venerdì 30 gennaio 2009

Amoroso, Leonardo, Per un’estetica della Bibbia.

Pisa, Ets, 2008, pp. 99, € 10,00, ISBN 9788846722485.

Recensione di Paolo Calabrò – 30/01/2009

Estetica, Filosofia della religione

Si può davvero studiare l’estetica della Bibbia? Ovvero: si può veramente effettuare un’indagine tutta profana (estetica) su ciò che almeno due religioni mondiali (il cristianesimo e l’ebraismo) hanno di più sacro (la Bibbia)? Per Leonardo Amoroso, autore di questo saggio snello ma ricco di spunti interessanti ed eruditi, è certamente possibile, a patto di rinunciare a quella concezione ottocentesca dell’estetica come dominio dell’‘arte bella’, fine a se stessa. Perché la Bibbia, pur non trattando direttamente, appunto, di ‘arte bella’, parla tuttavia con abbondanza di bellezza, di arte, di poesia. In primo luogo, in quanto opera letteraria, essa reca con sé, implicitamente, una poetica e un’estetica (anzi, come l’autore evidenzia, più d’una); in secondo luogo essa, seppur indirettamente, ha esercitato un’enorme influenza sull’arte occidentale, non solo sacra, giungendo a ispirare opere letterarie come il celeberrimo brano del Grande Inquisitore di Dostoevskij o addirittura film-scandalo come quelli di Scorsese e di Ciprì-Maresco.
Amoroso (che traduce direttamente dall’ebraico i brani citati, pur tenendo conto delle traduzioni più accreditate) sottolinea come il tema della bellezza si trovi addirittura all’inizio della narrazione biblica (Gen 1,4-24): Dio, il Creatore, vide che ciò che aveva fatto era tov, parola ebraica che può essere tradotta sia con ‘ben fatto’ sia con ‘bello’ (e che infatti la Settanta, la Bibbia ebraica scritta in greco, traduce con kalòn). In questo brano Dio – continua Amoroso – viene presentato proprio come un artista, che si compiace dei vari elementi via via realizzati della sua opera: “più volte guarda quel che ha fatto, appunto come un artista che, collocandosi a una certa distanza per vederlo meglio, lo valuta positivamente” (pp. 26-27).
Il tema ricorrente di questo studio è quello dell’aniconismo della Bibbia (il divieto prescritto di farsi delle immagini), che va di pari passo con l’importanza della parola e con il primato dell’udito rispetto alla vista nella cultura ebraica. L’autore si sofferma a darne vari esempi: secondo una certa interpretazione cabbalistica, la prima cosa creata da Dio non sarebbe la luce ma l’alfabeto; il termine ebraico davàr significa sia ‘parola’ sia ‘fatto’ (“a riprova della concezione ‘poietica’ del linguaggio propria della Bibbia ebraica”, p. 31); così come, si potrebbe aggiungere, Dio parla a Mosé sul Sinai, ma non si mostra (“Dio nessuno l’ha mai visto”: 1Gv 4,12). Il precetto aniconico, finalizzato ad estirpare l’idolatria di un popolo fin troppo lesto a costruirsi con le proprie mani un vitello d’oro dinanzi al quale inchinarsi, in ultima istanza non è un rifiuto della bellezza in quanto tale: piuttosto esso è la fonte del perseguimento di un’estetica che si esplica nelle forme della poesia e della musica piuttosto che nelle arti visive.
Nel capitolo dedicato a Salomone si sostiene che la morale di Qohelet è minimalista (p. 95); l’asserzione viene esemplificata dicendo che il “Non è bene che l’uomo sia solo” di Gen 2,18 è ripreso da Qohelet “nel senso che, se siamo in due, è più facile sollevarsi se si cade, e ci si può riscaldare se si ha freddo (Qo 4,9-12)” (pp. 95-96). L’argomento, che viene utilizzato solo come ‘ponte’ verso le considerazioni più propriamente estetiche sulla gioia e sul piacere ricorrenti nell’Ecclesiaste, sembra tuttavia parziale, in quanto la lettura dell’‘essere in due’ di Qohelet può anche avvenire in una prospettiva più vicina a quella che sarà propria del cristianesimo, ovvero: la solitudine è una delle radici del male, del solipsismo come del delirio di onnipotenza e dell’odio furioso; mentre ‘è bene che i fratelli stiano insieme’, perché “il Regno di Dio è ‘tra’ di voi”, cioè nella relazione tra gli uomini (come tematizzato ad esempio da filosofi cattolici quali Panikkar e Bellet). Il reciproco ‘sollevarsi se si cade’ può a sua volta avere il senso della ‘correzione fraterna’, del reciproco aiutarsi (in senso morale, che non esclude quello materiale, anzi) al fine della salvezza. Sembra dunque importante sottolineare come quella minimalista (che l’autore fa propria) sia ‘una’ lettura, ma non l’unica.
In generale, il libro offre nuove suggestioni ad ogni angolo: vi si discute dell’influenza dell’estetica greca della misura e della proporzione sull’estetica ebraica; dello sforzo strenuo di Dio (e dell’autore biblico) per contrastare la più sottile e più pericolosa forma di idolatria, quella della stessa parola; della “prova ‘estetica’ dell’esistenza di Dio” (p. 85); dell’estetica della semplicità contrapposta a quella del fasto e dell’opulenza (a proposito della quale Amoroso conclude affermando che l’umiltà cristiana non è solo una virtù etica, ma anche per così dire ‘estetica’); dell’intreccio fra la bellezza e la sapienza e della sapienza come stile di vita, come arte del vivere bene (ars vivendi). Tutte cose cui l’autore si limita ad accennare, certo; strade che indica, senza percorrerle fino alla fine (ciò che richiederebbe “un lavoro di molti anni da parte di un’équipe di studiosi dotati di competenze differenziate”, p. 9; dei limiti dell’opera Amoroso è ben consapevole e non esita a metterli in luce fin dalla Prefazione). Insomma, se è vero che la bellezza è identica alla sapienza (p. 83) e se è vero che Dio ha fatto ogni cosa con sapienza... allora, dallo studio dell’estetica biblica abbiamo davvero ancora molto da imparare.

Indice

Prefazione
Introduzione
Estetica della creazione
«Non ti farai immagine»
Estetica di Davide
Estetica di Salomone


L'autore

Leonardo Amoroso, nato a Livorno nel 1952, è docente di Estetica all’Università di Pisa. Tra le sue opere si ricordano: Ratio & aesthetica. La nascita dell’estetica e la filosofia moderna, ETS, 20082; (a cura di), Il battesimo dell’estetica, ETS, 20083; Scintille ebraiche. Spinoza, Vico e Benamozegh, ETS, 2004; Lettura della “Scienza nuova” di Vico, UTET Università, 1998; Nastri vichiani, ETS, 1997; Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg e Sellier, 1993; (a cura di), Maschere kierkegaardiane, Rosenberg e Sellier, 1990; L’estetica come problema, ETS, 1988; Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, 1984.

Links

http://www.fls.unipi.it/db/persone_scheda.php?id_persona=1 (pagina personale del prof. Leonardo Amoroso presso il sito del Dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa)

mercoledì 28 gennaio 2009

Mori, Maurizio, Il caso Eluana Englaro.

Bologna, Pendragon 2008, pp. 244, €. 13,00, ISBN 978-88-8342-702-2.

