inaugurato dal libro del 1991 The Embodied Mind di Varela, Thompson, Rosch, sintetizzabile nei termini di ‘sfida all’esperienza cosciente’.

Il primo obiettivo (su tre) che si propone il volume è di definire e misurare l’eredità del lavoro di Varela (p. 20). La tradizione filosofica di partenza è quella europea della fenomenologia, soprattutto Husserl e Merleau-Ponty, unita alla moderna scienza cognitiva, alle scienze naturali e a pratiche meditative della sapienza orientale. Non deve stupire l’ambizione interdisciplinare del progetto: ciò che unifica i molteplici ambiti nello studio di una scienza della coscienza e dei sistemi complessi è la struttura dell’esperienza umana. Il tentativo della neurofenomenologia (o fenomenologia neuro-psico-evolutiva) è di trovare un rimedio alla frattura epistemologica e gnoseologica osservabile tra esperienza vissuta in prima persona da un lato e il resoconto dell’interazione tra gli oggetti studiati in terza persona dalla scienza dall’altro. Su questo percorso di ricerca sono cinque i concetti fondamentali introdotti da Varela (puntualmente analizzati nella Introduzione da Cappuccio): autopoiesi (p. 20), enazione (p.23), embodyment (p. 25), emergenza (p. 27) , vincoli reciproci e passaggi generativi (p. 30).

Il secondo obiettivo è di documentare lo stato della ricerca neurofenomenologica, già vivace all’estero, in Italia. Si cerca di mostrare il ventaglio delle possibilità di ricerca attualmente presenti nella comunità scientifica, con tutta la ricchezza delle differenze prospettiche proposte dai sei settori tematici all’interno dei quali sono raccolti i saggi: matematismo e formalizzazione, corpo vivo e percezione spaziale, metodologia di ricerca in prima persona, intersoggettività ed empatia, ontologia fenomenologica e naturalizzazione, temporalità e coscienza. Essi sono la cartina di tornasole che tenta di far reagire la sfida della fenomenologia intesa come ‘naturalizzazione’, sulla scia di un’importante corrente di studi che risale in Italia ad Antonio Banfi e ad Enzo Paci, coloro che inaugurarono la tradizione husserliana nella penisola. E in linea con quanto detto, il terzo obiettivo del volume è di affinare gli strumenti di ricerca sul fondamento esperienziale e dunque di studiare le condizioni trascendentali della possibilità delle scienze naturali per cui ‘non è sbagliato affermare in linea di massima che tra una forma di accesso trascendentale alla conoscenza e una forma di accesso di tipo naturalistico-sperimentale deve sussistere un legame di continuità legittimo, basato sulla relazione costitutiva che articola la coscienza umana dai primi atti esplorativi dell’esperienza corporea elementare fino alla teorizzazione delle più complesse e raffinate costruzioni oggettivanti delle scienze’ (p. 43).

Perché una scienza della mente come sfida all’esperienza cosciente? Il ricercatore in questa nuova prospettiva costituisce attivamente gli oggetti del proprio sapere essendo ad essi incorporato e trovandosi sempre in ultima istanza di fronte allo scacco del fondamento: ‘[...] Non vi è alcun posto in cui si possa gettare l’ancora e dire “questo è il punto in cui la percezione è incominciata; questo è il modo in cui è stata fatta”’ (p. 52). Da qui Varela sottolinea, oltre agli aspetti più tecnici, l’importanza della dimensione etica della ricerca scientifica, per cui il fondamento è e va mantenuto inabitabile; dunque l’attenzione si sposta dal problema della verità proprio del platonismo e della metafisica in senso tradizionale al fatto che il filosofo e lo studioso delle scienze ‘dure’ possono rispondere solo ad appelli storico-destinali, perché non si hanno, in fondo, altri punti di appoggio che l’essere spazio-temporalmente collocati in una prospettiva di costante apertura. In altri termini, c’è sempre la coscienza dello scienziato e la coscienza che lo scienziato studia. Sul telos della neurofenomenologia, le parole di Varela sono chiare: ‘Non esiste un metapunto di vista rispetto al quale giudicare e rendere omogenee le differenze che intercorrono fra i punti di vista, e tantomeno le loro contrapposizioni. Queste differenze e queste contrapposizioni sono irriducibilmente costitutive dei domini cognitivi dei punti di vista dati. [...] Il problema non è più quello di rendere omogenei e “coerenti” differenti punti di vista; diventa quello di comprendere come punti di vista differenti si producano reciprocamente’ (p. 56).

La raccolta è dunque accomunata da tutte queste prospettive di sicuro nonché attuale interesse di ricerca. Si tratta di mantenere aperto il senso dell’umano, di come l’uomo può, in quanto humanitas, agire e condursi, il che significa anche tornare ad un sapere come frutto di esercizio e applicazione costanti e sempre in fieri: una ricerca fatta di ‘rigore’ e ‘anima’, appunto. Va infine sottolineata l’indubbia importanza di questo volume per la vivacità di ambiti e prospettive di ricerca e dunque di tutti i saggi in esso proposti, i quali hanno, fra gli altri, il merito di dibattere anche in Italia una proposta teoretica ed epistemologica tra le più feconde degli ultimi decenni. La finalità operativa della neurofenomenologia è rispondere all’hard problem di ogni filosofia della mente, il rapporto tra il cervello e la coscienza, ma il suo obiettivo forse più ambizioso consiste nel superamento delle due culture, nel rendere le cosiddette scienze umane e quelle naturali parti dell’unico discorso umano sul mondo. È significativo, in questo senso, che non sia un filosofo ma un neuroscienziato (Gallese) ad affermare che è ‘molto più interessante fenomenologizzare le neuroscienze cognitive che naturalizzare la fenomenologia’ (p. 294).

Indice

La vita pensata (di Roberta De Monticelli)
Prefazione (di Mauro Ceruti e Luisa Damiano)
Introduzione (di Massimiliano Cappuccio)

Neurofenomenologia. Un rimedio metodologico al ‘problema difficile’ (di Francisco J. Varela)

Sezione I: matematismo e formalizzazione
La svolta naturalista della fenomenologia (di Jean Petitot)
La ragionevole efficacia della matematica e le sue origini cognitive (di Giuseppe Longo)
Sezione II: corpo vivo e percezione spaziale
La spazialità originaria del proprio corpo. Fenomenologia e neuroscienze (di Jean-Luc Petit)
Neuroestetica e fenomenologia. Per una teoria fenomenologica della percezione pittorica (di Carmelo Calì)
Il gesto fotografato. Note per un’archeologia della neurologia (di Federico Leoni)
Il corpo come macchina semantica. Una prospettiva fenomenologica sull’intelligenza artificiale (di Alberto Giovanni Biuso)
Sezione III: metodologia di ricerca in prima personale
Mettere al lavoro il metodo fenomenologico nei protocolli sperimentali. ‘Passaggi generativi’ tra l’empirico e il trascendentale (di Natalie Depraz)
Meditazione di presenza mentale per le scienze cognitive. Pratica del corpo e metodo in prima persona (di Franco Bertossa e Roberto Ferrari)
Sezione IV: intersoggettività ed empatia
Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica (di Vittorio Gallese)
L’empatia nasce nel cervello? La comprensione degli altri tra meccanismi neuronali e riflessione filosofica (di Laura Boella)
Sezione V: ontologia fenomenologica e naturalizzazione
Persona e individualità essenziale. Un dialogo con Peter Van Inwagen e Lynne Baker (di Roberta De Monticelli)
Perché è meglio che la sintesi sia passiva. Trascendentalismo e naturalizzazione (di Maurizio Ferraris)
Sezione VI: temporalità e coscienza
Coscienza della temporalità e temporalità della coscienza (di Mauro Maldonato)
Ricoeur: la fenomenologia della memoria e il confronto con le scienze cognitive (di Domenico Jervolino)

Bibliografia (a cura di Carla Taglialatela)
Indice dei nomi
Gli autori


Il curatore

Massimiliano Lorenzo Cappuccio alterna la propria attività di ricerca tra le Università di Milano, Pavia e Parigi. Ha fondato e dirige assieme a Matteo Bianchetti e Erasmo Silvio Storace la rivista Chora, laboratorio di attualità, scrittura e cultura filosofica. Dirige inoltre assieme a Laura Querici la rivista di scienza, filosofia e cultura Dedalus, che ha un approccio metodologico interdisciplinare. Ha curato i seguenti volumi: Dentro la matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix (Alboversorio, Milano 2004), L’eredità di Alan Turing. 50 anni di intelligenza artificiale. Ha scritto innumerevoli saggi, tra cui ricordiamo Alan Turning: l’uomo, la macchina, l’enigma. Per una genealogia dell’incomputabile (Albo Versorio, Milano 2005).

