venerdì 30 novembre 2007

Nisbett, Richard E., Il Tao e Aristotele.

Trad. it. di N. Pomilio, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 237, € 17,00, ISBN 9788817019569.
[Ed. or.: The Geography of Thought, Free Press, New York 2004]

Recensione di Rodolfo Ciuffa - 30/11/2007

Psicologia cognitiva, Antropologia culturale, Metafisica (gnoseologia), Filosofia politica, sociologia

Il Tao e Aristotele è la traduzione italiana del ben più indicativo The Geography of Thought, titolo che compendia in modo piuttosto esatto i contenuti dell’ultimo libro di Richard Nisbett. Quest’ultimo, uno dei più importanti e stimati psicologi cognitivi e sociali statunitensi, si è occupato e si occupa di “etnologia”: non solo producendo un discorso su un dato popolo, ma anche sviluppandone uno sul logos stesso di quel popolo, ovvero sul suo universo logico, riflessivo e rappresentativo.
Nel libro si muove una radicale critica al logocentrismo occidentale, ovvero alla tendenza tutta nostrana a universalizzare il modo di pensare che mediamente ci caratterizza, che presumiamo generale e valido in ogni cantone del mondo e che invece, a detta di Nisbett, non è per nulla globale né globalizzabile: gli stili di pensiero, in altre parti del mondo, sono a tal punto diversi da quello occidentale che si potrebbe addirittura concluderne che il mondo che noi europei e nordamericani vediamo sia completamente diverso da quello che vede, ad esempio, un cinese. In tal modo, con le armi della psicologia cognitiva e comparata, Nisbett contribuisce alla distruzione di un etnocentrismo logico che l’occidente ha veicolato attraverso la sua filosofia e la sua storiografia, e che dal Novecento la stessa filosofia, il pensiero femminista, la linguistica e altri fenomeni culturali, sociali e scientifici hanno teso a decostruire.
L’obiettivo di Nisbett, a ogni modo, è positivo piuttosto che negativo. Avvalendosi di alcuni ingegnosi esperimenti condotti essenzialmente su americani, estremo-orientali ed estremo-orientali trapiantati in occidente (come gruppo culturalmente intermedio tra il primo e il secondo), l’autore ha provato a enucleare le differenze fondamentali che distinguono il modo occidentale di vedere il mondo da quello orientale e, dunque, le caratteristiche definitorie e precipue che caratterizzano l’uno e l’altro.
La visione orientale della realtà è mediamente molto più contestualizzante e meno classificatoria. Il cinese sarà più portato a vedere sostanze che non oggetti e a utilizzare un verbo piuttosto che un sostantivo. L’idea di poter isolare analiticamente una frazione di realtà, anche nella vita di tutti i giorni, potrebbe risultare non solo assurdo ma anche piuttosto difficile per un orientale, che è abituato a pensare qualsiasi individuo e se stesso sempre come parte, risultante di una complessa, irriducibile e olistica interazione fra le molte regioni di un tutto complesso. La stessa classificazione (e dunque i processi associativi che su di essa si basano) sarebbe regolata da principi di inclusione e connessione molto diversi, tanto che, mentre un americano riterrà assai più pertinente associare una mucca a una gallina piuttosto che a un ciuffo d’erba (in virtù della loro comune animalità), il giapponese sarà di tutt’altro avviso, poiché descrittivamente parlando è il nesso fra l’erbivoro e il suo pasto il più frequente. La differente impostazione si riflette anche nell’analisi dell’immagine e della forma, quanto pure nell’attenzione e sensibilità allo sfondo piuttosto che al primo piano.
Le ricadute sul piano estetico, etico e filosofico di queste articolazioni parallele del mondo sono abbastanza ovvie. È per questo, conclude Nisbett, che bisogna sormontare il monolinguismo che ci affligge e provare a trarre il meglio anche dai mondi possibili che albergano nelle menti e nelle culture di persone e civiltà altre - mondi lontani, invero, ma non irraggiungibili.
Il messaggio che sostanzia queste pagine è dunque duplice: non illudiamoci che gli altri abbiano, meramente, delle rappresentazioni della realtà divergenti dalle nostre; potrebbero essere i principi stessi che presiedono alla loro costruzione a differire radicalmente. In più, anche i più piccoli frammenti cognitivi e la realtà di ogni giorno possono riprovare l’esistenza di queste metafisiche irrelate: prendiamone atto.

Indice

Introduzione
Tao e Sillogismo
Le origini sociali della mente
Socialità o individualismo
Vedere una statua o un pezzo di marmo
Contesto o personalità
Un mondo di verbi e sostantivi
Aut-aut o mediazione
E se la natura del pensiero non fosse ovunque la stessa?
Epilogo
Ringraziamenti
Note
Bibliografia


L'autore

Richard E. Nisbett è Theodore M. Newcomb Distinguished Professor di psicologia sociale all’Università del Michigan, dove codirige il progetto di ricerca dedicato a Culture and Cognition. In italiano è altresì disponibile L'inferenza umana (Bologna, 1989).

sabato 24 novembre 2007

Zeki, Semir, La visione dall’interno, arte e cervello.

Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 269, € 20,00, ISBN 9788833917665

Recensione di Rodolfo Ciuffa - 24/11/2007

Estetica, Psicologia (neuroscienze)

La visione dall’interno è una sorta di fondazione della neuroestetica. Semir Zeki, professore di Neurobiologia allo University College di Londra, si è occupato per circa trent’anni dello studio della corteccia visiva e ha annodato quest’approccio alla visione e all’immagine tanto a un passione per l’arte quanto a un’esplorazione delle estetiche classiche, di matrice essenzialmente, anche se non esclusivamente, platonica e hegeliana.
L’assunto di fondo è che, poiché l’estetica presuppone una conoscenza minuta e complessa della visione, e giacché una conoscenza del genere non può essere raggiunta in assenza di un discorso neuroscientifico, allora un’estetica che abbia pretesa duratura di validità dovrebbe essere biologicamente fondata. Il problema di ancorare la riflessione sull’oggetto alla conoscenza diretta e interna di quest’ultimo, che ha investito da sempre la filosofia nel suo rapporto con le aree e i saperi ai quali si è via via interessata e che ha riguardato anche l’estetica e la critica d’arte, viene posta e riproposta da Zeki in chiave biologica: per poter parlare di ciò che passa attraverso la visione, ovvero la fruizione dell’opera d’arte, bisogna far riferimento a un apparato di conoscenze tecniche che rendano ragione di quel fenomeno e di quei meccanismi che collettivamente indichiamo con il termine “visione”. La visione è un processo attivo e articolato. Come dimostrano molti esperimenti su soggetti sani e cerebrolesi, l’atto del vedere è spiccatamente costruttivo e di conseguenza può essere scomposto in una serie non ancora interamente definita di stadi (fra i quali, ad esempio, il riconoscimento del colore, della forma e delle relazioni cromatiche tra due aree distinte ma prossime), la realizzazione dei quali è affidata a strutture anatomiche identificabili e distinguibili fra loro.
Zeki fa notare una curiosa correlazione tra il significato gnoseologico di alcune forme d’arte e la funzione conoscitiva di ciascuno degli stadi di cui si compone la visione: come se, senza saperlo, gli artisti avessero di volta in volta selezionato uno dei meccanismi neuronali della visione per sfruttarlo, isolarlo, potenziarlo ed esaltarlo al massimo grado e in senso artistico. Monet, ad esempio, sembrava consapevole dei meccanismi che regolano la costanza del colore, ovvero l’identità cromatica di un oggetto in condizioni di illuminazioni differenti. In altre parole, un oggetto ci appare sempre dello stesso colore, eppure, essendo sottoposto a luci differenti fra loro, non dovrebbe. Con la celebre serie dedicata alla cattedrale di Rouen, Monet avrebbe provato, anche se inconsapevolmente, ad anticipare (o sottrarre con un’ulteriore operazione cognitiva) l’omogeneizzazione cromatica, restituendo il “vero” colore della cattedrale nei diversi momenti del giorno e nelle diverse condizioni atmosferiche. Calder, Mondrian e molti altri non si sarebbero poi dimostrati meno epistemologicamente consapevoli di aspetti quali la visione del movimento e della forma. In tal senso l’artista è, a dire di Zeki, un neurologo inconsapevole e un neuroscienziato ante litteram.
È l’arte stessa, aggiunge Zeki - descrivendo una sua precisa e impegnativa estetica -, a poter essere definita sulla falsariga della visione e della sua funzione biologica. La visione è essenzialmente un processo di selezione e individuazione di costanti finalizzato alla conoscenza: così l’arte. È in questo senso che due estetiche tanto divergenti quanto quelle platonica e hegeliana, l’una censore intransigenze della doppia e depauperante mimesis artistica, l’altra celebratrice la sua forza assoluta, possono essere riconciliate: perché l’arte è, come Platone avrebbe forse desiderato e a dispetto di quanto credeva, la ricerca dell’essenziale e perciò stesso icastica particolarizzazione dell’universale.

Indice

Prefazione all’edizione italiana 
Ringraziamenti 
PARTE PRIMA UNA FUNZIONE DEL CERVELLO E DELL’ARTE 
La ricerca dell’essenziale da parte del cervello 
La ricerca dell’essenziale nell’arte 
L’illusione di ‘vedere con gli occhi’ 
Una valutazione neurobiologica di Vrmeer e Michelangelo 
Neurologia dell’idea platonica 
La ricerca dell’essenziale nel cubismo 
Modularità della visione 
Vedere e capire 
Modularità dell’estetica visiva 
Patologia dell’idea platonica e del concetto hegeliano 
PARTE SECONDA L’ARTE DEL CAMPO RICETTIVO 
Il campo ricettivo 
Mondrian, Malevič e la neurofisiologia delle linee orientate 
Mondrian, Ben Nicholson, Malevič e la neurofisiologia dei quadrati e dei rettangoli 
Problemi di percezione creati dai campi recettivi 
Neurofisiologia del MetaMalevič e del MetaKandinskij 
L’arte cinetica 
PARTE TERZA ESAME NEUROLOGICO DI ALCUNE FORMA D’ARTE 
Non riconoscere i volti: un ritratto della prosopagnosia 
Fisiologia della visione dei colori 
Il cervello dei fauves 
Neurologia dell’arte astratta e dell’arte figurativa 
Il cervello di Monet 
Epilogo 
Bibliografia 
Indice analitico 
Fonti delle illustrazioni


L'autore

Semir Zeki è uno dei più noti neuroscienziati viventi e fra i massimi esperti del sistema visivo. Insegna Neurobiologia presso lo University College di Londra. Fra le sue pubblicazioni A Visione of the Brain (1993), Balthus o la ricerca dell’essenziale (1995, tr. it. 1999).

Links

Laboratorio di neurobiologia diretto da Zeki: http://www.vislab.ucl.ac.uk/
Sito dell’Istituto di Neuroestetica: http://www.neuroesthetics.org/

giovedì 22 novembre 2007

Sanò, Laura (a cura di), Le potenze del filosofare. Lógos, téchne, pólemos.