Recensione di Paolo B. Vernaglione, 28/01/2009

Bioetica, Biopolitica, eutanasia, testamento biologico

L’imputazione del ministro Sacconi per l’“atto di indirizzo” con cui ha proibito alle strutture sanitarie di dar corso alla sentenza della Corte d’Appello di Milano (2008) di sospensione dell’alimentazione e idratazione a Eluana Englaro è l’ennesimo “penultimo atto” di una vicenda che ha dell’incredibile
Come ha scritto il padre di Eluana, Beppino, nella prefazione al bel libro di Maurizio Mori, Il caso Eluana Englaro, si stenta a credere che l’Italia sia ancora uno Stato di diritto. Del resto i ripetuti conflitti di attribuzione che hanno scandito gli ultimi anni della vita nazionale, oltre che i vari “lodo ad personam”, manifestano l’usura profonda delle istituzioni in un paese neo-medievale a sovranità limitata.
Bene dunque ha fatto Maurizio Mori, docente di Bioetica all’Università di Torino e presidente della Onlus “Consulta di bioetica”, nonché fondatore della illuminata rivista “Bioetica”, a scrivere un libro, spostando la questione di Eluana dalla propaganda mediatica al tema etico-filosofico che vede contrapposti due paradigmi, quello “ippocratico”, relativo alla sacertà della vita e quello bioetico, che distingue tra vita biologica e vita biografica (con buona pace dei ferventi teodem).
Per troncare la questione in realtà basterebbero le parole di Hannah Arendt, che già negli anni Sessanta dello scorso secolo aveva indicato nella narrazione personale della vita il vero indice della sua intangibilità; ma, trattandosi stavolta di un fatto epocale che dà conto del mutamento di paradigma della modernità, la letteratura filosofico-morale, giuridica e bioetica ha aggiornato le coordinate del dibattito.
All’inizio del libro Mori traccia una storia del caso Englaro, dalla prima diagnosi di stato vegetativo permanente (SVP), 17 anni fa, alle due sentenze della Cassazione e della Corte d’Appello che danno ragione al padre Beppino (ed è di qualche giorno fa la sentenza del TAR lombardo che respinge il ricorso presentato dalla regione di Formigoni contro la sentenza della Corte d’Appello).
Egli infatti ha voluto che quello di Eluana, come quello di Terry Schiavo nel 2005 e di Piergiorgio Welby nel 2006 (Gianna Milano, Mario Riccio, Storia di una morte opportuna, 2008), fossero casi pubblici. Pur essendo casi diversi infatti, il dato che li accomuna è l’aver sollevato il tema della libertà di decidere intorno alla propria esistenza.
La rimozione del sondino a Eluana, a differenza che in altri paesi in cui vige una normativa, fin dalla prima sentenza della Cassazione è stata attaccata con una potenza micidiale da Vaticano, stampa cattolica (“Osservatore Romano”, “Avvenire”), affiliata (“Il messaggero”) e di destra (“Il Foglio”), da vari comitati “pro-life” e opinionisti proni ai voleri dell’altare. Il dispiegamento di forze, francamente sproporzionato, messo in campo contro la libertà di scelta, ben rappresenta il grado di inciviltà di un paese in cui l’intangibilità della vita è agitata solo nei casi che mettono in crisi il potere della chiesa cattolica romana e annessa politica.
Una delle questioni che il caso Englaro solleva, a margine dell’ “infernale” vicenda, è quello della discriminazione delle vite: non risulta, infatti, che media, curia e politica strepitino nel caso di vite perse in mare, rinchiuse nei CPT, baracche o campi nomadi, o sul lavoro, per la crescente marginalità sociale, o le azioni punitive fomentate da raggruppamenti politici razzisti e xenofobi che dovrebbero essere fuori legge.
I diritti civili, quelli fondamentali dei singoli, la libertà di coscienza, azione, cura e opinione, soffrono infatti di una mancanza che, come Mori rileva, è più estesa di una legge sul testamento biologico o di norme sulla “fine vita” che non ci sono, e ha a che fare con gli arcaismi e il senso comune del belpaese.
La contrapposizione “forte” che il caso Englaro enuncia è tra il paradigma ippocratico che considera la vita “satura d’essere” e per ciò buona in sé e quello post-moderno della bioetica che, a partire dalle acquisizioni della scienza medica, indica nello stato vegetativo permanente il limite d’intervento sulla fine della vita.
Ma la riflessione di Mori è urgente anche sul versante della ridefinizione della laicità, perché se le campagne religiose sono così pressanti da riuscire a bloccare sentenze delle Corti, significa che i confini rispettivi di società e religione non esistono più e l’appello alla laicità, a Porta Pia ai patti lateranensi e al Concordato è inadeguato per combattere contro armi pesanti.
Il caso di Eluana, come indica la sua storia esasperante, è stato da subito portato, dalle gerarchie ecclesiastiche e dalla politica genuflessa, sul piano dello scontro, dell’impossibilità di mediazione, come un articolo di tal F. D’Agostino su “Avvenire”, ben testimonia: “Perché è difficile per me discutere col signor Englaro” (1 ottobre 2008); ma basta scorrere i titoli dei giornali “dedicati”, che Mori trascrive nelle note al testo, per rendersi conto della posta in gioco.
A caso: “L’abile colpo di mano di un gruppetto di pressione” (il neurologo di Eluana, Carlo Defanti e il giudice Santosuosso); “Questa è eutanasia, sentenza impugnabile”; “In difesa della vita morente”; “I pazienti come Eluana sono coscienti”, e via strombazzando tra ignoranza e gusto splatter…
Al fondo delle giaculatorie, pressioni, minacce e interventi di ogni tipo c’è la questione biopolitica che afferra le società post-moderne nel suo profilo irreversibile: il potere sulla vita non è più delegato alle istituzioni, ma è diventato sovranità individuale, grazie a scienza, medicina, tecnologie e saperi diffusi. È su questa soglia che separa la modernità dal presente che chiesa e politica stanno giocando le loro (ultime) carte, con la consapevolezza che comunque ricerca e sapere collettivo non si possono bloccare, vanno avanti a prescindere da articoli di fede e dogmi personali.
Il caso Englaro, come quello di Terry Schiavo e Welby, enuncia il paradigma bioetico che Mori sintetizza così:
La moralità è un’istituzione sociale, non naturale (pag. 102).
La differenza tra vita biologica e biografica fa emergere un concetto di welfare che coincide con benessere e autorealizzazione, non con la semplice giustizia distributiva.
Il finalismo della natura è irrilevante nell’apprezzamento della “vita buona”.
La perdita di religiosità degli atti medici riconfigura il rapporto medico-paziente (pag. 103)
In tal caso la differenza tra etica e morale insiste sulla vita pubblica. La convenzione sociale sulla sacertà della vita, ne individua la fine in un momento definito, mentre il fondamento etico desunto dalla scienza considera la vita un processo, come la morte, che non può dunque esser ridotta ad un unico istante.
L’autonomia individuale consiste nel potere di decisione sulla vita e la morte, non contro la sua inviolabilità ma per riaffermarla contro ogni interferenza “esterna”. Infatti: «La sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano…, esprime, invece, in origine proprio la soggezione della vita a un potere di morte, la sua irreparabile esposizione nella relazione di abbandono», scriveva Giorgio Agamben qualche anno fa (Agamben, Homo Sacer, Einaudi, 1995).
La vita buona è intrinseca alla biografia, alla capacità e possibilità individuale di autonormazione, garantita da condizioni che sono cogenti sul piano giuridico: «Senza la capacità di sentire, la vita è simile alla materia inorganica: non ha valore intrinseco. L’assenza di sensibilità comporta cessazione della possibilità stessa di valore» (pag. 146).
Tutto ciò dipende dal rapporto tra scienza, ricerca e società, come Mori sottolinea più volte nell’indicare le convenzioni provenienti dalla ricerca biomedica sulla “fine vita” (lo SVP, proposto da Jennett e Plum negli scorsi anni Settanta).
Quindi sul versante dell’intangibilità, a differenza della arbitraria identità premoderna tra mistero e sacertà della vita (che tra l’altro, sempre secondo Agamben, ridisloca l’ambiguità di insacrificabilità e uccidibilità dell’ homo sacer), l’evento biopolitico rovescia l’uccidibilità nella sua intangibilità, che il mistero garantisce.
Se ciò è vero, è sul piano normativo che la “fine vita” deve trovare soluzione; in particolare con leggi ispirate dai principi del consenso informato e del testamento biologico. È per questo motivo che Beppino Englaro rivendica la volontà di Eluana “purosangue della libertà”, che non avrebbe mai accettato di vivere nello stato di «non vita in cui si trova» (pag. 183). Assume qui valore uno dei più alti cenni di autodecisione, la «dichiarazione anticipata di volontà data oralmente» (pag. 184), in cui si declina il testamento biologico.
Esso è fondamentale in due sensi: come strumento etico di autonomia (e dunque immediatamente pubblico) e come fatto giuridico «in cui si designano situazioni e un fiduciario che sostituisce l’interessato» (pag. 184).
Nella misura in cui la scienza e la ricerca biomedica salvaguardano la zoè a partire dal bios (e non il contrario, come dimostrano le crociate armate contro la laicità), il mistero della vita viene accolto integralmente dalle Corti, soprattutto nell’evidenza che la vita non appartiene a nessuno, tantomeno ad un potere.
L’articolazione del concetto di vita come esistenza qualitativamente buona assegna anche al medico una posizione diversa rispetto a quella finora avuta in Occidente. Da figura sacerdotale, tramite del potere di vita e di morte del sovrano medievale a figura della relazione, della condivisione; il suo ruolo è di «coordinatore delle svariate attività sanitarie - …perché le conoscenze e le apparecchiature tecniche tolgono la primordiale aura di sacralità che circonda la malattia e il rapporto medico-paziente» (pag. 194).
In questa soglia della post-modernità le conseguenze del consenso informato e del testamento biologico sono palesi e irreversibili: a partire dall’art. 32 della Costituzione sulla volontarietà delle cure, il privilegio terapeutico del medico e l’accanimento terapeutico sono risignificati nella concretezza della salvaguardia del bios; riguardano infatti la prevalente concezione della vita come “bene privato”, alla stregua delle sue articolazioni socialmente rilevanti: lavoro, abilità, affetti, afferrati nelle dinamiche biopolitiche di valorizzazione capitalista.
Lo snodo bioetico del testamento biologico è la fuoriuscita del bios dalla diade pubblico-privato (pag. 190 e sgg.) e il suo profilarsi come bene comune, bene del “comune”, attraversato dal mutualismo e dalla cooperatività.
In senso lato, dunque, il caso Englaro racconta un episodio del conflitto per la riappropriazione dei beni comuni, su cui né Vaticano, né liberisti, né laici devoti transigono. Nella filigrana del testo si può infatti ricostruire il combinato-disposto di arroganza e ignoranza che ha marcato le recenti vicende bioetiche: dai tentativi di revisione della legge sull’aborto, alla legge 40 sulla fecondazione assistita, ai pronunciamenti papalini su profilattico, matrimonio gay, divorziati e diritti umani, a cui giustamente si sottraggono i migliori filosofi cristiani (De Monticelli), le comunità di base e le chiese protestanti, oltre che la maggioranza dei cattolici italiani.
Solo dunque assumendo il paradigma biopolitico è possibile costruire una laicità all’altezza dei tempi. In essa l’assolutismo della sacertà della vita è destituito dal fatto del mistero biografico della singolarità; l’ippocratismo religioso è sostituito dalla condivisione della libertà di ogni vita, cioè l’impronunciabile dignità dell’esistenza; la barbara retorica sui diritti di “fine vita” come omicidi, eutanasia e suicidio assistito cessa per lasciare il posto al rispetto per “una vita” e al silenzio sulle scelte individuali; infine, come Mori evidenzia nella documentata prima parte del libro, la ricostruzione di una laicità fondata sull’autonomia singolare e l’appropriazione del comune porrà anche fine all’arcaica lamentazione sulla “tecnoscienza e la fine dell’umanità” (pag. 115 e sgg.).
Il paradigma bioetico, lungi dal distruggere la moralità, la rifonda, sottraendola sia al liberismo biogenico che alla traduzione “habermasiana” delle rispettive ragioni di laici e cattolici (Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, 2006). Ne sigla invece la soglia di separazione, quella tra bene comune e coscienza privata, che devono rimanere separate e determina così la scomparsa delle intromissioni pseudoreligiose nella società, sia quelle per via parlamentare che governativa. In questo modo, insieme con Eluana e Beppino, potremo dire “ce l’abbiamo fatta”!

Indice

Prefazione di Beppino Englaro
Introduzione
Il caso Eluana: i fatti e i problemi
PARTE PRIMA
GLI OPPOSTI PARADIGMI MORALI
Perché un contrasto così duro sul caso Eluana? Lo scontro tra paradigmi
Il paradigma ippocratico
Realismo ingenuo, paradigmi e versioni di relativismo
Il nuovo paradigma “bioetico”
Moralità, tabù e sopravvivenze culturali: laici e cattolici; la tecnoscienza e la fine dell’umanità
PARTE SECONDA
LO SFALDAMENTO DEL PARADIGMA IPPOCRATICO
Analisi degli argomenti pro e contro
La fine della “vita come mistero” e il problema del “vegetativo”
Le reazioni dell’ippocratico al problema del “vegetativo”
Le nuove conoscenze e l’irreversibilità dello stato vegetativo: il problema del “permanente”
La rivoluzione del “consenso informato”, le dichiarazioni anticipate e il “testamento biologico”
Il problema della sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiali
Le diverse opzioni morali circa lo stato vegetativo permanente
Considerazioni brevi sul futuro


L'autore

Maurizio Mori è Professore di Bioetica all’Università di Torino e presidente della Consulta di bioetica Onlus. Ha fondato e dirige “Bioetica. Rivista interdisciplinare”. E’ autore tra l’altro di Aborto e morale. Capire un nuovo diritto (Einaudi, 2008).

Links

UARR ultimissime su Eluana:
http://www.uaar.it/news/2009/01/23/per-eluana-forse-una-clinica/
La petizione per Eluana:
http://www.unita.it/news/80450/eluana_anche_nostra_figlia
Consulta di bioetica:
http://www.consultadibioetica.org/
Giovanni Fornero, Bioetica e laicità:
http://www.giovannifornero.net/
Bioetica:
http://bioetiche.blogspot.com/
Bioethics resources:
http://wbais.org/~aislibrary/New_Library_Page/hsBIOETHICS_RESOURCES.htm

domenica 25 gennaio 2009

Faralli Carla, Zullo Silvia (a cura di), Questioni di fine vita-Riflessioni bioetiche al femminile,

Bononia University Press, Collana Biblioteca, Bologna 2008, pp. 238, € 25,00, ISBN 978-88-7395-357-9.

Recensione di Silvia Salardi, 25 gennaio 2009

Cure di fine vita, prospettiva femminista, eutanasia, suicidio medicalmente assistito