Links

Il saggio di Francisco Varela Neurofenomenologia, una soluzione metodologica al “problema difficile”: http://www.oikos.org/varelaneurofenomenologia.htm
Wikipedia su Francisco Varela: http://en.wikipedia.org/wiki/Francisco_Varela
Wikipedia su Embodied Philosophy: http://en.wikipedia.org/wiki/Embodied_philosophy
Intervista a Francisco Varela per l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational: http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=452
Home page di Evan Thompson con un’ottima selezione di Links: http://individual.utoronto.ca/evant/
Home page dell’Associazione culturale Albo Versorio per le riviste ‘Chora’ e ‘Dedalus’: http://www.alboversorio.it/
Home page dell’Associazione culturale Asia: http://www.associazioneasia.it/
LabOnt (Laboratory for Ontology): http://www.labont.it/

Lanfredini, Roberta (a cura di), A priori materiale. Uno studio fenomenologico.

Milano, Guerini e Associati, 2006, pp. 184, € 20.00, ISBN 88-8335-791-4.

Recensione di: Silvano Zipoli Caiani - 22/04/2007

Fenomenologia, filosofia della conoscenza

La nozione di a priori materiale, ovvero l’idea che alla base di ogni datità possibile si collochi una legalità propria dei “contenuti d’esperienza”, rappresenta certamente uno dei temi più stimolanti, ma anche controversi, dello studio fenomenologico. Il libro curato da Roberta Lanfredini intende fornire un chiarimento a questo originale concetto proponendo sei diversi contributi provenienti da aree di ricerca diverse. Comun denominatore dei saggi che compongono l’opera è l’impostazione analitica, i temi sono trattati in ogni caso con metodo rigoroso, non privo di richiami all’indagine storico-filosofica.
Il libro offre un ampio scorcio del dibattito suscitato dalla concezione husserliana, ponendo particolare attenzione a tre orizzonti tematici, uno epistemologico, rivolto alla questione giustificativa, uno ontologico, inteso come indagine attorno alla struttura dell’a priori husserliano e infine uno definitorio, dedicato all’analisi di esempi specifici di a priori materiale.
Di seguito intendo presentare una rassegna dei contributi presenti nell’opera, cercando in ogni caso di evidenziarne e discuterne solo alcuni degli aspetti più interessanti.
Il primo saggio porta la firma di Paolo Parrini e si compone di una serie d’interrogativi relativi allo statuto epistemologico dell’a priori husserliano. Nonostante la posizione filosofica dello stesso Parrini risenta di una vicinanza all’empirismo fenomenologico, il suo intervento si distingue per una non celata prudenza, indotta dal riscontro di alcune ambiguità insite all’interno della proposta husserliana. Questioni che in qualche caso trovano una risposta proprio all’interno dei saggi successivi.
Una prima difficoltà è individua nell’esigenza di chiarire il rapporto tra la concezione trascendentale di Kant e la successiva ridefinizione husserliana. Pur mantenendo importanti differenze, puntualmente sottolineate da Parrini, le due concezioni lascerebbero intravedere analogie in grado di produrre interessanti conseguenze epistemiche. Prima tra tutte la possibilità d’inquadrare anche l’a priori materiale quale forma limitativa dell’esperienza possibile, permettendo una traduzione in chiave fenomenologica degli stessi problemi che affliggono la filosofia trascendentale kantiana. Una condizione questa rigettata dai difensori dell’a priori materiale che, come emerge dai contributi successivi, tendono a escludere un’impostazione del problema dell’a priori condiviso con la filosofia kantiana.
Nella sua analisi Parrini trova spazio per due ulteriori argomenti. Il primo elaborato da Moritz Schlick tenta di contenere l’a priori husserliano entro le due categorie “linguistico-concettuale” (analitico a priori) e della “credenza fattuale” (sintetico a posteriori), l’altro frutto di un’interessante applicazione della lezione epistemologica di Hans Reichenbach.
In quest’ultimo caso Parrini espande la questione relativa ai limiti di scelta dei sistemi di coordinazione, ampliandola a ogni analisi delle condizioni a priori che informano la conoscenza empirica. Applicando l’argomento di Reichenbach ai giudizi a priori materiali emerge la possibilità d’ipotizzare anche per essi una forma indiretta di valutazione legata alle condizioni contingenti dell’esperienza, escludendone l’apoditticità in linea di principio.
Come nota Parrini, se i giudizi a priori materiali assurgono a un qualche valore oggettivo e necessario, ovvero pretendono di essere validi per ogni possibile oggetto dell’esperienza, occorre domandarsi se esistono ragioni fondate per escludere che una loro libera applicazione risulti sempre immune da eventuali contrasti con il campo dell’esperienza, diversamente da quanto accaduto per il sintetico a priori kantiano.
Mantenendo sullo sfondo gli interrogativi avanzati da Parrini, nel saggio di Jocelyn Benoist l’accento si sposta sulla caratterizzazione ontologica dell’a priori materiale. Nella proposta è difesa una distinzione tra contesto trascendentale kantiano e fenomenologico, le ragioni della quale sono ricondotte alla natura dell’impostazione eidetica husserliana.
Mentre nel contesto kantiano il sintetico a priori definisce le modalità attraverso le quali il soggetto esercita le proprie capacità di essere colpito (affeziert) dalle sensazioni, l’a priori materiale introduce una diversa prospettiva soggettiva, facendosi carico delle dimensioni contenutistica e “mondana” dell’esperienza.
Date le influenze provenienti dalla scuola di Bolzano, nella fenomenologia gioca un ruolo determinante il ricorso a un’impostazione ontologica dell’a priori, traducendosi nella proposta di una vera e propria “ontologia formale”. Una classe di verità che, secondo Benoist, andrà a costituire il cuore dell’impostazione eidetica, lontana sia dalla tradizione kantiana, sia dalle formule dell’empirismo positivista.
Cercando una risposta indiretta a una delle domande di Parrini, si potrebbe dire che Benoist propone una terzeità dell’a priori materiale, evitandone l’appiattimento sul piano delle credenze soggettive o su quello delle condizioni linguistiche, sottolineando con ciò la peculiarità dell’impostazione eidetica.
Anche il contributo di Roberta Lanfredini mira a sottolineare con vigore le profonde divergenze che separano la concezione fenomenologica sia dal contesto kantiano, sia da quello dell’empirismo tradizionale. In tal senso si tratterebbe di dar conto della specificità del metodo descrittivo elaborato da Husserl, inserendo la fenomenologia nell’alveo di una filosofia “empirista” non contrassegnata da riduzionismi di sorta, bensì dal carattere “complesso” attribuito alla “datità”.
Accettata la nozione di dato come elemento internamente analizzabile, il passo compiuto da Roberta Lanfredini consiste nel sottolinearne la strutturazione gerarchica. Di particolare rilievo qui la definizione di rapporti di fondazione, ovvero di una legalità che coinvolge generi e specie riconducibili a gerarchie eidetiche diverse, un’analisi all’interno della quale trova ragione la peculiarità dell’a priori materiale.
Secondo Roberta Lanfredini l’idea husserliana di a priori sintetico riscontra validità nell’esame dei soli aspetti contenutistici che costituiscono l’esperienza. Astraendo dal ricorso a strumenti categoriali presenti nel contesto kantiano, la fenomenologia assume la foggia di un empirismo radicale, fedele al proprio intento di mantenersi aderente alle effettive datità empiriche.