Padova, Il Poligrafo, 2007, pp. 250, € 22,00, ISBN 9788871155203.

Recensione di Francesco Tampoia - 22/11/07

Estetica, Filosofia teoretica (tecnica), Storia della filosofia (antica, Rinascimento, contemporanea)

Il volume raccoglie i saggi del lavoro collettivo svoltosi presso la Scuola di dottorato in Filosofia dell’Università di Padova nell’anno accademico 2005-2006. Nell’Avvertenza, Laura Sanò scrive che il progetto è nato all’insegna della quasi arbitrarietà dell’assunto, dalla volontà di condensare, come si legge dal titolo, in “alcune parole chiave le principali direttrici lungo le quali si sviluppa il pensiero contemporaneo”.

I vari saggi, pur se disuguali nella resa e caratterizzati da una propria autonomia di impostazione e di valutazione critica, hanno un comune denominatore nell’acquisita, “definitiva eclisse dei sistemi centrati, il superamento di ogni assolutismo, a cui è connessa la forte valorizzazione delle individualità e delle differenze”.

Stefano Martini nel saggio Pólemos come lógos della iatriké téchne. Considerazioni intorno ad alcuni scritti del Corpus Hippocraticum vede nella téchne medica greca una connotazione conflittuale non solo contingente ma anche strutturale. Esaminando gli scritti ippocratici si sofferma sullo statuto epistemologico della medicina greca, la sua valenza conoscitiva e scientifica, già nota al lettore dei dia-logoi platonici. Lógos e pólemos sono strettamente connessi (Eraclito, Heidegger), così come sono fortemente interconnessi lógos e téchne, e la pratica medica è pólemos nel senso di lotta, guerra senza quartiere contro la magia perché trionfi la téchne, intesa come mediazione feconda tra esperienza e teoria. “Il Corpus hippocraticum offre la migliore immagine di queste polemiche sull’arte perché è il solo corpus del V secolo ad aver conservato nella loro integralità esempi di questi trattati detti téchnai”(p. 32). Dopo un’analisi ricca e documentata dei testi (fin troppo lunghe le citazioni), Martini conclude la sua esposizione “Ancora una volta, siamo in presenza di un’aspra contesa, in questo caso contro la degradazione dell’arte medica, ad opera di alcuni indegni rappresentanti, dimentichi della virtù e della verità: sono costoro ora, pertanto, il bersaglio polemico, ma non in nome di una fanatica forma di idolatria nei confronti di un Ippocrate inteso come principio di autorità indiscutibile” (p. 51).

Nel suo contributo Lógos, téchne, pólemos nel catalano Ramon Llull Alessandro Tessari fa riferimento al contesto storico in cui operò Lullo, ricorda che la molla che spinse Lullo fu la vocazione medievale di convertire gli infedeli alla fede cristiana, soprattutto gli islamici, ma anche la difficoltà di comunicare ignorando la lingua araba. Lullo dice di essere stato, per questo, chiamato da Dio, che gli ha mostrato il logos divino, il liber melior de mundo, non un Arbor scientiae, enciclopedia analitica dell’universo, bensì una clavis universalis, una ars-techne, un metodo che doveva servire da matrice per la composizione di ogni ulteriore libro possibile. Questa arte, insomma, è l’arte di manipolare segni: “Tutta la realtà è una emanazione di Dio. Le figure che Lullo escogita serviranno per rendere più chiaro il percorso creazionistico. L’articolazione dell’Ars brevis passa attraverso un alfabeto, delle definizioni, delle regole di manipolazione: è il linguaggio che caratterizzerà lo spirito della nuova scienza che Descartes, più che Bacon, porrà all’attenzione dell’uomo moderno.” (p. 65) Se Giotto ha usato i colori per raccontare le storie della Bibbia, “Lullo prende le ruote meccaniche e concentriche che al posto delle parole contengono dei segni. La concordanza di quei segni è la techne che permette al logos di illuminare le menti dei suoi contemporanei” (p. 66). Questo logos, ovviamente, non è più quello dei Greci, semmai è un logos ‘polemico’, a kind of primitive logic machine, come potremmo intenderlo noi oggi. Tessari precisa, per restare nel contesto storico di Lullo, che l’arte lulliana non è un’arte di produzione di verità matematiche alla maniera dell’analitica cartesiana, precede la stagione secentesca dell’analitica e la scavalca per la sua esplicita universalità includendo tutti i linguaggi. È una ars magna, che probabilmente ha suggerito a Leibniz la characteristica universalis.

Di carattere più informativo il saggio La destinazione del genere umano: téchne e progresso morale nella riflessione di F. Hölderlin di Laura Anna Macor, che confronta gli scritti di Hölderlin sia con motivi mitologici e classici sia con l’antropologia kantiana e schilleriana. Per Hölderlin la questione della tecnica va affrontata a partire da una chiara e solida base etica: la grandezza dei Greci consiste nel fatto che furono capaci di unire “in una magnifica umanità la giovinezza della fantasia e la virilità della ragione”, mentre con l’età moderna è avvenuta la scissione dei due termini.

Gaspare Polizzi nel suo A proposito di téchne e lógos nel pensiero di Leopardi: nuove fonti testuali dichiara di voler proporre un tassello sulla formazione del pensiero di Giacomo Leopardi e commenta il Dialogo della Natura e di un Islandese. Grazie all’appoggio di testi noti, tra cui lo Zibaldone, nonché di altri meno noti e poco frequentati di Leopardi o di autori conosciuti da Leopardi, individua un percorso di ricerca nuovo in cui poter analizzare il concetto di natura e il rapporto téchne/ lógos.

Di maggior spessore e ampiezza il saggio La scommessa di Prometeo. Fra Leopardi e Nietzsche di Laura Sanò, che prende le mosse dal mito di Prometeo “La téchne non appartiene affatto al corredo naturale dell’uomo, non è un presupposto innato e congenito all’essere umano, non risiede nell’uomo stesso, bensì, piuttosto, è da considerarsi come un dono che proviene dall’esterno, elargito grazie a uno stratagemma e un sacrificio divino” (p. 119). Nel famoso racconto platonico del Protagora sono messi a confronto Prometeo ed Epimeteo. Epimeteo ha chiesto e ottenuto di assolvere da solo il compito di distribuire ”i doni naturali” alle stirpi mortali, salvo la revisione di Prometeo. La distribuzione è equa e appropriata al fine di assicurare la sopravvivenza di ogni specie; ma quando Epimeteo giunge all’uomo si accorge di aver esaurito i doni naturali. Prometeo, scoperto l'errore e vedendo l'uomo nudo, scalzo, inerme mentre il giorno della comparsa sulla terra è giunto, decide di rubare il fuoco e donarglielo.

Prometeo ha donato all’uomo le tecniche esaltandone le virtù, ma non ne ha svelato tutti gli inconvenienti, forse perché non li conosce. Le tecniche sono pharmakoi, procurano del bene, ma non salvano l’uomo dal suo destino. E allora chi dei due ha sbagliato? Leopardi nelle sue Operette morali non ha dubbi ed è convinto che sia più vera e coerente di qualsivoglia sistema filosofico l’ultrafilosofia, che smaschera la crudeltà del destino umano. Il pessimismo di Leopardi non ammette salvezza, non ammette un tempo ultimo, non ammette recupero. La negatività di cui parla Leopardi resta sempre tale e non confluisce hegelianamente nello spirito assoluto, il vero della negatività leopardiana è un logos muto, cosmico, senza voce, è il cielo eterno del divenire, del tempo sempre uguale a se stesso. A modo suo Nietzsche ha contratto un debito verso Leopardi e Schopenhauer, come ha contratto un debito più volte riconosciuto verso Eraclito. Per Nietzsche il senso complessivo della grecità, al di là delle diverse accentuazioni della sua attività intellettuale “il proprium della vita greca, ciò che è alla base di quella cultura, di quell’arte, di quella civiltà, è l’elemento agonico” (p. 136). Verso la conclusione la Sanò, nel confrontare Leopardi e Nietzsche, si richiama al Canto notturno e, riaffermando la linea di pensiero anti-dialettica di Leopardi, chiude così: “Leopardi indica i nodi teorici fondamentali, intorno ai quali si svilupperà quella tradizione speculativa nota come pensiero negativo, all’insegna di una ripresa della nozione eraclitea del pólemos” (p. 138). Alla filosofia resta il compito di far emergere o di rivelare il pólemos della realtà, le antinomie dell’esistenza.

Barbara Scapolo in Téchne del lógos e lógos della téchne. Note intorno al fare poietico-dialogico di Paul Valéry, nel confrontarsi con Valéry parte dal concetto di logos come com-prende, tenere insieme. “In origine, la téchne risultava essere specificamente connessa al dominio della poiesis, ovvero a quell’operare produttivo di cui il fare artistico non è che un esempio eminente” (p. 142). È ciò che interessa Valéry, più scrittore che filosofo; è ciò che lui propugna come poetica della forma. Il dialogo è parte integrante sia del pensiero che del linguaggio e al filosofo appartiene il passo della interrogazione con la conseguenza di stazionare sempre sulla terribile soglia che separa la domanda dalla risposta. Valéry è uno scrittore che ha sempre ripensato, vissuto e rivissuto il problematico rapporto tra lettore e autore: “Il rapporto tra opera e lettore non è quindi del tutto pacifico in Valéry, due potenze si scontrano e tendono a prevaricare l’una sull’altra, senza mai arrivare a fondersi, quanto piuttosto dando origine a una distanza incolmabile” (p. 150). All’idea di una compenetrazione tra autore e lettore, a un qualsivoglia narcisismo, Valéry contrappone una sorta di “apertura verso l’esterno che si caratterizza come dialogo, veste formale che giocoforza implica un confronto attivo” (p. 158). In chiusura la Scapolo ricava dalle sue note su e con Valéry la scoperta della dimensione pratica della filosofia: “il lógos filosofico non può essere inteso come semplice verbalismo conoscitivo, ma deve comprendere al suo interno, al di là del linguaggio, una dimensione legata tanto alla pràxis quanto alla poìesis, che dia forma all’atto medesimo del pensiero e della sua manovra, modificando in profondità che pratica questo esercizio” (p. 177).

In un certo modo parallelo al precedente saggio è quello di Mariateresa Costa Povertà di esperienza nell’epoca della riproducibilità tecnica che verte sulla concezione benjaminiana della tecnica con ampi riferimenti a l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e Esperienza e povertà. Per Benjamin l’arte è una téchne che nasce dal puro piacere della mímesis, ma perché la téchne non produca danno all’umanità è bene che sia mantenuta l’asimmetria tra progresso tecnico e progresso morale, seguendo il noto insegnamento kantiano che la tecnica non deve diventare fine a se stessa. Una tecnica spinta all’eccesso porta l’uomo a perdere l’autentica esperienza umana, a un sicuro impoverimento, e Benjamin propone un “nuovo positivo concetto di barbarie”. Di qui la domanda: si può distruggere ciò che è nefasto nella nostra civiltà altamente tecnologica? Con la distruzione è possibile tornare al bambino che è in noi, all’immaginazione? Ed è possibile ancora costruire un discorso filosofico?