‘Questioni di fine vita-Riflessioni bioetiche al femminile’ è il volume pubblicato a cura di Carla Faralli e Silvia Zullo. Come si evince dal titolo, il libro si occupa delle questioni etiche che toccano il tema delle scelte di fine vita, ponendo l’accento in particolare sulle decisioni relative alle cure in caso di incapacità, sulle cure di fine vita e sull’eutanasia.
Si tratta di questioni al centro di un acceso dibattito cui il testo in questione vuole contribuire, considerando queste tematiche con un ‘occhio femminile’.
Il volume raccoglie, infatti, otto contributi di autrici americane e australiane di ispirazione femminista. Il volume è diviso in due sezioni: la prima, dedicata al rapporto tra società, diritto ed eutanasia; la seconda, incentrata sull’applicazione della prospettiva di genere alla bioetica di fine vita.
Questa interessante raccolta offre, per un verso, l’opportunità di affrontare tematiche rilevanti in uno scenario qual è quello odierno nel quale vita e morte sembrano scontrarsi in un duello dalla durata spesso indefinita, proprio grazie agli, o a causa degli, enormi progressi compiuti dalla scienza medica che hanno favorito il prolungamento della fase finale della vita, creando stati di ‘non morte’ finora sconosciuti (Bender). Per altro verso, il testo rappresenta l’occasione per riflettere sulle tematiche di fine vita portando l’attenzione sull’analisi contestuale. Più chiaramente, l’indagine si rivolge, con uno specifico riferimento, al contesto in cui avvengono le scelte sulle cure di fine vita. Tale analisi, inoltre, mette in evidenza il ruolo giocato dal genere nella pluralità degli ambiti e ai diversi livelli di discorso che caratterizzano tale delicato tema: sul piano dell’ analisi teorica, infatti, la contestualizzazione delle scelte serve a superare l’astrazione e la generalizzazione dei discorsi intorno ai temi oggetto di analisi, in quanto il paziente ‘astratto’ assume, così, sembianze concrete, sia per ciò che attiene al rilievo dato alle sue esigenze personali, sia per quello che riguarda i familiari coinvolti nelle decisioni; sul piano delle scelte, il riferimento al contesto, e in particolare al ruolo giocato dal genere, evidenzia sia le differenze tra uomini e donne, là dove ce ne sono, nelle richieste di morte, sia il diverso approccio degli operatori sanitari e dei familiari di fronte alle decisioni prese da uomini o da donne nonché le motivazioni di tale differenziazione; sul piano decisionale, con riguardo agli interventi giurisprudenziali in materia, l’analisi contestuale mette in luce, secondo alcune autrici, il ruolo che il genere gioca nel ragionamento delle Corti americane.
Proprio il ricorso all’argomento della differenza di genere rappresenta un motivo di riflessione e approfondimento per il lettore, in merito al quale qui si vuole offrire qualche spunto.
Dopo il saggio di Kuhse che introduce alle tematiche di fine vita, mettendo in evidenza le differenze che sussistono a livello di definizione semantica tra le diverse accezioni di eutanasia (attiva-passiva), e per ciò che concerne le diverse modalità di attuazione della stessa (mezzi ordinari-mezzi straordinari) e che permette di demarcare sia le diverse posizioni etiche coinvolte nel dibattito, ma anche le linee di orientamento per un’efficace politica pubblica, il volume entra nel vivo della prospettiva femminista rispetto alle questioni di fine vita.
Di fronte al fenomeno del suicidio medicalmente assistito, definito come fenomeno di sviluppo discrepante (Battin), poiché si colloca tra due alternative entrambe frutto dei progressi della scienza medica, vale a dire la capacità di prolungare la vita e la capacità di controllare il dolore, ci si chiede quale ruolo giochi il genere quando si deve scegliere come affrontare la morte. Sussistono differenze nella capacità di autodeterminarsi degli uomini e delle donne? In particolare, le donne sono in grado di prendere decisioni in una prospettiva sub specie aeternitatis o sono così ‘plasmate’ da intuizioni, pressione sociale e emozioni da poter decidere solo in medias res?
Sussiste il rischio che, nei casi estremi di mancanza di una volontà preventivamente espressa, ad esempio mediante direttive anticipate, le opinioni e le decisioni delle donne vengano sminuite rispetto a quelle degli uomini, in quanto valutate secondo pregiudizi ancora diffusi, quali l’idea che le decisioni delle donne sarebbero mosse da irrazionalità, da emotività e da immaturità?
Lo studio di 22 decisioni delle corti di 14 Stati americani (Miles/August) dimostrerebbe una tendenza all’impiego di argomentazioni fondate proprio su tali motivazioni.
A ben vedere, gli argomenti messi in campo per giustificare l’espropriazione della decisionalità non valgono solo per le donne, poiché essi si fondano su quella concezione paternalistica del rapporto medico-paziente, che si sperava ormai essere solo un vago spettro del passato. Sulla base di tale concezione solo il medico è il centro decisionale in materia di cure e, di conseguenza, la volontà del paziente, sia esso uomo o donna, non ha molta, se non addirittura nessuna rilevanza, soprattutto perché tale volontà sarebbe inficiata dall’inautenticità. Secondo questa prospettiva, il paziente, soprattutto se malato terminale, è incapace di decisioni razionali e la sua capacità decisionale è sempre disturbata da una forte emotività e immaturità, pertanto la sua volontà è inautentica. Si tratta, come si può ben notare, esattamente delle stesse obiezioni, denunciate da alcune delle autrici del volume, che vengono mosse per estromettere le donne dalle decisioni sulle cure di fine vita.
Come smontare le posizioni che si fondano sulla concezione paternalistica e sull’inautenticità della volontà eutanasica al di là delle considerazioni fondate sul genere?
Questi argomenti, che in realtà sono stati e a volte sono ancora, il cavallo di battaglia di chi tenta di giustificare l’esautorazione del potere decisionale del paziente, possono essere ridimensionati, se non addirittura messi a tacere definitivamente, non tanto attraverso la negazione che ci siano differenze fattuali tra i pazienti, tra le quali può rientrare la differenza di genere, quanto attraverso la considerazione che i pazienti, prima ancora di essere uomini o donne, e prima ancora di essere pazienti, sono persone. Naturalmente bisogna intendersi sul significato da attribuire a tale concetto, molto dibattuto e che, senza le opportune ridefinizioni, può dar vita a diatribe apparentemente irrisolvibili. Il concetto di persona, non sta qui ad indicare un connotato essenziale, ontologico che caratterizzerebbe l’essere umano in quanto tale, come nell’orientamento del personalismo ontologico. Persona indica, invece, un trattamento normativo di comportamenti umani. Quindi, quando si parla di un individuo, uomo o donna, come di una persona, si esprime una valutazione. Tale valutazione è fondata sulla qualificazione morale o giuridica dei comportamenti posti in essere, dal fatto cioè che certe norme, morali o giuridiche, attribuiscono a certe condotte umane un determinato significato morale o giuridico.
L’impiego del concetto di persona, così inteso, permette sia di scardinare le posizioni oltranziste, ancora fondate su concezioni che non tengono conto del ruolo che, ormai, il principio di autonomia/autodeterminazione gioca nelle scelte degli individui, sia di superare le obiezioni fondate sul genere. Proprio l’insistenza sul principio di autonomia, anche e soprattutto da parte di norme giuridiche, si pensi nel contesto italiano all’articolo 32 della Costituzione, apre le porte ad una valutazione di maggiore respiro della posizione del paziente, uomo o donna, nei confronti delle scelte che riguardano la propria vita, anche nella sua fase finale e quindi al diritto di restare il centro di imputazione di tali scelte.
In altre parole, il concetto di persona si può considerare, oggigiorno, qualificato, in ambito morale nonché giuridico, dal principio di autonomia. Pertanto, in base a tale qualificazione, le persone, non discriminabili in base al genere, hanno il diritto di non vedersi sottratto il potere decisionale.
L’approccio femminista alle tematiche di fine vita, quindi, a questioni che non toccano esclusivamente la sfera femminile, può, in effetti, da una parte, rappresentare un momento di riflessione in merito alle peculiarità dei soggetti coinvolti nelle scelte, vale a dire le donne. Tuttavia, l’accostamento femminista a questi temi può nascondere un potenziale rischio. L’enfatizzazione e la generalizzazione delle caratteristiche femminili, che determinerebbero la maggiore vulnerabilità delle donne nel decidere a favore del suicidio medicalmente assistito o addirittura dell’atto eutanasico, ad esempio la maggiore sensibilità e il senso di responsabilità che le donne manifesterebbero nei confronti della propria famiglia, rischiano di far apparire la donna come un soggetto non del tutto libero e dunque capace di scegliere per il proprio bene, in quanto condizionata nella scelta dal desiderio di non volere pesare a lungo sui propri cari. In altre parole, sarebbero proprio queste sue peculiari caratteristiche femminili a limitarne la libera scelta.
Senza nulla togliere alla rilevanza che un’analisi contestuale può avere nella diminuzione dei rischi di discriminazione di certi soggetti, vi è, tuttavia, da chiedersi se la differenza di genere sia un dettaglio non solo sufficiente, ma addirittura necessario per evitare tali discriminazioni o se la sua presa in considerazione non rischi di produrre risultati opposti a quelli sperati.
Un altro aspetto critico o, per lo meno degno di considerazione, è rappresentato dai dati empirici di base dai quali diverse autrici del libro prendono spunto per asserire il ruolo giocato dalla differenza di genere nelle decisioni di fine vita.
È possibile osservare come questi stessi dati empirici di partenza, spesso difficili da reperire e connotati da una forte ambiguità, come ammette Raymond, possono condurre, come di fatto accade per le posizioni di Wolf e Raymond, a conclusioni divergenti circa la necessità di rifiutare o meno il suicidio medicalmente assistito da parte delle femministe.
Si pone, pertanto, la domanda circa il ruolo che il genere può effettivamente giocare in uno scenario dove gli stessi dati empirici, che dovrebbero rappresentare un punto indiscusso per le ulteriori valutazioni, sono, invece, suscettibili di un’interpretazione tanto ampia da condurre a soluzioni diametralmente opposte.
Il volume fornisce interessanti spunti per approfondire tematiche di grande rilievo alla luce di un angolo visuale ‘di parte’. La prospettiva femminista, qui presa in considerazione, apporta un arricchimento al dibattito bioetico generale, soprattutto, quando abbandona i toni enfatici e populisti di frange estreme, come accade in alcuni passaggi del saggio di Wolf, per riprendere una strada più moderata (Raymond, Parks) che porta ad una valutazione critica di tutti, o per lo meno di molti degli aspetti legati alla contestualizzazione delle decisioni delle donne sulle questioni di fine vita.

Indice

Presentazione 
Carla Faralli 

Introduzione 
Silvia Zullo 

Parte Prima 
EUTANASIA, DIRITTO E SOCIETA’ 

Eutanasia 
Helga Kuhse 

Sicuro, legale, raro? Suicidio medicalmente assistito e cambiamento culturale nel futuro. 
Una prospettiva femminista 
Margaret P. Battin 

Limitare le risorse sanitarie in base all’età e il “dovere di morire”: una valutazione 
Christine Overall 

Le Corti, il genere e il “diritto di morire” 
Steven H. Miles, Alison August 

Parte seconda 
BIOETICA DI FINE VITA E DIFFERENZA DI GENERE 

Un’analisi femminista della morte medicalmente assistita e dell’eutanasia volontaria 
Leslie Bender 


Genere, femminismo e morte: il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia 
Susan M. Wolf 

“Pratiche fatali”: un’analisi femminista del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia 
Diane Raymond 

Perché il genere è importante nel dibattito sull’eutanasia. Sulla capacità decisionale delle donne e il rifiuto delle loro richieste di morte 
Jennifer Parks


Gli autori

Carla Faralli, è Professore ordinario di Filosofia del Diritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Dal 2001 è Coordinatore del Dottorato in Diritto e Nuove Tecnologie-Indirizzo Bioetica. Si è occupata di storia del pensiero filosofico giuridico (ha curato, fra l’altro, l’edizione aggiornata dei tre volumi di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto e ha pubblicato La filosofia del diritto contemporanea. I temi e le sfide).
Silvia Zullo, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Bioetica presso l’Università di Bologna e collabora con la cattedra di Filosofia del Diritto. Ha pubblicato diversi articoli in materia di bioetica di fine vita e il volume, L’aiuto a morire. Eutanasia e diritto nell’orizzonte della filosofia di Emmanuel Lévinas (Clueb, 2006).

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Rivista di Filosofia del diritto internazionale e della politica globale

mercoledì 7 gennaio 2009

Medaglia, Rony, (a cura di), I confini della sfera pubblica (Orizzonti ed emergenze).

Napoli, Liguori editore, 2008, pp. 167  € 14,50, ISBN 978-88-207-4382-6.

Recensione di Enrico Biale, 07/01/2009

Sfera pubblica, pubblico/privato, nuove tecnologie, Filosofia politica, Sociologia