Con l’introduzione del concetto di “contro-senso materiale”, distinto dal “non-senso sintattico” e dal “contro-senso formale”, si comprende inoltre come la fenomenologia husserliana non si lasci ricondurre alla dimensione epistemologica proposta da Schlick (si veda anche il contributo di Parrini), assumendo una varietà logica più ricca e differenziata di quella fatta propria dall’empirismo logico.
Il saggio di Roberto Miraglia guarda alla genesi della frattura che ha condotto Wittgenstein e Schlick ad accantonare l’idea di un a priori materiale e a rifiutare nel complesso l’impianto gnoseologico della fenomenologia husserliana. I due appaiono qui accomunati dall’identica tendenza ad appiattire le differenze tra aspetto formale e aspetto materiale, tanto da oscurare l’insieme di proprietà assegnate da Husserl al dominio dei contenuti, giungendo a confondere esemplari di a priori formale con esemplari di a priori materiale (così nel caso di enunciati come “ogni nota ha un’altezza”).
Quelle che Roberto Miraglia definisce “le radici di un equivoco” (p. 108), e che rimandando a una erronea interpretazione del progetto husserliano, sono ascrivibili secondo l’autore alla mancata considerazione della complessità interna al dato fenomenologico, nonché alla maggiore ampiezza della nozione di forma logica che ne consegue. Al fine di comprendere la stretta relazione tra l’impianto della fenomenologia e la teoria dell’a priori materiale occorre infatti considerare l’analisi del “mondo della percezione” quale parte integrante del lavoro husserliano. Per evitare fraintendimenti rispetto a ciò che Husserl considera giudizi sintetici a priori, secondo Roberto Miraglia, risulta determinante conoscerne l’impostazione mereologica, imparando a distinguere tra rapporti d’inclusione entro una stessa gerarchia e rapporti di fondazione tra generi e specie di gerarchie diverse.
Come già nel saggio di Roberta Lanfredini, anche qui emerge la necessità di considerare la fenomenologia quale analisi tutta interna alla datità empirica, in grado di discriminare il rapporto che lega “il rosso alla propria estensione” dal rapporto che collega “la stessa specie di rosso al genere colore”. Due forme di necessità di cui solo la prima rappresenta un esempio di a priori materiale.
Nella direzione di evidenziare la specificità dell’analisi fenomenologica si muove anche il contributo di Emanuele Coppola. Il suo lavoro si distingue per il tentativo d’introdurre all’interno della struttura dell’a priori materiale una connotazione “dinamica”, ottenuta per mezzo di un’analisi fenomenologica della temporalità. Un’operazione apprezzabile, sia per l’originalità del progetto, sia per il rigore e la chiarezza espositiva con cui il tema complesso viene presentato.
Il primo passo di Coppola è quello d’introdurre la nozione di a priori materiale “statico”, volto a chiarire i rapporti contemplabili dall’impostazione gerarchica delle essenze fenomenologiche. A tal fine vengono introdotti alcuni semplici strumenti logici atti a permettere un’idonea formalizzazione delle nozioni di dipendenza e di fondazione. Ottenuta un’impostazione formale delle relazioni che definiscono l’a priori materiale, Coppola procede introducendo il tema della temporalità in quanto concetto costitutivo dell’oggettività fisica, quindi come elemento della corrispettiva regione eidetica.
Proprio l’esame delle relazioni intrattenute dalle strutture eidetiche temporali richiede l’impiego di relazioni di dipendenza dinamiche, spostando l’attenzione dall’essere al “divenire” degli oggetti. Coppola procede così a impostare la formalizzazione di un rapporto di fondazione “trilaterale”, attraverso il quale descrivere la variabilità delle relazioni tra contenuti sensibili, temporalità e spazialità. Divengono determinanti in questo contesto le strutture intenzionali relative ai processi di impressione, ritenzione e protensione, dei quali Coppola introduce in termini definitori le condizioni nomologiche, sottolinendone ancora una volta l’aspetto dinamico.
L’ultimo contributo è affidato a Paolo di Lucia e rappresenta il tentativo di applicare l’analisi dei giudizi a priori materiali a una determinata regione ontologica, quella sociale. Emerge qui la possibilità di far riferimento ai differenti rapporti di fondazione che possono sussistere tra “atti” sociali, come la promessa, e “prodotti” giuridici, come l’obbligazione.
Una questione centrale guida il breve saggio di Paolo di Lucia e riguarda l’esistenza di verità a priori che vincolano all’atto entità differenti dal prodotto. La domanda è scissa dall’autore in due ulteriori questioni. Una prima riguarda l’esistenza di verità a priori che vincolino un certo atto al proprio contenuto. La risposta a questa domanda passa attraverso l’introduzione di una particolare forma d’impossibilità fenomenologica, quella “deontica”. La seconda domanda riguarda l’esistenza di vincoli tra atto intenzionale e materia di cui è composto l’oggetto al quale l’atto è rivolto. Un esempio di tale legame è rintracciato dall’autore in un passo tratto dall’opera del giovane Marx.

Indice

Introduzione (di Roberta Lanfredini)
Capitolo primo, A priori Materiale e forme trascendentali della conoscenza. Alcuni interrogativi epistemologici (di Paolo Parrini)
Capitolo secondo, A priori ontologico o a priori della conoscenza? (di Jocelyn Benoist)
Capitolo terzo, La nozione fenomenologica di dato (di Roberta Lanfredini)
Capitolo quarto, Dove iniziano gli a priori materiali? Schlick, Wittgenstein e le radici di un equivoco (di Roberto Miraglia)
Capitolo quinto, A priori materiali statici e dinamici (di Emanuele Coppola)
Capitolo sesto, Ab objecto actus recipit speciem (di Paolo di Lucia)


La curatrice

Roberta Lanfredini insegna Gnoseologia presso l’Università di Firenze. Assieme a Paolo Parrini e Alberto Peruzzi è curatrice della collana “ Epistemologica” pubblicata dalle edizioni “Guerrini e associati”. Attualmente si occupa principalmente di fenomenologia, di teorie dell’intenzionalità e di filosofia della mente. Fra le sue pubblicazioni: Husserl. La teoria dell'intenzionalità, 1995; Intenzionalità, 1997; Forma e contenuto. Aspetti di teoria della conoscenza, della mente e della morale, 2002; Mente e corpo la soggettività fra scienza e filosofia, 2003; Fenomenologia applicata. Esempi di analisi descrittiva, 2004. Di prossima uscita: Il mito dell'inosservabile: l'intuizione in filosofia della mente (Milano, Guerini).

Gli autori

Paolo Parrini insegna Filosofia teoretica all’università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni recenti Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, 1995; Sapere e interpretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fondamenti, 2002; L’empirismo logico. Aspetti e prospettive teoriche, 2002; Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento. Figure, correnti, battaglie, 2004.

Jocelyn Benoist insegna Filosofia teoretica e contemporanea all’Université Paris-I Pantheon-Sorbonne. Fra le sue pubblicazioni Entre acte et sens. Recherches sur la théorie phénoménologique de la signification, 2002; Les limites de l’intentionalité, 2005.