Cristina Mescaldin con Spettralità e tecnica del pensiero di Jacques Derrida ci porta a un filosofo spesso evocato, circolante in questi saggi. Chi non ricorda il celebre saggio di Derrida che interpreta il Fedro seguendo una linea di pensiero costruita sull’ambivalenza della tecnica? Derrida ha attaccato il logocentrismo occidentale, sulla scia di Heidegger ha attaccato il valore logocentrico della presenza e lo ha fatto richiamandosi alla scrittura, una téchne che sfugge ed eccede sia la categoria della presenza sia quella dell’assenza. “La filosofia, dopo Eraclito, vive il dramma di una scissione. Il raccoglimento fu minacciato nella sua unità […]. Secondo Derrida, invece, questa presunta origine archifilosofica che si darebbe con il pensiero eracliteo del fuoco, non è altro che un effetto di rimbalzo metafisico. Come insegna Eraclito, e Derrida si pone nella stessa direzione, l’uno è già differente da sé e compromesso con l’altro” (p. 209). Derrida ha insistito su questo: l’originario è un traccia, è la differenza, la sua possibilità è anteriore al segno, la spettralità della tecnica consiste proprio nella sua dinamica iterativa, nella sua differance, nella sua ripetitività.

L’ultimo saggio Lógos e áisthesis nella fenomenologia moderna e contemporanea di Maude Dalla Chiara porta all’attenzione dei lettori i risultati della ricerca del filosofo francese Henri Maldiney. Si tratta di una ricerca interessante, centrata sui concetti greci di lògos e áisthesis seguendo il filo storico della fenomenologia moderna e contemporanea. I filosofi su cui indugia maggiormente Maldiney sono Hegel, Husserl, Heidegger. La sua conclusione è che “la nozione di soggettività trascendentale husserliana, così come la progettualità del Dasein heideggeriana, non rendono conto della dimensione imprevedibile dell’evento”. Per Maldiney “un orizzonte aperto non è aperto da un progetto. È piuttosto l’orizzonte di cui siamo ‘passibili’, l’orizzonte di un’esistenza che non è assunta attivamente ma che è subita” (p. 248). Il nocciolo, se si può dire, della posizione di Maldiney consiste nel riconoscere che non solo è impossibile una presa di posizione preliminare del soggetto, ma anche che è impossibile una predeterminazione originaria e oggettiva di un orizzonte già possibile.

Nella quarta di copertina si legge che nel panorama novecentesco è presente il pervasivo concetto di téchne, ma proprio per questo, a mio parere, mentre alcuni saggi si muovono lungo una lettura essenzialista della tecnica, il volume non dice della connessione/sconnessione, all’interno del concetto di téchne, tra téchne antica e la tecnologia del nostro tempo.

Indice

Avvertenza
Laura Sanò, Introduzione
Stefano Martini, Pólemos come lógos della iatriké téchne. Considerazioni intorno ad alcuni scritti del Corpus Hippocraticum
Alessandro Tessari, Lógos, téchne, pólemos nel catalano Ramon Llull
Laura Anna Macor, La destinazione del genere umano: téchne e progresso morale nella riflessione di F. Holderlin
Gaspare Polizzi, A proposito di téchne e lógos nel pensiero di Leopardi: nuove fonti testuali
Laura Sanò, La scommessa di Prometeo. Fra Leopardi e Nietzsche
Barbara Scapolo, Téchne del lógos e lógos della téchne
Mariateresa Costa, Povertà di esperienza nell’epoca della riproducibilità tecnica
Cristiana Mescalchin, Spettralità e tecnica del pensiero di Jacques Derrida
Maude Dalla Chiara, Lógos e áisthesis nella fenomenologia moderna e contemporanea


Il curatore

Laura Sanò ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia e svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova. Le sue indagini sono indirizzate all’esplorazione della filosofia italiana contemporanea nel contesto del pensiero europeo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Un daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, La Città del Sole, Napoli 2001; Le ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Città Aperta, Troina (EN) 2005; Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Prefazione di R. Bodei, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2007.

Mordacci, Roberto, La vita etica e le buone ragioni.

Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 256, € 22,00, ISBN 9788842420248.

Recensione di Gianluca Verrucci – 22/11/2007

Etica

Il lavoro di Mordacci si presenta come una raccolta di saggi, parte inediti e parte già pubblicati ma profondamente riveduti, suddivisa in due parti metodologicamente distinte. La prima parte del lavoro è dedicata all’analisi critica del pensiero di alcuni tra i più influenti filosofi morali contemporanei (Bernard Williams, Charles Taylor e Thomas Scanlon) e si distingue per l’accuratezza della ricostruzione e la profondità delle acquisizioni. La seconda, meno estesa ed elaborata, si preoccupa di precisare il punto di vista dell’autore su alcuni nuclei metodologicamente ineludibili per l’etica teorica: il rapporto tra senso morale comune e riflessione critica, il posto del rispetto delle persone nella ricerca scientifica e la relazione tra persona e comunità.
Il punto critico che costituisce il filo conduttore di tutti i saggi che figurano in questa raccolta è la questione di una possibile e quanto mai problematica integrazione tra la vita etica, intesa come vita personale in cui l’identità individuale prende corpo e si fa storia vissuta, e le buone ragioni, intese come ragioni che giustificano la condotta morale aspirando ad una validità almeno in principio universale, aperta a tutti gli esseri razionali, e perciò mai soltanto idiosincratica e soggettiva. Il rapporto tra universale e particolare, o tra vita individuale, con il suo radicamento imprescindibile nella comunità e nella storia, e riflessione pratica come potenza critica di trasgressione di ogni punto di vista semplicemente individuale, è indagato in un’ottica kantiana che pone come requisito irrinunciabile della riflessione morale la considerazione dell’elemento trascendentale. Lo sforzo dell’autore è volto a coniugare l’elemento trascendentale dell’azione, che in termini kantiani è espresso dalla non-contraddizione pratica e dall’universalizzabilità, e l’orizzonte dialogico che costituisce lo spazio in cui le considerazioni morali acquistano spessore intersoggettivo e accolgono il travaglio della critica. Di seguito si chiarirà la prospettiva dell’autore sul tema della razionalità pratica come emerge dal confronto con gli autori citati.
Bernard Williams è uno dei filosofi morali che più hanno contribuito, specie in ambito analitico, al dibattito intorno ai fondamenti dell’etica. Williams ha senz’altro il merito di aver posto al centro della riflessione morale il tema dell’identità e particolarità del soggetto nell’intento di riscattarlo da forme impersonali e astratte di prescrizione morale. Sono ben note, infatti, le critiche rivolte all’utilitarismo e al kantismo, come alle sue interpretazioni prescrittiviste e proceduraliste, che contrapporrebbero irrimediabilmente le richieste impersonali della moralità alla ricchezza dell’identità e della storia dell’agente. Mordacci accoglie il punto di vista di Williams sull’importanza dell’identità personale. Le considerazioni morali devono risultare giustificate dal punto di vista della prima persona, cioè l’agente deve poter esprimere le ragioni dell’azione come sue proprie ragioni, deve appropriarsene e identificarsi con esse. Il punto critico che, invece, distanzia l’autore da Williams, riguarda il modo in cui quest’ultimo rappresenta la deliberazione, e più ampiamente la razionalità pratica, facendo appello ad alcuni presupposti squisitamente humiani. Secondo Williams un agente è giustificato ad agire in un certo modo se nel suo “complesso motivazionale soggettivo” vi è un desiderio di compiere quell’azione: la presenza del desiderio appropriato è requisito di razionalità. Pur considerando il desiderio un insieme di intenzioni, pulsioni e considerazioni molto vario e stratificato Williams, secondo Mordacci, non ne ricaverebbe un quadro deliberativo soddisfacente e lascerebbe del tutto in secondo piano, dati i suoi presupposti humiani, il lavoro della riflessione. Si deve osservare, invero, che il desiderio è sempre il frutto di un’elaborazione riflessiva, è qualcosa che nel suo apparire ha già subito un processo di revisione e adattamento; del resto, un desiderio puro avrebbe l’aspetto di una pulsione cieca, non orientata ad uno scopo, che in tale forma non può pretendere di giustificare l’azione razionale. In un certo senso, secondo entrambi gli autori, le ragioni sono sempre interne al soggetto, ma Mordacci aggiungerebbe che ciò non è dovuto alla dipendenza delle ragioni dai desideri, quanto, semmai, dal fatto che le motivazioni sono già plasmate dalla riflessione che dunque ha un valore originario e non secondario o derivato (come ritengono gli humiani). Il lavoro della ragione pratica è quello della critica e della revisione delle pulsioni e dei desideri che sono plasmati e riconfigurati sulla base del confronto che il soggetto instaura con se stesso e con gli altri. In questo senso, più che essere una dato acquisito, una sorta di habitus fondato sulla configurazione interna del sistema motivazionale, l’identità personale è piuttosto il prodotto dell’esercizio della riflessione e della critica in quello spazio che si apre nella distanza da sé che costituisce la libertà.
Charles Taylor, un altro importante esponente dell’etica analitica contemporanea, ritiene primario il radicamento della riflessione morale nell’identità personale e però intende quest’ultima come libero riferimento al bene che si determina a partire da condizioni storiche particolari. In un’ottica profondamente influenzata dal pensiero di Hegel, Taylor ritiene che i valori non si diano una volta per tutte allo sguardo riflessivo bensì che la loro appropriazione da parte del soggetto sia sempre mediata dalla storia. Questo per Taylor non significa rinunciare ad una concezione realista dei beni. Solo il realismo, sebbene nella veste storicizzata proposta da Taylor, può infatti garantire un effettivo confronto critico fra i beni che ne determini gradi di priorità e correttezza morale tali da consentire un effettivo confronto tra le diverse forme culturali e storiche. Ora, Mordacci, pur condividendo l’impostazione data al tema dell’identità, che è sempre situata e storica, contesta a Taylor un’incoerenza nella concezione metaetica e, di conseguenza, nell’immagine della razionalità pratica che ne deriva. Se per Taylor può darsi esclusivamente una genealogia delle diverse forme storico culturali e del relativo orizzonte morale di riferimento, non si comprende quale possa essere il criterio per un loro confronto critico. Tale confronto dovrebbe essere condotto ad un livello di universalità che manca del tutto se guardiamo ai modi particolari in cui il bene si concretizza storicamente. Viene meno anche il criterio per decidere della correttezza dei giudizi morali stessi, poiché questi, una volta fatti derivare dalla naturalità e dalla cultura storica particolare di cui l’agente partecipa, mancano di qualsiasi pretesa alla validità universale, che è invece uno dei requisiti fenomenologicamente imprescindibili delle considerazioni morali. In conclusione secondo Mordacci, è fondamentale che entro le singole e storiche ontologie morali si dia un quadro di validità universale, che Kant propone di pensare in chiave trascendentale, che sia tale da riportare all’interno della riflessione critica del soggetto il fondamento normativo dell’agire individuando le strutture invarianti della deliberazione pratica.
Tra le teorie studiate la proposta contrattualista di Thomas Scanlon è quella che più si avvicina all’orizzonte kantiano anche se ne restringe l’oggetto d’indagine allo studio di ciò che “dobbiamo l’uno all’altro”, cioè alla dimensione interpersonale, trascurando l’intero della moralità che include, invece, anche i doveri verso se stessi. Il punto di partenza delle riflessione di Scanlon è il concetto di ragione che egli ritiene un concetto originario. Una ragione è ciò che sta alla base della giustificazione della propria azione che l’agente offre agli altri ed è, nel contempo, causa efficace di quell’azione. In tal modo, il concetto di ragione, sulla scia delle riflessioni di Thomas Nagel in La possibilità dell’altruismo, tende ad assorbire quello di motivazione. Una ragione è efficace perché può modificare il “complesso motivazionale soggettivo”, ma ha una autorità che va oltre questa sua capacità di motivare e che risiede nella validità della pretesa che la ragione indirizza. Il criterio per la scelta e la critica delle ragioni, che a quanto sembra hanno un contenuto cognitivo, è fornito dal principio contrattualistico che una ragione è giustificata se nessuno la può ragionevolmente rifiutare (date certe condizioni come la piena informazione e la motivazione a raggiungere un accordo). Il punto problematico, che Mordacci evidenzia molto bene, è che mentre Kant fonda la validità delle ragioni sulle condizioni di ogni azioni razionale, e dunque sulla struttura della volontà autonoma di ognuno, Scanlon ha bisogno di riconoscere la presenza di altri che esibiscano ragioni e siano adeguatamente motivati a convergere sulla giustificazione. È pur vero che in ogni offrire ragione dell’azione, l’agente si apre alla dialogicità, almeno con quell’altro che egli stesso è; tuttavia, rimane che per Scanlon questa dimensione dialogica è individuata nella realtà della presenza dell’altro e non all’interno della riflessione pratica stessa come suo elemento costitutivo. Si tratta, come nota finemente Mordacci, di un presupposto pragmatista che la teoria di Scanlon non ha risorse per giustificare completamente.
L’elemento trascendentale kantiano, che si esprime nella non-contraddizione pratica e nell’universalizzabilità, permette a Mordaci di individuare un solido criterio per la giustificazione e il confronto critico delle ragioni. Questa dimensione formale della deliberazione, che in questo libro è fatta valere molto efficacemente contro le proposte teoriche studiate, si apre alla dimensione dialogica, e dunque più propriamente morale, in virtù della stessa struttura della deliberazione razionale. Nel momento in cui si intende offrire una ragione per, o dare ragione di, un’azione, il pensiero riflessivo non può prescindere dal riferimento ad un altro, fosse anche nient’altri che se stesso, per guadagnare un orizzonte intersoggettivo, e perciò universale, di validità. La possibilità che hanno le ragioni morali di trovare una giustificazione razionale viene così radicata nella struttura stessa del pensiero riflessivo.