Il testo curato da Medaglia tenta di “chiarire come ripensare la sfera pubblica nel momento in cui l'affermazione di un nuovo paradigma di interazione introdotto dalle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione ne mette radicalmente in discussione gli assunti centrali” (p. 4). Come giustamente messo in luce dallo stesso curatore nel suo intervento, una simile analisi parte da due presupposti fondamentali: 1) la necessità, proprio per l'importanza che un tale elemento ricopre all'interno della cultura democratica, di non dare per scontato il concetto di sfera pubblica; 2) l'attenzione che, anche da una prospettiva filosofica, si dovrebbe prestare nei confronti di un fenomeno sociale complesso come quello delle nuove forme di comunicazione legate allo sviluppo del Web.
Da un lato, infatti, sembrerebbe che la proliferazione di spazi virtuali all'interno dei quali le persone discutono senza lasciare la propria casa, rappresenti la massima realizzazione di quello scioglimento della sfera pubblica, e della libertà ad essa connessa, in una sfera sociale che Hannah Arendt considerava preludio ad una qualche forma di amministrazione totale. D'altro canto però, almeno questa è la tesi di molti degli articoli presenti nel volume, queste arene virtuali, concedendo spazi a istanze altrimenti marginali, rappresentano proprio uno degli ultimi baluardi contro una simile forma di controllo.
Secondo Tursi, per esempio, “l’innovazione rappresentata dal ciberspazio non è quella di trasformarci tutti in alfabeti [ma] quella di includere quelli che precedentemente erano definiti come analfabeti, non esperti, barbari. La sfera pubblica si allarga […] perché cambia il principio qualitativo di inclusione e ciò grazie ad una piattaforma espressiva che offre una base comune per il superamento della stessa dicotomia inclusi/esclusi” (p. 28). L’idea che internet possa dare voce a chi normalmente è ai margini del dibattito pubblico viene ripresa più volte nel volume e sistematizzata da Scatizza il quale sostiene come ciò sia, almeno parzialmente, dovuto alla capacità da parte del Web di superare la tradizionale dicotomia locale/globale collocandosi in una dimensione ibrida, quella del glocale. Grazie al medium dei nuovi mezzi di comunicazione, infatti, temi di portata globale vengono reinterpretati a livello locale, come è avvenuto per esempio con le mobilitazioni organizzate contro la guerra in Iraq in ogni parte del mondo. D’altra parte, discussioni molto radicate nel territorio assumono una portata più ampia, come nel caso delle rivolte nelle banlieues che, secondo Susca, si sono trasformate, a torto o a ragione, in ‘no’ indirizzati non tanto al governo francese quanto al sistema democratico occidentale.
Internet quindi, come sottolinea Profumi nel suo articolo, realizzerebbe le idee di chi come Capitini e Castoriadis ha sempre immaginato la sfera pubblica democratica come uno spazio aperto, non strutturato gerarchicamente e fondato sulla partecipazione attiva di ogni cittadino. Una struttura sociale costruita dal basso fondata su tre elementi: “1) l’educazione al potere (il potere di tutti e la paideia democratica); 2) la libera eguaglianza (il movimento di costruzione di collettività libere sorrette dal principio dell’eguaglianza politica radicale); 3) il potere di essere altro (il potere democratico come possibilità di sapere, di giudicare […]” (p. 78).
Una simile sfera pubblica, chiarisce giustamente Rosito, è essenziale affinché gli individui, soprattutto quelli più deboli, abbiano gli strumenti per criticare la società che tende ad imporre dei valori unici, spesso stigmatizzanti proprio nei confronti di chi non può far sentire la propria voce.
Per evitare un’accusa di irragionevole ottimismo, credo sia giusto sottolineare come in più di un intervento si evidenzi la possibilità che la stessa ‘rete’ rappresenti un elemento di forte chiusura, se non addirittura di dominio. A tale proposito mi sembra opportuno ricordare il contributo di Ilardi che, dopo aver analizzato come l’idea della frontiera (uno dei temi centrali della cultura sociale e politica americana) si contrapponga ad un sfera pubblica aperta e abbia permesso agli Stati Uniti di non sviluppare un forte stato sociale, mette in luce come internet possa rappresentare una nuova frontiera essendo utilizzato per creare spazi privati in cui individui con le stesse idee si rifugiano per evitare il confronto con gli altri (una sorta di autoghettizzazione dorata).
Lo stesso Medaglia poi non dimentica di sottolineare come la rete, interpretata come un semplice mezzo per fornire servizi e non come uno spazio per affermare una più ampia condivisione di idee, possa diventare un efficace strumento per realizzare quella forma di amministrazione totale che Arendt considerava la vera cifra della società contemporanea.
Facendo leva proprio sull’alto livello di chiusura che i nuovi mezzi di comunicazione possono generare, gli autori auspicano più volte un ritorno della politica e del suo primato, affermando come ciò sia necessario affinché le nuove tecnologie realizzino davvero quel modello di sfera pubblica aperta e democratica e non siano invece regolate unicamente secondo i valori di mercato.
Proprio quest’ultimo aspetto è, a mio avviso, centrale all’interno del volume, ma ne indica allo stesso tempo alcuni limiti, dal momento che, come messo in luce dall’articolo di Castrucci, questa richiesta di una politica nuova e capace di raccogliere le sfide lanciate dalla ‘rete’ sembra destinata a non trovare una risposta a causa dei limiti strutturali della ‘classe creativa’ che di tale sistema è il motore; un gruppo troppo individualista e incapace, almeno per ora, di organizzarsi e di percepirsi come una classe con simili esigenze e valori.
Sembra quindi, o almeno questa è l’impressione che si trae dalla lettura di molti degli articoli che compongono questo interessante volume, che i nuovi mezzi di comunicazione che si sono sviluppati intorno alla rete abbiano messo in luce i limiti delle tradizionali concezioni della sfera pubblica ma ancora non siano in grado di formarne una nuova, complessa ed eterogenea. A conferma di ciò credo si possa fare riferimento proprio alle manifestazioni antimilitariste organizzate in seguito alla dichiarazione da parte degli USA dell’invasione dell’Iraq. Simili proteste non solo non hanno avuto un grande impatto sulla politica reale, ma soprattutto non sono servite a creare un gruppo coeso che condividesse valori comuni e fosse in grado di proporre politiche alternative rispetto al sistema sociale dominante. A una grande mobilitazione, comunque non così significativa soprattutto se messa in relazione al numero di chi ha accesso ad internet, non è corrisposta la formazione di una coscienza collettiva; questo per ora credo sia il grande limite delle rete come modello di sfera pubblica.
Il testo curato da Medaglia ha il pregio di analizzare con attenzione tale fenomeno, mettendone in luce tutta la complessità e problematicità, e per questo risulta un contributo originale e interessante, anche se qualche volta sembra sottostimare i limiti del Web come spazio di discussione pubblica, preferendone sottolineare la portata critica e le potenzialità come modello di sfera pubblica aperta e democratica.

Indice

Orizzonti
Tra linguaggi e corpi: una sfera pubblica nell’epoca delle reti?
di Rony Medaglia
La parola e la mano. I new media per una politica inclusiva
di Antonio Tursi
Soggettività e individuo nello spazio pubblico
di Vincenzo Rosito
Collettività e prassi democratica
di Emanuele Profumi
Emergenze
La frontiera americana contro la sfera pubblica
di Emiliano Ilardi
La pubblicità dei barbari
di Vincenzo Susca
Il paradosso della classe creativa
di Robert Castrucci
Lo spazio nella rete tra globale e locale
di Alessandro Scatizza


Il curatore

Rony Medaglia è ricercatore presso la Copenhagen Business School. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma e ha svolto attività di ricerca presso la University of Sussex. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali sui temi della sfera pubblica, del governo elettronico e dell’e-democracy.

Panattoni Riccardo, Solla Gianluca, Il corpo delle immagini. Per una filosofia del visibile e del sensibile,

Milano, Marietti, [Con-tratto. Collana tra estetica e politica], 2008, [pp. 143], [€ 20], [ISBN 9788821185489].

Recensione di Francesca Saffioti 7-01-2009

Corpo, Estetica, Fotografia, Immagine, Pittura

L’esigenza da cui muove la costruzione del testo, fin dal titolo, è quella di un’inversione rispetto ai connotati attribuiti tradizionalmente all’immagine per cui essa sembra doversi semplicemente esibire, spogliandosi di ogni riferimento materiale. Il presupposto è che l’immagine acquisisca significato solo rispetto allo sguardo, essendo dotata di una leggerezza che scorre parallelamente alla mobilità della vista: «Solo quel movimento la vivifica, liberandola dal destino di essere cosa» (pp. 9-10). La “cosa” di cui liberarsi è il corpo, la materia stessa da cui è costituita l’immagine, il supporto su cui grava il peso e l’opacità della sua messa in opera. Eppure quest’ultimo aspetto non viene definitivamente cancellato, piuttosto rimane sotto forma di un “resto” rispetto a cui la percezione non appare un continuum, piuttosto sperimenta un’interruzione. fra lo sguardo e l’immagine, fra l’immagine e il corpo dell’immagine, fra l’immagine e la cosa. Questo scarto non è una condizione contingente, ma riguarda specificamente il meccanismo stesso della visione. L’occhio si esercita, a partire dal suo stesso battito, come da un punto di oscuramento. Come il battito del cuore, anche nel caso dell’occhio si tratta di una sincope, che rende possibile la vista. L’interruzione non esclude il contatto, ma si presenta come la sua unica forma. Si guarda e si è contemporaneamente guardati, così come si è toccati dal corpo dell’altro (il testo percorre le tesi esposte in Jacques Derrida, Toccare, Jean-Luc Nancy)
La questione dell’immagine viene esaminata dagli autori attraverso l’analisi di diversi lavori che ne mettono in questione lo statuto. Nel libro di Boltaski, Kaddish, ci si trova, ad esempio, di fronte ad una successione di volti la cui temporalità non attinge ad un passato, rinviando piuttosto ad un comune senso di sospensione. Le immagini dei volti non hanno essenzialmente una funzione comunicativa, ma restituiscono ciò che sono, un corpo, un resto, irriducibile al significato. Se il corpo “resta”, si depone, al fondo dell’immagine, in modo diverso, secondo gli autori, il depositarsi implica una forma di conservazione, rimanda alla custodia, alla riserva, al trattenere, al mettere in salvo, fino alla “capitalizzazione”. A questo punto per gli autori si apre una “riserva” (dubbio) su questo lavoro di archivio, proprio nel passaggio fra il deporsi dei corpi, che non può essere ascendente e lineare, e il loro depositarsi, secondo una sequenza ordinata e significativa. La pura perdita va distinta dalla perdita messa in riserva. La molteplicità dei volti sembra volersi capitalizzare in un’unica immagine che rappresenti la “comune” assenza in cui riflettersi. La caducità che i volti esprimono viene quasi smentita dalla loro sovrapponibilità. La perdita viene sostituita dalla ripetizione che “dice” la scomparsa, quindi la salva, non la fa più scomparire. L’assenza viene messa in riserva e comunicata attraverso il simbolo. Si tratta, secondo gli autori, di un’operazione potentemente dialettica: il corpo viene “superato” dall’immagine, l’indistinto di ogni volto viene “rilevato” dal significato che ne garantisce il riconoscimento. Il corpo dell’immagine, per il suo carattere singolare, rimane invece sempre al limite fra riconoscibilità e irriconoscibilità, fra ciò che permane e ciò che è esposto alla sua scomparsa, ad una caducità che non può essere idealizzata attraverso la ripetizione e l’esemplarità. L’impersonale di ogni volto non è l’indistinto o l’anonimato, ma ciò che fa di ogni singolarità un corpo nudo, esposto, ed insieme resistente e ritraente. Solo l’accumulo delle immagini, piuttosto che la serialità, lascerebbe il resto come tale, “inutilizzabile”, non facendolo coincidere con l’immagine, piuttosto esponendo quest’ultima alla nudità di un corpo che non può rilevare.
È proprio l’anacronismo rispetto a ciò che essa vorrebbe rappresentare, nel senso letterale di rendere presente, a rivelare che l’immagine ha un corpo che non si piega al significato. Questo carattere viene esaminato, in particolare, attraverso i lavori di Sebald. La fotografia mostra ciò che mostra e contemporaneamente esclude ciò che non mostra. Nella fotografia risulta sempre evidente questa mancanza, questo strappo, quasi che essa raffigurasse oltre che l’immagine anche l’assenza. La fotografia rappresenta ciò che è ma anche rappresenta (non potendolo rappresentare) ciò che non è e che pure ne fa parte. La sequenza degli scatti, quella che gli autori chiamano la “coazione a ripetere”, sembra volere afferrare quel possibile che rimane escluso dall’istantanea fotografica. Ancora una volta risulta evidente la discrasia fra la percezione e l’immagine. Ciò che si vede non è più ciò che si è percepito, che si è visto. La meccanica della fotografia impone che l’occhio della macchina, come del resto quello umano, veda solo attraverso l’interruzione della vista. L’otturazione dell’obiettivo segue il battito dell’occhio. La fotografia sembra dire tutto, rivelare ogni cosa, nel momento stesso in cui essa registra ciò che non è più. La cosa fotografata, in effetti, non è mai stata perché, nel momento stesso dello scatto fotografico, l’occhio non l’ha vista, non ha visto. Gli autori si riferiscono per questo ad una “paralisi” dell’occhio (p. 30) che impedisce ogni presentazione: «Da qui la fragilità della fotografia rispetto al valore di testimonianza che comunemente le si vorrebbe attribuire» (p. 31). Per questo non vi è un “proprio” della fotografia, qualcosa che essa possa afferrare in maniera esclusiva, magari la stessa realtà. Nel momento dell’incontro fra la superficie del corpo dell’occhio e quella del corpo del fuori, nel momento in cui si guardano, esse rimangono cieche una per l’altra. La fotografia è un’operazione attivo-passiva, si fa “impressionare” dalla realtà e al tempo stesso non la restituisce: «Forse la posizione della fotografia è proprio questa, di occupare il posto di qualcosa che in realtà non è mai stato» (pp. 34-35). Essa non ha fatto che registrare un accecamento, una sottrazione, in cui l’assenza viene sostituita da ciò che è rimasto impresso. La fotografia è subito un supplemento, “ciò che sta per”. Non al posto della cosa, ma al posto della sua assenza.
La fotografia, che vorrebbe rappresentare la cosa, diventa immagine, ciò che sta al posto della cosa. Anche se non vi è mai una perfetta corrispondenza fra la fotografia, come supporto, come corpo, e l’immagine disincarnata, senza resistenza e lacerazione. La fotografia non può che dire addio ad una realtà che non si è mai data e che non ha mai posseduto: «In ogni fotografia è all’opera la rovina» (p. 38). Se vi è un rimando, al tempo stesso necessario ed impossibile, al corpo dell’immagine, questo “resto” non può che apparire da sempre come già “cenere”. Il corpo stesso non è una realtà a sé presente, ma è già deposto, preso in un’inaggirabile anacronia.
L’elemento della cenere, presente nelle opere di Parmiggiani, riesce ad indicare, ad un tempo, la consistenza e l’inconsistenza del corpo dell’immagine: «La cenere manca infatti alla propria rappresentazione, così come alla scomparsa definitiva» (p. 44). Ancora una volta l’immagine rimanda a qualcosa fuori di sé. Nella distanza fra il corpo dell’opera, il corpo messo in opera, e l’immagine, si apre una spaziatura, un imene − secondo la figura presentata dagli autori − che non nasconde nulla e non svela nulla. Toccare il corpo dell’immagine, considerando che anche la vista è una forma di contatto, non può che riferirsi insieme alla prossimità e alla separazione. Non si guarda l’altro se non accecando la propria vista. Non si tocca la consistenza di un corpo, ma la sua cenere.
L’esperienza del corpo non è immediata, piuttosto si rapporta a «qualcosa che accade e che nella sua immanenza non si lascia né trattenere né davvero afferrare» (p. 50). Per questo l’immagine nasce sempre da una separazione. La fotografia non certifica l’esistenza di una realtà presente né di una memoria della presenza. Le immagini, non rimandando ad altro che a se stesse, sono in qualche modo assolutamente trasparenti, al tempo stesso proprio per questo richiedono di essere attraversate, come in un’installazione delle fotografie di Ghirri. La fotografia, come un quadro, è presa dentro una cornice, una specifica inquadratura che esclude il resto. Per questo, pur essendo realmente trasparente, pur non mostrando altro che se stessa, non avendo da riprodurre una realtà fuori di sé, essa non mostra altro che la cesura, la mancanza.
L’immagine non ha dunque un riferimento nella cosa rappresentata, piuttosto una referenza, un debito. Essa si impegna a conservare una traccia che non è mai stata presente. L’immagine si affida dunque sempre ad altro, si presenta come un richiamo (p. 73). Questo riferimento all’altro non implica la possibilità di restituirne un’immagine. Il ritratto dell’altro risulta impossibile. Non appena lo si guarda, lo si tocca, non lo si guarda più: «È per questo che Francis Bacon ha dipinto non volti, ma teste e buchi, fori, voragini, vertigini, al posto della bocca, degli occhi, delle narici» (p. 107). Ecco perché Morbin costruisce ritratti con il tessuto del sangue. Questi volti rimangono al di là di ogni possibile riconoscimento. Il riferimento al sangue indica al tempo stesso la singolarità di ogni ritratto e la rinuncia alla restituzione di un’identità. Come sottolineano gli autori, non si tratta di una logica sacrificale, in cui la rinuncia a sé lasci il posto ad un riscatto simbolico, piuttosto di una logica della ritrazione, della privazione, della dissomiglianza. La comunità del sangue, che sembra così emergere dai ritratti di Morbin, si presenta in un senso completamente invertito rispetto alla logica dell’appartenenza, e sembra costituirsi proprio a partire dalla separazione di ogni identità: «Esso è divenuto sangue comune, parte di una comunità che è tale solo nel senso di una comune separazione» (p. 102). Ecco perché attraverso questi ritratti si rende evidente come sia impossibile la conservazione di sé, essi «non sono che degli autoritratti dell’artista, dipinti non con il proprio sangue, ma esclusivamente con quello degli altri» (p. 102). Sulla scia di una comunità della separazione si colloca l’esperienza dei saharawi, popolo nomade di quel Sahara occidentale occupato dall’esercito marocchino. Nel silenzio mediatico che avvolge questa contesa, i saharawi, non trovando una rappresentazione della propria condizione, hanno realizzato un Museo della guerra conservando le fotografie che i soldati marocchini uccisi o imprigionati portavano con sé. Le immagini sono accumulate in modo tale che le si possa vedere solo toccandole, estraendole dal mucchio. Toccare il corpo dell’immagine sembra corrispondere all’atto del piegarsi su quel corpo umano a cui sono state sottratte. Attraverso questa particolare struttura si può sperimentare l’anacronia di ogni fotografia rispetto a ciò che in essa viene rappresentato: la vita prima della guerra, e l’impossibilità di conservare una memoria. L’immagine viene separata dal corpo dell’uomo che la portava, così come l’immagine è separata dalla realtà che rappresenta, così come il significato dell’immagine, che rimane inaccessibile, viene separato dal suo corpo, accumulato disordinatamente fra gli altri. La foto non restituisce la realtà della guerra, che non viene rappresentata, non restituisce l’identità dei protagonisti, di cui non si sa nulla, non restituisce l’identità del popolo marocchino, a cui è stata sottratta, non restituisce l’identità del popolo sahrawi, di cui non si occupa. Si tratta della paradossale esperienza di una comune separazione che non risarcisce nessuno della propria identità.
Il testo attraversa in profondità la relazione fra immagine e corpo senza negarne il carattere aporetico. Non si tratta infatti di restituire una presunta unità o integrità fra medium e significato, piuttosto di sperimentare quell’inaggirabile rapporto con l’altro che investe ogni immagine di sé, anche quando l’altro da sé è il proprio stesso corpo.