Roberto Miraglia Insegna Filosofia presso la facoltà di sociologia dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di teoria della conoscenza fenomenologica e del rapporto tra ontologia, scienza e società. Fra le sue pubblicazioni recenti Forma e materia nel primo Husserl, in Forma e contenuto, a cura di 

Roberta Lanfredini, 2002; Ontologia sociale e comunità politica, 2004.
Emanuele Coppola è dottorando presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze, si occupa principalmente di fenomenologia e filosofia del linguaggio. Fra le sue pubblicazioni L’eterno flusso eracliteo. Il tempo fenomenologico nella fenomenologia di Edmund Husserl, 2004.

Paolo di Lucia insegna Filosofia del diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano e nella Facoltà di Teologia dell’Università di Lugano. Tra le sue pubblicazioni L’universale della promessa, 1997; Normatività, diritto, linguaggio, azione, 2003; Ontologia sociale, 2005.

Links

http://www.epistemologia.unifi.it Sito che raccoglie materiali, informazioni ed eventi in ambito epistemologico (il comitato scientifico vede la presenza di Roberta Lanfredini, Paolo Parrini e Alberto Peruzzi; il sito è curato da Roberto Miraglia).

http://www.hiw.kuleuven.be/hiw/eng/husserl/index.php Sito del “International Centre of Phenomenological Research” di Lovanio.

venerdì 20 aprile 2007

Susman, Margarete, Il senso dell’Amore, a cura di Anna Czajka.

Reggio Emilia, Diabasis, 2007, pp. 128, € 14,00 ISBN 9788881034529.

Recensione di Gennaro De Falco – 20/04/2007

Sociologia

Il saggio di Margarete Susman porta la data del 1912, ma la sua attualità e la profondità nell’affrontare l’argomento dell’amore sono oltremodo degni dei nostri giorni. Anzi, il lettore troverà questo libro, che è di dimensioni anche abbastanza contenute, molto più interessante di altri saggi contemporanei sullo stesso argomento, che hanno solo il pregio di dispensare, con un linguaggio molto comprensibile che talvolta rischia di essere inadeguato, perle di saggezza per tutte le stagioni.
Lo scritto introduttivo di Anna Czajka, curatrice dell’edizione italiana, aiuta a far luce sulla personalità dell’autrice, oltre a fornire qualche preziosa chiave di lettura: il testo si presenta infatti molto denso e talvolta non immediatamente accessibile, a causa della difficoltà e della complessità dell’argomento trattato.
Benché il saggio risalga a quasi un secolo fa, l’attualità di alcune domande che si pone l’autrice, partendo dalla decadenza delle religioni che già imperava nella sua epoca, risulta subito evidente: “La brevità della vita individuale, avvertibile e dura solo in questo anelito individuale alla totalità, aggrava la richiesta dell’amore reciproco, la rende più urgente e più disperata” (p. 50). La fugacità della vita umana, il torpore e la confusione in cui quotidianamente l’uomo si perde, ha bisogno di qualcosa che lo eterni, qualcosa che gli faccia sentire palpiti ed emozioni che lo rendano speciale: “Nell’amore l’individuo dà sempre più che se stesso, attingendo al tutto della vita di cui fa parte, e dimentica insieme col suo Sé anche i propri limiti” (p. 58). Ciò nonostante, l’uomo non riesce a perdere definitivamente il suo senso di solitudine, che è anche la sua condizione primordiale. Da questa riflessione, il lettore odierno potrebbe trarre conclusioni simili sulla condizione dell’uomo contemporaneo: l’essere narcotizzato dalle meraviglie della tecnologia, da un imperante capitalismo che lo porta a desiderare oggetti e cose, anche le più inutili, non lo può realmente distogliere dalla condizione di profonda solitudine di cui egli è tatuato, oggi più di ieri. L’uomo, infatti, si muove tra singolarità, alterità e totalità. Queste condizioni gli fanno avvertire l’amore come altamente desiderabile e, al contempo, quando prevale il desiderio di singolarità, allo stesso modo inopportuno e persino odioso.
Accanto a questa condizione di amore umano - quella che brucia e dà passione e dolore - ve ne è un’altra più pura: la caritas, la forma impersonale dell’amore del prossimo. Una forma d’amore che, già nel 1912, Susman vedeva diradarsi: il lettore può leggere della contrapposizione che l’autrice propone tra l’amore dei martiri e l’amore che un uomo prova verso un suo simile, un amore certo più impuro. Un’altra contrapposizione che emerge dall’analisi è quella tra amore antico e amore moderno: il primo, grande nella sua tragicità e singolarità, amore che riesce a eternizzare i singoli uomini, e di cui, secondo Susman, resta il più fulgido esempio in Tristano e Isotta; il secondo è un amore che ha abbandonato il senso di eterno tutto concentrato su Dio, per caricarsi di una forza diversa, che si esaurisce tra uomo e donna, dove anche il sesso, evanescente nell’amore antico, trova un ruolo fondamentale. Dalla morte dell’amore antico, in concomitanza con la scomparsa delle forme imposte dalla religione cristiana, nasce una nuova anima: si perde la ricerca di Dio, dell’infinito, di ciò che è al di sopra e per sempre: “Questa singola anima determinata, che ha cominciato lentamente, nella sua determinatezza individuale, a confondere e a dissolvere l’immagine dell’infinito”(p. 88).
Ritornando a parlare del sesso, e del baratro che esso apre tra fugacità ed eternità, Susman affida all’arte il compito di colmare questo stesso baratro, e di provvedere a una reductio ad unum in cui il sesso non sarà più un semplice fenomeno fisico. Tra tutte le arti, “solo la poesia ha raffigurato l’essere umano nella sua integrità […]. Solo la poesia ha cercato di cogliere proprio in questa relazione tra esseri individuali, rifiutata da ogni altra concezione della totalità della vita, un elemento essenziale per la via verso l’irraggiungibile stesso” (p. 103). Susman affida alla poesia un ruolo che trascende la sua epoca: citando personaggi quali Tristano, Don Giovanni e Faust, fa comprendere come soltanto la poesia abbia saputo creare figure immortali, divorate allo stesso tempo da un amore bruciante e devastante e dalla malinconica e dolorosa consapevolezza che esso, come tutto ciò che riguarda l’uomo, è destinato a morire. I personaggi citati vivono in questo atroce dilemma, sospinti in avanti dall’amore e desiderosi di fermarsi, perché consapevoli che anch’esso si perde nella vanità.
Le ultime pagine del saggio sono dedicate al modo in cui uomo e donna vivono la trasformazione della vita: essa “avviene nell’uomo secondo la legge della metamorfosi naturale a cui egli è legato” (p. 107), mentre nella donna la trasformazione è molto più incisiva, in quanto “la sua via verso ogni nuova vita, verso tutti i valori e i mondi, è infatti il partorire” (p. 107). Questa differenza tra uomo e donna, differenza che la natura ha voluto, è stata una delle fonti di quella supremazia che per lungo tempo lo spirito maschile ha esercitato su quello femminile: “Fin dai tempi più antichi il simbolo dell’uomo era il chiaro giorno svelante ogni cosa, il simbolo della donna era l’oscura, feconda notte che custodisce ogni cosa dentro di sé”(p. 117). La sacralità che vela questo dono a cui la donna si dedica, il valore di questo sacrificio più o meno condivisibile e comprensibile – di cui l’autrice ricorda una delle massime espressioni nel personaggio di Margherita in Faust – sfociante in un “donarsi metafisico della donna” (p. 118), il ruolo fondamentale che la donna riveste nel sostenere l’uomo e i suoi progetti: Susman vede tutto ciò scomparire e si augura che la donna possa trovare un suo spazio, avulso da condizionamenti oscillanti fra tradizione e ignoranza, per non essere più annientata, nella sua personalità, da una forma distorta dell’amore.
Le pagine che Susman dedica alla poesia possono essere reinterpretate come un invito rivolto all’uomo contemporaneo, affinché possa riscoprire l’amore vissuto nella sua totalità di passione e carnalità, di idealizzazione e sogno. Il poeta Paul Celan, in una meravigliosa poesia, Ritratto di un’ombra, scrive: “I tuoi seni, amici delle mie serpi; / […] il tuo sesso, legge dell’incendio boschivo; / […] la tua orma, occhio del nostro addio”. Le sue parole richiamano quel ruolo che Susman affidava alla poesia, un ruolo in cui l’essere umano vive tutti i sentimenti, e in cui si riscopre la sua natura di essere complesso e mai definito.