Indice

Premessa
Le buone ragioni per leggere questo libro, di Roberta De Monticelli
Introduzione
I. ANALISI
1. L’identità personale oltre la moralità. Bernard Williams e i limiti dell’etica
2. Responsabilità, deliberazione pratica e libertà. Williams tra antico e moderno
3. Norme morali e storicità: la genealogia del moderno di Charles Taylor
4. Ragioni morali e giustificazione. Il contrattualismo ragionevole di Thomas Scanlon
II. PROSPETTIVE
5. Il senso comune, la morale e la riflessione critica
6. Un valore interno alla pratica scientifica: il rispetto per le persone
7. Persone, comunità e libertà. Oltre il proceduralismo
Bibliografia
Indice dei nomi


L'autore

Roberto Mordacci insegna Filosofia Morale e Etica e soggettività presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. È membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Fra le sue pubblicazioni Una introduzione alle teorie morali (Feltrinelli, Milano 2003), Salute e bioetica (con G. Cosmacini, Einaudi, Milano 2002) e Bioetica della sperimentazione (Franco Angeli, Milano 1997). Ha inoltre curato e tradotto Il giusto e il bene di W.D. Ross (Bompiani, Milano 2004).

Links

La pagina dell’autore sul sito dell’Università Vita e Salute del San Raffaele di Milano: www.unisr.it/persona.asp?id=2446

domenica 18 novembre 2007

Sgalambro, Manlio, La conoscenza del peggio.

Milano, Adelphi, 2007, pp. 171, € 10,00, ISBN 9788845921483.

Recensione di Giuseppe Pulina - 18/11/2007

Filsosofia teoretica (ontologia)

Il mondo è un assioma, una di quelle verità che non è necessario portare a conseguenze dimostrative in grado di confermarla ulteriormente. E non solo perché il mondo è qui davanti a noi, tangibile e pensabile come il fenomeno kantiano. Ciò che comunemente si chiama mondo, e, volendo, anche realtà, potrebbe coincidere con la nozione di “pessimum”, al cui esame Manlio Sgalambro ha dedicato alcuni dei suoi ultimi saggi. Con un tono vivace e caustico (elementi che si combinano felicemente nello stile del filosofo siciliano), Sgalambro fa presente sin dalla prima pagina di La conoscenza del peggio la scomoda e imbarazzante verità sulla quale per secoli si arrabatta l’indagine filosofica: “Che non ci sia niente di peggiore del mondo, non si deve dimostrare” (p. 11). Qual è allora lo scopo del saggio? Quale mai potrà essere l’utilità pratica della conoscenza del peggio, del pessimo ridotto a oggetto di scienza, se il mondo, così definito, esclude qualsiasi possibilità di cambiamento? Ci troviamo di fronte all’ennesima riformulazione dell’assunto di base delle filosofie pessimistiche, per le quali il mondo sarebbe l’epifenomeno di ciò che un teologo potrebbe chiamare il male; ma il male, preciserebbe Sgalambro, non è esattamente il pessimum. Se volessimo rivoltare i termini e provare a mutare prospettiva, si potrebbe dire che “il meglio non è altro che la realtà così com’è. Questo – precisa però Sgalambro – fu il pessimismo di Hegel” (p. 20).

Nella conoscenza del peggio, la morte avrà ovviamente un rilievo speciale. Questo viene sottolineato nella Prefazione: “Anzitutto bisogna pervenire a questa convinzione: che non si può usare la parola ‘viventi’ come termine tecnico di una filosofia che si assuma le sue responsabilità (dobbiamo convenire che una filosofia che non ha raggiunto per lo meno questo non s’è mai mossa dal suo punto di partenza), anzi va detto che quella che siamo soliti chiamare ‘filosofia pessimistica’ è la filosofia dei paranekrómenoi, la filosofia dei morenti. Sennonché non ci sono altri viventi che i morenti” (p. 13). I mille modi in cui può ingegnarsi l’uomo di fronte alla morte sono materia nota ai lettori di Pascal, ma c’è anche uno stile che appartiene più propriamente al filosofo pessimista e che tende a esaltarne la teatralità: “Il discorso pessimistico appartiene al genere oratorio, e questo perché presuppone un uditorio che può gridare e agitarsi” (p. 22). C’è pure un certo gusto per la finzione, perché “l’arte del filosofare viene alla luce anche grazie al comportamento mimetico di chi la esercita” (p. 24). Una simulazione d’intenti che potrebbe aver trovato un insospettabile campione in Platone: “Nel Fedone Platone induce a pensare che il meglio e il peggio in qualche modo si appartengano. Come se avesse voluto dire che il meglio che può toccare al mondo è il peggio per cui esso è. O più sommessamente: il pessimismo è la ‘migliore’ filosofia per coloro che abitano il ‘peggiore’ dei mondi” (p. 29).

Altra nozione che contribuisce a determinare il corredo di concetti e teorie che costituiscono il campo d’azione del filosofo pessimista è il dolore. Sgalambro ne definisce diversi tipi, e tra questi il tardo dolore e il dolore astratto. Entrambi hanno a che fare con la sensazione della fine, quella che il “piccolo Morrison”, rocker che Sgalambro ama citare, cantò in una delle più belle canzoni dei Doors: “Il tardo dolore è quello che subentra quando tutto è finito o sta per finire. Esso si annida anzitutto nel pensiero che tiene i fili del rammemorare: mai più si penserà senza mestizia. Il tardo dolore è il dolore di pensare. Il dolore è entrato nel pensiero e mai più se ne andrà?” (p. 33); “Il dolore astratto è quello che resta allorquando l’altro dolore scompare dalla scena ridiventando privato. Questo tipo di dolore, anzi l’unico tipo di dolore che possiamo chiamare tale, è un quid che aleggia sul ‘mondo’ o una specie di viscida nube sparsa su tutto senza che sia in nessun luogo. Non si vede né si tocca, solo lo spirito acustico può udirlo” (p. 54).

La musica, allora. Sgalambro riprende tesi già note e formulate in altri suoi saggi e trova alla musica una collocazione e una dignità che la imparentano strettamente con il mondo: “Le discoteche sono piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddharta. Non essere per un poco è tutto quello che si chiede. Piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana” (p. 44). All’erosività del reale si può resistere, se così si può dire, solo attraverso un’opera di controerosione: “Nella musica ‘industriale’ è immanente l’irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell’autodissolvimento della musica. E tuttavia è l’unica forma di musica che ha senso per tutti. Sul ciglio dell’abisso, Mahler compone Il canto della terra ma canticchia una canzone napoletana” (p. 48).

Se Sgalambro fosse stato un teologo, avrebbe potuto attribuire alla musica un potere salvifico. Per farlo, avrebbe però dovuto riconoscere in pieno il valore dell’intenzionalità che regola i rapporti interpersonali. Si sarebbe dovuta assumere la nozione di “altro” come principio regolatore di qualsiasi dinamica dell’interazionalità. Ma questo non farebbe il gioco del bravo pessimista e poco gioverebbe alla sua conoscenza del peggio: “Io non mi regolo, dice il pessimista, secondo la scienza degli obblighi, e considero la nozione di ‘altro’ una mucillagine inconcludente fatta di ritagli di esseri umani e di rimedi offerti dalle morali correnti e da un ‘sociale’ di bassa lega, una specie di colla con cui legare il pasticcio alla meno peggio. Nessuno di quelli a cui mi sono legato volta per volta è stato per me ‘essere umano’. Bensì esseri che non definirei ‘uomo’ o ‘donna’ ma, ripeto, che mi sembrano meglio definiti dal loro nome e da una specie di alone che fa di ciascuno quel che è” (p. 127).