Indice

Come l’acqua nell’acqua. Una premessa
L’evanescenza dei corpi
Cenere delle immagini
Le parole infrante dall’arte
L’istante irreparabile dello sguardo
Referenza e nudità
Toccare − ciò che si vede
Sangue ritratto
Glosse sul volto
Il peso delle fotografie
Le immagini
Bibliografia


Gli autori

Riccardo Panattoni e Gianluca Solla insegnano Filosofia presso l’Università di Verona. I loro interessi si muovono principalmente tra estetica e politica. Fra gli scritti principali di Riccardo Panattoni: Il dono della filosofia. Martin Heidegger e l’abitare dell’uomo, Il Poligrafo, Padova 1996; Appartenenza ed eschaton. La Lettere ai romani di s. Paolo e la questione “teologico-politica”, Liguori, Napoli 2001; L’origine del conflitto. Martin Heidegger-Ernst Jünger-Carl Schmitt, Il Poligrafo, Padova 2002; Scritture. Violenza, potere, libertà, Marietti, Milano 2006. Fra gli scritti principali di Gianluca Solla: L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio, Liguori, Napoli 2003; Nomi di nomi, Marietti, Milano 2004; Marrani. Il debito segreto, Marietti, Milano 2008.

martedì 6 gennaio 2009

Ricciardi, Mario, Diritto e natura. H. L. A. Hart e la filosofia di Oxford,

Pisa, Edizioni ETS, 2008, pp. 263, ISBN 978-884672127-3, € 20,00

Recensione di Fabio Lelli, 6-1-2009

Filosofia del diritto, Filosofia analitica, Diritto naturale

1. Il tema centrale del testo di Ricciardi è il rapporto fra diritto positivo e diritto naturale che H. L. A. Hart — uno degli autori cardine della storia della filosofia del diritto nel Novecento — affronta nell’ultima parte del suo testo più famoso, Il concetto di diritto del 1961. Nella sua peculiare trattazione si può rintracciare lo sviluppo di una importante tradizione della filosofia britannica la cui disamina — ad essa è dedicata la maggior parte del volume — permette di comprendere realmente gli intenti del filosofo di Oxford. Spesso il pensiero di Hart è stato letto esclusivamente attraverso gli schemi dell’analitical jurisprudence; di conseguenza Ricciardi si propone di ripartire da capo, ricostruendo l’ambiente culturale e filosofico in cui Hart matura al di là dei comuni stereotipi.
2. All’università di Oxford fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX un autore oggi poco conosciuto, John Cook Wilson, influenza profondamente il clima intellettuale e filosofico in cui si sono formati Hart e altri celebri autori tra cu Isaiah Berlin, J. L. Austin, P.F. Strawson, H. Pritchard e G. Ryle. È proprio da Cook Wilson che deriva l’attenzione verso il linguaggio ordinario, un atteggiamento che nulla aveva a che fare con le fonti classiche (Russell, Frege e il primo Wittgenstein) della filosofia analitica comunemente intesa. La sua derivazione è semmai aristotelica e l’intento non è, come dimostra la polemica di Ayer nei confronti di questa “ortodossia” oxoniense, quello di dissolvere la confusione insita nel linguaggio naturale usando gli strumento dell’empirismo e dell’analisi logica, bensì la ricognizione accurata degli usi linguistici per comprendere meglio il modo in cui pensiamo. È facile rintracciare quest’ultima caratteristica in Hart, in Berlin e in Ryle, senza dover necessariamente ammettere un’influenza eccessiva del Wittgenstein delle Ricerche logiche, che è stato considerato affine, da questo gruppo, relativamente ad alcuni ambiti, ma non certo un “maestro”. Diverso anche l’atteggiamento nei confronti della tradizione filosofica, molto più rilevante nella scuola di Oxford, e l’interesse per l’etica, assente in Frege e nel primo Russell. Queste sono le linee fondamentali per poter comprendere lo sviluppo delle argomentazioni di Hart, anche al di là delle ricostruzioni e delle critiche usuali nella storiografia giusfilosofica.
Il senso dell’ analisi filosofica e il suo rapporto con il linguaggio naturale occupano buona parte del testo. Da Frege e Russell si sviluppa una concezione dell’analisi che prevede l’individuazione della struttura logica sottostante al linguaggio naturale e la possibilità di riformulare le espressioni ambigue. Ma la storia attraverso cui si giunge a questa prospettiva che dominerà a Cambridge è articolata, e passa attraverso il primo platonismo di G. E. Moore e la sua complessa rilettura da parte di Russell in reazione all’idealismo di Bradley e McTaggart, correnti che a loro volta influenzarono altri ambienti intellettuali inglesi. Ricciardi allarga il suo orizzonte di indagine, anche a scapito dello spazio dedicato ad Hart, ma riesce in tal modo a tracciare delle direttrici storiche in cui collocare anche Viriginia Woolf, E. M. Forster, Stephen Fry e altri ancora.
Anche quando la filosofia analitica “classica” di Russell perderà il suo ruolo egemone sia con le critiche sorte all’interno della propria tradizione, sia per l’influsso del cosiddetto “secondo Wittgenstein”, continuerà ad essere un inevitabile confronto polemico per Hart e per l’approccio descrittivo di Strawson, in particolar modo per la sua idea dell’analisi “connettiva”. Con questa espressione Strawson intendeva un’analisi del linguaggio ordinario che esplicita le presupposizioni dei nostri modi di parlare e di pensare; presupposizioni senza le quali il nostro linguaggio sarebbe diverso, ma che allo stesso tempo non sono necessarie in senso assoluto. Si tratta, in altre parole, di analizzare in che misura i nostri presupposti concettuali dipendono da alcune caratteristiche contingenti della natura umana, non da necessità logiche o metafisiche.
Negli ultimi due capitoli, Ricciardi raccoglie gli esiti della sua ricostruzione storico-critica e affronta il capolavoro di Hart, Il concetto di diritto, partendo dal depotenziamento di un luogo comune sul testo e sul suo autore, derivante principalmente dalla ricostruzione della vita di Hart compiuta dalla sua biografa Nicola Lacey. Il fatto che Hart non abbia incluso nel suo testo un chiara delineazione del suo metodo e che neppure abbia rimediato a questa presunta lacuna in seguito, non è verosimilmente dovuto alla sua ormai famigerata insicurezza, bensì alla consapevolezza che il testo sarebbe stato introdotto in una comunità filosofica nella quale tali specificazioni sarebbero state ridondanti, e avrebbero solo tolto spazio alla ricerca vera e propria.
Il modo di procedere di Hart è infatti chiaro data la sua formazione e i suoi intenti: la ricognizione degli usi nel linguaggio ordinario e l’andamento dialettico provengono dalla matrice aristotelica (e in ultima analisi dalla scuola di Cook Wilson); l’analisi non è di tipo “decompositivo” come quella di Russell, ma piuttosto “connettiva” alla maniera di Strawson, e l’obiettivo generale è sistematico e non unicamente terapeutico e “negativo” come accadrà in Wittgenstein. Tipico di Hart, e della filosofia di Oxford, è anche il pluralismo che impedisce di considerare il significato di un concetto come “diritto” risolvibile nel puro caso paradigmatico, o con l’individuazione di un univoco criterio di identificazione.
Hart è indubbiamente giuspositivista, e riconosce il fatto che nell’identificazione del diritto applicabile i membri di una comunità non si interroghino su elementi morali, ma per quanto riguarda il diritto in generale (cioè “il concetto di diritto”) non è per lui contraddittorio valutare le condizioni, o presupposti per la sua esistenza, che derivano direttamente da fatti generali riguardanti gli esseri umani e che pongono in essere il contenuto minimo del diritto naturale.
L’importanza di questo ramo della riflessione di Hart è sempre stata sottovaluta, e a torto. È sullo status di questo contenuto minimo che Hart gioca un altro punto importante: i presupposti non sono né puramente soggettivi né oggettivi (nel senso di “validi in ogni mondo possibile”), e quindi la conseguente valutazione della bontà del diritto, cioè della sua adeguatezza per la fioritura umana, non ha una fonte unicamente soggettiva (come ad esempio la morale per gli emotivisti). Per questo Hart abbandona la dicotomia descrizione-prescrizione, considerando il suo lavoro sì una descrizione, ma non necessariamente contrapposto ad una prescrizione e alla valutazione. A seconda del senso e del contesto nel quale conduciamo la nostra ricerca, mostra quindi Hart, possiamo prendere anche in considerazione il contenuto del diritto e anche una sua peculiare valutazione morale.
Ricciardi risponde anche alle critiche mosse ad Hart da Ronald Dworkin e Brian Leiter. Entrambi danno per scontato che Hart abbia operato da filosofo analitico nel senso russelliano, e quindi adoperando lo strumento dell’analisi decompositiva, sottintendendo la dicotomia fra forma e contenuto e una rigida distinzione fra verità analitiche e sintetiche. Ma da quanto mostrato nelle pagine precedenti è chiaro che si tratta di un punto di partenza falsato, che attribuisce ingiustamente ad Hart queste peculiarità del positivismo giuridico e della filosofia analitica alla maniera di Cambridge.
3. Quali i presupposti del contenuto minimo del diritto naturale? Si tratta per Hart di “cinque semplici ovvietà” riguardanti gli esseri umani, non delle generalizzazioni empiriche, e neppure delle “autoevidenze” (come le verità matematiche), ma delle assunzioni di buon senso, che hanno lo stesso statuto dei fondamenti dell’apparato concettuale in Strawson. E sono: la vulnerabilità umana, l’eguaglianza approssimativa, l’altruismo limitato, le risorse limitate, l’intelligenza e forza di volontà limitate.
Sul loro incompreso statuto si sono incentrate diverse critiche, basate su controesempi più o meno specifici ed empirici. È vero che probabilmente —scrive Ricciardi— queste “ovvietà” non possono sostenere tutto il peso che Hart voleva loro assegnare, ma è anche vero che concepirle come verità empiriche significa fraintenderle, non comprendere il loro ruolo nell’analisi connettiva. Queste ovvietà dovrebbero anche fornire, oltre ad uno strumento di valutazione graduale dell’adeguatezza di un sistema giuridico alla vita umana (comunque non determinante per l’individuazione della giuridicità), le ragioni per la cooperazione. Su questo Hart viene criticato invece dallo stesso Ricciardi, che nota ad esempio come la sopravvivenza, fine che segue dalla caratteristica della vulnerabilità, sia difficilmente sempre in gioco nel modo di porsi degli individui rispetto al diritto. L’analisi di Hart sarebbe troppo raffinata per cogliere il reale gioco delle ragioni, sarebbe cioè troppo teorica e distante dall’uso effettivo del diritto da parte dei consociati. Il volume si chiude con una riflessione su Hart e la religione, rievocando la sua polemica con Lord Devlin sulla punibilità dell’omosessualità e il rapporto con il suo allievo John Finnis, cattolico devoto.
4. Ricciardi si impegna in un dettagliato spaccato storico-critico più che in una monografia su Hart, ed è anche evidente, considerando lo spazio impiegato per sviscerare quelle premesse necessarie a costruire la sua “guida alla lettura” del capolavoro hartiano. In sintesi il volume offre la possibilità non solo di riflettere in modo innovativo su di una parte essenziale del pensiero di Hart, ma anche quella di rintracciare le coordinate storiche e filosofiche essenziali per una sua reale comprensione, riconsiderando lungo il percorso una larga fetta della filosofia analitica di lingua inglese.