Indice

Anna Czajka, La donna, la decisione dell’amore e il desiderio metafisico

I. La potenza dell’amore
II. L’amore tra uomo e donna
III. La trasformazione dell’amore


L'autrice

Margarete Susman (Amburgo 1872 - Zurigo1966) poetessa, filosofa della cultura e delle religioni, teorica del pensiero ebraico, pacifista. Amica e ispiratrice di Erns Bloch, Hans-Georg Gadamer, Franz Rosenzweig e Paul Celan. La sua opera più conosciuta è Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico (Firenze 1999).

lunedì 9 aprile 2007

Giorgetti, Pier Fernando, Tra Goethe e Nietzsche: la frontiera tra l’uomo e Dio.

Pisa, ETS, 2006, pp. 318, ISBN-13: 978-884671610-1, Euro 20,00.

Recensione di Davide Sisto - 09/04/07

Filosofia tedesca del XVIII e XIX secolo, Estetica, Storia tedesca

È un fascinoso viaggio a ritroso nel tempo quello che ci attende durante la lettura di Tra Goethe e Nietzsche: la frontiera tra l’uomo e Dio, corposo ed estraniante saggio che ripercorre con esuberanza le tappe principali del percorso poetico, speculativo e spirituale di due delle più rappresentative figure della storia dell’umanità occidentale: Goethe e Nietzsche. Sembra quasi che Giorgetti abbia intenzione di prendere per mano il lettore e di condurlo lentamente nel cuore delle conturbanti vicende storico-filosofiche tedesche del XVIII e XIX secolo, volendo mostrargli il temperamento titanico di due pensatori al di fuori di ogni schema precostituito e, al tempo stesso, convincerlo di come l’epoca contemporanea non sia più riuscita a partorire personalità di tale portata. Il tronfio e sterile pavoneggiarsi di certi presunti capostipiti della postmodernità filosofica odierna viene, infatti, impietosamente ridimensionato dinanzi alla sincera dirompenza intellettuale di Goethe e Nietzsche, le cui esperienze di vita – apparentemente contrapponibili e inconciliabili – paiono, invece, correre su due vie parallele, in costante procinto di lambirsi e di sfiorarsi, annullando quasi per magia l’insopprimibile distanza temporale che le separa.

Pur rispettoso di quella consolidata tradizione storica che oppone all’apollinea poeticità luminosa di Goethe il dionisiaco e tenebroso divampare filosofico di Nietzsche, Giorgetti, attraverso ventuno capitoli concisi ma pregni di spessore speculativo, allenta le rigide convenzioni storiografiche e, una volta mossosi con la dovuta meticolosità tra le intercapedini esistenziali dei due eroi tedeschi, esalta la natura provocatoria e rivoluzionaria tanto di colui che ha imposto con ridondante regalità la sfrenatezza prorompente dello Sturm und Drang, quanto di colui che ha sfidato le ipocrite consuetudini borghesi con il suo piglio provocatoriamente inattuale: “il Goethe strasburghese del 1770 ed il Nietzsche basileiano del 1869 sono accomunati da una totalizzante capacità e volontà di contrapposizione e di rifiuto nei confronti del dominante spirito del tempo – e di tutto il corteo di sentimenti, valori, valutazioni, che esso sembrava aver scritto, con lettere dure come il granito, nella coscienza e nella sensibilità delle due epoche rispettive –.” (p. 27).

Per quanto concerne Goethe, l’attenzione di Giorgetti si concentra ovviamente sul periodo che antecede la cosiddetta resipiscenza poetica dell’età weimariana, in cui il graduale superamento dell’ipertrofia soggettiva giovanile si accompagna ad un approfondimento scientifico e letterario del problema della natura in termini più ponderati e pacati, intenti a cogliere nella fertilità naturale l’armonia di leggi costanti e la produzione di forme organiche, rivelatrici del persistente movimento centripeto presente in natura. Ecco, pertanto, che lo studioso italiano analizza, soprattutto, gli anni di Strasburgo e di Lipsia, anni in cui Goethe plasma a poco a poco la sua imperiosa personalità e dona luce ad alcune delle sue opere più significative e prestigiose. Da una parte, s’impone la tellurica e antiilluministica Weltanschauung di Goetz von Berlichingen, da cui emerge “il germanesimo primitivo, essenzialmente antiromano e antistatuale, intriso di spirito e di psicologia di subordinazione gerarchica ai vertici della società, tetragono nel rifiuto di concepire il significato dello Stato, ammettendo qualcosa al di là e al di fuori del vincolo di sottomissione e di fedeltà personale al principe” (p. 38); la sua natura colma di vitalità, il suo pulsare stürmeriano introducono il cocente fastidio per una cultura dell’Illuminismo che banalizza l’esplosione organica della natura e che soffoca la vita nelle rigidi regole del Sollen di matrice kantiana. Il Goethe stürmisch apre, pertanto, la strada all’intuizione del caos dionisiaco, “da lui avvertito come traboccante sorgente della ricchezza della vita, come vera cifra del reale e, al tempo stesso, come suprema e fascinosa forza attrattiva pur nel segno della sua assurdità e tragicità, danzando sulle orme di un senso di ridicolo delle cose tutte, dal quale trasudava un infinito cinismo” (p. 45). Da qui prende le mosse l’inno del Prometheus, in cui la superiorità dell’uomo-titano sulla stirpe degli dei raggiunge la sua apoteosi nella proposta che Prometeo sottopone provocatoriamente a Zeus: “quel che ho io, non me lo possono rapire, e quel che hanno essi, lo difendano loro. Ecco qui, mio e tuo: e ognuno per la sua strada” (J.W. Goethe, Prometeo, in Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Firenze, Sansoni, 1961, vol. I, p. 399). Sempre da qui si dipana lo spirito bohemien ante litteram del Werther, di cui Giorgetti sottolinea il carattere superbamente individualistico ed egoisticamente estetico, che s’abbevera alla fonte dell’eccitazione solipsistica per un amore volutamente impossibile, il cui possibile compimento è visto da Werther come una terribile minaccia al suo prediletto isolamento sociale: “nella realtà delle cose Werther nulla tanto fuggiva come il matrimonio: egli si sentiva sempre e comunque altrettanto estraneo, quanto insofferente, di fronte a qualsivoglia impegno, vincolo od individuazione di scelta definita e stabilmente coinvolgente” (p. 89).