Se il mondo è quel che è, il pensiero che lo riflette potrebbe avere le sue responsabilità. Sgalambro parla allora di un pensiero intransigente che nel suo continuo esercizio “rivela la sua orrenda natura. Come atto divora continuamente i suoi contenuti. Siamo costretti a pensare, sbalzati continuamente da un pensiero a un altro, in un perpetuo affanno. E sentiamo con pena l’impossibilità di fermarlo, quasi di porvi sosta. Anzi la sosta diventa ancora pensiero, ancora il sentire dentro di sé questo rovello che non si acquieta e la pena che ci infligge e il desiderio finalmente di pace e la segreta aspirazione a non pensare” (p. 171). Ecco che allora non pensare il mondo sarebbe l’atto della vera rinuncia, il vero antidoto contro il pessimum che vi si annida dentro. Ma senza ciò che comunemente chiamiamo mondo, che ne sarebbe della filosofia?

Indice

Prefazione. Ai sumparanekrómenoi
I. Del filosofo pessimista
II. Il metodo pessimistico
III. Discorso pessimistico e discorso adulatorio
IV. Il dolore occidentale
V. …nur einstweilen ein Trost
VI. Dimensione sonora e dolore astratto
VII. Lebensbejahung
VIII. Pessimismo di Husserl
IX. Il custode della specie
X. Carattere filosofico e carattere pessimista
XI. L’onore della filosofia
XII. Disordine e dolore di un mondo perduto
XIII. Quis contra nos? (Del pessimismo teologico)
XIV. Meccanicismo e pessimismo
XV. Bitterlich
XVI. Rinunzia?
XVII. Del nirvana occidentale
XVIII. Homo comicus
XIX. Ubbidienza trascendentale
XX. Il furore di governarci
XXI. L’idea del pessimum
XXII. L’educazione al pessimismo
XXIII. Sospensione metodologica della vita e vita etico-estetica
XXIV. L’Umstürzler
XXV. Dopo la pratica
XXVI. Il chimerismo
XXVII. La conoscenza del peggio
XXVIII. Nota


L'autore

Manlio Sgalambro (Lentini, 1924) è uno dei più letti e prolifici autori di filosofia del panorama editoriale nazionale. Conosciuto anche per le sue collaborazioni con il musicista Franco Battiato, ha scritto numerose opere, tra le quali ricordiamo La morte del sole (1982), Trattato dell’empietà (1987), Anatol (1990), Del pensare breve (1991), Trattato dell’età (1999) e De mundo pessimo (2004), tutte pubblicate per la casa editrice Adelphi.

Frixione, Marcello, Come ragioniamo

Bari, Edizioni Laterza, 2007, pp. 170, € 12,00, IBSN 978-88-420-8312-2

Recensione di Dario Scognamiglio, 18/11/2007

Logica

Il testo Come Ragioniamo di Marcello Frixione è un'opera agile e scorrevole il cui oggetto, come desumibile dal titolo, è il ragionamento nelle sue modalità di sviluppo e procedura logica. Non si tratta di un manuale, di cui non ha e non pretende di avere la completezza, ma di un'opera a carattere fondamentalmente divulgativo che tratta con straordinaria limpidezza espositiva temi di rilevante complessità concettuale, dalla logica formale nelle sue varie declinazioni al calcolo delle probabilità.
È un libro appassionante. Adopero questa definizione poco usuale per un testo di logica, ma il volume di Frixione riesce a tenere incollato il lettore, accompagnandolo capitolo dopo capitolo come tra le pagine di un romanzo. Presupponendo l'interesse per la materia, due sono le ragioni di questa peculiare appetibilità del libro: in primis la pulizia della scrittura di Frixione, la chiarezza lessicale e la linearità espositiva. In secondo luogo, la capacità di riportare sempre, in ogni passaggio di maggiore complessità concettuale, l'astratta struttura delle forme logiche e degli schemi di ragionamento alla loro concretezza, evidenziandone la costante presenza nel nostro pensare quotidiano.
L'opera è strutturata in 4 capitoli.
Il primo capitolo funge da introduzione, presentando all'attenzione del lettore alcuni concetti fondamentali per procedere nella comprensione del testo. In particolare, alcuni elementi basilari di logica formale (logica degli enunciati e logica dei predicati) come i connettivi argomentali e le tavole di verità.
Il secondo capitolo inerisce più direttamente la problematica oggetto del libro - ovvero il ragionamento - partendo dalle fallacie, che l'autore stesso definisce come argomentazioni errate che tuttavia, a un primo esame, possono apparire persuasive. L'autore espone numerosi e intriganti esempi, svelando al lettore le sue convinzioni ingenue, gli errori grossolani del suo modo di inferire e, talvolta, persino di percepire.
Il terzo capitolo è a mio avviso il più interessante; è capitato a tutti di confrontarsi con problemi di “categorizzazione”, scoprendo in maniera quasi ludica un vuoto della nostra logica, le colonne d'Ercole oltre le quali non è possibile inoltrarsi, neanche con la mente. L'esempio classico, proposto anche dall'autore, è quello dell'uomo calvo. Con uno, due, tre capelli continua a essere calvo; quand'è che può considerarsi scomparsa la calvizie? Esiste un numero n, per cui con n capelli è possibile essere definiti calvi, e con n+1 capelli, al contrario, non calvi? Marcello Frixione presenta ai novizi della materia la logica fuzzy, e concetti di indubbio interesse come i predicati sfumati e il sorite, ovvero un paradosso che deriva proprio dall'impiego di predicati sfumati. Quello dell'uomo calvo è un tipico esempio di sorite. Sarà dunque interessante scoprire come esistano valori di verità intermedi tra il vero e il falso, in apparente antitesi con il principio di non-contraddizione di aristotelica memoria. È un argomento molto complesso, esposto con molta chiarezza nel testo ma, come ovvio, non completamente sviluppato.
Sempre nel terzo capitolo, l'autore guida il lettore nella comprensione del ragionamento deduttivo e induttivo. In particolare, l'attenzione è focalizzata su questa seconda modalità di ragionamento, che poi è alla base della costruzione del sapere scientifico; sfiorando elegantemente anche problematiche di tipo epistemologico, l'autore mostra le possibilità ma anche i limiti insiti a questo modo di inferire, che non è impeccabile, da un punto di vista prettamente logico, come il ragionamento deduttivo.
Dopo il quarto e ultimo capitolo, di più ampio respiro rispetto ai precedenti, in cui l'oggetto “ragionamento” è analizzato anche alla luce degli studi sull'intelligenza artificiale, l'autore fornisce diverse preziose indicazioni bibliografiche, strettamente ed esaurientemente correlate agli argomenti trattati nel libro.
Complessivamente si tratta di una lettura gradevole e stimolante, in grado di incontrare il lettore a digiuno di nozione logiche, ma anche di intrigare e sorprendere, talvolta, chi invece padroneggia la materia.

Indice

Premessa
Introduzione: inferenze e ragionamenti
Ragionamento formalizzato e ragionamento ordinario
Induzione, probabilità, «fuzzy logic»
Razionalità limitate
Cos'altro leggere
Riferimenti bibliografici


L'autore

Marcello Frixione è docente di Filosofia del linguaggio e Logica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Salerno. È autore di diversi volumi, tra cui Logica, significato e intelligenza artificiale (Franco Angeli, Milano, 1994) e, con Dario Palladino, Funzioni, macchine, algoritmi. Introduzione alla teoria della computabilità (Carocci, Roma 2004). Ha inoltre curato il volume Il connessionismo tra simboli e neuroni (Marietti, Genova, 1992), traduzione italiana di un saggio di Paul Smolensky.

giovedì 15 novembre 2007

Miccione, Davide, La consulenza filosofica.

Milano, Xenia, 2007, pp. 126, € 6,50, ISBN 8872735823.

Recensione di Maria Maistrini - 15/11/2007

Pratica filosofica

Piacevolmente scorrevole, sintetico ma non sbrigativo, il testo di Davide Miccione conduce il lettore in un viaggio di esplorazione di quella “casa di cura per le domande” (Achenbach, cit. a p. 50) che è la consulenza filosofica spiegandone origini e finalità, peculiarità ed eterogeneità, ricostruendone i presupposti teoretici e dibattendo sui suoi principali esponenti senza tuttavia trascurare le figure emergenti dell’attualità. E lo fa, nello spirito della consulenza filosofica, in maniera divulgativa e filosofica al tempo stesso, descrivendo e interrogando il fenomeno al centro della sua trattazione, mettendolo in questione, evidenziandone punti di forza e aporie, segnalando analogie e differenze tra le diverse proposte attualmente in campo e riconducendo alcune posizioni ai valori, i convincimenti, i presupposti filosofici impliciti che le animano. Ad esempio, pur condividendo il convincimento di Achenbach (padre fondatore della disciplina) che la consulenza filosofica sfugga a qualsiasi definizione, pena il venir meno delle sue più specifiche peculiarità (essa non ha metodi ma lavora sui metodi, non ha risposte ma pone domande, non reca aiuto perché non sa a priori che cosa debba intendersi per aiuto in un determinato contesto e, più in generale, non ha pratiche, teorie o strategie generali e valide a priori ma è sempre calata in situazione e nasce e prende forma ogni volta diversamente a seconda del contesto e delle peculiarità dei consultanti che, con le loro domande, l’animano e le danno forma), Miccione si chiede, con Rosaria Longo, se in questo modo Achenbach venga “a creare uno iato tra teoria e prassi, radicalizzando la prassi filosofica, e quindi snaturando il concetto stesso di filosofia, che è teoria e prassi insieme” (R. Longo, cit. a p. 51). Si tratta di un approccio problematico e critico che Miccione pratica nei confronti delle tesi e delle prassi di tutti gli esponenti della consulenza filosofica esaminati, da Marinoff a Raabe, passando per la Schuster.
Sul piano delle mera ricostruzione ed esposizione dell’orizzonte teoretico di riferimento il lavoro di Miccione ha almeno quattro distinti meriti: a) l’analisi approfondita della concezione consulenziale di Eckart Ruschmann (pp. 77-82), sin qui un po’ trascurata da altri volumi introduttivi alla materia; b) l’indagine della consulenza filosofica in lingua spagnola (Argentina e Spagna, pp. 89-93), del tutto inedita nel panorama italiano; c) l’esposizione, seppur estremamente sintetica, delle principali teorie e pratiche dei protagonisti della consulenza filosofica italiana dei quali si ricostruiscono, per sommi capi, le linee guida (da Neri Pollastri a Ludovico Berra, da Umberto Galimberti a Andrea Poma, da Luciana Regina - un po’ sacrificata, per la verità – a Fabio Cecchinato, da Augusto Cavadi a Moreno Montanari, sino alle posizioni “eretiche” di Vero Tarca e Romano Màdera, pp. 95-116); d) l’analisi delle competenze e delle peculiarità proprie del consulente filosofico.
Rispetto a quest’ultimo tema Miccione considera imprescindibile per un consulente filosofico “una preparazione filosofica (…) che sia collegata ad un habitus di pensiero, un’abitudine alla riflessione teoretica consapevole che lo abbia portato a (…) pensare filosoficamente i fatti concreti dell’esistenza”, insegnandogli “a conciliare il pensiero filosofico con la pratica e l’esperienza di vita” (p. 53) dando dunque vita ad una forma di sapere che possa caratterizzare, per esprimerci con le parole di Lahav, “non una filosofia sulla vita ma della vita” (id. cit. a p. 72). Importante è anche la capacità di rivolgersi ad un destinatario non necessariamente competente di filosofia al quale presentarsi come “il tramite privilegiato di una tradizione di pensiero che lo supera” ma di cui, in qualche modo, fa anche parte, agendo sempre in maniera tale da promuovere “un fine non culturale ma esistenziale e cognitivo” (p. 33).
Secondo una modalità piuttosto diffusa, il libro rivendica alla consulenza filosofica una continuità con la fase sorgiva della filosofia chiamando per lo più in causa l’autorità di Pierre Hadot, riconosciuta a vario titolo come una figura di riferimento da diversi consulenti filosofici ed esponenti della svolta pratica della filosofia (Achenbach, Lahav, Schuster, Màdera, Cavallé) e dedica un considerevole spazio anche ad altre forme di pratiche filosofiche quali la Philosophy for Children, il caffè filosofico, il dialogo socratico, le vacanze filosofiche e i seminari di pratiche filosofiche di gruppo, sostenendo che in ciascuna di queste iniziative sia possibile scorgere il comune intento di rilanciare, seppur in maniera diversa, la filosofia nella vita di tutti i giorni nel comprovato convincimento che, opportunamente ripensata, la filosofia possa essere in grado di chiarificare e rivitalizzare il pensiero e l’esistenza di chiunque decida di chiamarla seriamente in causa.
Forse l’aspetto critico degli aspetti in ombra della consulenza filosofica (la questione della sua presunta ingenuità; quella relativa a fondamenti epistemologici ancora incerti e vaghi; la scarsa chiarezza e a volte il pressapochismo rispetto alla definizione delle peculiarità prettamente filosofiche del suo operare; l’analisi dei diversi curricoli formativi proposti dalle differenti scuole di alta formazione al momento in atto, Master universitari compresi; il rischio di trasformarsi in un “business del pensiero” che si riveli confacente alle esigenze del mercato, ecc.) poteva essere più sviluppato, così come l’analisi della consulenza filosofica nel mondo del lavoro sulla quale, tuttavia, allo stato attuale non è realmente facile reperire materiale particolarmente soddisfacente.
L’ultima parte del libro, dedicata a “come e dove formarsi” (pp. 116-118), annovera quelle che all’epoca dell’indagine di Miccione erano realmente le uniche associazioni di consulenza filosofica (Phronesis e SICOF) già da tempo attive sul territorio e sulle quali era pertanto possibile esprimersi con sufficiente cognizione di causa, e dà notizia dei Master universitari in consulenza filosofica presenti nel territorio italiano, delineando tuttavia uno scenario che, com’è ovvio per ogni fenomeno in grande espansione come questo, risulta oggi inevitabilmente parziale e già da aggiornare, magari – glielo auguriamo - in una seconda edizione, riveduta ed ampliata.