Indice

Le linee dell’indagine: diritto e natura umana in hart
1. “…an absurd idea”
2. Un filosofo tra i giuristi
3. La genesi del libro di Hart
4. La storia di un’idea: Hart e il diritto naturale minimo

2. H.L.A. Hart e la “filosofia di Oxford”
1. La proposta di Hart
2. L’eredità di John Cook Wilson
3. Filosofie analitiche
4. Isaiah Berlin
5. Wittgenstein e la “filosofia di Oxford” 58
6. Dalla filosofia alla Jurisprudence?

3. Le varietà dell’analisi
1. Un’eredità aristotelica?
2. L’analisi, la sintesi e gli assiomi
3. Concezioni dell’analisi e chiarificazione
4. Moore, Russell e “il platonismo logico”
5. Hart e la “damnosa hereditas” di Platone

4. Definizione, analisi e chiarificazione
1. Bertrand Russell e l’atomismo logico
2. Decomposizione e trasformazione
3. Un paradigma di filosofia
4. Contro l’atomismo logico
5. Strawson e l’analisi connettiva
6. La verificazione e le “altre menti”
7. Hart su ascrizione e definizione

5. La chiarificazione del concetto di diritto
1. Un’ipotesi interpretativa
2. Una breve guida alla lettura
3. Diritto naturale e concetto di diritto
4. Dworkin e il “punto di vista archimedeo”
5. Leiter e l’impossibilità dell’analisi
6. Realismo giuridico e “svolta naturalistica”

6. Cinque semplici ovvietà
1. Rapporti tra diritto e morale
2. Quattro tipi di domande
3. Diritto naturale e modernità
4. Cinque semplici ovvietà
5. Lo statuto epistemologico delle ovvietà
6. Un argomento trascendentale?
7. Alcune obiezioni
8. Diritto, natura e religione


L'autore

Mario Ricciardi è ricercatore di Filosofia del Diritto presso l’Università Statale di Milano, e insegna Teoria Generale del Diritto presso l’Università C. Cattaneo di Castellanza. Ha curato diversi volumi ed è anche autore di Status. Genealogia di un concetto giuridico, Milano, Giuffré, 2008.

Marchetti, Giancarlo, Verità e Valori. Tra Pragmatismo e Filosofia Analitica.

Mimesis, 2008, p. 119, 14 €, ISBN 978-88-8483-753-0.