A partire dalla comune esperienza esistenziale che Goethe e Nietzsche hanno vissuto a Lipsia a distanza di cent’anni esatti, Giorgetti introduce la controversa personalità di Nietzsche che, nonostante la sua timidezza e la sua insicurezza post-adolescenziale, già a vent’anni “rinnovò l’audace esperienza goethiana di porsi, a suo inconfondibile modo, come occhio del mondo al centro della realtà e della storia” (p. 54). Antitesi radicale dell’immagine quieta della grecità di tradizione winckelmanniana e della rigorosa razionalità concettuale di matrice socratica, il soliloquio nietzschiano tenta di eludere le trappole classicistiche del primato teoretico e del sobrio moralismo cristiano, lasciando campo libero all’istinto e al genio e, quindi, rivendicando “una filosofia come a-concettualità radicale e come percezione immediata ed emozionale di una visione dell’uomo e della realtà ab origine completa in ogni suo aspetto e da sempre presente nella più profonda intimità del soggetto ispirato ed agitato dallo spirito dionisiaco” (p. 57). Pertanto, Giorgetti affronta l’inattualità spirituale di Nietzsche, non solo ripercorrendo per l’ennesima volta i sentieri speculativi del suo filosofare, ma anche e soprattutto tenendo in considerazione la situazione politica contemporanea al suddetto pensatore. Soltanto attraverso un’attenta ricostruzione storico-psicologica dell’astuta Realpolitik bismarckiana, emerge veramente la natura controversa dell’inattualità perpetrata da Nietzsche, avverso a qualsivoglia forma di massificazione sociale e di imbrigliamento dell’istinto. Scampoli di esperienze biografiche, di amicizie drammaticamente tradite (si veda il ben noto rapporto con Wagner), di malesseri fisici progressivamente destabilizzanti donano trasparenza a quel Wille zur Macht che, in parallelo alla tracotanza ostentata dal Superuomo e dall’Anticristo, rende intramontabile la figura del filosofo di Röcken.

In definitiva, Tra Goethe e Nietzsche: la frontiera tra l’uomo e Dio è un’opera che va letta e apprezzata così com’è, intrigante nel suo riuscito tentativo di ridipingere con colori accecanti le “affinità elettive” che accostano Goethe a Nietzsche.

Indice

1.La poesia della luce e la filosofia delle tenebre
2.Nietzsche e l’avvicinamento a Wagner: l’inizio della gigantomachia dionisiaca e della polemica antisocratica
3.Cosima, Nietzsche e Wagner: l’originario “mondo tipico” senza uscita
4.Goethe e Nietzsche: un’esemplarità di esperienze parallele per un “mondo tipico” di radicale rifiuto
5.Lipsia come culla originaria del “genio” in Goethe e Nietzsche. L’esperienza goethiana
6.Lipsia come culla originaria del “genio” in Goethe e Nietzsche. L’esperienza nietzscheana
7.Lipsia ed il frutto proibito dell’esperienza “geniale”: l’ontologia dell’insignificanza e la psicologia del terrore
8.Dialetticità ed ambivalenza del “genio”: cifra poetica ed esistenziale della sintesi degli opposti
9.Il Werther goethiano: l’”educazione sentimentale” dell’anima tedesca al culto dell’ambivalenza e della convivenza degli opposti
10.Il Faust goethiano: l’epifania del demoniaco come alter ego dell’anima geniale e della sua terrestrità radicale
11. Metamorfosi e nemesi del demoniaco nell’esperienza faustiana dell’anima “geniale”: la tragedia del mago e la tragedia dell’amore
12.La cultura dell’inattualità e lo spirito dell’età bismarckiana
13.L’incarnazione politica e la cifra parallela della nietzscheana “cultura inattuale”: la Realpolitik bismarckiana
14.Tra Bismarck e Nietzsche: la svolta della cultura tedesca dal liberalismo al culto della potenza
15.Il Nietzsche “illuministico” dello spirito libero e l’apogeo dell’età bismarckiana
16.Dioniso alla prova dell’idillio di Tautenburg: l’insostenibile leggerezza della grazia di Apollo
17.Il centro del centro: la volontà di potenza
18.L’anello degli anelli: l’eterno ritorno
19.Il superuomo: realtà e mito
20.Dalla gloria di Dio alla voce del demone
21.Dio e …Dio: riflessioni su “demitizzazione” e “valori”


L'autore

Pier Fernando Giorgetti. Nato a Livorno (1941) e laureatosi alla “Cattolica” di Milano con una tesi sulla storiografia cartesiana, ha analizzato l’influenza della fisica matematico-quantitativa sulla filosofia successiva e sulla tradizione cristiana della cultura europea in Società religiosa e società civile nell’Europa contemporanea (Livorno, 1984). Ha trattato delicate questioni sulla religione come cultura su “La Voce Repubblicana” di Giovanni Spadolini. Ha verificato la “presa” reale delle dottrine del marxismo e del liberismo sul divenire concreto dell’economia in Moneta, società, economia – 1694/1987 (Livorno 1985; 1987). Ha rintracciato l’origine delle figure della dialettica hegeliana nelle mittneriane “ambivalenze romantiche”, squisita tipicità dell’anima tedesca sul sentiero della “poesia come verità della filosofia”: L’epifania dell’anima romantica. Poesia e religione alle radici della cultura dell’Europa moderna (ETS, Pisa, 2005).

lunedì 2 aprile 2007

Luhmann, Niklas, Osservazioni sul moderno.