Indice

Che cos’è la consulenza filosofica?
L’universo delle Pratiche filosofiche
Le teorie
La consulenza in Italia: le teorie e la pratica
Bibliografia


L'autore

Davide Miccione, Dottore di Ricerca in Storia delle idee, Docente a contratto di “Filosofia pratica e pratiche filosofiche” per la Laurea specialistica in Scienze Pedagogiche presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Catania per l’Anno accademico 2006-2007; Docente per il modulo “Origini, prospettive e sviluppi del counseling filosofico” al Master “Esperti in pratiche filosofiche e programmazione didattica transdisciplinare” attivato dall’Università Kore di Enna per l’Anno accademico 2006-2007, membro di Phronesis e condirettore dell’omonimo semestrale di filosofia, ha curato insieme a Rosaria Longo il volume sulle pratiche filosofiche Vivere con filosofia, Acireale-Roma, 2006.

Cusinato, Guido (a cura di), Max Scheler. Esistenza della persona e radicalizzazione della fenomenologia

Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 332, € 23,00, ISBN 9788846486875

Recensione di Carlo Scognamiglio – 15/11/2007

Fenomenologia - Etica

Questo volume, curato con spirito di completezza ed esaustività da Guido Cusinato, propone un profilo molteplicemente delineato dell’opera e della figura di Max Scheler. I saggi qui raccolti sono in buona parte in lingua italiana, mentre tre di essi possono essere letti in tedesco. Non v’è dubbio che la pubblicazione di quest’opera si inserisca in un momento di significativa fortuna editoriale, nel nostro paese, di Scheler e della letteratura critica che lo concerne. Trattandosi infatti di un pensatore tradizionalmente non annoverato tra i principali protagonisti del novecento, come accade invece per personalità a lui coeve come Bergson, Husserl e Heidegger – tutte peraltro connettibili in vario modo a Scheler – si può dire che goda nell’ultimo decennio di una rinnovata attenzione. Il libro curato da Cusinato, sotto molti profili, tende a sposare questa vocazione. Lo si intende molto bene quando il curatore insiste, a ragione, nel mettere in evidenza la peculiarità di Scheler, e il suo particolare posto nella storia del pensiero, riferendosi alla qualità innovativa di quella riflessione filosofica: «Non quindi una semplice applicazione del metodo husserliano alla sfera emozionale, ma un suo profondo ripensamento, in alcuni casi un vero e proprio rovesciamento, con cui Scheler ha aperto – nel suo stile di pensiero perennemente inappagato e tormentato – prospettive nuove in tutti gli ambiti a cui si è rivolto» (p. 8).

Tra i saggi qui raccolti alcuni paiono penetrare con particolare acume alcuni momenti concettuali del pensiero scheleriano, contribuendo a definirne, in modo interessante, il tratto filosofico. Nel contributo di Giovanni Ferretti, orientato all’indagine sul problema dell’amore e della sua complessità teorica, viene evidenziato, il che assume una particolare funzione nella collocazione di questo saggio all’interno del libro – posto come primo – la priorità dell’ “amante” sul “conoscente” e sul “volente”. La distinzione principale tra Scheler e il milieu fenomenologico dal quale proviene e da cui si estranea, è proprio l’idea di una precedenza della dimensione “affettiva” su ogni altra articolazione dell’essenza della coscienza, anzi della persona. É particolarmente significativa anche la conseguenza della nozione di amore sulla nota quaestio della non oggettivabilità della persona. Se da un punto di vista gnoseologico o intenzionalistico la persona non è mai oggetto, ma sempre soggetto di atti, nel caso dell’amore la persona (altrui) è sempre oggetto, ma in una forma particolare che Ferretti mette bene in evidenza: «Sebbene l'amore sia un atteggiamento “oggettivo” [...], esso non è per nulla un atteggiamento “oggettivante” la persona». La soluzione sta, così come la sintetizza l’autore del saggio, nel pensamento di un “con-compimento” degli atti altrui. Questa dimensione chiama alla mente il tema complesso dell’empatia o del risentire (nachfühlen), anch’esso estraneo a una vera attività intenzionante. Nel saggio di Laura Boella sono dedicate pagine importanti a questo punto, soprattutto per mettere a fuoco il processo non oggettivante del coglimento dell’emozione altrui, dato invece per analogia con il ricordo di un proprio processo emotivo già vissuto in precedenza. Il problema della simpatia, centrale nella riflessione scheleriana, pur costituendo il momento dell’apertura del sé all’altro, non può mai essere assimilato all’oggettivazione dell’alterità, anzi: «Più si “comprende” l'altro, più si arriva alla sua unicità di persona, che non è mai obiettivabile» (p. 45). L’atto simpatetico ha una relazione stretta con il ri-sentimento, quasi a esso si sovrappone: «La gioia e il dolore dell’altro, acquisiti emotivamente attraverso il ri-sentire, sono il riferimento intenzionale della funzione emotiva, la quale reagisce alla realtà dell’emozione altrui, data nel capire ciò che l’altro prova. Dunque la simpatia si costituisce in una tensione tra l’atteggiamento dello spettatore che reagisce e partecipa e il “provare dolore” in prima persona» (p. 45).

Rispetto alla dimensione assiologica dell’etica scheleriana, sono diversi i contributi nel volume che occupano questo spazio argomentativo. Mi pare utile segnalare la particolare insistenza, tanto di Cusinato, quanto di Ferdinand Fellmann, nel sottolineare la dimensione tutta particolare dell’ “ente” valoriale. Cusinato avverte il lettore di non intendere i valori scheleriani come enti oggettivi “ideali” in senso apodittico, la cui intuizione possa alludere in qualche maniera a un loro essere in sé. Scheler al contrario, secondo la lettura del curatore del volume, concepirebbe i valori piuttosto come un “indice” della loro capacità di informare qualcosa. I valori sarebbero dunque a-sostanziali. Su un’analoga lunghezza d’onda si muove Fellmann quando conclude: «Werte haben nicht der Charakter isolierter und frei kombinierbarer Elemente, sondern sind holistisch mit der Lebensgeschichte der Person verbunden» (p. 134).

Al centro del volume si possono trovare quelli che a me paiono i saggi più pregnanti di questa pubblicazione: si tratta delle due riflessioni sul personalismo di Daniela Verducci (il cui unico difetto mi pare un uso non sempre controllato della nozione di “spirito”) e Antonio Da Re. Naturalmente l’oggetto stesso di questi due contributi ci porta nuovamente al tema della non oggettivabilità cui si faceva riferimento in relazione al tema dell’amore. Qui, ed  è un punto focale della filosofia scheleriana, è la persona stessa, come unità concreta degli atti, a non poter mai decadere a oggetto. Naturalmente si tratta un punto teoretico importante, che andrebbe approfondito. Certo Scheler intende difendere l’individualità, o meglio l’assoluta unicità della persona, e qui Verducci fa bene a ribadire il riferimento negativo al trascendentalismo kantiano o la tesi scheleriana dell’inaccettabilità della riduzione kantiana della persona a “punto di partenza” teoretico o pratico (in quella prospettiva, secondo Scheler, ciò che verrebbe a costituire la persona sarebbe proprio ciò che di lei non è individuale, ossia, nella sua ottica, ciò che la priva della personalità). Dunque dalla persona si deve allontanare ogni forma di eteronomia o, se si vuole, di logonomia, in quanto, come scrive Verducci, «proprio ciò che costituisce l’elemento di determinazione individuale di un soggetto di tali atti, viene ad annientare necessariamente l’esser persona del singolo soggetto» (p. 191). Ma visto che ogni discorso sulla persona o sull’io rischierebbe inevitabilmente di oggettivare il proprio argomento, e oltretutto potrebbe ricondurre a una nuova logonomia (ad esempio nell’asserzione relativa alla non universalizzabilità della persona, e pertanto alla sua unicità, non si può non notare come si introduca un elemento universalizzante, che condanna l’unico all’unicità), Scheler trova soluzione nel metodo fenomenologico, in cui l’atto non è mai oggettivabile, in quanto coincide con il soggetto oggettivante medesimo; è sempre atto, mai intentum. Ma non concependo in ogni caso l’atto nell’unicità della dimensione coscienziale, e anzi, come è stato visto, anteponendo a quella la sfera affettiva, la persona non coincide mai con il soggetto, ma è quell’unitario soggetto-capace-di-portare-a-compimento tutte le direzioni d’atto tra loro differenti. 