Recensione di: Sarin Marchetti – 06/01/2009

Epistemologia, filosofia analitica, pragmatismo

Nell’affollato palcoscenico della filosofia analitica si stagliano sopra le altre le figure di tre pensatori contemporanei che hanno contribuito in larga parte a definirne, e poi a rovesciarne, il canone: Donald Davidson, Hilary Putnam e Richard Rorty. Se l’importanza di questi tre pensatori nella definizione dell’agenda filosofica della seconda metà dello scorso secolo è oramai parte dei manuali di storia della filosofia analitica, tuttavia solo recentemente questi tre filosofi sono stati oggetto si interesse in quanto filosofi pragmatisti; tutti americani, e tutti allievi di alcuni tra i più influenti filosofi analitici quali W. O. Quine, Rudolf Carnap, Hans Reichenbach e Nelson Goodman, questi tre pensatori hanno tuttavia raccolto in modo proficuo ed originale gli insegnamenti dei pragmatisti classici. Questo significa per lo meno due cose; che pragmatismo e filosofia analitica sono se non altro frères ennemis, e che per una piena comprensione dell’uno non si può prescindere dall’altra. Troppe infatti sono le linee di forza, i comuni avversari, le somiglianze di famiglia e le liti interne che legano queste due tradizioni o registri; e se nella filosofia vale quanto Proust sosteneva a proposito della vita ordinaria, ossia che troppe coincidenze valgono più di una dimostrazione studiata a tavolino, allora il fatto che Wittgenstein fosse un avido lettore di James, che G. E. Moore e Dewey condividessero una comune avversione all’idealismo, e che sia Frege che C.S. Peirce si consumarono nell’intento di elaborare un linguaggio logico-formale che permettesse di sottrarre il pensiero e i concetti in esso espressi al regno della psicologia descrittiva, complica quantomeno la vulgata che vuole la nascita della filosofia analitica come una risposta –oltre che all’idealismo tedesco ed inglese– allo strumentalismo americano. Già una folta schiera di filosofi analitici di seconda generazione –ad esempio i filosofi del linguaggio ordinario di Oxford– ha quanto meno subito il fascino del pragmatismo nella stessa misura in cui lo hanno combattuto gli esponenti del circolo di Vienna esuli in terre americane, i quali in ogni caso hanno inoculato in quella cultura un veleno che è stato neutralizzato già nella generazione successiva, dato che i loro allievi più promettenti diventeranno i tre più importanti filosofi pragmatisti contemporanei. Se dunque per un verso è vero che il periodo d’oro del pragmatismo in America è stato messo in crisi dalle dottrine importate dal nocciolo duro di filosofi del vecchio continente approdati nel nuovo, tuttavia non sono sporadiche le incursioni pragmatiste nelle roccaforti filosofiche del vecchio continente, incursioni che hanno riempito a loro volta il vuoto fisico e teorico lasciato dalla disgregazione del circolo di Vienna, combinando alcune delle idee sviluppate negli scritti maturi di Wittgenstein con il rifiuto della fenomenologia, dell’ermeneutica e dell’idealismo hegeliano. Senza dimenticare che anche queste ultime correnti hanno acquistato nuova linfa grazie alla riabilitazione che di esse hanno operato importanti filosofi analitici e pragmatisti, talvolta mostrando la loro vitalità nei testi dei classici americani (James e la fenomenologia, Dewey e l’idealismo, Peirce e l’ermeneutica) e analitici (Wittgenstein e l’idealismo nel Tractatus).
È in questo complesso scenario di scontri e confronti, di alternanza di alte e basse maree che mettono in relazione idealismo, empirismo e pragmatismo che va letto il volume di Giancarlo Marchetti, il cui taglio teorico presuppone e nello stesso tempo illumina questa storia interna alla nascita, allo sviluppo e per alcuni all’epilogo della filosofia analitica come del pragmatismo. Il titolo del volume –Verità e Valori– ci pone nel cuore della disputa tra filosofia analitica e pragmatismo, e suggerisce la prospettiva d’indagine scelta dall’autore; infatti sia l’analisi e la definizione del predicato ‘vero’, sia l’indagine della natura del valore sono stati i temi centrali trattati sia dai padri fondatori della filosofia analitica (Russell in On Denoting, G. E. Moore nei Principia Ethica, Wittgenstein nel Tractatus), sia dai colleghi pragmatisti (Peirce e James nelle rispettive conferenze del 1903 e 1907 pubblicate con il nome di Pragmatism, F. S. C. Schiller in Humanism, Dewey in Human Nature and Conduct). A distanza di cento anni, dopo che da questi due nuclei centrali di questioni filosofiche si sono sviluppate da una parte l’epistemologia, la filosofia del linguaggio e della mente, e dall’altra l’etica, l’estetica e la filosofia della religione come aree di indagini specializzate e eccezionalmente indipendenti, lo scenario appare sostanzialmente il medesimo, poiché se sul versante analitico il dibattito filosofico ruota ancora intorno a questi due cardini –la verità ed il valore–, su quello pragmatista si rinnova il rifiuto di tale impostazione (e in alcuni casi di queste stesse nozioni). Tuttavia ora la partita si gioca a ruoli invertiti, poiché oggi è il pragmatismo a doversi difendere dalla filosofia analitica, registro dominante del panorama filosofico analitico; è Rorty che si ribella ai syllabus dei corsi di Oxbridge, dove invece cento anni fa erano Russell e Moore a sentirsi in dovere di ridicolizzare James, e con lui Harvard e Chicago.
Nello specifico, l’autore presenta questo scenario attraverso l’analisi della nozione di verità come rappresentazione della realtà e la dicotomia fatto/valore come una sua esemplificazione, mostrando come gli scritti di Davidson, Putnam e Rorty sono nello stesso tempo dei classici del pensiero analitico e di quello pragmatista, e dunque canonizzabili in entrambi in registri. I capitoli dell’agile ma denso volume raccontano il percorso che ha portato questi tre pensatori, lavorando all’interno della filosofia analitica, a riportare all’attenzione alcuni temi e soluzioni pragmatiste. È il caso della concezione rappresentazionalista della verità, variamente attaccata da James come da Schiller, da Davidson come da Rorty, oppure della dicotomia fatto/valore, bersaglio critico tanto di Dewey quanto di Putnam. Nonostante le notevoli differenze che caratterizzano le diverse biografie intellettuali di questi tre autori è possibile individuare degli obiettivi critici comuni e quindi delle linee di attacco convergenti (anche se diversificate e talvolta in disaccordo, come nel caso del Putnam-Rorty debate circa l’utilità della definizione del predicato vero) ad alcune immagini filosofiche che, come scrive Wittgenstein nelle Ricerche § 115, ci tenevano prigionieri. Marchetti individua nell’attacco all’immagine della mente come specchio della natura il contributo più importante di questi autori, e nello specifico nell’abbandono del fondazionalismo da parte di Rorty il passo deciso verso la riconciliazione della filosofia analitica con il pragmatismo. Questi due momenti teorici corrispondono non a caso alle due fasi in cui può essere divisa la biografia intellettuale di Rorty: la prima mirata all’attacco dell’immagine rappresentazionalista della mente umana e della conoscenza come adaequatio rei et intellectus, mentre la seconda orientata alla critica dell’immagine della filosofia come impresa fondativi del pensiero e delle pratiche umane. Entrambe questi temi, pragmatisti nello spirito, sono stati variamente elaborati in maniere molto diverse da Wittgestein e Sellars, da Goodman a Quine, il cui insegnamento è stato da una parte quello di notare le differenze tra i vari rapporti che possiamo intrattenere con il mondo –e dunque accorgersi delle varietà di interessi e di scopi che possono guidare il nostro contatto con l’esperienza–, e dall’altra quello di ripensare la filosofia come un particolare tipo di dialogo che intratteniamo con noi stessi e con gli altri nell’intento di dar senso e nello stesso tempo giustificare le nostre pratiche linguistiche –siano esse scientifiche, etiche, religiose.
Nel primo capitolo l’autore presenta questa storia mostrando le linee di convergenza che legano il rifiuto del rappresentazionalismo da parte dei pragmatisti classici con quello operato dai filosofi analitici della seconda metà del novecento, per poi presentare nel secondo capitolo le argomentazioni portate avanti da Davidson e Rorty a riguardo. L’immagine filosofica che tanto i pragmatisti tanto i filosofi analitici di seconda e terza generazione hanno messo in crisi è quella che vuole il mondo come un insieme di fatti che è compito della mente rappresentarsi fedelmente e poi del pensiero e del linguaggio esprimere attraverso il successo della corrispondenza tra i contenuti della mente e quelli del mondo. Contro questa teoria della conoscenza come soddisfacimento e della verità come corrispondenza tanto Rorty quanto Davidson sono interessati a mostrarne le conseguenze inaccettabili e contro-intuitive: più che a una risposta diretta ai sostenitori del corrispondentismo, questi filosofi sono interessati ad un loro smascheramento come questioni mal poste o riposanti su assunti non più difendibili, come ad esempio quello della netta separazione tra fatti ed interpretazioni o tra valori e stati di cose. Riprendendo una linea di ragionamento di Rorty, Marchetti scrive che “se optiamo per una scelta di ordine anti-rappresentazionalista derivante, anche, dall’abbandono della distinzione apparenza/realtà, realismo/antirealismo e dalla spiegazione delle conoscenza come conoscenza da «spettatore», allora le posizioni scettiche e relativistiche che sorgono dagli assunti del modello rappresentazionale si dissolveranno” (pp. 49-50). È interessante che l’autore, pur senza citare direttamente la fonte, ponga la differenza tra i programmi rappresentazionali e quelli antirappresentazionali in termini jamesiani, ossia di una contrapposizione tra due diversi ‘atteggiamenti umani’: Davidson e Rorty, in modalità e con intenti diversi, condividono infatti la convinzione, questa tutta pragmatista, secondo cui le nostre scelte teoriche sono guidate dalle nostre esigenze e temperamenti umani e non viceversa.
Nel terzo capitolo l’autore presenta l’attacco di Putnam alla dicotomia fatto/valore ripercorrendo i passi salienti che hanno portato al suo tramonto in larga parte grazie agli scritti del filosofo di Harvard e sottolineando come anche questo esito sia indissolubilmente legato agli insegnamenti pragmatisti –di Dewey in particolare. Di nuovo è interessante prestare attenzione alla dialettica interna tra filosofia intesa come analisi logica del linguaggio e pragmatismo: entrambe critiche verso una certa concezione ingenua dell’empirismo e tuttavia in tensione per quanto riguarda il suo superamento. Un’attenta analisi delle varie posizioni sostenute nel novecento dai filosofi analitici mette in risalto come mentre alcune di queste sono state formulate in antitesi e come risposta al pragmatismo, altre hanno stretto con esso una stretta e proficua alleanza. Nel quarto capitolo questo rapporto di avversione e tentazione è presentato alla luce del discorso circa la stessa concezione dell’indagine filosofica; tornando ancora una volta su Rorty l’autore suggerisce una possibile lettura dei suoi ultimi scritti come un suggerimento a ripensare il significato e le dinamiche dell’attività filosofica di registro analitico alla luce di alcune istruzioni e suggerimenti provenienti dalla compagine pragmatista. Una volta abbandonato il fondazionalismo come ipotesi guida delle nostre ricerche filosofiche, si apre agli stessi filosofi analitici uno scenario di nuove ricerche filosofiche e culturali in generale; tuttavia è proprio su questo punto che le strade dei nostri tre protagonisti divergono in maniera rilevante, poiché se mentre per Davidson e Putnam il riconoscimento del fallimento del fondazionalismo non implica un abbandono del paradigma analitico, per Rorty invece tale riconoscimento sembra inconciliabile con la continuazione della nostra indagine filosofica come la conoscevamo prima. Tuttavia, anche su questo punto dato oramai per acquisito, non dovremmo cedere a facili semplificazioni, perché la questione delle sorti della filosofia analitica e del pragmatismo è tanto intricata quanto lo sono state le sue origini, e talvolta proprio i periodi caratterizzati da una ‘crisi di identità’ possono dare i migliori frutti, frutti insperati in periodi di relativa bonaccia.
Il volume di Marchetti si caratterizza per la chiarezza dei temi presentati e nello stesso tempo per la freschezza dei contenuti, soprattutto per i lettori italiani non familiari con i testi degli autori presentati. Tuttavia il volume non si presenta come un’introduzione né alla filosofia analitica né al pragmatismo, poiché da per acquisite molte nozioni e dibattiti interni non sempre articolati nel corpo del testo, ed è per questo motivo indirizzato a lettori non estranei a queste due tradizioni. Penalizza il volume la concisione del testo, dettato forse da ragioni editoriali, cui avrebbe giovato in alcune parti di una maggiore articolazione delle tante posizioni discusse; tuttavia la nutrita bibliografia permetterà allo studioso interessato di approfondire le sue ricerche in merito ai rapporti e le intersezioni tra filosofia analitica e pragmatismo, ricerche che come questo volume testimonia sono oggi più fertili e interessanti che mai.

Indice

Prefazione, p. 9
Il tramonto del rappresentazionalismo, p. 13
Dal rappresentazionalismo all’antirappresentazionalismo, p. 37
Il tramonto della dicotomia fatto/valore, p. 55
Rorty e il tramonto del fondazionalismo, p. 75
Bibliografia, p. 101
Indice dei nomi, 117


L'autore

Giancarlo Marchetti è ricercatore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Membro della International Pragmatism Society, ha svolto soggiorni di studio presso le università di Harvard, Stanford e UCLA. Oltre a una serie di saggi pubblicati su riviste italiane e straniere, ha curato Il neopragmatismo (1999) e, con altri, Ratio et superstitio (2003) e la traduzione del volume di Anselmo d’Aosta, La caduta del diavolo (2007).

giovedì 1 gennaio 2009

Riccardo Bellofiore (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento.

Manifestolibri, Roma 2007, ISBN 978-88-7285-475-4, euro 28.00.

Nota di: Carla Maria Fabiani

efficienza, potenziale, situazione, processo, trasformazione

Il volume nasce come raccolta degli atti di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia. Allora, è bene innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone in questa raccolta alle pagine 9-31.
  1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.
  2. L’emblematica vicenda di Luporini. Negli anni ’60, Cesare Luporini rilegge Marx alla luce di Althusser, sganciandolo da Hegel e da Feuerbach. Nei successivi anni ’70, propone una lettura più attenta della prima sezione del Capitale, sottolineando poi la rilevanza del contesto mondiale in cui si inserisce il rapporto di produzione capitalistico, da tenere costantemente assieme con il problema dell’egemonia.
  3. Fallimento teorico del marxismo degli anni ’70 ovvero l’eclettismo filosofico marxista. Alla fine degli anni ’60, Lucio Colletti, critico di Della Volpe, sembra ispirare la ricerca, in campo marxista, di un’alternativa allo storicismo e al dellavolpismo. Nella seconda metà degli anni Settanta, tale linea viene però abbandonata da Colletti, a favore di una riscoperta di Gramsci, atta a legittimare le vicende politiche del compromesso storico. Con l’operaismo di Tronti e l’autonomia operaia di un Negri, si tenta un rovesciamento della critica dell’economia politica in critica dello Stato. Con Massimo Cacciari si propone la cosiddetta autonomia del politico, sostanzialmente liberata da lacci e lacciuoli della critica economico-politica. Marx, Nietzsche e Heidegger vengono tenuti insieme per criticare storicismo e umanismo, considerando definitivo l’approdo del capitalismo nella tecnica, senza più alcun richiamo al valore. Viene altresì dipinta con toni tragico-melanconici la politica di sinistra, che spazia dal “pensiero della differenza” fino al “pensiero del negativo” che ripiega, negli anni ’80, “su un concetto di politica limitata e infondata, che rinuncia alla rappresentazione di soggettività sociali e a qualsiasi idea di bene comune per affidare un debole messaggio messianico a figure angeliche.” Contestualmente, il binomio Keynes-Sraffa non perviene a una critica compiuta nei confronti dell’economia neoclassica, dove salario e profitto sono semplicemente considerati prezzi di fattori produttivi relativamente scarsi.
  4. Dalla crisi della teoria del valore al post-moderno. All’inizio degli anni ’80 si impongono tre indicazioni in merito al rapporto teoria/prassi in campo marxista: il Capitale deve essere relativizzato perché non aiuta a comprendere la dinamica istituzionale della crisi; e con esso va superato il paradigma-Gramsci, con la presa d’atto che politica e burocrazia sono indissociabili; si rinuncia alla dialettica e contestualmente si derubrica il moderno a post-moderno. In pieni anni ’90 la dicotomia destra-sinistra si svuota di significato.
  5. Questioni rimaste aperte. In questo quadro di storia del marxismo italiano – a dire il vero presentato da Corradi in termini di netto fallimento sia teorico che pratico-politico, se non addirittura di décadence – spiccano tuttavia nomi importanti: la critica di Raniero Panzieri alle ideologie tecnocratiche e neocorporative, il progetto di Colletti, non portato a buon fine, di evidenziare l’originalità della dialettica di Marx rispetto a quella hegeliana, lo studio dedicato da Luporini alla teoria del valore, il “materialismo edonistico” di un Sebastiano Timpanaro, l’autocritica di Claudio Napoleoni, la critica di Gianfranco La Grassa alla nozione generica di processo lavorativo. Non da ultimo, la più recente rilettura della critica dell’economia politica sulla base della nuova edizione MEGA2 delle opere di Marx, la riscoperta di un’antropologia marxiana oltre Feuerbach e la riattualizzazione del problema della trasformazione dei valori in prezzi.
  6. La critica al socialismo reale e la trasformazione. Se da una parte è stata affrontata con estrema serietà l’incapacità delle società in transizione di superare l’organizzazione capitalistica del lavoro, è stato al contempo delineato un bilancio autocritico dell’esperienza sovietica, che supera la concezione del comunismo come processo di progressiva estinzione dello Stato, delle classi e del conflitto. È stato individuato nel “lavoro comunicativo” post-fordista il segnale di una certa permanenza del comunismo nel capitalismo (Negri-Hardt). Contemporaneamente, sul versante della teoria del valore, sono maturate nuove letture, fra gli anni ’80 e ’90: la New Interpretation, il Temporal Single System. Entrambe hanno autorevoli interpreti in Italia, quali Giorgio Gattei e Riccardo Bellofiore.
  7. Rapporto socialismo/democrazia, revisionismo storico e dialettica. Esponente di rilievo del dibattito italiano sul problema dello Stato in Marx e, ancora più di recente, del dibattito sul revisionismo storico è Domenico Losurdo, il quale “contro la pretesa neoliberale di ridurre l’hegelo-marxismo ad una metafisica organicistica, [...] ha rivendicato [...] l’attualità della dialettica hegeliana [...].” Sul fronte filosofico-antropologico spiccano i lavori di Costanzo Preve e in particolare quello di Roberto Finelli che rilegge la struttura della “società civile” hegeliana alla luce di una dialettica in re (secondo la logica del presupposto-posto), evidenziandone i tratti di superiorità speculativa rispetto al modulo feuerbachiano utilizzato dal giovane Marx proprio per criticare l’etico-politico in Hegel. La conquista di un’autonomia, non sempre evidente, di Marx da Hegel, si registrerebbe solo nei testi del Capitale, laddove le soggettività in campo vengono svuotate di qualità da un principio di realtà astratto e puramente quantitativo (la valorizzazione capitalistica).
  8. Il marxismo di Das Kapital. Finalmente, solo ora, il marxismo italiano recupera il Capitale. Il marxismo di Maria Turchetto, ereditando il nucleo vitale del pensiero di Panzieri, mette al centro della sua analisi “l’articolazione tecnico-organizzativa del lavoro nel suo nesso con la dinamica dell’accumulazione.” La teoria dell’astrazione lavoro mette in campo una concezione marxiana della società vista come un “tutto strutturato con un nucleo di riproduzione di ruoli dominanti e subalterni.” Parallelamente a questa linea si trova quella di Riccardo Bellofiore che da una parte eredita Napoleoni e dall’altra interpreta originalmente il processo capitalistico come circuito monetario attivato dal finanziamento bancario e come sequenza del lavoro astratto. “La teoria del valore di Marx è perciò una teoria macroeconomica dello sfruttamento nell’ambito di un’economia monetaria di produzione e una teoria microeconomica del conflitto.” Conclude il quadro disegnato da Corradi la riflessione sull’astratto di Roberto Finelli, in merito al recupero del Capitale in quanto critica dell’economia politica, ovvero come programma di indagine ‘antimetafisica’ che dal dualismo della merce mette in campo modalità di analisi atte a disvelare il più fondamentale dualismo del rapporto capitalistico di produzione: “la dissimulazione del lavoro astratto nel lavoro concreto.”