Roma, Armando, 2006, pp. 144, € 12,00, ISBN 8860810086

Recensione di Alessandro Lattarulo – 02/04/2007

Parole chiave: Illuminismo, ambiente, sistema, modernità, potere

Rielaborazione di conferenze tenute in giro per il mondo all’alba degli anni Novanta del secolo scorso, Osservazioni sul moderno si presenta come un interessante compendio di alcuni punti salienti dell’articolato, e talvolta persino labirintico, pensiero di Niklas Luhmann.
Grande maestro della sociologia contemporanea, Luhmann, anche a causa dell’ostentata iconoclastia nei riguardi di alcuni schemi interpretativi e dell’adozione di apparati semantici collidenti con quelli egemonici per decenni, non sempre ha goduto della fama che avrebbe meritato, sebbene la sua ricca produzione accademica, pur gravata da una non agevolissima leggibilità, sia diventata faro di riferimento per gli studi sociologici. Sotto tale profilo, la coraggiosa scelta della casa editrice Armando, di includere tra i “classici” un’opera che in Germania aveva visto la luce sin dal 1992, costituisce l’atto di una strategia editoriale che ci auguriamo essere di sempre maggiore cura nelle edizioni proposte e che possa conoscere ulteriori passi in direzione della piena riscoperta di un contributo scientifico prezioso, a prescindere dal giudizio di merito.
Fiero oppositore del postmodernismo incarnato dai vari Maffesoli, Inglehart ecc., ciononostante Luhmann riconosce un merito incontestabile a questi autori, tra l’altro assimilabili solamente con atteggiamento prono a una sbrigativa tassonomia, avendo contribuito in modi divaricati a fare della corrente postmoderna una delle più frammentate e disomogenee, in virtù dell’esplicita scomposizione di ogni lettura unitaria della realtà. Alla proclamazione del “postmoderno” Luhmann riconosce infatti, sin dalle pagine della Prefazione, di aver evidenziato la crisi di introversione della società moderna, oramai disillusa in merito alla capacità di fornire una corretta descrizione di se stessa. È la crisi della razionalità europea che si trascina stancamente da anni, da quando, cioè, si è palesato in tutta evidenza l’avvitamento di ogni discorso sulla società capitalistica e di ogni ariosa discussione sulla “differenziazione” che essa implica. La torsione dell’Illuminismo che già la Scuola di Francoforte aveva denunciato dopo la seconda guerra mondiale, ammonendo circa la quasi inevitabile deriva totalitaria della razionalità connessa, in Luhmann si è trasformata nell’urgenza di reinventare secondo una logica sistemica priva di qualsiasi apriori l’apparato semantico dell’Europa, al fine di mantenere intatta la centralità storica del “vecchio continente”. Se infatti la razionalità europea si distingue da altre semantiche ad essa paragonabili proprio per la sua familiarità con le distinzioni (p. 35), si trasforma in atteggiamento inspiegabilmente abbarbicato alla tradizione quello consistente nella rinuncia ad emanciparsi risolutamente da costrizioni analitiche devote a schemi ormai sorpassati.
L’unico tentativo di una qualche apprezzabilità, secondo il funzional-strutturalismo architettato da Luhmann, è stato quello che ha avuto quale sommo protagonista Anthony Giddens, raffinato sociologo britannico, che sin dalla vigilia del crollo del bipolarismo planetario aveva incominciato a fornire della globalizzazione una descrizione fondata sulla rilevazione di una progressiva, inarrestabile nel breve periodo, “time-space distanciation”, tracciando in tal modo le scie luminose per la ricerca immediatamente successiva (p. 13).
In una società percorsa contraddittoriamente da saperi sempre più frammentati, caratterizzati dall’assenza di fondamenti assoluti, la teoria luhmanniana, anche a quasi una decade dalla morte del sociologo, rivendica un’impronta relativistica estrema, radicale che, per un verso, ha manifestato incessantemente la necessità di ridurre la complessità di una realtà altrimenti oscura; per l’altro, rifiuta qualsiasi fondazione extra-sistemica della società e delle regole che presiedono alla razionalità di questa.
A differenza dei sistemi fisici o biologici, i cui confini possono essere definiti empiricamente ed empiricamente riperimetrati con l’approfondimento delle conoscenze umane, i sistemi sociali sono definibili solamente sulla base del senso partecipato che, tuttavia, in Luhmann si innesta tra le maglie di quella degenerazione della società contemporanea che registra la scissione irrisarcibile tra individuo e società.
Accade pertanto, come ha ripetutamente sottolineato Pietro Barcellona – strenuo oppositore del Luhmann appiattito sulla contingenza, su una stabilità sociale che solamente in ipotesi è osservata dall’angolo di una evoluzione dinamica – che la svolta epistemologica di cui si rese protagonista l’intellettuale tedesco all’inizio degli anni Settanta abbia assunto sempre più definitamente i tratti di una desoggettivizzazione del sistema. Detto altrimenti, di una liberazione della teoria sociale da ogni impaccio soggettivistico e antropologico, con l’uomo non più considerato parte del sistema sociale, ma svilito ad ambiente problematico del sistema stesso. Ridotto quindi a galleggiare in un sistema capitalistico trasformato in una connessione rapsodica di funzioni equivalenti, di operazioni per rintracciare la cui razionalità bisogna dirigersi verso una stabilizzazione del sistema, disancorato dalla turbolenza delle passioni e di ogni dialettica anche solo latamente conflittuale. In un ambiente che mantiene una complessità impossibile da ridurre una volta per tutte, diviene dunque inevitabile che la totalità, palesando la propria opacità, sfugga ad ogni tentativo di presa e che le ragioni del conflitto non siano più trasparenti né rappresentabili mediante le classiche agenzie politiche e sindacali. La teoria sistemica, insomma, trasforma la democrazia in una mera procedura formale, senza risvolti contenutistici, tranciando persino quel nesso finalizzato alla loro distinzione che in Claus Offe separava la politica – funzione di produzione generale del consenso – dall’amministrazione – intesa come modalità di sviluppo e attuazione dei programmi. Secondo Luhmann, la democrazia si configura come tecnica di distribuzione del carico delle tensioni che derivano dall’ambiente turbolento dei conflitti nei vari ambiti in cui si articola il sistema sociale, fungendo praticamente da filtro a favore dello smistamento delle aporie rinvenibili nel sistema politico verso i (sub-)sistemi dell’amministrazione, della giurisdizione ecc.
La teoria sistemica si rivela di fatto una strategia di neutralizzazione della conflittualità sociale, perché affresca la frantumazione policentrica del tessuto dinamico della società, popolandola di individui depauperati della ricchezza intrinseca di soggetti dell’uguaglianza.
Blindato in un disperante privatismo che ne lascia affiorare un solipsismo senza ancoraggi stabili, l’individuo immerso nella modernità liquida descritta da Bauman vaga nomade alla ricerca di una libertà assoluta che efficacemente rappresenta l’effetto di sradicamento dall’insieme dei rapporti, delle relazioni sociali, trascinando l’esistenza verso la deriva quantitativa tempestata di desideri. Che alla necessità sovrappone quasi totalmente l’induzione al consumo, effettivo motore della società tardo-capitalistica, che nel mondo “occidentale”, in cui non mancano certo stridenti contraddizioni, sostituisce ai bisogni materiali quelli immateriali.
Dinanzi a tutto ciò gli europei corrono il serio rischio di farsi risucchiare nel gorgo di insanabili contraddizioni, la cui pericolosità si manifesta a maggior ragione osservando la lucidità premonitrice di Luhmann. Abituati a trasformare le culture straniere dall’incomprensibile al comprensibile poiché costretti a quest’opera di apertura nei confronti dell’Altro sin dall’epoca della scoperta delle Americhe, tra l’altro coincisa storicamente con l’invenzione della stampa (p. 59), gli europei sono oggi chiamati a descrivere il futuro rintracciandone nel presente verità (p. 85) che non saranno probabilmente oggettive come reputato in fondo possibile da Habermas, ma che abbisognano di un trascendente collettivo rispetto alla particolarità degli interessi da individuare nella sacralità laica della vita umana, a patto di alleggerire la retorica dei diritti umani dalla cifra occidentalizzante che attualmente li permea.

Indice

Prefazione
Il Moderno della società moderna
La razionalità europea
La contingenza come valore proprio della società moderna
La descrizione del futuro
L’ecologia del non-sapere

L'autore

Niklas LUHMANN, sociologo tedesco scomparso nel 1998, è il padre del funzional-strutturalismo. Per anni ordinario di sociologia all’Università di Bielefeld, ha sviluppato fino ad orizzonti insuperati la teoria dei sistemi. All’interno della sua vastissima produzione accademica, non ancora integralmente tradotta in italiano, ricordiamo Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979; Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983; Struttura della società e semantica, Bari, Laterza, 1983.

Fabris, Adriano, Senso e indifferenza. Un clusterbook di filosofia.

Pisa, Ets, 2007, pp. 142, € 12,00, ISBN 978-884671708-5.

Recensione di Daniela Di Dato - 02/04/2007

Filosofia teoretica (gnoseologia)