Molti temi della riflessione scheleriana, e in particolare la sopra evidenziata critica a Kant, sono stati recuperati da Nicolai Hartmann nella stesura della sua Ethik (1926), nella quale pure si distanzia dalle posizioni del Formalismus (mi riferisco con quest’abbreviazione all’opera scheleriana maggiormente nota: Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, 1913-16) in diversi punti. La relazione peculiare tra questi due pensatori del secolo passato è sviluppata con profondità da Antonio Da Re. Non essendo possibile ricostruire le grandi questioni che distinguono o accomunano le due figure in questione, mi limiterò a enunciare alcune delle note teoriche indicate dall’autore del saggio. La prima, certamente di importanza decisiva, concerne la relazione tra soggetto e persona. Come è stato visto, Scheler non solo esclude ogni oggettivabilità della persona, ma ne nega ogni legame di necessità con un sostrato ontologico. La persona, come unità di compimento d’atti, non dev’essere necessariamente un essere umano, ma possono esser intese come persone anche entità comuni (ad es. un partito politico) o la divinità, che non necessita di essere soggetto come fondamento della sua dimensione personale. Hartmann procede in direzione radicalmente contraria, e segna in ciò un confine non opzionale con la filosofia di Scheler. La persona dev’essere fondata ontologicamente. Nella complessa stratificazione dell’essere che Hartmann edifica nei suoi libri, e in particolare in Der Aufbau der realen Welt (1940), ma già annunciata nell’ Ethik, la personalità è una categoria che sorge come un novum, una discontinuità, sulla soggettività. La persona implica la novità ontologica della relazione assiologica, e dunque della libertà, ma non può prescindere mai dalla legalità di ciò che la presuppone, cioè la conformazione categoriale della sua natura fisica, biologica e psichica. In questo senso, per Hartmann né Dio né il popolo potranno esser mai considerati persone, perché non “poggiano” la propria personalità su una soggettività. Antonio Da Re sembra andare nonostante tutto alla ricerca di una comunicazione maggiore tra i due autori sul tema, effettivamente discordante, della persona “comune” (Gesamtperson), superando l’ Ethik hartmanniana e dirigendosi verso quel successivo scritto del filosofo di Riga intitolato Das Problem des geistigen Seins (1933), dove, precisa Da Re, «l’idea di persona comune viene riproposta, ma con alcune significative differenze, che in parte ne ridimensionano la portata» (p. 204). Da Re allude certamente alla costituzione dell’essere spirituale, articolato ma unitario, come essere personale e al tempo stesso spirito obiettivo (nonché, ma non importa qui approfondire oltre, spirito obiettivato), nel quale sembrerebbe esser acquisita la nozione scheleriana di persona comune: «Parlare di un unico e indivisibile essere spirituale significa, indirettamente, raccogliere il problema teorico che veniva posto da Scheler, quando per rendere conto del manifestarsi di atti personali di carattere sociale, oltre che singolare, aveva introdotto la locuzione di persona comune» (p. 217). Tuttavia, la differenza rimane profonda, e consiste probabilmente nella scelta ontologica hartmanniana, sostanzialmente non condivisa da Scheler, che, forse, a prescindere da un parziale recupero di essa in Die Stellung der Mensch in der Kosmos, non riesce mai a lasciarsi definitivamente alle spalle, come invece fa Hartmann riducendola a momento metodologico della filosofia, la prospettiva fenomenologica.

Indice

Prefazione
Amore del bene e bene come amore. Il rovesciamento (cristiano) del platonismo e la sua eredità nel pensiero di Max Scheler
di Giovanni Ferretti

Rileggere il Sympathiebuch
di Laura Boella

Strati affettivi e vocazione terapeutica della filosofia
di Guido Cusinato

Il Dio diveniente di Scheler ed il problema del valore della realtà
di Antera Zhok

Schelers Konzeption der Wissensformen und ihre Bedeutung für das Selbstverständis des Menschen
di Ernst Wolfgang Orth

Sommario

Max Scheler als Lebenphilosoph
di Ferdinand Fellmann

Sommario

Capitalismo e livellamento nel pensiero di Max Scheler
di Vittorio d’Anna

La vocazione personale. Max Scheler e l’Ordo Amoris
di Veniero Venier

La persona nel compimento e realizzazione secondo Max Scheler
di Daniela Verducci

Persona singola e persona comune: un confronto tra Nicolai Hartmann e Max Scheler
di Antonio Da Re

Che cosa significa persona? Max Scheler a confronto
di Leonardo Allodi

L’antipsicologismo del giovane Scheler (1899-1906)
di Giuliana Mancuso

Pensare il cristianesimo: Max Scheler e Michel Henry
di Giuseppina De Simone

Le immagini della percezione sensibile in Scheler e Bergson
di Michele Averchi

L’ultimo Scheler, l’interpretazione di Spinoza e la “sindrome gnostica”
di Amedeo Vigorelli

Widerstand und Sorge. Schelers Antwort auf Heidegger und die Möglichkeit einer neuen Phänomenologie des Daseins
di Hans Reiner Sepp

Sommario

Nota bibliografica


Il curatore

Guido Cusinato, docente di Antropologia filosofica presso l’Università di Verona, si occupa da molti anni del pensiero e l’opera di Max Scheler. Oltre a far parte della commissione scientifica internazionale della Max-Scheler-Gesellschaft, ha pubblicato nell’ultimo decennio due importanti monografie su Scheler (Katharsis. La morte dell’ego e il divino come apertura al mondo nella prospettiva di Max Scheler, nel 1999, e Scheler. Il Dio in divenire, nel 2002), e ha curato la traduzione in lingua italiana de La posizione dell’uomo nel cosmo, edita da Franco Angeli nel 2004.

mercoledì 14 novembre 2007

Cambiano, Giuseppe, Polis. Un modello per la cultura europea.

Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 492, € 20,00, ISBN 978-88-420-8405-1.

Recensione di Rosanna Oliveri – 14/11/2007

Filosofia politica

Il saggio di Giuseppe Cambiano contribuisce a ricostruire un quadro organico e strutturato della storia delle interpretazioni del modello greco di costituzione e amministrazione politica, ovvero ciò che tutti conoscono come polis nel periodo compreso tra il Quattrocento e il Settecento.
L’inclusione del mondo ellenico antico nella sfera della classicità fu, per moltissimo tempo, tutt’altro che scontata. Fino agli albori dell’età moderna, infatti, la gloria dell’antica Grecia fu offuscata da quella dell’antica Roma, della quale l’Europa si considerava come il naturale proseguimento. Con Roma, infatti, esisteva un forte legame di continuità sia sul piano linguistico che su quello istituzionale non solo in Italia, ma in tutta l’area europea. Un legame che mancava con il mondo greco.
Una tesi diffusa afferma che il mancato interesse per la Grecia e le sue istituzioni durante i secoli medievali sia stato causato in primis dall’assenza della circolazione dei testi sulla grecità, dovuta anche alla poca conoscenza della lingua greca da parte degli europei del tempo. L’autore, però, sminuisce questa tesi, facendo notare come siano in realtà sopravvissute per tutta la durata del Medioevo, delle sacche di continuità linguistiche in tutta Europa e in particolare nell’Italia meridionale dove in alcune zone si parlava la lingua della magna Grecia. Una motivazione forte che spinse gli intellettuali europei, a partire dal Quattrocento, ad approfondire la conoscenza della polis e a rapportare la propria situazione politica con quella in cui vivevano, va ricercata soprattutto nel pluralismo politico dell’epoca post-comunale che caratterizzava, in particolar modo, l’Italia e che poteva trovare il suo riflesso storico nel pluralismo delle polis greche.
Cambiano ci mostra come Sparta, Atene ma anche Roma, che non abbandonò mai il suo ruolo centrale di riferimento culturale, furono protagoniste di un intenso dibattito tra gli intellettuali. Le discussioni animarono città come Firenze e Venezia, considerate esse stesse modelli da imitare ma che preferirono andare in cerca di un modello a cui riferirsi. È da notare come il dibattito sulla costruzione della cittadinanza fu fin dall’inizio di carattere euro-centrico e mediterraneo.
Una svolta importante è individuata nelle orazioni del fiorentino Leonardo Bruni, il quale servendosi della sua abilità oratoria comparava il confronto-scontro tra Sparta e Atene con quello, per lui attuale, tra la “democratica” Firenze e l’”antidemocratica” Milano. Certamente, il dibattito tra i modelli rappresentati da Sparta, Atene e Roma fu soprattutto un dibattito filtrato dalle interpretazioni storiografiche e dall’uso che di questi modelli si poteva fare, nell’analisi politica del tempo, per poter tirare più acqua a questo o a quel mulino. Infatti, Cambiano non manca di far notare nel suo intenso lavoro sul lessico politico, che Bruni tralasciò la traduzione della ”Repubblica”di Platone per il semplice fatto che questa conteneva elementi, come la comunione dei beni e delle donne, che mal si applicavano al tempo in cui viveva, mentre preferì poter trarre idee come la cittadinanza per censo dalla lettura di Aristotele.
Attraverso lo scontro tra le città della classicità si dipanava anche il confronto tra i concetti politici dell’aristocrazia, della democrazia, della monarchia, ma anche della tirannide e, al contrario di quanto si potrebbe credere, le polis greche non furono uno strumento per sostenere necessariamente tesi politiche a favore di democrazia e repubblica, ma si prestarono molto bene anche a sostegno della monarchia. Lo stesso Bruni nella sua difesa delle virtù di Firenze definiva questa città come esempio di democrazia, ma la democrazia di cui parlava non si può certo paragonare con quella a cui siamo abituati.
Un altro punto di svolta importante nella storia delle interpretazioni dei modelli rappresentati dalle polis è rappresentato dalla lettura che ne fece Machiavelli, il quale seppe riconoscere il valore della conoscenza storica per la costruzione della polis. Riflettendo proprio sulle caratteristiche storiche delle polis, Machiavelli condivideva la tesi di Polibio secondo la quale il carattere misto della costituzione aveva permesso la lunga durata di Sparta e Roma, al contrario di quanto era avvenuto per l’Atene di Solone.
La ricostruzione storica del modello dettato dalle polis greche fu considerata per lungo tempo un gravissimo ostacolo per la conoscenza del mondo ellenico e per gli spunti di riflessione che potevano scaturire da esso. Infatti, per molti secoli, la storiografia dell’antica Grecia si poteva ricostruire solo attraverso quelle poche schegge di passato che giungevano dalla lettura di Senofonte, di Tucidide e di Polibio che mostravano una molteplicità non semplice di città-Stato.
Nell’analisi di Cambiano non mancano gli esempi di interpretazioni di intellettuali europei non italiani, come Hume e Hobbes e soprattutto Montesquieu, anche se bisogna riconoscere che sarebbe stato utile inserire altre grandi aree europee, molto importanti nella ricostruzione di un quadro delle interpretazioni storiografiche della polis. Mancano , infatti, riflessioni e analisi di esempi di almeno due grandi aree europee, come quella iberica e quella tedesca. Tuttavia, come ammette lo stesso autore nella prefazione, il volume non intende fornire una radiografia completa del dibattito che ha riguardato il confronto con la polis della classicità e il dibattito sui concetti politici che ad esso si potevano di volta in volta riferire. Il saggio Polis. Un modello per la cultura europea si propone l’obiettivo di mostrare come in passato la costruzione di un modello di cittadinanza, di una polis appunto, fu un compito mai abbandonato dagli intellettuali che si sforzarono di trovare una continuità logica con il passato su base intellettuale e culturale, al contrario di quanto avviene adesso, nell’epoca della globalizzazione nella quale il dibattito sulla cittadinanza che non si erige sulle fondamenta della memoria storica del passato della cultura europea dimenticandosi, troppo spesso, che il territorio in cui viviamo fu teatro di convivenza e crocevia di culture per molto tempo.
In questo momento storico, in cui l’Europa, e con essa l’intero mondo occidentale, è costretta a confrontarsi con nuove aree geografiche al sud o a oriente del mondo. Oggi più che mai abbiamo bisogno di riscoprire quella necessità di confronto culturale e di continuità con il passato affinché la nostra società non sia dominata soltanto dall’aspetto economico e tecnico.