Come controcanto all’intervento di Corradi ripercorriamo brevemente il contributo di G. Gattei (pp.155-172). Ci sembra infatti che possa completare e chiarificare il quadro sopraesposto dello stato attuale del marxismo in Italia. Tralasciamo per ragioni di spazio tutti gli altri interventi, fra i quali, da segnalare, quelli di S. Perri, R. Bellofiore e R. Patalano.
Gattei concentra l’attenzione sui marxismi nostrani post-1945. Cioè quelli che in sostanza avrebbero separato il Marx “feuerbachiano” dal Marx “ricardiano”, senza aver considerato opportunamente il Marx del pluslavoro, categoria invece fondante della valorizzazione capitalistica. Secondo Gattei è lo storicismo a presentarsi come prima forma di marxismo, mentre il dellavolpismo si pone come sua eresia. Ma che cos’è esattamente lo storicismo marxista? È stato un “amalgama” di marxismo sovietico, filosofia gramsciana della prassi e di esistenzialismo sartriano. Veniva esaltata la Prefazione del 1859 di Marx, dove si legge che lo sviluppo inevitabile delle forze produttive avrebbe provocato il rovesciamento dei rapporti privati di proprietà per sostituirli con la proprietà pubblica e la pianificazione, di cui l’URSS era esempio storico riuscito. A quest’approccio si opponeva l’esistenzialismo di Sartre che nel 1946 in Materialismo e rivoluzione invocava piena libertà per il soggetto umano nel fare la rivoluzione, e perciò non deterministicamente realizzata dal rovesciamento storico-materialistico. In Italia lo storicismo marxista è rappresentato dai Quaderni del carcere di Gramsci (1948-50), nei quali si accetta la sfida intellettuale sartriana innestando, nella versione stalinista del materialismo storico, la “filosofia della prassi” dedotta dalle Tesi su Feuerbach di Marx. Il soggetto in questione certo non era il singolo, ma l’umanità associata dei produttori. La coscienza di classe però doveva essere coltivata dal Partito comunista che, come il moderno Principe, avrebbe dovuto prendere il posto occupato nelle coscienze dalla divinità o dall’imperativo categorico, mirando a suscitare la volontà collettiva nazionale popolare verso il comunismo, stadio superiore di civiltà. Luporini rappresenta felicemente in Italia tale connubio tra storicismo e umanismo. Successivo e in controtendenza allo storicismo è il dellavolpismo visto anche in versione Colletti. Della Volpe utilizza sostanzialmente i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e la precedente Critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel. Il soggetto collettivo dello storicismo diventa il lavoratore alienato storicamente determinato, collocato nella moderna economia di mercato. Il marxismo si propone così come una critica materialistica dell’apriori e dei conseguenti processi di ipostatizzazione propri del razionalismo tradizionale, che non vedono l’alienazione e presuppongono un soggetto comunitario già bello e fatto. Su queste basi si inserisce Colletti, che propone di leggere l’alienazione come astrazione empiricamente e storicamente presente nella realtà. Se il lavoratore alienato astratto è il soggetto in questione, dobbiamo scovarlo nel luogo in cui prende forma, cioè nella fabbrica. La composizione di classe e cioè come si connette tale lavoratore con la politica, diventa il tema centrale dei «Quaderni rossi» da cui origina l’operaismo marxista. Raniero Panzieri rileggeva il Frammento sulle macchine dei Grundrisse per interpretare il fordismo italiano, l’operaio-massa, la sussunzione reale del lavoro al capitale. Come individuare la linea di resistenza dell’operaio senza qualità al dominio del capitale? Nell’essere massa: la composizione di classe dell’operaio salariato fa sì che egli possa rifiutarsi di contrattare il rapporto stesso (M. Tronti, 1966). Questo coincide, nella teoria economica, con la considerazione del salario come variabile indipendente: a questo si collega il c.d. sraffismo marxista. Il riferimento è a Claudio Napoleoni che nelle Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx del 1972, spiegherà la rilevanza del testo di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (1960), grazie a cui interpretare l’antagonismo distributivo fra profitto e salario non con regole ‘oggettive’, ma in base alla forza politica manifestata sul campo dall’una o dall’altra classe sociale. Segue a Napoleoni Pierangelo Garegnani, nella considerazione del salario come variabile esogena al sistema, indipendente dalla teoria del valore-lavoro. «È stato questo sraffismo implicito a sostenere ideologicamente lo straordinario ciclo di lotte compreso tra l’autunno caldo del 1969 e l’occupazione della Fiat del 1979[...].» Su queste basi prende corpo l’autonomia operaia di un Toni Negri, che intende superare la teoria del valore, non più intesa come ‘luogo’ della lotta di classe, la quale invece si presenta come antagonismo fra Stato e proletariato diffuso e indistinto. Si affianca a questa linea quella dell’autonomia del politico di Mario Tronti. Secondo Gattei è proprio questa la deriva marxista-storicista che conduce all’autonomia-primato della politica. L’autonomizzazione della sfera circolatoria del capitale ricomprenderebbe, per es. secondo Vacca, Stato e partiti con funzioni di collegamento dell’economico alla cosiddetta democrazia progressista dei cittadini-produttori. Si registra così di fatto l’abbandono da parte della sinistra post-moderna di Marx e la virata verso Weber, Luhmann, Parsons e Scmitt.
Tuttavia Gattei, seguendo Corradi, rileva un marxismo che resiste ed insiste nella critica della filosofia (C. Preve, D. Losurdo, R. Finelli) e nella critica dell’economia politica (G. La Grassa, M. Turchetto, E. Screpanti, R. Bellofiore, lo stesso Gattei e G. Carchedi). Un marxismo che considera Das Kapital l’unica narrazione critica disponibile della moderna e insieme post-moderna società borghese. Vediamo in che senso.
Il modo di produzione capitalistico si fonda sul rapporto di lavoro salariato e attraverso di esso sull’estrazione di lavoro e pluslavoro. Rapporto di lavoro salariato che è tale solo nella misura in cui ciò che si scambia è labour commanded offerto da working poor. Saranno poi le modalità di esecuzione e la durata temporale di tale lavoro vivo a qualificare la capacità di comando del capitale sugli «obbedienti», e non certo le tipologie di contratto e di retribuzione concordate nello scambio.
Risulta poi dirimente la nuova frontiera della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione. Gattei riprende criticamente Sraffa, notando come il concetto di “prodotto netto aggregato” (ciò che resta delle merci tolte tutte quelle occorse alla produzione) non è altro che l’altra faccia (l’altro “numerario” in termini di prezzo) del “lavoro vivo” complessivamente richiesto per produrlo. Si tratta a ben vedere della stessa grandezza: una volta vista sotto il profilo della distribuzione del prodotto netto tra le classi sociali, l’altra volta sotto quello della sua origine dal lavoro “altrui”. Tale equivalenza tra prezzo di produzione del netto con il lavoro vivo riporta sulla scena la categoria di valore come neovalore-lavoro e non più come “lavoro morto” (aggirando così le difficoltà che seguono ad una interpretazione ricardiana della trasformazione dei valori il prezzi). In ogni caso, afferma Gattei, di tutto questo fuori dall’Italia se ne parla da circa vent’anni. Posta tale equivalenza tra lavoro vivo e prodotto netto, si definisce il monte-salari dei lavoratori nel loro insieme, con cui vengono acquistate le merci necessarie al loro benessere, traendole dal prodotto netto aggregato, di cui, data la sottrazione, resta il profitto. Questa sarebbe la quota di partecipazione della forza lavoro al lavoro-vivo (lavoro necessario) ed il resto (il profitto) è il pluslavoro. Profitto e pluslavoro sono perciò la stessa grandezza: sebbene espressa in unità di misura differenti (profitto in termini di prezzi di produzione, pluslavoro in ore). Inoltre, il profitto può essere espresso solo a ciclo concluso, quando cioè le merci sono state vendute, mentre l’ammontare di pluslavoro è determinato da quanto lavoro vivo si è riusciti a comandare e dalla percentuale di monte-salari accordata ex-ante. In altre parole: la realizzazione finale del profitto sanziona solamente – e non aggiunge nulla a – ciò che già è stato prodotto-erogato-ripartito nel luogo di produzione. Luogo di valorizzazione capitalistica sulla cui porta sta scritto: Vietato l’ingresso ai non addetti al lavoro vivo.
Gattei conclude il suo intervento, assai chiaro ed efficace, con l’invito ad essere marxiani e non più marxisti ovvero a considerare il Marx della critica dell’economia politica tenendo a debita distanza sia il Marx “giovane” sia il Marx “anti-borghese”. Il marxismo, che appartiene a questi due ultimi Marx, va in sostanza abbandonato alla sua storia - come appreso da Corradi e da Gattei - per lo più fallimentare. La sola prospettiva di comprensione e di liberazione che si ha, marxianamente, è perciò quella legata alle lotte contro lo sfruttamento del “lavoro vivo”, le quali rappresentano l’unico “fronte che spinge l’essere sociale capitalistico […] a realizzare il proprio fine (che è la sua fine) di superamento della necessità economica.” (p. 171).

Indice

Premessa di R. Bellofiore
Storia dei marxismi in Italia: un tentativo di sintesi di C. Corradi
Genesi e sviluppo del paradigma marxista in Italia di R. Patalano
Panzieri e la ripresa del marxismo nella sinistra tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta di V. Rieser
Sui «fondamenti filosofici» dell’operaismo italiano di A. Zanini
I «due Marx» e l’althusserismo di M. Turchetto
Il rapporto Marx-Hegel e il concetto di «storia» fra della Volpe e Luporini di R. Fineschi
Un marxismo «senza Capitale» di R. Finelli
Il doppio circolo di Hegel e la dissoluzione di Marx nell’idealismo di R. Sbardella
Il via crucis dei marxismi italiani di G. Gattei
Le conclusioni non concludenti del dibattito su Marx tra gli economisti italiani dopo il 1960 di S. Perri
Quelli del lavoro vivo di R. Bellofiore
L’«eccedenza» di Marx e il capitalismo «totale» di F. Bertinotti
Per la formazione politica delle nuove generazioni di D. Balicco


Il curatore

Riccardo Bellofiore insegna all’Università di Bergamo, ed è Research Associate dell’Hisotry and Methodology Group della Faculty of Economics and Econometrics all’Università di Amsterdam. In italiano ha pubblicato una monografia su Claudio Napoleoni (Unicopli, 1991) e sulle condizioni del capitalismo contemporaneo (BFS, 1998). In inglese ha pubblicato sulla teoria economica marxiana (Macmillan 1998, Palgrave 2004) e sull’economista Hyman Minsky (Elgar 2001).

Links

http://www.sussex.ac.uk/Users/sefd0/bib/marx.htm bibliografia marxista
http://www.marxists.org/ : opere di Marx e del marxismo
http://www.criticamarxista.net/ : rivista marxista on line
http://www.intermarx.com/ : rivista marxista on line