Che rapporto esiste oggi fra realtà e pensiero? E in questo rapporto, qual è il ruolo della filosofia? Sono questi gli interrogativi da cui prende avvio la riflessione di Adriano Fabris, che subito vuol essere relazione coinvolgente con i lettori.
Dietro un’apparente sintonia, assistiamo sempre più a una marcata dicotomia tra realtà e pensiero. Il reale non è più pensiero che si fa, che si concretizza, ma esso stesso si fa pensiero. Nella cultura premoderna, al pensiero si attribuiva una potenza utopica e alla filosofia la capacità di aprire al futuro. Nel modo moderno, invece, la realtà diventa virtuale: non è reale un pensiero che si fa concreto, ma spesso è già reale un pensiero non ancora elaborato. E ciò impedisce al pensiero, al fare filosofia di riconoscere come propria la realtà. Quasi incapace di afferrare il reale, il pensiero sfugge e proprio per questo, secondo l’autore, deve dare a pensare.
Il testo è un esercizio, un tentativo di condurre il pensiero là dove forse non si è soffermato, in pensieri incarnati, vivi e concreti nel nostro quotidiano: la rivelazione, l’apparenza-spettacolo, la comunicazione e il consumo. La realtà è epifania, è una rivelazione che, da sempre, la filosofia accoglie, approfondisce, scoprendone la verità e l’alterità oltre il velo dell’apparenza. Oggi invece la rivelazione si esaurisce in ciò che è rivelato: realtà e apparenza sono piani non più distinti, ma coincidenti e tutto fa, è spettacolo. I reality show confondono la vita quotidiana con lo spettacolo, il modello con la copia, la rivelazione con l’apparenza: l’uomo qualunque è attore del suo stesso quotidiano, ma è anche spettatore. Imbambolati, rapiti dal mondo delle immagini, stabiliamo un rapporto che non è di coinvolgimento e di relazione, ma di distaccata autoreferenzialità con un apparente che non cela più uno spessore da approfondire.
L’autore non riconosce più nelle immagini l’espressione della creatività umana: esse ci attraggono perchè ci assorbono completamente. Le immagini si esauriscono nel loro apparire, senza rimandare ad altro da sé: la luce che un tempo illuminava, orientava, creando profondità, ora è solo un luccichio intermittente che mostra e nasconde immagini, dietro le quali e delle quali non interessa più l’originale, c’è solo l’apparecchio e le potenzialità dell’hardware che le ha generate. Le immagini riflettono perciò sé stesse, noi stessi diventiamo immagini, ma non certo, secondo l’autore, immagini significanti. Oggi inoltre il mondo occidentale è scandito dal consumo: del tempo, della vita, di noi stessi. Il consumo è in stretto rapporto con il desiderio, in quanto ciò che si desidera si può comunque riavere e quindi non è necessario conservarlo. Nell’era premoderna il valore delle cose era legato al suo durare, nell’era moderna invece l’uomo diventa produttore e quindi creatore: è artefice di tutto ciò di cui ha bisogno e addirittura del bisogno in sé. Perciò usare, distruggere, consumare non rimandano più a un significato negativo, ma alimentano la catena produttiva, amplificando l’orgoglio e il senso di onnipotenza dell’uomo moderno.
E allora, viene da chiedersi, qual è il valore di ciò che è sempre disponibile, che si può sempre avere e buttare via? Si produce per consumare e si consuma per produrre. La creazione dal nulla e l’annullamento non sono più categorie di ordine etico e religioso, ma solo economico. Ed è proprio questo circuito vizioso del produrre, consumare, distruggere e di nuovo produrre ad alimentare l’indifferenza sia come ciò che non ha differenze rispetto ad altro (indifferente rispetto a qualcosa), sia come ciò che non ha o suscita interesse (indifferente verso qualcosa). In entrambi i casi, essa implica l’annullamento di un rapporto reciproco di confronto, di relazione. Ancora una volta è l’autoreferenzialità a produrre indifferenza: laddove non c’è confronto, rapporto, non c’è neppure distinzione, non c’è più il senso delle cose. Paradossalmente i fondamentalismi sono la massima espressione dell’indifferenza: l’adesione alla lettera ai testi sacri, il rifiuto del dialogo, la convinzione che il proprio credo sia l’unica verità sono tutti sintomi di un profondo disinteresse a ciò che è diverso da sé, fuga da un rapporto di relazione con l’altro. Infatti anche l’identità rimanda a un’esperienza di relazione che si definisce nel momento in cui ci si rapporta ad altro. L’altro in sostanza è funzionale all’affermazione del concetto di identità: può essere muro, ossia qualcosa da negare come il fondamentalismo che esclude tutto ciò che è diverso da sé, oppure specchio, ossia occasione di autoaffermazione e riconferma di sé.
La nostra epoca esaspera l’identità sia rivendicandola in modi rigidi ed intolleranti, sia negandola, trasformandola in un’identità “liquida” che non ha più forma: se non c’è rapporto di relazione non solo l’identità viene perduta ma anche l’indifferenza si diffonde. Ma è chiaro che il vero rapporto da salvaguardare non è il rapporto con il sé, autoreferenziale, pura riflessione e quindi esibizione, ma quello che espone il sé nella misura in cui si coinvolge con l’altro: dunque, in questo rapporto, l’identità del sé non viene assorbita, il legame non annulla le differenze, ma accelera lo sviluppo e perciò elimina l’indifferenza. Quindi è solo quando realizziamo un coinvolgimento con l’altro che tutto assume un senso.
L’autore continua dunque la sua riflessione sul significato di “virtuale”. Se nella filosofia classica le categorie del reale, del possibile, del potenziale e dell’attuato si mantenevano differenziate e poste su livelli diversi, nell’era moderna tutto appare semplificato in un’unica dimensione, in cui il possibile (cioè ciò che non è reale ma che potrebbe divenirlo) si confonde con ciò che è reale, in cui la potenza è capace di attuarsi prescindendo da ogni atto. E dunque oggi che significati assume il “senso”? Uno dei cinque sensi, il significato di qualcosa, una direzione e senso di marcia, il buon senso, ma è anche ciò che ha senso (sensato) e ciò che dà senso (sensante), quindi senso è inteso come una molteplicità di punti di vista non relativistica quindi escludente, ma prospettica quindi panottica. La pubblicità oggi esprime il senso. Essa non è semplice trasmissione di messaggi, ma creatrice di senso: il prodotto pubblicizzato non è esaltato solo nel suo valore di mercato o d’uso, ma è caricato di un valore simbolico, di un qualcosa che non è reale ma possibile e che è capace di attrarre e sedurre. Ma questo senso che appare, che illude, ha veramente senso? È questa la domanda che l’autore pone ai suoi lettori. In realtà senso vuol dire coinvolgere: anche il concetto di Dio può essere reinterpretato in questa nuova accezione. L’idea di Dio non è più solo propria della teologia filosofica che ne fa concetto, ma appartiene anche alla filosofia religiosa che ne cerca testimonianza nella realtà: l’uomo, il mondo possono dare un senso all’idea di Dio che stabilisce un rapporto con l’uomo attraverso la creazione e crea coinvolgimento nel rapporto tramite la rivelazione. La forma triadica in cui si esplicita il senso (sensante, sensato, sensare) riporta alla trinità divina e comunque a una dimensione virtuale in cui possibile, potenziale e reale si confondono.
Ma basta tutto questo? Certamente no: Adriano Fabris espone le sue riflessioni su alcuni concetti quali senso, indifferenza, identità con l’intento di dimostrare che il pensare non è una struttura definita in cui collocarsi. Il pensiero fugge a sé stesso, nel senso che probabilmente anche il pensiero si è fatto virtuale: pensiero e decisione, etica e teoretica non sono da considerare come due ambiti disciplinari distinti, ma rimandano continuamente l’uno all’altro e attraverso il loro coinvolgersi, la loro relazione. Ecco perché clusterbook: la copertina rimanda metaforicamente a una bomba cluster, dotata cioè di submunizioni pensate per aumentare l’area di diffusione dell’atto epslosivo. Così questo testo permette ai lettori di aggiungere pensieri sul link www.edizioniets.com/clusterbook, di rendere il libro un libro aperto che si fa nella relazione e nel coinvolgimento che l’autore stabilisce con chi legge. Un libro che, nel tempo, può anche fuggire da sé stesso, aprire nuovi orizzonti, e soprattutto combattere l’indifferenza di rapporti autoreferenziali che, al giorno d’oggi, s’insinuano nella nostra vita, nel quotidiano ma anche in quegli spazi che, forse, pensavamo di completa libertà come quello della lettura e della filosofia.

Indice

Premessa
Inizia
Oggi
Nell’indifferenza
Virtuale
Una filosofia prima
Dei sensi molteplici
Come coinvolgimento


L'autore

Adriano Fabris insegna Filosofia morale ed Etica della comunicazione all’Università di Pisa. Ha pubblicato, fra l’altro, i volumi: Esperienza e paradosso (Angeli, Milano 1994); I paradossi dell’amore (Morcelliana, Brescia 2000); Paradossi del senso (Morcelliana, Brescia 2002); Etica della comunicazione (Carocci, Roma 2006). È direttore della rivista “Teoria”.