Indice

Introduzione
Antefatto. Un mondo senza polis?
Il fascino delle analogie
Tramonto e durata delle repubbliche
L’età del disincanto
Una stagione repubblicana
Le vie della virtù e dell’onore
Alla scoperta dell’economia antica


L'autore

Giuseppe Cambiano, si è laureato in Filosofia nel 1965 presso l’Università di Torino.
È stato professore, prima incaricato e poi ordinario, di Storia della filosofia e professore straordinario di Storia della filosofia antica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della stessa facoltà. Direttore dell'Istituto di Filosofia e poi Direttore del Dipartimento di Filosofia dall'83 all'85. Tuttora professore ordinario di Storia della filosofia antica presso l’Università di Torino e presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue opere ricordiamo: Platone e le tecniche, (Einaudi), La filosofia in Grecia e a Roma (Laterza), Il ritorno degli antichi (Laterza), Storia e antologia della filosofia, 3 voll.(Laterza), e Storia della filosofia antica (Laterza).


Links

Recensione del libro da parte del centro studi e documentazione Tocqueville- Acton (in pdf):
http://www.cattolici-liberali.com/tocquevilleacton/pubblicazioni/recensioni/Settimana%201-sept.pdf

giovedì 8 novembre 2007

Ferraris, Maurizio, La fidanzata automatica.

Milano, Bompiani, 2007, pp. 201, € 12,00, ISBN 8845259579.

Recensione di Francesca Rigotti - 08/11/2007

Estetica, Ontologia

Benché il titolo piccante faccia pensare a un romanzo pornografico –come riconosce lo stesso autore– il nuovo libro di Maurizio Ferraris si occupa in realtà di teorie estetiche, proponendo una teoria insieme normativa e normalista dell'arte. Normativa perché dà dei criteri stabili per fondare una filosofia dell'arte; normalista in quanto, opponendosi alle teorie eccezionaliste e straordinariste che privilegiano gli aspetti secondari e marginali che definiscono l'arte qualcosa di speciale, tale teoria pensa invece all'arte come esperienza ordinaria, basata su un'umanità media e non sulle frange estreme rappresentate da geni intuitivi, veri o presunti, o da critici d'arte, onesti o cialtroni.
Il normalismo di Ferraris è dunque normativo perché introduce dei criteri per delimitare quali fenomeni possano diventare opere d'arte e quali no. Né relativista né realista – già che entrambe le posizioni, curiosamente, finiscono per sostenere che «qualunque cosa può diventare un'opera d'arte» – il normativismo normalista afferma che l'oggetto artistico può essere soltanto un oggetto: non un soggetto dunque, non un evento o un fenomeno naturale, nemmeno un numero, un teorema o una dimostrazione matematica, bensì un oggetto, un oggetto insieme fisico e sociale.
Per comprendere questa classificazione bisogna inserirla nel sistema ontologico elaborato da Maurizio Ferraris che classifica il mondo in soggetti (che hanno rappresentazioni) e oggetti (che non hanno rappresentazioni) i quali a loro volta si suddividono in oggetti ideali (che esistono fuori dello spazio e del tempo, indipendentemente dai soggetti, per es. i numeri e i teoremi); oggetti fisici (che esistono nello spazio e nel tempo, indipendentemente dai soggetti, per es. gli alberi e le rocce ma anche i tavoli e le sedie) e oggetti sociali (che esistono nello spazio e nel tempo dipendentemente dai soggetti, per es. i passaporti e gli Stati). Le opere d'arte fanno parte della categoria degli oggetti fisici e sociali che per ò «fingono di essere soggetti»: l'opera d'arte, ecco svelato il titolo, è la Fidanzata Automatica.
L'immagine della Fidanzata Automatica introdotta da Ferraris è ripresa da un esperimento mentale ideato da William James: un corpo privo di anima indistinguibile da una fanciulla che adempie a tutti i doveri femminili [«Doveri femminili»? Anche se il punto in discussione in questa recensione non è il maschilismo di W. James (per questo ricordato in nota), è impossibile non soffermarsi a riflettere con una certa angoscia sul fatto che i doveri femminili sono per lui quelli di esprimere riconoscimento e ammirazione verso il gongolante io maschile. Alla faccia dei flussi di coscienza!] potrebbe essere considerato l'equivalente di una fanciulla dotata di coscienza? No, risponde James, perché non ci offrirebbe ciò che più d'ogni altra cosa desideriamo, cioè riconoscimento e ammirazione[*Tocca adesso a Ferraris, che ha soltanto ripreso la citazione di Williams, d'accordo, ma che una paroletta di commento sul fatto che sia compito delle donne adulare, riconoscere e ammirare i loro fidanzati poteva anche dirla.]. L'ipotesi dunque, conclude James, non può essere presa per seria. Invece Ferraris, tanto per non smentire la sua fama di enfant terrible della filosofia, dice che sì, lui la considera una cosa seria, così seria da poter essere assunta quale descrizione di un fatto reale, l'opera d'arte. Come la Fidanzata Automatica, anche l'opera d'arte che finge di essere una persona suscita in noi sentimenti ed emozioni, provoca gioia e piacere. Ma che altro fanno le opere d'arte, mi chiedo, la musica, i romanzi (che Ferraris da trent'anni non legge più [p. 52] ed è un vero peccato; nel caso voglia ricominciare consiglierei La strada e Il buio fuori di Cormac McCarthy), che cosa hanno sempre fatto le opere d'arte letterarie, figurative, musicali ecc., ripeto, se non suscitare piacere intellettuale (e poi magari, accidentalmente, anche conoscenza, o anche sgomento, commozione, angoscia...)?
Ora: la tesi di Ferraris è ben costruita e solidamente argomentata, è chiara, logica, convincente ed è pure espressa in uno stile gradevole. Non contesterò quindi la teoria estetica, non essendone tra l'altro neppure esperta, anzi non contesterò nulla (se non magari la messa in ridicolo della psicoanalisi), ma mi limiterò a esporre un paio di riflessioni nate dalla lettura del libro e legate soprattutto a due dei suoi protagonisti, le cose e gli oggetti.
La prima riflessione nota che nella ripartizione del mondo compiuta da Ferraris le cose sono presentate come sottospecie di oggetti fisici: la cosa è dotata di esistenza tridimensionale, è coesa, è persistente, è di taglia media, è osservabile a occhio nudo e manipolabile con le mani, costituisce un arredo della nostra vita, è soggetta a serialità e varietà. Tuttavia un'altra tradizione filosofica dice che la cosa è qualsiasi entità concreta e astratta, è il «mondo», è la realtà tutta, che come dice il nome (realitas) è l'insieme delle res, delle cose. In questo senso sarebbe l'oggetto fisico a essere una sottospecie di cosa e non viceversa. La cosa anzi, come pure il pragma di Aristotele e la Sache di Hegel, non è nemmeno l'oggetto fisico quanto un luogo in cui convengono intuizioni e significati umani nascosti sotto il velo dell'oggetto. In questa tradizione le cose si distinguono dagli oggetti che sono, quelli sì, gli ostacoli e i problemi (oggetto in greco si dice pró-blema, ciò che si para davanti), pezzi di materia, resistenze contro le quali si urta.
La seconda riflessione è ancor più generale e si chiede se oggi, nella società virtuale e astratta dell'informazione, della comunicazione e della mediatizzazione, abbia ancora senso pensare gli uomini come soggetti del mondo e il mondo come loro oggetto. Riprendendo temi cari a Vilém Flusser, pensatore dei media, ci si domanda qui come mai oggi l'ontologia fisica e sociale continui a interrogarsi sulle cose e gli oggetti duri e palpabili quando nel nostro ambiente la loro durezza (hardware) viene rimossa e sostituita da programmi, relazioni, immagini morbide (software), impalpabili e percepibili al pi ù da due sensi, che sono poi i sensi nobili della vista e dell'udito; quando non più cose si esigono, scarpe o vestiti (per Ferraris non di Versace, per favore) bensì informazioni e relazioni, e quando le cose prodotte in serie con materiali di bassa qualità diventano per lo più ciarpame e paccottiglia, persino molte opere d'arte spacciate per tali da una critica disonesta.

Indice

0. Estetica Normale
Eccezionalismo
Straordinarismo
Normalismo
1. Non c' è arte senza opere
Artworld
Artwork
Artword
2. Articoli da emporio di modeste dimensioni
Sensibilità
Manipolabilità
Ordinarietà
Relazionalità
3. Teoria Documentale dell'Arte
Teorie
Livelli
Stile
Istituzioni
4. Credere di sapere
Mimesis
Ecstasy
Aisthesis
5. Il piacere del teschio
Emotivismo
Disinteresse
Realismo
6. Cose che fingono di essere persone


Il curatore

Maurizio Ferraris è professore ordinario di filosofia teoretica nella Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università di Torino, dove dirige il Centro Interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata. Tra i suoi libri Storia dell'ermeneutica (Bompiani 1988), Estetica razionale (Cortina 1997), Il mondo esterno (Bompiani 2001) e tra i più recenti Goodbye Kant! Cosa resta oggi della Critica della ragion pura (Bompiani 2004); Dove sei? Ontologia del telefonino (Bompiani 2005); Babbo Natale, Gesù Adulto. In che cosa crede chi crede? (Bompiani 2006) e Sans Papier. Ontologia dell'attualità (Castelvecchi 2007).

Links

www.labont.it